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Modernità e finzioni del tempo
di Jacques Rancière
Pubblichiamo il testo della conferenza che Jacques Rancière, uno dei più importanti filosofi francesi contemporanei, terrà a Firenze oggi (29 giugno) nella Sala Altana di Palazzo Strozzi alle ore 17:00. La conferenza, promossa dall’Institut Français Italia, in collaborazione con la Scuola Normale di Pisa, il Gabinetto Vieusseux e il Gruppo Quinto Alto, si svolge nell’ambito della rassegna di presentazioni e seminari «Prospettive critiche». Jacques Rancière ne discuterà con i Proff. Mario Citroni e Paolo Godani. Ringraziamo la casa editrice DeriveApprodi per l’aiuto nella realizzazione di questa pubblicazione
Per delucidare questo titolo partirò da una definizione molto generale: chiamo finzioni del tempo i modi di strutturazione dei rapporti di temporalità e le forme di razionalità della catena temporale che strutturano le nostre percezioni della politica e della storia, come della letteratura e dell’arte. Una definizione che implica a sua volta la ridefinizione del concetto di finzione. Si continua a opporre la finzione, intesa come invenzione di situazioni immaginarie, alla solida realtà con la quale sono alle prese, con modalità differenti, coloro che lavorano la materia, coloro che intendono penetrare la struttura delle cose e coloro che agiscono per cambiare le situazioni. Eppure, lo sappiamo almeno fin da Aristotele, la finzione è ben di più dell’invenzione di esseri immaginari. È una struttura di razionalità. È una modalità di presentazione che rende cose, situazioni o eventi percepibili e intelligibili. È una modalità di connessione che costruisce forme di coesistenza, di successione e di concatenamento causale tra eventi e conferisce a tali forme la modalità del possibile, delle reale o del necessario. Una duplice operazione necessaria ovunque occorra produrre un certo senso della realtà. È necessaria lì dove si tratta di definire le condizioni, gli strumenti e gli effetti di un’azione, ovvero, in sostanza, il senso stesso di ciò che significa agire.
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Le conseguenze del disamore
Pd dopo le regionali 2015
di Giorgio Salerno
Cosa accadrà ora? Cosa succederà al PD, e nel PD, dopo la batosta elettorale? Quali saranno le conseguenze del voto ?
Tutti i commentatori politici concordano sul fatto che i risultati delle elezioni regionali del 31 maggio 2015, ed i ballottaggi di domenica 14 giugno nei comuni interessati, hanno mostrato una crescente disaffezione dell’elettorato verso il PD di Matteo Renzi. Lo stesso Presidente del Consiglio lo ammette senza reticenze.
L’alto numero degli astenuti, soprattutto nelle cosiddette regioni rosse, ascrivibile prevalentemente all’elettorato piddino, e la diminuzione del voto di lista al Partito, con la perdita conseguente della guida di importanti città, sono il segnale di una delusione profonda che ridimensiona drasticamente il famoso 40,8 % conseguito alle elezioni europee del 25 maggio 2014. Appena dopo un anno il PD ha perso più di 2 milioni di voti, verso la destra e verso la sinistra. Molti elettori di centrodestra e di destra, ex berlusconiani che avevano visto nel giovane premier una reincarnazione dell’anziano leader, hanno preferito l’originale (Berlusconi, Salvini, lo stesso Alfano) alla copia (Renzi). Vecchia legge della politica.
Renzi ha perso verso sinistra non riuscendo a motivare il tradizionale elettorato del PD e non acquistando voti nuovi provenienti da questa area. Non è vero, come tendono a far credere i vertici del Partito, che la scelta dei candidati di sinistra (Casson) abbia fatto perdere voti. Ed allora la Moretti, la Paita, lo sconfitto aspirante sindaco di Arezzo? Candidati che più renziani di cosi’ non si poteva immaginarli.
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Dei debiti e delle colpe del vivente
Federico Zappino, Elettra Stimilli
Federico Zappino: Il tuo libro Debito e colpa, appena dato alle stampe, prosegue e attualizza le ricerche e le riflessioni che hai reso pubbliche nel 2011, nell’opera Il debito del vivente. Ascesi e capitalismo (Quodlibet). In quel libro, i cui materiali erano stati radunati nelle fasi iniziali della crisi economica e sociale, l’impostazione genealogica appare dominante rispetto alle connessioni con il presente. Il debito del vivente è uno straordinario percorso nella teoria economica, nella patristica, nella teologia, nell’antropologia. Uno dei suoi fulcri trae spunto dalla suggestione weberiana del passaggio dall’ascesi intramondana protestante all’agire strumentale del dominio economico – passaggio che in sé riferisce, da un lato, di un sottofondo costante, di un costante essere-in-debito del vivente nei riguardi del Dio; dall’altro, di una risignificazione, potremmo dire, di questo essere-in-debito da parte del capitalismo. Una risignificazione che già Max Weber individua e che poi ritroviamo con chiarezza nelle riflessioni di Walter Benjamin, secondo cui il capitalismo assolve alla funzione a cui prima di esso aveva assolto la religione – esso stesso diventa una religione interamente cultuale, che non conosce alcuna dogmatica, né teologia. Una funzione che, con Foucault, potremmo definire al contempo di soggettivazione e di assoggettamento: il soggetto affida a questa nuova religione il compito di acquietare i bisogni e le preoccupazioni per il futuro, attraverso la produzione e il consumo, e prova anche un certo godimento nella possibilità di produrre e consumare.
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L’infamia della guerra e della socialdemocrazia nel ’900
di Antonio Negri
La guerra è un crimine contro l’umanità e oggi, nell’epoca nucleare, è anche crimine contro la natura e gli altri esseri viventi. Ma parlar di guerra nel secolo scorso, nel XX secolo, è parlare di Stato-nazione. Quanto è doloroso ricordare che nel XX secolo, quando si dice nazione, si dice guerra: noi tutti, qui presenti, siamo figli o nipoti (di prima o seconda o terza generazione) di sopravvissuti a quelle guerre. Dalla nascita del moderno ciascuno dei nostri Paesi è stato preda di guerre. E furono o mascalzoni o deboli di mente, comunque obnubilati da deliranti ideologie, quei letterati o politici che raccontarono ai popoli come le guerre – legate alla nascita e allo sviluppo delle nazioni europee – avessero generato la loro felicità. Pure e semplici falsità. Noi sappiamo infatti che la modernità e ciascuna delle nostre comunità nacquero dal lavoro e dal pensiero di donne e uomini forti che rinnegarono il feudalesimo e il papato, che si liberarono dalla schiavitù e lottarono per l’emancipazione del lavoro. E non dimentichiamo che questa vera storia fu sovradeterminata e travisata dalla violenza sovrana.
Essa si voleva legittimata dallo Stato, impiantata sull’identità della nazione, e pretendeva che popolo e nazione venissero considerati un unico concetto: e che quindi i sudditi – per amor di patria – fossero dallo Stato-nazione inviati al macello? Si rabbrividisce ora nel ricordare che alcuni fra i massimi intellettuali del XX secolo inneggiarono alla sovranità come bene assoluto e alla guerra e alla distruzione della nazione accanto, come necessità della vita dello Stato-nazione. Thomas Mann, 1914:
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L’ordine non regna ad Atene
di Raffaele Sciortino
Una liberazione di energie, un piccolo grande no costituente: il voto greco ha portato in un’Europa asfittica, avvinghiata allo status quo, un pezzo di America Latina. Non ha rotto con questo l’isolamento della resistenza greca, non può farlo da sola, ma -passione contro ricatto, dignità contro paura - ha sbattuto in faccia a tutti le conseguenze di una crisi che i pescecani dell’euromerdocrazia e della finanza in alto, ceti sociali ottusi o rassegnati o ancora illusi in basso non riusciranno a lungo ad attribuire agli “irresponsabili” greci (anche se è questo oggi il messaggio lanciato e in gran parte recepito nel resto d’Europa).
Dunque, l’ordine non regna ad Atene. Al contrario, abbiamo la prima vera scossa politica in Occidente dallo scoppio della crisi globale. Adesso cercheranno di fargliela pagare carissima. La parola d’ordine a Berlino e Bruxelles è subito diventata organizzare il Grexit, non importa se tra mal di pancia, timori e mugugni di politici e stati di secondo rango o addirittura del padrino d’oltreoceano. Non si può lasciar passare l’idea che resistere è possibile! Il regime change, fallito in forma soft, passa ora alla fase due, quella dura che chiuderà del tutto i rubinetti della moneta puntando a produrre ancora più miseria, caos, scontento e, chissà, “richieste di ordine”.
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Default totale
di Giulio Palermo
In questo articolo, propongo una riflessione ad ampio raggio sulla possibilità che il movimento contro il debito si sviluppi attivamente in ogni paese d’Europa, connotandosi in senso anticapitalista. Invece di tifare Grecia e sperare che il governo Tsipras strappi condizioni dignitose nelle trattative con i creditori che strangolano il paese, l’idea è di aprire fronti di lotta al debito pubblico in tutti i paesi. Non ovviamente nell’intento di stabilizzare il sistema finanziario — come vorrebbero alcune forze favorevoli a un default negoziato e parziale — ma per far saltare l’attuale assetto politico-finanziario e avviare un processo verso il socialismo.
Gli effetti moltiplicativi di un simile coordinamento anticapitalista europeo sono ovvi. Sul piano politico, il rafforzamento del governo Tsipras in Grecia sarebbe immediato. Se ne tocchi uno, ci ribelliamo tutti! Questo è il migliore messaggio che sfruttati e oppressi d’Europa possono inviare ai signori dell’euro e della finanza. Ma non mi interessano i ragionamenti politici senza copertura, le proposte irrealizzabili, giusto per fare dibattito. Non proverò quindi a sviluppare nei dettagli cosa accadrebbe nell’ipotesi, alquanto improbabile, di un ripudio del debito simultaneo e coordinato, da parte di un movimento internazionalista forte e consapevole. Sarebbe come costruire una strategia di lotta basandola sull’ipotesi di aver già vinto.
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Fondata sul turismo
di Fabrizio Federici
La Grande Trasformazione era in atto ormai da un paio di decenni. L’aveva preceduta una lunga fase di accorta preparazione, in cui le attività produttive – e l’industria in particolare – erano state spinte in una profonda crisi, i finanziamenti alla ricerca erano stati quasi azzerati, e si era diffuso tra la popolazione il mito di un’Italia «terra della cultura». Venne abilmente instillata la convinzione che bastasse sfruttare i beni culturali del Paese per assicurare a tutti la prosperità. «E pensare che si potrebbe campare soltanto di quello!»: nei bar non si mugugnava altro.
La situazione che si era venuta a creare era perfetta per un cambiamento radicale: masse di disperati da una parte, la speranza dall’altra in una svolta che passasse attraverso il massiccio sfruttamento turistico delle bellezze nazionali. Al momento buono, la trasformazione fu avviata con piglio deciso, e con rapidità tale che in breve tempo divenne irreversibile. Fu varato in pompa magna il «piano di riconversione economica totale» al turismo, che prevedeva innanzitutto il blocco di ogni forma di sostegno e di agevolazione alla produzione di beni e servizi (che non fossero, è chiaro, più o meno direttamente legati all’accoglienza). Fu stilata una lista di attività «tipicamente italiane» da sostenere, legate tutte, più o meno, all’ospitalità.
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Bentornati al sud
L'Eterna Questione Meridionale
Scritto da Marco Palazzotto
Da quando l’Italia è entrata in recessione con l’ultima crisi europea, dall’agenda politica nazionale è sparita quasi del tutto la questione meridionale. Si ha la sensazione che la Sicilia - e il resto del Meridione – sia condannata a un destino immodificabile a causa della sua atavica incapacità di mantenere il ritmo di aree più efficienti, più produttive, meno criminali. Il quadro politico e sociale che è stato costruito intorno alla questione meridionale è ormai ultrasecolare ed il suo indirizzo è quello che oggi conosciamo.
Antonio Gramsci in questo articolo del 1926 trattava della questione meridionale evidenziando aspetti ancora molto attuali. Già allora l’ideologia diffusa era quella di un Mezzogiorno come “palla di piombo che impedisce più rapidi progressi allo sviluppo civile dell’Italia; i meridionali sono biologicamente degli esseri inferiori, dei semibarbari o dei barbari completi, per destino naturale; se il Mezzogiorno è arretrato, la colpa non è del sistema capitalista o di qualsivoglia altra causa storica, ma della natura che ha fatto i meridionali poltroni, incapaci, criminali, barbari, temperando questa sorte matrigna con l’esplosione puramente individuale di grandi geni, che sono come le solitarie palme in un arido e sterile deserto”.
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L’occasione del no. Sulla critica della democrazia del debito
∫connessioni precarie
Quanti no si possono dire in una domenica? Quale occasione rappresenta il referendum greco contro l’ultimatum delle istituzioni europee? Il referendum è stato un passaggio obbligato, dopo che, negli ultimi mesi, contro la pretesa greca di sottrarsi alla tirannia del debito, si è consolidata una vera e propria rivolta pro-slavery. Le élite europee – istituzionali, mediatiche ed economiche, conservatrici e socialiste – si sono coalizzate per dimostrare che una simile pretesa è tecnicamente insostenibile, ma soprattutto con l’intenzione di provare che essa è politicamente inammissibile. Gli assoggettati al debito devono stare al loro posto e subire le condizioni di salario e di reddito che le riscoperte «leggi naturali» del capitalismo riservano loro. Le settimane che hanno preceduto l’indizione del referendum sono state dominate dal tentativo sempre più plateale e volgare di delegittimare le pretese che il governo greco ha osato portare la tavolo delle trattative. Il carattere europeo e globale del referendum non è dato dallo scontro della Grecia con il resto d’Europa, ma dal tentativo di dare una lezione complessiva a chi pensa di potersi opporre alla tirannia della finanza. A questo punto in gioco non ci sono miliardi di euro, e non c’è nemmeno il nome della moneta con cui contabilizzare debiti e sacrifici. C’è il potere di decidere a favore di chi paga il prezzo più pesante della crisi.
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Il Clinamen greco
Riflessioni sulla questione greca e le potenziali conseguenze
di Francesco Schettino
Gli ultimi di giugno, e i primi del luglio del 2015 sono, senza dubbio, tra i giorni al tempo stesso più drammatici ed interessanti degli ultimi anni, se non altro per l’imprevedibilità degli eventi che si avvicenderanno sino a domenica 5 luglio; in quella data verrà celebrato, in uno dei momenti più solenni da quando l’Unione europea è stata creata, il celeberrimo referendum greco che chiederà al popolo ellenico di esprimersi sull’accettazione delle condizioni poste dalle “istituzioni” in relazione alla questione del debito pubblico.
Sono oramai ampiamente noti i fatti che negli scorsi giorni hanno determinato l’interruzione delle contrattazioni tra la ex-troika (ora istituzioni) ed il governo ellenico, rappresentato da Tsipras e dal ministro dell’economia Varoufakis, evento che ha indotto proprio il capo del governo a consultare il “popolo” sull’opportunità di proseguire o interrompere la lunga trattativa: volendoli riassumere – chiedendo al lettore la licenza di non essere estremamente rigorosi nell’esposizione –, le proposte del governo greco, basate principalmente sul recupero dell’evasione fiscale e l’aumento della tassazione dei grandi patrimoni e dei capitali, si sono scontrate pesantemente con le esigenze delle istituzioni di continuare a vessare i lavoratori greci attraverso l’aumento della tassazione indiretta, anche su ben di prima necessità, tagliando pensioni e stipendi degli impiegati pubblici e prolungando l’età pensionabile con effetto quasi immediato.
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“L'Europa destabilizzata dal potere di ricatto dei creditori”
Marta Fana intervista Vladimiro Giacchè
Le ultime vicende sulla crisi greca hanno mostrato come un governo democratico, fedele al suo mandato elettorale, possa mettere in discussione la governance europea, rigida su regole punitive che nulla hanno a che fare con la virtuosità dei paesi dell’eurozona. Il fallimento più grande è proprio l’architettura della UE e dei suoi Trattati, che negano la possibilità di agire su obiettivi realmente strutturali, come l’occupazione, la capacità produttiva e i redditi. In questo contesto, la moneta unica è uno strumento di potere funzionale ad interessi altri, quali la stabilità dei prezzi e delle banche.
Se è vero che bisogna rimettere in discussione regole e obiettivi europei, allo stesso tempo è necessario capire in quali tempi queste modifiche possono intervenire. Più i tempi sono lunghi più è inevitabile che anche la moneta unica possa essere rimessa in discussione, in quanto strumento di potere.
Ne parliamo con Vladimiro Giacché, economista e Presidente del Centro Europa Ricerche.
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Non si è ancora fatta sera
Franco Berardi Bifo
L’Europa è unita come lo fu nel 1941
Il futuro dell’Unione europea è iscritto nell’esito del referendum che Alexis Tsipras è stato costretto a convocare per il 5 luglio, ma comunque vada questo referendum, - che vinca improbabilmente il no al ricatto e all’umiliazione, o che vinca dolorosamente il sì al ricatto e all’umiliazione, - il futuro d’Europa è segnato. Finirà nel sangue, dopo un lungo periodo di miseria e umiliazione. La Jugoslavia del 1993 su scala continentale: questo è ciò che ha prodotto l’arroganza finanziaria, questa è la vendetta del Fondo Monetario Internazionale.
Ne La questione della colpa (Die Schuldfrage), un testo del 1946, Karl Jaspers, il filosofo tedesco che viene considerato uno dei padri dell’esistenzialismo, distingue il carattere "metafisico" della colpa da quello “storico”, per ricordare che se ci siamo liberati del nazismo come evento storico, ancora non ci siamo liberati da ciò "che ha reso possibile" il nazismo, e precisamente la dipendenza della volontà e dell’azione individuale dalla potenza ingovernabile della tecnica, o meglio della catena di automatismi che la tecnica iscrive nella vita sociale.
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Tirannia europea?
di Jacques Sapir
Il prof. Jacques Sapir si pronuncia in maniera come sempre molto chiara sull’atto di forza da parte delle istituzioni UE, che in occasione della crisi greca si sono ormai inoltrate in una deriva in cui la posta in gioco non è più il debito, ma i principi della democrazia e della sovranità nazionale
Alexis Tsipras aveva deciso di indire un referendum il 5 luglio, per chiedere al popolo sovrano di decidere sulla diversità di posizioni che lo contrappone ai creditori della Grecia. Aveva preso questa decisione in seguito alle minacce, le pressioni e gli ultimatum che aveva dovuto affrontare durante gli ultimi giorni di trattative con la cosiddetta “troika” – la Banca centrale europea, la Commissione europea e il Fondo Monetario Internazionale. In tal modo, con un gesto che può essere qualificato come “gollista”, ha deliberatamente riportato nell’arena politica un negoziato che i partner della “troika” volevano mantenere nell’ambito tecnico e contabile. Questo gesto ha provocato una reazione dell’Eurogruppo di estrema gravità. Siamo in presenza di un vero e proprio abuso di potere che è stato commesso nel pomeriggio di questo 27 giugno, quando l’Eurogruppo ha deciso di tenere una riunione senza la Grecia. Quello che è in gioco ora non è solo la questione del futuro economico della Grecia. E’ la questione dell’Unione europea, e della tirannia della Commissione e del Consiglio, che è stata posta apertamente.
La dichiarazione di Alexis Tsipras
Il testo della dichiarazione fatta da Alexis Tsipras la notte dal 26-27 giugno sulla televisione di stato greca (ERT), da questo punto di vista è molto chiara:
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Grecia: e ora?
di Andrea Fumagalli
La trattativa tra il governo greco e i creditori (Brussel Group, ma sempre Troika) si è conclusa con un nulla di fatto. La Grecia (novello Davide) non ha la possibilità di spuntarla con la plutocrazia europea (il vecchio Golia). Ma la partita non si chiude ora, non finisce qui…
La possibilità che la Grecia e i creditori possano trovare un accordo è oramai del tutto tramontata.
All’inizio di questa settimana di travaglio e di passione, l’offerta del governo Tsipras di venire incontro ad alcune richieste della Troika (aumento parziale Iva e dell’età pensionabile, seppur in tempi lunghi) per recuperare i 400 milioni di differenza tra le parti (pari allo 0,002 del Pil Europeo!) aveva fatto credere che fosse possibile giungere a una soluzione.
Invece il risultato è stato esattamente l’opposto.
L’irrigidimento dei creditori
Abbiamo infatti assistito a un irrigidimento delle posizioni dei creditori. Il primo, tra loro, è stato il Fmi, poi, il 26 giugno, è stato il turno dell’Eurogruppo. Perché tale irrigidimento, quando si era quasi vicino al traguardo di un accordo economico utile a tutti?
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Grexit: quelli che ‘la democrazia trionfa (ma anche no)’
di Alberto Bagnai
La decisione presa dal premier greco di indire un referendum sull’austerità (rectius: sull’opportunità di accettare o respingere il piano di “salvataggio” delle “istituzioni”, che poi sarebbero la troika) ha scatenato nei nostri lidi la solita tifoseria da stadio: chi inneggia al trionfo della democrazia, chi ostenta scetticismo.
Non se ne abbiano i tromboni sfiatati del “primato della politica”: per valutare il senso politico di questa mossa il dato dal quale partire resta quello economico. È strano che questo non venga compreso soprattutto a sinistra, dove una volta andava di moda una cosa chiamata materialismo storico. Ma non entriamo in questo. La cosa importante è capire che l’austerità non è una bizza, né una virtù, della signora Merkel. L‘austerità è la conseguenza inevitabile dell’adozione dell’euro: se non puoi svalutare la moneta, per promuovere le esportazioni dalle quali ottenere la valuta forte necessaria per saldare i debitori esteri, devi svalutare il lavoro. I colleghi “appellisti”, quelli che con toni fra il dickensiano e il deamicisiano da anni ci frantumano le gonadi con l’idea che un euro senza austerità sia possibile (errore blu per il quale boccerebbero e bocciano i loro studenti del primo anno) dovranno rassegnarsi.
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«Il golpe della Troika contro il governo Tsipras»
Intervista a Christian Marazzi
L’economista Christian Marazzi: «La Troika in Grecia come i militari in Cile con Allende. L’aggressione è un avvertimento a Podemos in Spagna. Oggi bisogna andare allo scontro, a piedi scalzi e con le armi della verità. Dobbiamo istituire la democrazia reale in Europa». «La vittoria del No al referendum è importante, ma l’esito della crisi non è scontato. La Grecia è sola»
Per Christian Marazzi, economista e autore de Il diario di una crisi infinita (Ombre Corte), «il referendum indetto da Tsipras domenica in Grecia è una mossa eroica. Non vedo un tentativo di addossare la responsabilità di una scelta sulle spalle del popolo greco di fronte ad una impasse evidente della trattativa. Ci vedo invece un atto di grande onestà e verità».
Molti sostengono invece che quello di Tsipras sia un atto di disperazione.
Niente affatto. La sua è una resa dei conti con le politiche neoliberiste che in Grecia si sono rivelate per quello che sono sempre state: un attacco sistematico alla democrazia, un totale disprezzo delle classi lavoratrici, il perseguimento criminale di politiche di arricchimento dei più ricchi. Oggi bisogna andare allo scontro, non c’è altra soluzione. Questa battaglia va fatta a piedi scalzi, con le armi della verità, contro la strategia della menzogna della Troika e dei mass-media che mistificano i dati economici e sociali e servono gli interessi dei poteri forti.
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Parabola di un falso capo carismatico
di Federico Dezzani
Attendendo il decorso del dramma greco, solchiamo il Canale d’Otranto e torniamo alle terre natie, per studiare la parabola discendente di Matteo Renzi. L’ex-sindaco di Firenze, “molto intelligente, energico come Fanfani, empatico ed una spugna nell’imparare” come lo definisce l’Ing. De Benedetti nel novembre 2014, ha perso la smalto iniziale e le promesse di una catarsi del Paese si sono inabissate nella fantomatica palude. Installato a Palazzo Chigi con la missione di attuare i desiderata della Troika imbellettandoli con una politica spregiudicata e giovanilistica, Renzi paga il fallimento di ricette economiche sbagliate e soprattutto lo scotto di essere un finto “capo carismatico”, salito alla ribalta nazionale senza sudore ed un’autentica missione innovatrice. Perché l’establishment euro-atlantico, nel disperato tentativo di salvare l’eurozona, ha insediato un uomo solo al comando? Leggere il sociologo tedesco Max Weber per trovare la risposta.
Aria di smobilitazione
C’è aria di smobilitazione nei palazzi romani e nei salotti buoni italiani: la promettente campagna di Matteo Renzi, incensato dai media nazionali ed internazionali come il salvatore delle patria e l’ultima speranza dell’Italia, si è arenata.
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Podemos, tra moltitudine e egemonia: Negri o Laclau?
di Bruno Cava
Con questa analisi teorica che ripercorre il solco della discussione sui nuovi movimenti in America Latina e in Spagna, tra Gramsci, Laclau, Hardt e Negri, si apre la nuova sessione “Sud America”, con l’intento di riportare presso di noi (e viceversa) le suggestioni e gli spunti politici ed economici che animano quello che oggi è forse il continente più attivo del cercare di individuare possibili processi di trasformazion sociale
La differenza tra populismo e un discorso liberale classico risiede nel fatto che, nel primo caso, il popolo è qualcosa ancora da costruire, mentre per i liberali il popolo è qualcosa di già dato. Nel primo caso, la costruzione del popolo implica la costruzione di una nuova rappresentanza. Nel secondo, alla rappresentanza spetta appena contemplare una società che le preesiste ed è già formata.
Per il populismo, la storia della costruzione di un popolo passa attraverso la divisione tra un “noi” e un “loro”. Si denuncia la falsa universalità dell’ordine rappresentativo esistente, che non ci rappresenta più, per successivamente rivendicare una nuova universalità. Nelle rivoluzioni borghesi è stato a partire dalla lotta contro l’ancien regime che fu possibile liberarsi dall’aristocrazia parassita, per formare la nazione e la cittadinanza borghese, da quel momento in avanti considerata universale. Nelle lotte anticoloniali si lottava contro la metropoli e l’imperialismo, in nome dell’unità della liberazione nazionale. Con il filosofo Antonio Gramsci, la costruzione del popolo riunisce intellettuali, operai e contadini in una coscienza collettiva nazional-popolare, che si sbarazza dei borghesi.
Invece per i tecnocrati, più legati al discorso liberale classico, non ci sarebbe necessità di costruire popolo alcuno: è sufficiente scegliere le persone giuste, adottare “idee che funzionano” e impiantare la migliore gestione per ogni situazione specifica.
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Quando il futuro determina il presente
Riflessioni sul panico da complessità
di Pierluigi Fagan
Facendo alcuni esperimenti in riferimento alla teoria della meccanica quantistica, alcuni dati sembrano dire che il futuro pre-determini il presente, cioè il passato. In questi giorni imperversa in rete i risultati di uno di questi esperimenti, fatto sulla la cosiddetta “scelta ritardata” di J. A. Wheeler. La cosa affascina come affascinano molte cose di questo luna park quantistico in cui fisica e metafisca collassano l’una nell’altra creando a ripetizione punti interrogativi di cui la nostra logica non trova soluzione. La dissonanza logico-cognitiva della mq è piacevole ma vi sono forme di dissonanza cognitiva meno piacevoli anche se basate sullo stesso principio del futuro come causa del presente. Anche qui ci sono “scelte ritardate” ma al punto da non scegliere più o scegliere di non scegliere.
L’Espresso annuncia una nuova epidemia comportamentale, che ha un brand esotico: hikikomori. Un made in Japan per il fenomeno di giovani che rifiutano la socialità e si chiudono in una stanza, defezionano dal presente probabilmente perché vengono atterriti dalla visione o dall’impedimento ad una visione, del futuro. La cecità della speranza, l’occlusione del futuro, retroagisce sul presente ed i portatori di questa posizione esistenziale, reagiscono alla privazione di futuro auto-privandosi del presente. Scelgono di non scegliere.
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Uber, la rendita e Marx
di Lorenzo Mainini
“Se automobile definisce ciò che si muove da solo, allora la produzione di auto-mobili salariati, ovvero di lavoratori che si attivano da soli al servizio dell’organizzazione capitalistica, è incontestabilmente il maggior successo dell’impresa (…) neoliberista”1. Attraverso una simile metafora Frédéric Lordon prova a spiegare in che modo l’introduzione d’una dimensione ‘desiderante’ nel rapporto produttivo capitale/lavoro tenda a schiacciare, sempre di più, il desiderio del lavoratore sul desiderio del capitale. Il discorso pubblico incentrato sullo slancio ‘imprenditoriale’, sull’immagine del lavoro come ‘realizzazione di sé’ e del lavoratore come ‘imprenditore di se stesso’, servirebbe infatti ad attivare il lavoratore nella realizzazione d’un desiderio che in realtà non è il suo, ma quello dell’impresa; un desiderio che non è più l’incrocio dei bisogni sociali, ma a cui, tuttavia, il lavoratore è chiamato ad aderire perché sarà solo desiderando (ovvero lavorando per) quel desiderio altrui che accederà al denaro – il salario – in quanto medium per la ‘realizzazione di sé’ – tendenzialmente attraverso il consumo.
La metafora d’ “auto-mobili salariati che si attivano da soli al servizio dell’organizzazione capitalistica” rischia tuttavia di non essere una semplice metafora.
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Punti di libertà forzata. (Ancora) undici tesi sul materialismo
Adrian Johnston
Nella discussione filosofica odierna sulla configurazione del materialismo e sulle sue possibili combinazioni occorre soffermarsi anche sulla proposta di un “materialismo trascendentale”, recentemente avanzata da Adrian Johnston. Qui presentiamo, introdotta dai suoi curatori, la traduzione del suo “manifesto”
Adrian Johnston rappresenta uno degli autori più letti e discussi all’interno del dibattito della teoria critica. Le sue linee di ricerca convergono sulla definizione di ciò che egli chiama materialismo trascendentale. Si tratta di una cornice filosofica che combina un’ontologia materialista, contraddistinta da una forte apertura verso le scienze naturali, e una teoria della soggettività che ne mantiene la complessità e l’autonomia. In questa direzione assume un ruolo preminente il confronto con autori quali Žižek, Lacan, Badiou, Meillassoux.
L’articolo che presentiamo è stato pubblicato per la prima volta nel 2013 in "Speculations: A Journal of Speculative Realism", ed esemplifica con chiarezza le ambizioni e gli snodi appena presentati.
(Diego Ferrante e Marco Piasentier)
I
Ogni materialismo degno di questo nome deve prevedere elementi provenienti dal naturalismo e dall’empirismo.
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Le cause e gli effetti della crisi
La Corte Costituzionale li scambia e si arrende al più €uropa
Quarantotto
1. Sulla sentenza della Corte costituzionale che rimuove il blocco alla contrattazione nel pubblico impiego, - senza però ammettere una tutela ripristinatoria del diritto costituzionale violato, nei normali termini della restituzione retroagente al momento di prima applicazione della norma illegittima-, si stanno già versando fiumi di inchiostro.
Persino un quotidiano on line piuttosto conservatore - e che prevalentemente dà voce a chi ritiene che i sindacati siano il male in Italia e che la deflazione salariale (cioè intaccare il deprecato "costo del lavoro") sia la invariabile panacea di ogni male italiano - si accorge che ormai l'art.81 Cost, quello che recepisce il fiscal compact, diviene un principio superiore a cui devono piegarsi tutti gli altri contenuti nella Costituzione.
2. Il problema è che pare invece che non se ne sia accorta la Corte. Perchè, se se ne fosse accorta, dovremmo presumere che si renderebbe altrettanto conto del fatto che, in precedenza e anche molto di recente, essa stessa aveva affermato che (sentenza n.284 dell'ottobre 2014):
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Epoca del computer e lavoratori
Limiti e prospettive del conflitto sociale
di Giorgio Paolucci
Introduzione
Secondo le previsioni di tutte le più importanti istituzioni economiche mondiali il 2014 doveva esser l’anno della svolta e avrebbe dovuto far registrare una generalizzata ripresa dell’economia mondiale.
I dati più recenti dicono invece che non solo non vi è stata inversione di tendenza ma che ormai la crisi ha investito anche aree, come quelle dei paesi emergenti, che in fatto di crescita sembravano destinate a frantumare ogni record e che rallenta perfino la fabbrica del mondo, la Cina. Anche negli stati Uniti, dove pure negli ultimi anni il Pil è cresciuto di qualche punto, come ha recentemente riconosciuto anche l’attuale presidente della Fed, Janet Yallen, la situazione è tutt’altro che brillante: “Il tasso di disoccupazione rimane significativamente al di sopra di quello che la maggior parte dei membri della Federal Reserve considerano normale nel lungo periodo, e le risorse sono sottoutilizzate… Il ritmo lento dell'aumento dei salari riflette le difficoltà del mercato del lavoro"[1].
Alcuni economisti, fra cui Larry Summers, ex ministro del tesoro durante la presidenza Clinton, e il premio Nobel Paul R. Krugman, riprendendo una tesi avanzata già negli anni trenta da Alvin Hanse, Gunnar Myrdal e John Maynard Keynes, di fronte a questi dati hanno formulato la tesi della stagnazione secolare, la cui causa sarebbe una strutturale insufficienza della domanda aggregata conseguente al calo della natalità nei paesi economicamente più sviluppati.
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La Finlandia vira verso destra. Divisa tra Russia e Nato
di Lorenzo Battisti
Dopo oltre un mese e mezzo dalle elezioni, si è formato il nuovo governo finlandese. Come mostra questa lunga attesa, dopo la Svezia [1] anche la Finlandia è entrata in un periodo di instabilità politica. Tagli allo stato sociale, riduzione dei salari e le relazioni con la Nato e con la Russia saranno i temi centrali dei prossimi mesi.
Un altro paese scandinavo vira a destra
Le elezioni di aprile hanno infranto nuovamente la distorta visione, ancora prevalente nel senso comune del nostro paese, di una Scandinavia socialdemocratica, civile, accogliente e neutrale.
Da un punto di vista economico, la Finlandia sta attraversando una fase estremamente difficile, paragonabile per gravità a quella del nostro paese. Il Pil finlandese arretra ormai dal 2011, con un crollo degli investimenti (dovuto sia al settore industriale che alle costruzioni) e una bilancia commerciale ormai costantemente in negativo. La disoccupazione ha ormai superato il 10% (con l'aumento contemporaneo di lavori part time e precari), mentre il debito delle famiglie aumenta. La Nokia, principale società finlandese, protagonista della rinascita del paese dopo la crisi del 92-95, sembra aver seguito una via simile a quella della nostra Fiat: tuttora formalmente indipendente, è ormai sotto il controllo degli americani di Microsoft, tramite una serie di accordi e compartecipazioni che nascondono una vendita di fatto.
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Qualche considerazione critica sull'enciclica francescana
Sebastiano Isaia
«Ciao vecchio Marx, è arrivato Francesco»: così titolava l’altro ieri l’articolo di fondo del Garantista; ovviamente il «vecchio Marx» non ha nulla a che fare, nemmeno in forma mediata, né con il giornale diretto da Piero Sansonetti, né col Papa né con i papisti di “sinistra”. Come si evince con solare chiarezza anche dai passi che seguono: «Oggi abbiamo scelto per aprire il giornale un titolo un po’ giocoso: “Ciao Marx, è arrivato Francesco”. Che però non è solo giocoso. Vogliamo dire questo: oggi il papa assume su di sé, sulla chiesa cattolica, sul mondo cattolico, il compito di dare guerra all’ingiustizia sociale, ai danni culturali e di coscienza provocati dal mercato inteso non come strumento dell’economia – da limitare, da governare attraverso la democrazia e la politica – ma come sistema di pensiero, anzi di pensiero unico, e come insieme di valori» (P. Sansonetti). Già concepire il mercato, nella sua connotazione “positiva”, «come strumento dell’economia» (capitalistica!), e non come espressione e sostanza di rapporti sociali di dominio e di sfruttamento, significa affermare quella concezione feticistica e apologetica del Capitalismo contro cui Marx non smise mai di polemizzare e ironizzare. Il fatto che si continui a tirare inopinatamente la barba del comunista di Treviri per coinvolgerlo nel salvataggio del Capitalismo dalle sue stesse contraddizioni, secondo la moda progressista di questi tempi, la dice lunga sulla cultura politica di ex, neo e post “comunisti”. Piuttosto, questi signori dovrebbero chiamare in causa il filosofo della miseria, quel «signor Proudhon» che «è dalla testa ai piedi filosofo ed economista della piccola borghesia» (Marx).
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