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Podemos visto dall’alto
di Felice Mometti
Le vicende interne a Podemos delle ultime settimane mostrano quanto sia complicato il periodo che sta attraversando. Il venir meno del monopolio di un’immagine antisistema, messo in discussione dalla formazione di destra di Ciudadanos, la scarsa partecipazione alle primarie (16% degli aventi diritto) per le candidature alle prossime elezioni politiche, lo scontro interno sulle procedure democratiche da adottare e sulle alleanze elettorali stanno a indicare la natura delle difficoltà che deve affrontare nei prossimi mesi. Un clima interno reso ancor più difficile dai recenti sondaggi che lo collocano dietro sia al Partito Popolare sia al Partito Socialista. Un ingorgo di contraddizioni che sta mettendo a dura prova la leadership del partito. Se e come verranno affrontate e, nel caso, risolte queste contraddizioni influirà in maniera determinante sul futuro di Podemos. Nel frattempo può essere utile, per avere qualche strumento in più, guardare alla recente produzione politica e teorica delle tre figure pubbliche con maggior riconoscimento politico: Pablo Iglesias1, presidente del partito e candidato primo ministro; Juan Carlos Monedero2, tra i fondatori di Podemos, che è stato responsabile del programma e del processo costituente del partito, dimessosi tre mesi fa dal gruppo dirigente ristretto; Inigo Errejon3, attuale responsabile della strategia e della comunicazione per la segreteria politica.
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Come cura la psicoanalisi lacaniana
di Roberto Pozzetti
Introduzione
La psicoanalisi sorge come metodo di cura di una serie di disturbi psichici e, in particolar modo, dell’isteria a partire dall’incontro di Breuer e Freud con le loro pazienti. Le estensioni di tale metodo e della teorizzazione che ne è derivata alla lettura di fatti sociali, culturali e politici non ne modifica questo statuto essenziale e non ne fa una visione del mondo, una Weltanschauung. Lo sosteneva lo stesso Freud: “La psicoanalisi, a mio parere, è incapace di crearsi una sua particolare Weltanschauung” .
Molte volte è l’orientamento analitico lacaniano a instillare questo dubbio tanto che molti si chiedono se i lacaniani pratichino effettivamente la psicoanalisi e non compiano soltanto delle mere astrazioni, analoghe a quelle dei filosofi.
Lacan fu, al contrario, un clinico rigoroso il quale si dedicò ogni giorno alla pratica della psicoanalisi, dal 1944 presso Rue De Lille, 5. Mantenne un legame con la clinica psichiatrica per tutta la sua vita svolgendo conferenze e incontri di formazione in centri ospedalieri di Parigi e di altre città francesi.
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Contro i beni comuni di Ermanno Vitale
di Militant
Con estremo ritardo recensiamo Contro i beni comuni. Una critica illuminista di Ermanno Vitale, pubblicato da Laterza nella collana “Saggi tascabili”. Uscito nel 2013, forse ci sarebbe sfuggito se non l’avessimo trovato citato nelle pagine conclusive di Utopie letali. Contro l’ideologia postmoderna (pp. 228-231), in cui Carlo Formenti, criticando la «moda “benecomunista” che seduce la sinistra» argomenta giustamente che «dire né pubblico né privato sia come dire privato» e che «l’ideologia benecomunista sia omologa all’ideologia della domanda di nuovi diritti, e come entrambe restino ancorate al paradigma liberale».
Chiariamo subito che, in realtà, neanche Ermanno Vitale, docente di filosofia politica e di storia delle dottrine politiche all’Università della Valle d’Aosta, pensa minimamente a uscire da questo paradigma, pur adottando una prospettiva riformista e socialdemocratica. La sua, come dichiarato nel titolo, non è una critica marxista, ma una critica illuminista ai «benecomunisti» (ci scuserete il termine cacofonico – che persino Guido Viale ha definito sul «Manifesto» come «orribile, ridicolo e neogotico. Sembra il nome di una congregazione iniziatica fantasy» – ma non sappiamo come altro definirli in modo sintetico: e poi, del resto, come scrive ironicamente Vitale, «se gli adepti si vogliono definire tali, bisogna rispettare questa loro volontà, e augurare loro buona fortuna»).
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La Grecia e il fallimento europeo
di Andrea Zhok
I. Breve storia della crisi greca
Il recente precipitare degli eventi in Grecia ha messo in luce tanto la fragilità politica delle relazioni interne all’Unione Europea quanto l’ambiguità dei patti che vincolano gli stati membri. Sui media, italiani ma non solo, si sono succedute letture degli eventi marcatamente divergenti, spesso ideologiche, e ancor più spesso penosamente disinformate.
Scopo di questo breve scritto sarà perciò, in una prima parte, di fornire un resoconto il più sobrio possibile, del quadro storico della crisi greca, rinviando ad una seconda parte un commento politico più comprensivo. Nel prosieguo, per ragioni di leggibilità non sono state introdotte note o riferimenti bibliografici, ma tutti i dati riportati sono tratti o da fonti ufficiali (Eurostat, FMI reports, ecc.) oppure, occasionalmente, da resoconti della stampa economica specializzata. Su alcuni dati vi sono piccoli scostamenti a seconda delle fonti, ma esse non toccano la sostanza. Pur sapendo che non è mai possibile separare completamente fatti ed interpretazioni, nella prima parte il mio intento sarà di limitare al massimo i commenti, lasciando innanzitutto al lettore la possibilità di acquisire un quadro sinottico della situazione.
1. Gli esordi della crisi greca
Il 20 ottobre 2009, il ministro delle finanze Gyorgos Papaconstantinou, ministro del partito socialista (Pasok) appena tornato al governo, rivela pubblicamente che il rapporto Deficit/Pil per l’anno in corso, non oscillava intorno al 3%, come atteso, ma intorno al 12,5%.
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Qual è il valore del lavoro?
di Moishe Postone
I profondi cambiamenti storici del recente passato - il declino dello Stato-provvidenza nell'Occidente capitalista, il crollo del comunismo e dei partiti-Stato burocratici ad Est, e l'emergere apparentemente trionfante di un nuovo ordine capitalista mondiale e neoliberista - hanno restituito tutta la loro attualità ai problemi della dinamica storica e delle trasformazione mondiale nelle analisi e nei discorsi politici della sinistra.
Ma, allo stesso tempo, questi sviluppo rappresentano per la sinistra delle sfide difficili, in quanto mettono in causa tutta una serie di posizioni critiche che sono diventate predominanti negli anni settanta ed ottanta, così come le posizioni precedenti apparse dopo il 1917.
Da un lato, visto che il crollo drammatico e la dissoluzione definitiva dell'Unione Sovietica e del comunismo europeo fanno parte di tali cambiamenti, questi sono stati interpretati come la dimostrazione della fine storica del marxismo e, più in generale, della pertinenza della teoria sociale di Marx.
Ma, dall'altro lato, gli ultimi decenni hanno mostrato che la dinamica che sottende il capitalismo (dinamica intesa sia in maniera sociale e culturale che in maniera economica) continua ad esistere ad Est come ad Ovest ed hanno ugualmente mostrato come l'idea secondo la quale lo Stato potrebbe controllare tale dinamica non era valida se non, nella migliore delle ipotesi, in maniera provvisoria. Questa evoluzione mette profondamente in discussione le interpretazioni post-strutturaliste della storia e mostra inoltre che il nostro modo di comprendere le condizioni dell'autodeterminazione democratica dev'essere ripensata.
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Gli anfratti inermi del potere
Dialoghi e pensieri su “Diario della crisi infinita” di Christian Marazzi
di Francesca Coin e Stefano Lucarelli
Scriveva Deleuze:
“quando scrivo su un autore il mio ideale sarebbe di riuscire a non dire nulla che potesse rattristarlo… pensare a lui, all’autore sul quale si scrive. Pensare a lui con tanta forza che non possa più essere un oggetto e che non sia neanche più possibile identificarsi con lui. Evitare la doppia ignominia dell’erudizione e della familiarità. Restituire a un autore un po’ di quella gioia, di quella forza, di quella vita politica e di amore che lui ha saputo donare, inventare” (Dialogues, 1977).
È con questo spirito che ci accingiamo a scrivere qualcosa sull’ultimo testo di Christian Marazzi, Diario della crisi infinita (Ombre Corte, 2015), un testo denso e articolato di cui ci piacerebbe provare a restituire almeno un po’ della forza e della vita politica che lo impregna.
Dobbiamo iniziare con una domanda. Più volte durante la lettura ci siamo chiesti, infatti, quanti economisti, in quest’epoca, potrebbero pubblicare una collezione di testi scritti in anticipo sull’oggi. Quante volte, in altre parole, sarebbe possibile mettere alla prova della storia le proprie previsioni senza esserne imbarazzati. L’origine di questa domanda sta nella prima caratteristica spiazzante del testo: Marazzi è stato in grado di anticipare già anni addietro, precisamente, i nodi con cui si confronta il presente, a descrivere non un semplice diario – forse il titolo è troppo modesto – ma una sorta di dissezione, implacabile e ossessiva, di ogni particolare della crisi, nel tentativo di offrire, con precisione tanto raffinata quanto a volte dolorosa, una mappatura ad uso sovversivo di quella che egli stesso, in una bella intervista con Gigi Roggero, ha definito “la guerra diffusa della crisi”.
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Il crowdsourcing e l’uomo digitale: siamo esseri umani, non algoritmi
di Domenico Tambasco *
Una riflessione su un rivoluzionario fenomeno in espansione in tutto il mondo grazie a Internet: il crowdsourcing, una sorta di “cottimo digitale” che alla classica equazione lavoro/salario sostituisce l’inedito e sconvolgente nesso lavoro/premio. Una forma estrema di precariato che rischia di trasformare i lavoratori in soggetti privi di diritti
La “fine del lavoro” profetizzata alcuni anni orsono in un celebre libro di Jeremy Rifkin[1] non sembra così lontana, se solo si pensa alla “tenaglia tecnologica” che stringe sempre più da vicino il lavoro umano individuale. Una stretta operata da un lato dai progressi esponenziali dell’intelligenza artificiale, che va freneticamente sostituendo i lavori manuali ed intellettuali di natura ripetitiva (si pensi, ad esempio, alle operazioni di cassa delle banche o dei supermercati, ormai gestite da apparecchi completamente automatizzati) e dall’altro dall’emersione – attraverso le tecniche di connessione via web – dell’intelligenza umana collettiva, con funzione sostitutiva delle professioni e dei lavori intellettuali di natura non routinaria[2].
Ed è proprio dalla creazione tecnica di una sconfinata rete globale in cui si alimenta e si produce l’intelligenza umana collettiva che sono nate, per gemmazione naturale, la società del “Commons collaborativo”[3] e la “Crowdeconomy”, rispettivamente società ed economia della condivisione, nuovo modello socio-economico di cui il “Crowdsourcing” sembra essere, nell’ambito delle attività produttive, la più piena ed espressiva applicazione.
Allo scopo di comprendere il significato di questo inedito e rivoluzionario fenomeno sarà utile porre mente sia all’etimologia (composto da crowd – folla – e outsourcing – esternalizzazione) sia alla definizione data dal Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali in un interpello del 2013, secondo cui “con tale locuzione si intende individuare un nuovo modello di business aziendale in forza del quale un’impresa affida la progettazione, ovvero la realizzazione di un determinato bene immateriale ad un insieme indefinito di persone, tra le quali possono essere annoverati volontari, intenditori del settore e freelance, interessati ad offrire i propri servizi sul mercato globale (cd. Community di utenti iscritti ai siti a titolo gratuito)”[4].
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La tragedia greca nello scacchiere internazionale
La fine dell'europeismo
di Lorenzo Battisti
Riceviamo dal compagno Lorenzo Battisti, del Comitato Centrale del PCdI, e pubblichiamo come contributo alla discussione
Appare sempre più evidente che la vicenda greca si sia giocata più nelle stanze delle cancellerie europee che in quelle del governo di Atene. I continui colpi di scena che ci riserva la tragedia greca hanno oscurato lo scontro internazionale che si è svolto dietro le quinte. L'epilogo della vicenda mostra le responsabilità e i limiti di ideologici di Syriza e della Sinistra Europea, tanto nell'analisi dell'Unione Europea che in quella del mondo attuale.
La questione del debito greco: problema economico o conflitto politico?
Come osservava Stiglitz prima del referendum greco
“I leader europei stanno finalmente cominciando a rivelare la vera natura dello scontro in atto sul debito e la risposta non è piacevole: si tratta del potere e della democrazia, più che di moneta ed economia” [1]
Come è stato chiaro fin dall'inizio della crisi, la questione del debito è stata solo la scusa: la dimensione del debito greco è si esorbitante per quell'economia, ma rappresentava una cifra assolutamente gestibile nel contesto europeo. Quindi quali sono le ragioni che hanno portato all'imposizione di politiche così pesanti, che hanno indebolito l'Unione Europea oltre a condannare i greci a condizioni di vita impossibili?
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La protesta dei lavoratori Atac, la creazione del capro espiatorio e la strada verso la privatizzazione del trasporto pubblico
Militant
Un mese fa, in un invito alla discussione collettiva sulla giunta Marino e la situazione che si sta determinando a Roma (leggi), scrivevamo che il sistema di malaffare emerso con l’inchiesta di Mafia capitale – ma da anni intuito da tutti i romani – era il prodotto proprio di un galoppante processo di privatizzazione, che ha portato il Comune a esternalizzare gran parte dei suoi servizi essenziali e a dar vita a una guerra per gli appalti di cui oggi si intravede il risultato. Trascorso meno di un mese, sul fronte delle privatizzazioni la situazione è, se possibile, peggiorata: sono, infatti, iniziate le danze che porteranno – prevedibilmente – alla privatizzazione di Atac, la società di proprietà comunale concessionaria del trasporto pubblico nel comune di Roma in cui sono occupati circa 12mila lavoratori (di cui gli autisti sono circa 5.800). Si tratta, evidentemente, di una delle principali aziende nel tessuto produttivo romano: dietro la sua privatizzazione – anche tralasciando (e non è nostra intenzione farlo) ogni discorso sul diritto alla mobilità – si celano evidentemente degli interessi enormi.
Si è trattato di un mese difficile, per il trasporto pubblico romano. Anzi, difficilissimo. Per giustificare agli occhi dell’opinione pubblica l’imminente privatizzazione del trasporto pubblico e una prevedibile compressione dei diritti sindacali di tutti – esemplare, in questo senso, la contemporanea e insensata polemica contro l’assemblea sindacale dei lavoratori degli scavi di Pompei (leggi), come se il problema non fosse invece il totale abbandono a se stessa dell’area archeologica da parte dello stato –, infatti, si è dovuta montare una campagna mediatica senza esclusione di colpi contro i lavoratori dell’azienda municipalizzata, in mobilitazione – come vedremo – contro l’abolizione unilaterale, da parte dell’azienda, della contrattazione di secondo livello, che prevedeva un aumento dell’orario di lavoro a fronte di una diminuzione della retribuzione. Una decisione che provocherebbe l’opposizione di qualsiasi lavoratore.
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La Grecia, la sinistra e la sinistra della sinistra – Parte II
di Jacques Sapir
Riportiamo la seconda parte del lungo articolo di Jacques Sapir sulla sinistra europea e la crisi greca (qua la prima parte). L’oggetto dell’analisi questa volta è la sinistra radicale che, seppure inizi a maturare una timida comprensione della vera natura del quadro europeo, rimane incapace di schierarsi a favore del recupero della sovranità contro l’ideologia europeista e l’euro, mezzo di costruzione di quel sistema semi-coloniale che è l’Unione Europea. Per la sinistra radicale, dice Sapir, l’ora della scelta è arrivata: deve porsi in rottura con euro e europeismo, o condannarsi a perire
Gli eventi che hanno condotto al Diktat imposto alla Grecia, e il Diktat in sé, costituiscono un momento cruciale per quella che è chiamata “sinistra radicale”. In un certo senso, la crisi greca sottopone la «sinistra radicale» ad una prova tanto dura quanto quella che impone alla socialdemocrazia. Se la “sinistra radicale” oggi non si trova in una crisi simile a quella della socialdemocrazia, rischia tuttavia di trovarsi faccia a faccia con una crisi di orientamento politico di prima grandezza. In effetti, l’europeismo che caratterizza la «sinistra radicale» è anch’esso condannato all’insuccesso dal Diktat imposto alla Grecia. La domanda che viene posta oggi è se la “sinistra radicale” accetterà di diventare semplicemente una forza ausiliaria della social-democrazia o se è in grado di convivere con tutte le conseguenze di un programma di rottura. Ma un tale programma di rottura non è più compatibile con l’europeismo.
Elementi di definizione della «sinistra radicale»
Per prima cosa chiariamo cosa intendiamo con questo termine. Sono i partiti o i movimenti politici che si sono formati a sinistra della socialdemocrazia tradizionale, e il più delle volte in reazione contro la sua politica e il suo orientamento. La “sinistra radicale” non include i partiti che sono rimasti fedeli alla loro identità comunista (come il KKE greco o il PRC italiano), né i partiti o movimenti di estrema sinistra rimasti fedeli ad una identità marxista rivoluzionaria, più o meno contaminati da settarismi e dogmatismo (come, in Francia, la NPA o Lutte Ouvrière).
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Il coraggio della disperazione
di Slavoj Žižek
Alla Grecia non viene chiesto di ingoiare molte pillole amare in cambio di un piano realistico di ripresa economica, ai greci viene chiesto di soffrire affinché altri, nell’Unione Europea, possano continuare indisturbati a sognare i propri sogni
Il filosofo italiano Giorgio Agamben ha detto in un’intervista che “il pensiero è il coraggio della disperazione” — un’intuizione pertinente in modo particolare al nostro momento storico, quando di solito anche la diagnosi più pessimista tende a finire con un cenno ottimista a qualche versione della proverbiale luce alla fine del tunnel. Il vero coraggio non sta nell’immaginare un’alternativa, ma nell’accettare le conseguenze del fatto che un’alternativa chiaramente discernibile non c’è: il sogno di un’alternativa indica codardia teorica, funziona come un feticcio, che ci evita di pensare fino in fondo l’impasse delle nostre situazioni di difficoltà. In breve, il vero coraggio consiste nell’ammettere che la luce alla fine del tunnel è molto probabilmente il faro di un altro treno che ci si avvicina dalla direzione opposta. Del bisogno di un tale coraggio non c’è migliore esempio della Grecia, oggi.
La doppia inversione a U imboccata dalla crisi greca nel luglio 2015 non può che apparire come un passo, non solo dalla tragedia alla farsa, ma, come ha notato Stathis Kouvelakis sulla rivista Jacobin, da una tragedia piena di ribaltamenti comici direttamente a un teatro dell’assurdo — c’è forse un altro modo di caratterizzare questo straordinario ribaltamento di un estremo nel suo opposto, che potrebbe abbacinare perfino il più speculativo tra i filosofi hegeliani?
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I pericoli del Piano Schaeuble e gli errori di Tsipras
di Enrico Grazzini
L'europeista Schaeuble ha elaborato un piano per il governo unificato dell'Eurozona finalizzato a consolidare il dominio tedesco sull'economia europea. In questo contesto va letto il suo progetto di espellere la Grecia (e forse l'Italia?) dalla zona euro. Il piano dell'arcigno ministro tedesco delle finanze, alfiere delle più dure politiche di austerità, del pareggio di bilancio e del Fiscal Compact, prevede la nomina di un ministro dell'Economia dell'Eurozona il quale avrebbe diritto di veto sui bilanci e sulle leggi finanziarie decise dai Parlamenti dei 19 paesi aderenti all'euro.
Insomma il nuovo ministro europeo dell'economia diventerebbe il guardiano anti-democratico dei bilanci pubblici della zona euro. Inoltre Schaeuble propone di costituire un parlamentino ristretto dell'Eurozona, composto dai parlamentari delle nazioni aderenti, e quindi diverso dal Parlamento europeo, per dare un crisma di democraticità al suo Piano di integrazione della zona euro[1]. L'Eurozona si doterebbe anche di un fondo particolare – sostenuto dai singoli Paesi o da una tassa specifica per i cittadini dell'Eurozona – per affrontare le crisi ed eventualmente concedere sussidi di disoccupazione in caso di necessità. Insieme al bastone anche la carota.
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Traverso e gli intellettuali
di Piergiorgio Giacchè
“Enzo Traverso è uno storico italiano, da anni attivo in Francia”, ci dice la voce di Wikipedia, il dizionario-oracolo dei nostri tempi e mondi. Poi aggiunge che è stato in Germania e infine che da due anni insegna anche in America, a Ithaca… paradossale approdo di un forse definitivo “non ritorno”. Se Traverso fosse un chimico o un fisico o al limite un medico si parlerebbe di “fuga dei cervelli”, ma questa dizione non si applica agli studiosi di storia e di scienze politiche e sociali: certo per sventurata sottovalutazione di chi studia con profitto scienze senza profitto, ma anche per la fortunata licenza di fuggire e viaggiare che è concessa ai ricercatori di scienze umane, sempre visti come privilegiati perdigiorno, insomma come “intellettuali”. Eppure da qualche intellettuale come Enzo Traverso arrivano ancora di tanto in tanto preziose “rimesse degli emigranti”, di quelle che una volta nutrivano regioni intere e che invece oggi alimentano piccole case editrici dai nomi che tradiscono tutta la minorità delle minoranze attive. “Ombre corte” si chiama la casa editrice di un breve libro che ha per titolo Che fine hanno fatto gli intellettuali?, un saggio di Enzo Traverso intervistato da Régis Meyran che ha il doppio torto o il doppio pregio di essere il commento di un intellettuale al tema della sua stessa fine. Non sarà certo un best-seller né lo può diventare dopo questa segnalazione su una rivista come “Lo straniero”, ma non ne parliamo per solidarietà con i minori o con i migranti, ma perché colpiti dall’offerta di un ”libretto-specchietto” dove per una volta noi intellettuali – lettori o scrittori che si sia – non ci si sente narcisi. E finalmente e fatalmente ci si riflette.
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Il Marx di Diego Fusaro
Enrico Galavotti
Indubbiamente Diego Fusaro, astro nascente dell'attuale filosofia marxista italiana, ha avuto e tuttora ha il merito di aver aiutato a riscoprire la portata eversiva delle teorie anti-capitalistiche di quel grande economista chiamato Karl Marx.
Vogliamo sottolineare la qualifica di "economista" perché è in questo ruolo che Marx ha dato il meglio di sé, checché ne pensi Fusaro, che invece lo preferisce di più nei panni del "filosofo" o in quelli del "filosofo dell'economia", rischiando così pericolosamente di darne un'interpretazione influenzata dall'hegelismo, come d'altra parte fece uno dei suoi principali maestri, Costanzo Preve.
La vera grandezza di Marx sta invece proprio in questo, nell'aver distrutto il primato della filosofia, facendo dell'economia politica una vera scienza, e non una semplice ideologia al servizio della borghesia, com'era, in particolar modo, quella elaborata in Inghilterra, in cui dominava l'idea di considerare il capitalismo un fenomeno di tipo "naturale" e non "storico", ovvero come un evento destinato a durare in eterno e non a essere superato da una società di tipo comunista. Per l'ultimo Marx, quello interessato all'antropologia, il comunismo altro non sarebbe stato che un ritorno al comunismo primitivo in forme e modi infinitamente più evoluti, in quanto scienza e tecnica avrebbero giocato un ruolo di rilievo, assolutamente più democratico di quello che svolgono in un contesto dominato dall'antagonismo tra capitale e lavoro.
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Grecia: la lotta continua se c'è il piano B
di Marco Palazzotto
Il recente articolo di Tommaso Baris sulla crisi europea (lo trovate qui), ed in particolare sui fatti della Grecia, rappresenta una buona occasione per analizzare alcune problematiche che investono il nostro paese, e il nostro continente, a partire ormai dal biennio 2007/2008. In altre occasioni nel nostro sito abbiamo affrontato il tema della crisi greca (qui l’articolo di Roberto Salerno e qui quello di Giovanni Di Benedetto), ma ci siamo limitati a pubblicare pochi contributi in attesa della conclusione di alcuni passaggi decisivi. Oggi, con la capitolazione di Tsipras dopo l’ultimo accordo di “salvataggio” della Grecia - e grazie allo stimolo del contributo di Tommaso della scorsa settimana - ritengo sia importante redigere un primo bilancio dell’esperienza di Syriza e, con l’occasione, evidenziare alcuni punti sulla situazione politica ed economica attuale, tentando di elaborare alcune soluzioni politiche.
Parto subito con i due problemi principali che trovo nell’articolo appena citato e che pare rappresentino elementi comuni alle diverse anime di quel che rimane della sinistra nostrana. I due problemi principali riguardano: 1. la dimensione geografica e sociale dell’organizzazione di una forza politica di sinistra in grado di contrastare l’attuale potere europeo; 2. le conseguenti politiche economiche da attuare per cercare di rendere più decente la vita di milioni di uomini e donne in Europa, oggi povere o al limite della povertà a causa anche dell’austerity.
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Podemos, il capitalismo e la fine del mondo
di Fabio Ciabatti
“Non capite che il problema siete voi? Che in politica non conta avere ragione, ma avere successo?” Questa frase non è stata pronunciata da Frank Underwood in una puntata della fortunata serie televisiva House of Cards, ma da Pablo Iglesias, leader di Podemos, la formazione politica spagnola erede del movimento degli Indignados. La citazione è presa da un discorso – pronunciato in un’assemblea a Valladolid (vedi qui la sintesi) – in cui si fa uno sconcertante elogio di un realismo politico a dir poco spregiudicato.
A scanso di equivoci il ritorno di un orientamento realistico, dopo anni in cui la sinistra non istituzionale si è limitata a un approccio meramente etico o a un velleitarismo estremistico, può essere un fattore positivo. Soprattutto perché significa tornare a confrontarsi con il tema del potere e della sua conquista da parte di un partito che rappresenta una delle novità di maggior rilievo nel panorama politico europeo e che ha comprensibilmente suscitato molte speranze e simpatie. Ma il potere rimane una brutta bestia: troppo spesso chi crede di averlo conquistato ne rimane invece soggiogato. Per questo occorre chiedersi se l’estremo pragmatismo professato da Iglesias sia coerente con il radicalismo esibito dal suo partito.
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Spunti di antropologia e logica
Francesco Alarico della Scala
Intorno all’annosa questione della natura umana si consuma oggi una delle battaglie culturali decisive contro l’ideologia dominante.
Varie analisi pubblicate su questo giornale mettono a fuoco l’odierno scontro fra le tendenze opposte eppur complementari del culturalismo e dell’ontologismo. La loro opposizione è facilmente intuibile: l’una afferma l’assoluta fluidità (e la conseguente infinita malleabilità) dell’uomo, l’altra prende rassegnatamente atto della sua natura immutabile. Più complessa è la loro complementarità, che non va ricercata nel campo della teoria pura bensì in quello della genesi oggettiva, storica e di classe, di tali forme ideologiche (nel senso deteriore del termine): ad essere “naturalizzata” e resa immutabile è soltanto la parte della “natura umana” che si conforma alle leggi dell’economia di mercato, cioè il suo istinto egoistico che renderebbe impossibile un sistema sociale improntato al collettivismo, alla cooperazione e alla solidarietà reciproca; fluidi e manipolabili divengono invece tutti i tratti della “natura umana” che contrastano, in atto o in potenza, con gli interessi del capitale, ossia tutte le tradizioni in blocco, i rapporti familiari, l’identità sessuale, ecc. È palese che la fonte di queste tendenze ideologiche non va ricercata nel progresso del pensiero scientifico e filosofico contemporaneo ma negli interessi di classe della borghesia e in particolar modo dell’oligarchia finanziaria, che soli ci offrono la chiave per la mediazione di queste tesi contraddittorie.
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Per una prassi istituente
Recensione a “Del Comune o della rivoluzione nel XXI secolo”
di Andrea Baldazzini
É ormai innegabile la necessità di costruire una nuova cultura politica che sappia per un verso disporre di categorie teoriche sufficientemente articolate in grado di dare conto della complessità dei rapporti reali (momento analitico), per l’altro promuovere concrete pratiche attive passibili di riconoscimento e istituzionalizzazione. Ebbene, quest’ultimo lavoro di Pierre Dardot e Christian Laval ha il grande merito di non essere la solita analisi irretita sul presente, ma avanza coraggiosamente un’interessante proposta politica costituita da un solido nucleo teorico costruito intorno al tema del Comune, nonché da una serie di dettami volti alla realizzazione di un’autentica prassi istituente. É importante tenere poi a mente che quanto viene qui presentato costituisce il proseguo, se si vuole la part construens, del lungo lavoro di studio compiuto dai due autori e raccolto nel loro penultimo libro intitolato “La nuova ragione del mondo. Critica alla razionalità neoliberista”, dove ad essere messo a tema è la logica sottostante il modello neoliberale pensato non semplicemente come fenomeno economico, ma piuttosto nei termini di una vera e propria Ragione assoluta in grado di coinvolgere la totalità degli aspetti dell’esistenza individuale. Interessante è notare che il libro appena citato termina con un accenno proprio al tema del Comune: «Il governo degli uomini può fondarsi su un governo di sé che si apra a rapporti con gli altri che non siano quelli della concorrenza tra ‘attori imprenditori di se stessi’.
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La Grecia, la sinistra e la sinistra della sinistra - Parte I
di Jacques Sapir
In un recente post del suo blog, Jacques Sapir analizza l’effetto della crisi greca sulla sinistra socialdemocratica europea e cerca di tracciare una genealogia dell’ideologia che la guida dagli anni ’80. A 30 anni dalla sbornia storica che si sono presi (gli anni di piombo in Italia, la vittoria del thatcherismo in UK, il crollo dell’Unione Sovietica e l’avvento del mondo unipolare a guida liberista), nella crisi che ha svelato il vero volto dell’Unione Europea, i partiti socialdemocratici possono ancora negare che decenni di compromessi sui propri principi hanno generato un mostro?
Il diktat estorto alla Grecia dall’Eurogruppo e dalla Commissione Europea è una tragedia per la Grecia. Questo accordo non risolverà nulla e addirittura peggiorerà la crisi che la Grecia sta attraversando. Il debito greco non era sostenibile nel 2010. Né nel 2012. E ancora non si sta attenendo a questo diktat. La solvibilità del paese non è affatto assicurata, perché non è garantita nemmeno la sopravvivenza dell’economia. Qui vi è la prova, negata dai negoziatori di Bruxelles, che un paese può rimborsare solo quello che la sua economia gli consente. In realtà, a sembrare estremamente evidente è addirittura il contrario, poiché le misure imposte dal diktat, in combinazione con le politiche della Banca Centrale Europea, andranno ad aggravare la crisi economica in Grecia. Ma le condizioni che hanno circondato questo disastro hanno conseguenze che vanno oltre la Grecia. Adesso stiamo guardando il naufragio della socialdemocrazia europea e un momento cruciale per quella che viene chiamata la «sinistra radicale».
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L’antisistema si fa governo
Benedetto Vecchi
Riflessioni su Podemos a partire dal libro di Pablo Iglesias, «Disobbedienti». Un partito qualificato come sinonimo di un «populismo 2.0» che invece consegna un nuovo appeal a una visione egualitaria del mondo
Populismo 2.0. È l’espressione che ricorre abitualmente per qualificare l’esperienza politica di Podemos, il partito spagnolo che ha terremotato il panorama politico iberico. Gli analisti, come sempre, mettono in evidenza le distanze, gli elementi di discontinuità dal pensiero politico classico, inscrivendo questa giovane formazione nell’alveo, tutto sommato tranquillizzante, del populismo di matrice latinoamericana. Una cornice tesa a demonizzare le potenzialità elettorali di Podemos, collocando la sua azione al di fuori di una dimensione costituzionale e ai margini della tradizione democratica europea. A leggere il volume di Pablo Iglesias Turrion Disobbedienti (Bompiani, pp. 300, euro 18; ne ha già scritto su questo giornale Giuseppe Caccia in occasione della sua uscita spagnola il 14 febbraio scorso, ndr) tale semplificazione va in mille pezzi. Con un’avvertenza: ciò che viene qualificato come antisistema non viene smentito, ma arricchito semmai di molti elementi che collocano Podemos nella critica della democrazia rappresentativa. Cosa che non esclude tuttavia una forma istituzionale fondata su un dinamico equilibrio tra democrazia diretta e, appunto, la sua forma rappresentativa attraverso il riconoscimento delle figure di autogoverno messe in campo dalla società civile in una successione di mutuo soccorso, cooperative sociali, sindacalismo di base che trovano il loro coordinamento dentro la Rete.
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Lotta nelle strade contro lo spettacolo?
di Anselm Jappe
Le teorie sociali nascono per spiegare gli eventi del proprio tempo, più o meno rilevanti. Con il passare degli anni, e con la società che cambia, il loro valore euristico tende a diminuire. Pertanto, il tribunale della storia conserva solamente quelle letture della realtà che hanno dimostrato di poter essere applicate a situazioni diverse rispetto a quelle da cui sono nate, in quanto hanno catturato le tendenze generali di un'epoca più ampia. Queste teorie non sono "profetiche" (categoria vuota), ma sono state in grado di comprendere l'essenza di un lungo periodo storico. Coloro che oggi si richiamano ancora all'epoca di Tocqueville, o di Marx, o di Weber, o di Pareto, affermano che essi compresero, uno o quasi due secoli fa, alcuni elementi della società moderna che ancora oggi sono presenti, seppure in maniera differente. Come contropartita, teorie più recenti che, per fare un esempio, hanno visto nell'alleanza fra gli operai delle fabbriche ed i cittadini un elemento capace di trasformare la società capitalista, ci appaiono già irrimediabilmente datate.
Le teorie elaborate negli anni 50 e 60 del secolo passato, in particolare da Guy Debord e dai situazionisti, fanno parte di quest'analisi dell'effetto prolungato? Sono in grado di aiutarci a comprendere i fenomeni che questi autori non potevano allora ancora conoscere?
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La classe dirigente americana ha un solo obiettivo: il Mondo
Michele G. Basso
Dal vagone piombato al jihadismo senza frontiere
Gli USA, sconfitte le dittature fasciste, ne hanno ereditato l’aggressività, il revisionismo bellico, il disprezzo per ogni norma internazionale. La differenza è che, mentre i fascismi si svilupparono in paesi che non avevano colonie o ne avevano di meno importanti, e lottavano per una redistribuzione dei grandi imperi coloniali di Gran Bretagna, Francia, Olanda, Belgio… gli USA sono tuttora la potenza dominante che, invece di accettare l’inevitabile decadenza relativa, cerca di impedire con la forza lo sviluppo di ogni altra grande concentrazione finanziaria, industriale, politica, militare antagonista. E, per far questo, procede a una ricolonizzazione che ha la sua espansione maggiore in Africa, ma non rinuncia, tramite golpe, governi nominati direttamente da Washington, o dalle banche e dalle multinazionali, a subordinare paesi sviluppati in Europa, Asia o America Latina.
Siti e giornali, di destra e di sinistra, vantano i successi di Putin, come valido rivale di Washington. Anche se il suo governo ha reagito abbastanza bene all’offensiva USA, si tratta di operazioni prevalentemente difensive. Pur avendo il territorio più vasto del mondo, la Russia come popolazione non può competere con gli USA, l’Indonesia, il Brasile, ma solo con Nigeria e Pakistan – per ora soltanto, perché la natalità è più bassa della mortalità.
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Tra l'Europa impossibile e la Nazione impotente
Ridefinire il progetto per i tempi a venire
Pierluigi Fagan
Dopo la seconda guerra mondiale, l’Europa ed i suoi principali stati componenti, si svegliarono in un nuovo, inedito, mondo. Per la prima volta nella storia, il mondo andava connettendosi in modo tale da presentarsi come un sistema unico. Per la prima volta nella storia degli ultimi quattro secoli, l’Europa non era più il centro del mondo, le proprie diatribe interne non diventavano la trama che si proiettava sul resto del pianeta e soprattutto, nessun attore europeo poteva ritenersi vincitore di alcunché avendo tutti perso, sia la guerra, sia la legittimità culturale a porsi come modello di riferimento. Il dopoguerra si presentò come una tenaglia che stringeva una Europa devastata e smarrita, tra la pressione americana e quella sovietica. Successivamente, la globalizzazione rese chiara la vastità del mondo e fece emergere nuove potenze. Lo stato nazione europeo, cioè di piccola-media dimensione in un ambiente eccessivamente frazionato e competitivo, nasce dentro uno scenario eurocentrico ma oggi lo scenario non solo non ha più centro in Europa ma forse non ha neanche centro in sé per sé. Da qui, la crisi del concetto stesso di stato-nazione europeo.
Questa crisi oggettiva alimentò le prime idee sul superamento dello stato-nazione europeo che si posero la domanda del “come”?
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La lotta al feticcio e l'indifferenza su Banca Centrale indipendente e Costituzione
di Quarantotto
1. In margine all'analisi critica compiuta da Alberto Bagnai su Goofynomics, relativa alla presa di posizione di Luciano Gallino, così come ai tentativi di dialogo che, con grande pazienza e disponibilità, partono da Sergio Cesaratto, vale la pena di fare alcune riflessioni ulteriori.
In termini pratici, l'azione critica di Alberto e Sergio visualizza la radiografia di una sinistra non più riconoscibile come tale (proprio se riferita alle sue tradizionali coordinate: cioè comprensione dell'assetto dei rapporti di produzione e tutela effettiva della classe lavoratrice): il massimo che si può ottenere (faticosamente e con bassa probabilità di successo) è che da sinistra non si aggredisca e non si rifiuti chi propone analisi razionali di recupero della democrazia sociale!
2. E' chiaro che chi si identifica, a livello di base, con queste ormai consolidate pulsioni e se ne sente rappresentato/a, soffre della stessa dissonanza cognitiva che abbiamo qui più volte illustrato e che risulta figlia del combinato tra antiberlusconismo inerziale come unico punto autolegittimante identitario e internazionalismo antisovranista, avulso da ogni comprensione effettiva della radice del fenomeno.
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Il “Greco Levantino” e la narrazione al tempo della crisi
di Girolamo De Michele
Circa quattro anni fa, il non-ancora-greco-levantino Yanis Varoufakis scrisse un testo (Never bailed out: Europe’s ants and grasshoppers revisited, dicembre 2011, qui) nel quale la narrazione delle cause della crisi greca si intrecciava con la sovversione della narrazione dominante, incentrata sulla contrapposizione fra le virtuose formiche (tedesche) del nord e le scellerate cicale (greche) del sud d’Europa. Questa narrazione fungeva da schermo nei confronti della reale contrapposizione fra cicale e formiche, che non è originata nelle identità nazionali o localizzata nell’asse cardinale nord-sud, ma radicata negli antagonismi di classe: le formiche greche lavoravano in settori a bassa produttività con bassi salari e tutele lavorative e un’inflazione reale superiore a quella ufficiale; quelle tedesche lavoravano in settori a grande produttività, e la differenza fra alti profitti e salari stagnanti creava un surplus che veniva investito, a causa dei bassi tassi d’interesse esistenti in Germania, all’estero; per contro, le cavallette tedesche (quegli inimitabili banchieri il cui scopo è massimizzare i guadagni col minimo sforzo) facevano fluire il capitale prodotto dal duro lavoro a basso costo delle formiche verso il meridione in cerca di alti guadagni, mentre le cavallette greche, e i loro alleati politici al governo, chiedevano alle cavallette tedesche (le banche) sempre maggiori prestiti, senza pensare al domani (per contro, le formiche greche dovevano farsi carico dei costi di questa macchina finanziaria che non portava alcun reale beneficio al popolo greco.
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