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Non-paradossi delle mobilità umane del XXI secolo
di Salvatore “Turi” Palidda
Da diversi anni la cosiddetta “questione demografica” è diventata una delle principali preoccupazioni di alcuni demografi, anche se le autorità politiche sembrano evitare di parlarne. Che si tratti dello spettro dell’aumento considerato incontrollato della popolazione mondiale, che alcuni sovrappongono alle conseguenze dei cambiamenti climatici e quindi al terrore per migrazioni che a certi dominanti appaiono come minacce di future invasioni distruttive dei paesi detti benestanti, o che si tratti del continuo declino demografico nella vecchia Europa (dall’Atlantico agli Urali), la questione demografica e le migrazioni (e anche l’emigrazione degli stessi abitanti dei paesi ricchi) appaiono come il più grosso problema che incombe sul pianeta tanto quanto la sola questione del riscaldamento climatico. In realtà, il primo gigantesco problema sta nello sviluppo economico che esaspera le diseguaglianze tra una minoranza di miliardari e milionari e delle loro lobby e la maggioranza della popolazione che, sia nei paesi poveri che in quelli ricchi, è a rischio di impoverimento e delle devastazioni che provocano malattie e morti da contaminazioni tossiche oltre che da incidenti sul lavoro ed economie sommerse. Ricordiamo che la maggioranza dei decessi è dovuta a malattie da contaminazioni tossiche, incidenti sul lavoro, malnutrizione, mancanza di cure, e in generale a invivibili condizioni di lavoro e di vita (e questo riguarda sia la maggioranza dei circa 60 milioni di morti l’anno a livello mondiale sia quelli nei paesi detti “ricchi”).
Tuttavia, di tali questioni se ne parla poco e anche gli esperti democratici e gli umanitari ne discutono restando spesso pervasi da categorie e paradigmi assai discutibili. È invece proprio su tali questioni che appare cruciale la necessità di decostruire i discorsi dominanti e adottare un approccio critico che possa permettere di dire la verità al potere, come insegna la pratica della parresia di Socrate ripresa da Foucault.
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L’impunità di classe al tempo del MES e della Prescrizione
Media falsari per omissione
di Fulvio Grimaldi
Metabolizzata l’affettuosa gelosia di quella Francia che, dagli illuministi e dal 1789, passando per la Comune e arrivando a un anno e passa di fenomenali lotte dei Gilet Gialli, pur decimati, tra morti e mutilati, dalle emergenze fascistoidi di Macron, fino agli scioperi di milioni e di giorni, di ogni categoria, che stanno paralizzando la Francia e riducendo, nel confronto, a nanetti da giardino nel parco dei signori i vari Landini, Furlan e Barbagallo, torniamo alle nostre miserie. Che nessuno esplicita con minore pudore di quanto ci riesca il giornalismo dei nostri media.
* * * *
Coloro che leggono queste note, tra epicurei che ne godono e stoici che le soffrono, sanno quanto mi sono strappato i capelli per le inversioni di rotta e gli arretramenti dei Cinquestelle (riferendomi sempre a quelli che ne sono responsabili, s’intende) e quanto me li sono inceneriti per essermi troppo a lungo ostinato a fidarmi di loro. Ho scritto anche un titolo “dal bene maggiore al male minore”. C’è chi, a questo proposito, lapalissianamente osserva che il meno peggio è comunque un peggio. Io rispondo con la stessa logica elementare, ma inoppugnabile: è quanto passa il convento. E allora cosa vogliamo fare? Chiudere il convento? Magari come Napoleone, che tanto bene fece in questo?
Cinque Stelle, il male minore. Quanto male, quanto minore?
E qui mi viene da pensare che i nostri Cinquestelle stanno a quanto noi avremmo voluto che fossero, come i mangiapreti Mazzini e Garibaldi stavano al Bonaparte che liquidava monasteri e sparava sugli altari.
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Populismo, punti di partenza
di Roberto Fineschi
Il populismo è una degli anelli della catena degenerativa che confondendo la rivolta romantica anticapitalistica con la critica del modo di produzione capitalistico produce il fascismo
1. Populismo ha significato - e significa - varie cose, anche di segno se non opposto, almeno contrastante. Solo guardando al passato se ne riscontrano accezioni potenzialmente progressiste - come nel caso del Populismo russo -, conservatrici - per es. l’americano People’s Party -, ambigue, ambivalenti e problematiche come ad es. il peronismo che in Sudamerica si ritiene di poter coniugare sia da destra che da sinistra. Con il tempo, nel lessico novecentesco, ha sicuramente prevalso un’accezione negativa. Ciò è dovuto assai probabilmente anche al consolidarsi, dopo la seconda guerra mondiale, di organizzazioni politico-istituzionali che valutavano negativamente alcune delle sue caratteristiche salienti: le democrazie parlamentari per un verso, il socialismo reale per un altro consideravano la mancanza di mediazione tra istanze del “popolo” e l’esercizio della funzione politica come un aspetto da evitare, e il ruolo dei partiti come organizzatori, educatori, anello nella catena della pratica e partecipazione politica era qui centrale.
Nel caso del cosiddetto socialismo reale, anche il soggetto cui ci si riferiva presentava probabilmente aspetti problematici, in quanto meglio del popolo, la classe, o i blocchi storici di classi, esprimevano le soggettualità in gioco in maniera più adeguata. Anche i “fronti popolari” erano tali in quanto organizzati, fronti appunto. Aspetti populistici - non popolari - venivano d’altra parte chiaramente individuati nei vari fascismi che, pur non dichiarandosi populisti, sicuramente si sentivano e si autoproclamavano emanazione diretta di un fantomatico “popolo”. Tornano qui alla mente i vari miti millenari, improbabili revival imperiali, il concetto nazionalsocialista di “völkisch” e via dicendo.
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L’Emilia Romagna e la crisi che viene da lontano
La fine del Pci e la regione non più rossa
di Lorenzo Battisti
Sembra ormai chiaro che il destino del governo si giocherà nelle prossime elezioni regionali di Gennaio, e in particolare in quelle della mia regione, l’Emilia Romagna (come la solito, il Sud viene dimenticato, ma c’è anche la Calabria al voto).
Il vero fatto nuovo è proprio questo: non solo la regione tradizionalmente rossa è “contendibile”, ma la vittoria della Lega è data quasi per certa dalla maggior parte dei sondaggi. Questo rappresenta un fatto storico, per una regione da sempre considerata rossa, antifascista, progressista e che si scopre d’un tratto verde.
Negli ultimi giorni, prima del pienone di Piazza Maggiore, sono stato colpito dai tanti post sui social network di tanti amici e compagni che avvertono ora l’emergenza dell’onda verde che straripa oltre il Po, dopo aver preso l’Umbria. In particolare sono stato attirato dal post di un compagno che mi sembra riassumere bene l’urgenza avvertita da una parte dei militanti storici della mia regione. E’ un compagno che ha militato nel Pci, tra i miglioristi, e che ha seguito tutto il percorso di trasformazioni fino al Pd, per poi uscire con D’Alema e Bersani in Articolo 1. Ma soprattutto è stato un acuto osservatore delle trasformazioni sociali ed economiche della regione, attraverso il ruolo svolto all’interno dell’istituto demoscopico provinciale. Il compagno scrive:
“Compagni, amici e conoscenti, sia ben chiaro. Questa è davvero la madre di tutte le battaglie. Uno scontro politico a tutto campo. Uno scontro ideologico. Una questione identitaria. Il sangue di noi tutti. Se l'Emilia sarà conquistata non sarà una normale alternanza. […]
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Francia: chi ha ferro ha pane
di Giacomo Marchetti
Giovedì 5 dicembre è iniziato lo sciopero generale in Francia contro la riforma del sistema pensionistico.
Ma la riuscita è stata molto più rosea delle più ottimistiche aspettative e costituisce un ulteriore stimolo per la sua continuazione ed estensione con effetto domino che “rischia” di abbattersi sull’esecutivo.
Secondo i dati “ufficiali”, non degli organizzatori, e quindi senz’altro notevolmente al ribasso, sono stati censiti 510.000 manifestanti in 70 città fuori Parigi, secondo il decryptage di Le Monde…
Per darvi un idea della sproporzione, il quotidiano francese – che comunque dichiara di avere compiuto una stima non esaustiva sul totale – parla di 25.000 a Marsiglia, mentre la CGT del dipartimento di Marsiglia fornisce la cifra di 150.000 persone. Lo stesso a Tolosa: 33.000 per la Prefettura, 100.000 per gli organizzatori!
E rileva comunque una presenza significativa anche nei centri minori oltre a Parigi, Marsiglia, Bordeaux, Lione, Tolosa, comunque molto inferiore alle stime date dai cronisti di testale locali che conoscono meglio le città di cui scrivono…
Le nombre jaune,pagina creata durante la marea gialla per fornire una contabilità precisa, date le cifre diffuse ufficialmente dall’Esecutivo al limite del ridicolo, parla di 1.143.450 partecipanti!
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Dazi, Stato e Rivoluzione (digitale)
di Militant
“La Cina è vicina” gridavano le piazze degli anni Settanta, e dopo quasi mezzo secolo di storia quello slogan non è mai stato tanto aderente alla realtà come lo è oggi, anche se in forme ben diverse da quelle auspicate allora. Non si intravede nessun nuovo Mao al timone, nessuna Rivoluzione Culturale si profila all’orizzonte e non ci sono nemmeno le guardie rosse intente a bombardare il quartier generale. Da Deng Xiaoping in poi la Cina ha smesso di rappresentare un’alternativa ideologica di riferimento, non solo rispetto al comunismo sovietico, ma anche, e soprattutto, rispetto a quell’occidente capitalistico a cui si è andata viepiù, per l’appunto, avvicinando.
La tappa fondamentale di questo percorso è stata sicuramente, tra il 1999 e il 2001, il negoziato finale e poi l’ingresso della Repubblica Popolare nella World Trade Organization (Wto). Com’è noto l’ultimo ventennio di crescita dell’economia globale si è di fatto retto sulla complementarietà tra gli Stati Uniti e la Cina, diventata nel frattempo, la “fabbrica del mondo”. Un’interdipendenza talmente forte da spingere i media internazionali a definire questo G2 informale come “Chimerica”, termine coniato dallo storico statunitense Niall Ferguson e nato dalla crasi di China e America.
Questo processo d’inserimento nel mercato internazionale è rimasto sostanzialmente immutato per tutto il primo decennio del nuovo secolo. La trasformazione della Cina nel principale hub della manifattura globale ha portato con sé, però, uno squilibrio commerciale crescente a danno degli Stati Uniti che, almeno in parte, è stato compensato dai flussi di capitali cinesi a sostegno del debito pubblico USA.
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Cambiare materiali, filosofie di progetto o modello?
di Carlo Bertani
Con l’Autunno, è arrivata la solita sequenza di disgrazie meteorologiche: in fin dei conti, è piovuto quattro giorni di seguito, e quattro giorni di pioggia sono bastati per mettere in crisi il sistema di trasporto italiano.
Una parte di responsabilità l’hanno, ovviamente, i mutamenti climatici in atto, basti pensare che, nel 2018, la temperatura massima del Mar Tirreno giunse a 26°, mentre nel 2019 è giunta a 29°, l’Adriatico a 30°.
Come se non bastasse, s’approfondisce lo strato di acqua che si riscalda – separata dal cosiddetto “termoclino”, che le divide dalle acque di fondo, che rimangono sempre alla massima densità di 4° – il problema è che mentre, prima, il termoclino s’assestava intorno ai dieci metri di profondità, oggi arriva a venti, il doppio.
La quantità di energia che le acque marine contengono, al termine della stagione estiva, è incommensurabile: sono quantità paragonabili a circa 50 volte il consumo elettrico annuo nazionale!
Si dà il caso che questa energia sia destinata a giungere in atmosfera con la fase di omotermia invernale, e allora osserviamo – come nel 2018 – i cicloni oppure, come nel 2019, le piogge “monsoniche”, che devastano il territorio.
In altre parole, l’energia può avventarsi col vento ed aumentarne la velocità, oppure sorreggere i fronti ciclonici e sommergerci con le acque.
In un modo o nell’altro, e qualunque sia la ragione, dobbiamo farci i conti.
L’altro problema, riguarda la specificità del territorio italiano.
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MESsi in trappola
di Francesco Cappello
Il meccanismo europeo di stabilità (MES)
è uno dei modi che i paesi ricchi dell’eurozona stanno perfezionando per porsi al riparo, a danno dei più paesi più fragili, dalle perdite provocate dalle loro stesse politiche mercantiliste-ordoliberiste, sostenute e promosse dalle istituzioni della Ue.
Se leggi “fondo salva stati (fss)“ pensi ad una colletta tra stati, utile a venire in soccorso di quei paesi che venissero a trovarsi in grave difficoltà. Bello no? La solidarietà tra stati! Già nella versione sottoscritta, ratificata e finanziata nel 2012 il fss fu ridefinito meccanismo europeo di stabilità. Anche in questo caso immagini che misure a garanzia della stabilità saranno sicuramente positive. C’è forse qualcuno a cui piace vivere tra brutte sorprese, in un mondo imprevedibile, continuamente mutevole e instabile?
Dire, più realisticamente, che il MES sia stato architettato primariamente quale fondo salva grandi banche d’affari non lo avrebbe reso molto popolare. Dire che mira, seppure indirettamente, ad incoraggiare la minimizzazione della spesa pubblica degli stati o a incentivare la svendita di quel che rimane del loro patrimonio pubblico, o ancora, che abbia come effetto quello di dirottare gli investimenti delle famiglie, orientandoli all’acquisto dei prodotti finanziari delle banche d’affari piuttosto che dei titoli del loro stato, avrebbe rischiato di metterlo in cattiva luce.
La denominazione di fondo salva stati ci aveva comunque abituato a convivere con l’idea dell’eventuale default (fallimento) degli stati. Che i paesi membri possano fallire legittima strumenti quali il MES, predisposti al loro soccorso. Tale eventualità appare oggi realistica quale esito reso possibile da una serie di cambiamenti strutturali intervenuti negli ultimi decenni.
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Intellettuali, parola e potere
di Salvatore Bravo
Ruolo degli intellettuali ed il suo destino
Il ruolo degli intellettuali ed il suo destino sono indissolubilmente legati alla democrazia. Nella fase attuale del capitalismo assoluto la palese decadenza degli intellettuali, ormai organici alla società dello spettacolo, coincide con la fase regressiva ed autoritaria della “democrazia della finanza”. La democrazia nel suo significato ideale è attività decisionale e consapevole dei popoli, è pensiero condiviso, attività creatrice e dialettica mediante la quale i popoli si riconoscono ed autoriconoscono nelle reciproche differenze rispettose dei comuni principi: comunità, giustizia sociale, consapevole limitazione dei processi crematistici, riconoscimento delle differenze all’interno di una cornice assiologica comune. La democrazia è misura e senso del limite senza i quali non è che la parodia di se stessa, dove vige la dismisura, la cattiva distribuzione delle ricchezze e dei poteri non vi è che la sudditanza della politica all’economia. È evidente che la democrazia dei nostri giorni agonizza sotto i colpi del liberismo e delle conseguenti mercificazioni.
L’attività perenne del capitalismo assoluto favorisce la passività
La fase imperiale del capitalismo nella sua furiosa volontà di potenza, conquista e vendita omologa le parole, le svuota del loro significato per renderle frecce uncinate per la perenne televendita. La decadenza delle parole, il loro essere organiche alla lingua del capitale è forse il risultato più alto che il capitalismo assoluto ha potuto ottenere. Il pensiero è costituito di parole, la loro funzionalizzazione alla sola vendita ha reso possibile l’attacco alle coscienze; la penetrazione violenta nella mente dei popoli è un’operazione imperiale nuova ed inaudita. I popoli senza lingua e linguaggi, indotti a parlare la lingua unica del mercato, possibilmente l’inglese commerciale, vivono la profondità della loro crisi politica nella forma dell’attività-passiva.
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Fondo salva stati. Cosa non vogliono dirci
di Federico Giusti e Ascanio Bernardeschi
Con le modifiche al Meccanismo europeo di stabilità si accentuano i vincoli finanziari nell’eurozona e la finanza espropria gli Stati dei loro poteri, a danno dei lavoratori. Una lotta di classe asimmetrica
Si è iniziato a parlare da fine primavera, quando la Lega era ancora al governo del paese, delle modifiche al c.d. Fondo salva stati, fondo con cui l'Ue “aiuta” (virgolette d’obbligo) i paesi in difficoltà, cioè quelli più indebitati. Ma prima di vedere di cosa si tratta, ragioniamo su alcune regole cui devono sottostare i paesi dell’Unione Europea (Ue), secondo il Trattato di Maastricht.
Una di esse dice che nessun paese può avere un disavanzo della bilancia commerciale con l’estero (differenza fra esportazioni e importazioni) superiore al 4% né un avanzo superiore al 6%. Ma la virtuosa Germania non è in regola perché ha stabilmente avanzi maggiori. Gli avanzi della Germania verso in paesi dell’Ue corrispondono ai disavanzi di questi ultimi. Tuttavia nessuno richiama la Germania e sul banco degli imputati vengono messi solo i paesi in disavanzo. Un’altra conseguenza del Trattato è l’impossibilità degli stati in disavanzo commerciale con l’estero di compensare questo svantaggio competitivo con la svalutazione monetaria, visto che la moneta unica è gestita dalla Bce.
Le due cose messe insieme hanno effetti pesanti. Infatti, un indebitamento netto con l’estero del sistema delle imprese dipende dal fatto che nella nazione si acquista più dall’estero di quanto si riesca a vendere, che si consuma più di quanto si incassi, che siamo debitori verso l’estero e che il risparmio netto è negativo. Ciò implica che non possono esserci sufficienti risparmi interni per acquistare il debito pubblico. Quest’ultimo, di conseguenza, deve essere necessariamente detenuto in dosi massicce da risparmiatori e istituzioni finanziarie esteri, visto che è anche proibito dalle regole europee che le banche centrali acquistino i titoli del debito pubblico sul “mercato primario”, cioè direttamente presso gli Stati nel corso delle aste, come invece avveniva una volta.
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Marco Revelli, “Turbopopulismo”
di Alessandro Visalli
Nell’epoca in cui austeri dizionari on line, come quello della Treccani, coniano termini come “sovranismo psichico”[1], riprendendo un Rapporto del Censis[2] ed avviando una polemica[3] ben meritata, l’illustre sociologo torinese Marco Revelli, di cui abbiamo già letto altro[4] si impegna in una damnatio di quel che identifica come un populismo 3.0.
Il libro del politologo e sociologo torinese (anzi cuneese) ex Lotta Continua e poi Bobbio boys[5], sembra interessante soprattutto per questo: è perfettamente espressivo dello spiazzamento della migliore cultura della sinistra italiana.
Una cultura che è forse di sinistra, ma certamente da lungo tempo completamente disancorata con la tradizione socialista[6], se pure nella radice dalla quale proviene l’ex ribelle fattosi pompiere torinese è mai stata connessa[7].
Ciò che accade nel presente a Revelli appare chiaro da un lato e completamente oscuro dall’altro. È in corso quella che chiama una “rivolta dei margini”, un ‘ribollire’ di periferie in fibrillazione (p.56). Svolgendo sotto questo profilo un’analisi simile nella descrizione, ma del tutto opposta nella presa di posizione, a quella che ad esempio abbiamo letto nel lavoro del geografo Guilluy[8], Revelli individua una precisa rappresentazione dell’inversione tra sinistra e destra negli esiti elettorali che dal 2016, sempre più chiaramente, si sono accumulati (Brexit, Trump, fino ai Gilet Gialli). Ma ritrova, proprio come Guilluy, una conferma anche nelle vittorie del centro, quella di Macron in Francia, che ottengono il successo esercitando una loro forma populista, come fece, peraltro Renzi nella sua breve parabola[9]. Quel che si sta verificando è dunque una rivolta, precisamente “dei margini”.
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Il risentimento bianco cresciuto dentro il declino neoliberista
di Paola Rudan
«Macerie del neoliberalismo»: così, nel suo ultimo libro (In the Ruins of Neoliberalism. The Rise of Antidemocratic Politics in the West, Columbia University Press, 2019), Wendy Brown definisce l’emergenza delle politiche antidemocratiche in Occidente, l’ascesa di movimenti e partiti di estrema destra e ultranazionalisti negli Stati Uniti e in Europa, la violenta politicizzazione dei valori della tradizione giudaico-cristiana che sostiene la guerra aperta contro le donne, le minoranze sessuali, i migranti. Per muoversi tra le macerie del neoliberalismo bisogna afferrare il senso del genitivo: la politica «sregolata, populista e brutta» della «destra dura» [hard-right] non è il residuo di un ordine politico e sociale andato in rovina, ma l’effetto di un discorso che radica la libertà del mercato in un sistema morale ostile a ogni pretesa di uguaglianza. È un effetto imprevisto almeno se, come fa Brown, si mettono a confronto la teoria neoliberale e il «neoliberalismo reale». È un effetto Frankenstein – la creatura che si ribella al suo creatore – del quale lei cerca di ricostruire la «razionalità» facendo un passo avanti rispetto al suo lavoro del 2015, Undoing the Demos. Non è più sufficiente considerare come il neoliberalismo «disfa il popolo» universalizzando la figura dell’homo oeconomicus e cancellando dalla scena l’homo politicus, il cittadino democratico. Bisogna dare conto, secondo Brown, del modo in cui esso ha alimentato la «cultura antidemocratica dal basso» che ha legittimato «forme antidemocratiche di potere statale dall’alto». Bisogna ricercare, all’interno dei termini del discorso neoliberale, il processo di «produzione di soggettività» che permette di spiegare la traumatica e insopportabile elezione di Donald Trump alla presidenza degli Stati Uniti d’America.
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Il buco nero dell’informazione globale
di Geraldina Colotti
I grandi media boliviani hanno accompagnato le manovre di Washington, che hanno tenuto nel mirino il “presidente indio” fin dal 2006
Alla domanda se fosse ancora possibile cambiare la Bolivia, il presidente in esilio Evo Morales, intervistato da Rafael Correa per RT, ha risposto: “Sì, ma bisogna avere i media dalla propria parte”. Come dargli torto? I suoi governi hanno cambiato il volto del paese, uno dei più poveri dell’America Latina, risollevandolo dal baratro in cui era precipitato negli anni di neoliberismo.
Tra ostacoli e conflitti che hanno mostrato la pervicacia del sistema oligarchico alleato di Washington, Evo è riuscito a realizzare le tre principali promesse della sua campagna elettorale: l’Assemblea costituente, la re-nazionalizzazione degli idrocarburi, e la riforma agraria. Molto più difficile, però, è stata la lotta contro il latifondo mediatico, pur prospettata dalla nuova costituzione che proibiva la concentrazione monopolistica.
L’ultimo rapporto dell’UNESCO, pubblicato nel 2016, indicava che oltre l’80% dei mezzi di comunicazione restavano nelle mani dei privati, e rilevava la coesistenza di “una minoranza di media comunitari, sindacali, confessionali e statali”. I giornali registrati erano circa 60, ma – indicava - quelli che “possono essere qualificati come grandi media sono: una decina di giornali privati, 7 reti televisive (una delle quali statale) e 4 reti radiofoniche (una statale)”.
I grandi media – rilevava ancora l’UNESCO – concentrano le loro attenzioni e la portata nelle tre città del cosiddetto “asse” boliviano: La Paz, Cochabamba e Santa Cruz, anche se le reti di radio e TV coprono varie zone del territorio nazionale, soprattutto dell’area urbana. I media si finanziano fondamentalmente con la pubblicità commerciale e con quella del governo, le cui risorse sono captate prima di tutto dalle reti televisive, seguite dai giornali più grandi e dalle reti radiofoniche.
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Su "Capital et idéologie" di Thomas Piketty
di Marco Codebò
In Capital et idéologie (Paris: Seuil, 2019) Thomas Piketty riprende l’analisi del capitalismo contemporaneo là dove l’aveva lasciata alla conclusione di Le Capital au XXI siècle (2013), quando constatava come le società del XXI secolo, sia nei paesi ricchi dell’OECD sia nel resto del pianeta, fossero caratterizzate da un’irrimediabile, crescente disuguaglianza di reddito e patrimonio. Questa volta, però, Piketty vuole spingersi più in là della lettura dei dati statistici. Il suo obiettivo è trovare una via d’uscita dalle lacerazioni create dalla disparità economica; lo fa nell’unico modo che considera possibile, attraverso una proposta di superamento del sistema che ha condotto alla presente situazione, il capitalismo. Superamento tuttavia non significa abbattimento, obiettivo che porterebbe all’atteggiamento millenaristico nel quale si sono consumate le energie di generazioni di militanti anarchici, socialisti e comunisti. Superare il capitalismo significa mantenerne in funzione l’istituzione per eccellenza, la proprietà privata, indirizzandola però non più all’arricchimento individuale ma alla crescita del bene di tutti. Si creerebbe così un sistema nuovo, in grado di sorpassare (dépasser) il capitalismo, di andare insomma più veloce, perché più efficiente nel creare ricchezza sociale.
La disparità sociale non l’ha, com’è ovvio, inventata il nostro tempo, anzi. Quello che però rende il presente diverso da altre epoche della storia è la maniera di giustificare la forbice della ricchezza, in altre parole la sua ideologia della disuguaglianza. Di ideologie, dei racconti con cui una società legittima le distanze di reddito e patrimonio, vuole appunto discutere Piketty. Lo fa partendo da un giudizio positivo sulle ideologie, che non sono menzogne fabbricate per nascondere la realtà ai subalterni, ma spiegazioni del mondo, narrazioni al cui interno le disuguaglianze trovano senso. Proprio perché storicamente le disuguaglianze non sono mai state semplicemente imposte, ma sempre giustificate, per chi voglia superare quelle del presente è utile tornare indietro nel tempo e studiare come le società del passato abbiano spiegato le loro.
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Ue: Draghi ha salvato i banchieri, non i lavoratori
di Thomas Fazi
La stampa mainstream e i leader europei hanno esaltato in Mario Draghi il salvatore dell’euro. Ma questo, non sorprendentemente, ha significato imporre ai governi misure di austerità in misura sempre maggiore e in modalità sempre meno democratica. In pratica la Banca centrale europea si è mossa all’opposto delle altre banche centrali: mentre queste sostengono i governi per aiutarli a praticare politiche espansive di sostegno all’economia, la BCE condiziona gli aiuti all’applicazione di misure di austerità sempre più rigide. Con un potere di ricatto che mette in discussione il concetto stesso di democrazia in eurozona. Il caso più eclatante è stato quello della Grecia. Da Jacobin.
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Quando il presidente della Banca centrale europea Mario Draghi ha lasciato l’incarico, il mese scorso, è stato ampiamente elogiato per “avere salvato l’euro”. Ma lo ha fatto a spese dei lavoratori, sfruttando la crisi per imporre un regime di austerità sempre più ineluttabile.
Quando il mandato di otto anni di Mario Draghi si è concluso, il mese scorso, i governanti europei hanno fatto a gara nel riversare sul presidente uscente della Banca centrale europea (BCE) un tributo di lodi ai confini del culto. Questa auto-adulazione d’élite ha sfiorato il ridicolo. Il presidente francese Emmanuel Macron ha elogiato Draghi per “averci passato il testimone dell’umanesimo europeo“. Il presidente italiano Sergio Mattarella lo ha ringraziato per avere reso “il sistema economico europeo più efficace“. L’ex amministratore delegato del Fondo monetario internazionale (FMI) Christine Lagarde – che ha preso il posto di Draghi come capo della BCE – ha esaltato il suo successo nel “garantire il futuro dell’eurozona e il benessere delle sue popolazioni“. Ma, soprattutto, Draghi è stato celebrato per “avere salvato l’euro“.
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Intervista a Carlo Formenti
di Vox Populi
Carlo Formenti, sociologo, giornalista e militante della sinistra radicale nasce a Zurigo il 25 settembre del 1947. Si laurea in Scienze Politiche a Padova. Negli anni ’70 milita nel Gruppo Gramsci sorto durante la disgregazione del Partito Comunista d’Italia mentre lavora, tra il 1970 e il 1974, come operatore sindacale della Federazione dei Lavoratori Metalmeccanici in cui ricopre il ruolo di responsabile per gli impiegati e i tecnici.
Dopo lo scioglimento del Gruppo Gramsci partecipa all’esperienza dell’Autonomia Operaia da cui si allontanerà progressivamente dopo la prima metà degli anni ’70.
Negli anni ’80 è caporedattore della rivista culturale Alfabeta e lavorerà per il Corriere della Sera e L’Europeo. In questo periodo pubblica libri molto interessanti come “La fine del valore d’uso” in cui analizza i mutamenti avvenuti nell’organizzazione del lavoro con l’introduzione delle nuove tecnologie. Il rapporto tra lavoro, democrazia e nuove tecnologie sarà portato avanti in “Mercanti di futuro. Utopia e crisi della Net Economy” e “Cybersoviet. Utopie postdemocratiche e nuovi media”. In “Felici e sfruttati. Capitalismo digitale ed eclissi del lavoro” si confronta con il lavoro cognitivo e lo sfruttamento nella società post fordista, elaborando un’analisi del plusvalore nella società digitale.
Negli ultimi anni ha pubblicato numerosi libri sul populismo, una sua possibile declinazione da sinistra e l’UE come “La variante populista. Lotta di classe nel neoliberismo” e “Il socialismo è morto. Viva il socialismo! Dalla disfatta della sinistra al momento populista”.
Segnalo inoltre “Tagliare i rami secchi. Catalogo dei dogmi del marxismo da archiviare” in cui si confronta con la tradizione teorica marxista.
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Formenti, dalla lettura dei suoi libri mi sembra di capire che cerca di leggere i conflitti dell’attuale società con il prisma del populismo. Parla di scontro tra alto e basso. Che legami ha la sua lettura con quella offerta in merito da Ernesto Laclau, grande filosofo marxista argentino vicino al peronismo di sinistra?
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Se accuso questo «J’accuse»
di Fabio Troncarelli
Sul bel film di Polanski, sul caso Dreyfuss, sullo sciagurato Harris, sui rasoi e sugli scriba-lecchini
Finalmente è uscito nelle sale il film di Polanski sul caso Dreyfus. Dico finalmente perché è stato giustamente molto apprezzato (da critici e pubblico a Venezia) e perchè effettivamente è molto bello. Polanski è uno dei pochi registi che sa fare ancora cinema, quello di una volta non il “birignao” dei patiti dei pupazzi animati. Però non è detto che gli riesca sempre tutto. Farlo notare non significa rompere le uova nel paniere per il gusto di farlo. Vediamo perché.
In originale il film si chiama «J’accuse» riprendendo il titolo di un famoso articolo di Emile Zola. In italiano si chiama invece «L’ufficiale e la spia» che riprende – in omaggio agli editori di libri sempre più assatanati di quattrini facili e sempre più a corto di idee originali – il titolo del best seller del giornalista e scrittore inglese Robert Harris da cui la pellicola è stata tratta. Il legame con il romanzo di Harris non è secondario: come ha scritto Mauro Donzelli: «sulle [sue] pagine era tutto descritto, inquadratura per inquadratura, gesto per gesto1». Ecco, il punto è proprio questo: per alcuni, come Donzelli, ciò significa che Harris è un genio «che meriterebbe più attenzione». Per altri invece, come me, Harris è una palla al piede che fa sprofondare il fim in una palude. Come del resto tutti i romanzieri che vogliono “romanzare” la storia e pretendono di ficcare la fiction dove non serve, anzi stona, come un attore che recita sopra le righe e aggiunge versi inutili a capolavori.
Una volta da ragazzo ebbi la disgrazia di vedere Romeo e Giulietta di Shakespeare nell’orrenda, catastrofica versione di un regista famoso: un bric-a-brac esagerato e sgangherato che intendeva solo imbambolare, ridurre a uno straccio l’innocente spettatore.
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Luca Ricolfi, “La società signorile di massa”
di Alessandro Visalli
Il libro di Luca Ricolfi, presidente della Fondazione Hume[1], che fa del dato uno scopo morale, è un testo a tema, costruito intorno ad un’aspra forzatura linguistica e un violento strattonamento, sia del linguaggio sia dei dati stessi. Un testo infarcito, anzi intessuto, di ideologismi e di autentici falsi, non numerosi ma decisivi. Alcune delle cose che scrive l’autore sono anche interessanti, alcune sono pezzi di verità, anche dolorosa, ma tutto è fondato su un’attitudine a far passare la descrizione del reale proposto per inevitabile stato del mondo ed il particolare come generale, il contingente come strutturale, la causa come effetto. I pensionati che sostengono i nipoti, in parte o in sostanza, in Italia sono solo il 14%, ovvero sono circa duemilioni, ovviamente da individuare nello strato più abbiente, dato che dei 17 milioni di pensionati 10 vivono con meno di 750,00 euro al mese, e l’importo medio erogato è di 1.100,00 euro al mese[2]. Il reddito lordo procapite è di 21.000,00 euro all’anno, sotto la media europea[3], ad onta dell’essere un paese con consumi di massa “opulenti”. Soprattutto gli “insoddisfatti” del proprio livello di reddito sono in Italia la metà della popolazione, con grandi differenze geografiche, dal minimo del 40% al Nord al quasi 70% nelle isole[4], e se si passa al giudizio sulla situazione familiare non è molto diverso, il 57% la giudica “adeguata” (63% al nord). Come si faccia, su questa base, a giudicare la società italiana una “società dei tre quarti” si spiega solo se i dati sono selezionati tra quelli presenti e le definizioni, come è, tra quelle degli anni che vanno dai settanta ai novanta e dalla letteratura della insorgenza neoliberista[5].
Tutto questo indicherebbe, naturalmente dando altri e ben selezionati numeri e stime, per Ricolfi una condizione “signorile di massa”. Una condizione che si associa ad una condizione “servile” di alcuni milioni di immigrati e di italiani in condizione di semi-povertà.
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“Venezia”
di Elisabetta Teghil
… e adesso s’è rivà el momento de dirghe basta e de cambià… Giudeca, canzone di Alberto D’Amico,1973
Ho passato a Venezia una parte di tutte le estati della mia vita fino a vent’anni. Poi i tamburi di rivolta sono stati coinvolgenti e totalizzanti e non c’è più stato spazio neanche per Venezia. Mi è rimasto per sempre stampato nelle mie sensazioni l’odore dell’acqua salsa dei canali, il rumore delle onde leggere che sbattono sulle rive, il risuonare dei passi, nella calli lontane dal turismo, della vita quotidiana di una città che va sempre a piedi. Ora, quando, per qualche motivo, ci torno mi ritrovo a camminare inconsapevolmente con piede leggero quasi a non volere pesarci su. Da anni ormai, Venezia è sommersa dall’acqua alta in maniera più violenta e continuativa che mai, la sua laguna è percorsa da navi da crociera più alte del campanile di San Marco per non parlare delle petroliere che vanno e vengono da Marghera, è invasa da masse debordanti di turisti. Ma al di là delle belle parole, delle frasi fatte e delle vesti stracciate, di Venezia non gliene importa niente a nessuno. Non importa niente ai politici locali e nazionali perché altrimenti in tutti questi anni avrebbero fatto ben altre leggi e preso ben altri provvedimenti, non importa ai turisti che si riversano in ondate, questa volta umane, incontenibili e che, se fossero coscienti di quello che fanno, a Venezia non ci dovrebbero venire, non gliene importa niente neanche alla maggior parte dei veneziani perché <fin che ghe semo noi, no che non va zò>. D’altra parte il capitalismo è un modello economico basato sul profitto e nella sua attuale fase neoliberista, caratterizzata da un delirio di onnipotenza, tutto è merce, il turismo è merce, le navi da crociera sono merce, il Mo.s.e. è business, Venezia è merce, è una gallina dalle uova d’oro e le faranno fare le uova d’oro finché non stramazzerà per terra.
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Il processo di cambiamento in Bolivia
Pensieri, autocritiche e proposte
di Pablo Solón
Questo è il momento della solidarietà e della mobilitazione contro il golpe in Bolivia e la sanguinosa repressione in corso. Ma ci sembra urgente anche non rimandare il momento dell'analisi e dell'autocritica. Come è possibile che un processo capace di coinvolgere profondamente grandi masse popolari e di raggiungere traguardi prima inimmaginabili sia crollato come un castello di carte, sprofondando il paese in una crisi senza soluzioni? Questo articolo ci sembra cominci a cercare delle risposte
Che cosa è successo? Come siamo arrivati fino a questo punto? Che fine ha fatto il processo di cambiamento che più di quindici anni fa conquistò la sua prima vittoria con la guerra dell’acqua? Perché un conglomerato di movimenti che volevano cambiare la Bolivia è rimasto invischiato in un referendum il cui fine era la rielezione di due persone nel 2019?[1]
Dire che tutto questo è opera della cospirazione imperialista è un’assurdità. L’idea del referendum per la rielezione non è venuta dalla Casa Bianca, ma dal Palacio Quemado.[2] Adesso è ovvio che l’imperialismo e tutta l’estrema destra approfittino di quell’errore enorme che è stata la richiesta di convocare un referendum per consentire la rielezione di due persone.
Il referendum non è la causa del problema, ma solo un altro dei suoi tragici capitoli. Il processo di cambiamento è sulla strada sbagliata ed è necessario riflettere al di là degli scandali della corruzione e delle menzogne, che, per quanto importanti, sono solo la punta dell’iceberg.
Quattro anni e mezzo fa ho lasciato il governo e da allora ho cercato di capire gli sviluppi possibili. Quello che succede in Bolivia non è qualcosa di unico. Dall’inizio del secolo scorso, diversi movimenti rivoluzionari, di sinistra o progressisti, sono arrivati al potere in vari paesi del mondo e, nonostante il fatto che molti di essi abbiano generato importanti trasformazioni, praticamente tutti hanno finito per essere cooptati dalle logiche del capitalismo e del potere.
In maniera molto sintetica, condivido qui alcune idee, autocritiche e proposte che spero contribuiranno a recuperare i sogni di un processo di cambiamento molto complesso e che non è proprietà di nessun partito o dirigente.
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Il Mes è la nuova «polizia dei mercati» europea
di Rolando Vitali
La riforma del Meccanismo europeo di stabilità, il cosiddetto Fondo salva-stati, mira a forzare in maniera ancora più violenta i paesi debitori a nuove privatizzazioni e politiche di austerity. È così che si fomentano i nazionalismi
Col sorgere dell’indebitamento dello Stato, al peccato contro lo spirito santo, che è quello che non trova perdono, subentra il mancar di fede al debito pubblico.
Karl Marx, Das Kapital
…gli individui sono ora dominati da astrazioni.
Karl Marx, Grundrisse (1857-58)
Nel dibattito pubblico italiano si sente parlare spesso della riforma del famigerato Meccanismo europeo di stabilità (Mes), ma pochi commentatori spiegano di che cosa si stia discutendo precisamente e che cosa sia realmente in gioco.
Che cos’è il Mes?
Si tratta del cosiddetto Fondo salva-stati: quel fondo europeo che dovrebbe tutelare la stabilità finanziaria dell’Eurozona, garantendo una copertura adeguata in caso di crisi debitoria da parte di uno degli stati membri. Il processo di riforma del Mes, di cui si parlava da tempo, si è concretizzato lo scorso giugno ottenendo un primo via libera informale, mentre l’approvazione definitiva dovrebbe avvenire il prossimo 12 dicembre. Il fondo è già attivo dal 2012 e serve a dare assistenza finanziaria ai paesi in cambio di «riforme» che, sostanzialmente, prevedono la solita ricetta in stile Fmi: tagli alla spesa pubblica, privatizzazioni, flessibilizzazione del mercato del lavoro, aumento dell’età pensionabile ecc.
La cosa interessante di questo meccanismo di «protezione» dall’instabilità finanziaria, è che può funzionare anche in maniera inversa: vale a dire, non tanto per «difendere» dall’instabilità, ma per forzare i paesi a prendere determinate decisioni politiche, proprio mettendoli davanti a un aumento dell’instabilità finanziaria.
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Di alcuni motivi in Walter Benjamin
di Paolo Vernaglione Berardi
Walter Benjamin, Scritti autobiografici, tr. it. Carlo Salzani, Neri Pozza editore – La Quarta Prosa, 2019, pp. 541 – €. 30,00.
1. Felicità in un libro
Un dono è arrivato nelle librerie. È l’edizione italiana del VI volume degli scritti (Gesammelte Schriften 1985) di Walter Benjamin, intitolata Scritti autobiografici. Nella collana La Quarta Prosa, diretta da Giorgio Agamben per Neri Pozza e nella ineccepibile traduzione di Carlo Salzani, la raccolta di testi e diari che coprono gli anni 1906-1939 apre una necessaria distanza nell’interpretazione, che potrebbe marcare una discontinuità rispetto all’attuale trend pubblicistico ed ermeneutico dell’opera benjaminiana.
In questa eventualità consiste d’altra parte il primo degli aspetti significativi di questo testo che, nella sequenza di note e saggi editi, come i famosi Diario moscovita e Infanzia berlinese intorno al millenovecento, e inediti, come la Cronaca berlinese, riduce la frammentazione editoriale dell’opera di Benjamin, riportandola in qualche modo all’epoca della prima realizzazione italiana presso Einaudi tra i primi anni Ottanta e la metà degli anni Novanta.
Che sia proprio la raccolta di testi autobiografici, per natura idiosincratici alla pubblicazione, ad indicare un movimento inverso rispetto all’attuale fortuna critica di un’opera infinita è uno di quei paradossi editoriali spiegabili con motivi che non hanno a che fare con strategie editoriali e operazioni di marketing ma con un senso che eccede la disinvoltura con cui Benjamin è ‘usato’. Questi motivi risiedono nel senso delle costellazioni epocali di cui l’autore delle Tesi sul concetto di storia affermava che si rendono intelligibili solo ad una certa scadenza temporale.
D’altra parte il desiderio di vedere comparire testi di Benjamin in un presente inattuale proviene meno dalla snobistica volontà di rendere arduo uno dei pensieri più luminosi e acuminati del lungo XX secolo che dal bisogno di silenzio intorno a quel pensiero dirompente.
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La scuola delle competenze?
di Alessandro Pascale
Si è svolto il 14/11/2019 alla Casa della Cultura di Milano un incontro sul tema “Una scuola senza cultura e senza conoscenza? Dalla cancellazione del tema di storia a quella delle discipline”, relatori i docenti Giovanni Carosotti, Vittorio Perego, Marco Cuzzi (UNIMI, Milano), Lucio Russo (Uni Tor Vergata, Roma)
La storia sotto attacco e i progetti ministeriali
Mentre inizia a parlare, Carosotti mostra una dichiarazione dell'Associazione Nazionale Presidi (ANP): “Scuola senza materie, la sfida della scuola del futuro”. Una follia, eppure Andrea Gavosto, presidente della Fondazione Agnelli sulla Stampa porta avanti periodicamente questa campagna, senza contraddittorio. Secondo Carosotti l'abolizione del tema di storia non è parte di una politica disciplinare ma rientra nell'ambito di un progetto sistematico che va avanti da 25 anni e la cui ultima tappa è la modifica dell'esame di Stato che fa sparire di fatto l'interrogazione sui contenuti disciplinari. I dirigenti ora tendono a imporre ai dipartimenti le programmazioni per macro-argomenti (UDA), che insistono nell'indicazione delle “competenze” più che sui contenuti, suggerendo di ridurre al minimo le lezioni frontali in classe da parte del docente. È la trasformazione delle discipline in discipline trasversali. Che dire poi dell'ultima uscita del ministro Fioramonti che propone di introdurre la “educazione ambientale”? Carosotti spiega che è una cosa che si fa già di fatto, a partire dalle materie coinvolte. Riguardo all'insegnamento di storia e filosofia le indicazioni ministeriali sono portate a vederle come qualcosa che fornisce “pillole”, “spunti per gli studenti”. Quali sono le conseguenze sul lungo periodo per studenti che non conoscono argomenti non trattati dal docente perché non inseribili nelle UDA?
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L’incubo del Mes sul nostro prossimo futuro
di Francesco Piccioni
Ci scuserete se torniamo ancora sulla “incredibile” vicenda del Mes, il Meccanismo europeo di stabilità, che sta per essere approvato tra pochi giorni da tutti i membri dell’Unione Europea. In fondo, riguarda “soltanto” il brutto futuro che attende tutti noi (meno qualcuno). Però vi tranquillizziamo: questa volta non parleremo di “tecnica economica”, ma di politica. A un livello speriamo superiore rispetto alle sciocchezze che ci propina quotidianamente l’informazione mainstream.
Che cosa contenga il Mes, infatti, lo abbiamo già analizzato più volte, ricevendo ogni giorno nuove conferme anziché smentite. In estrema sintesi, è un sistema di regole da applicare in modo pressoché automatico che “convince” – contando sulle normali dinamiche del mercato finanziario – i capitali a fuggire dall’Italia e altri paesi con un forte debito pubblico per indirizzarsi verso le banche tedesche, francesi, olandesi. Le quali hanno problemi assai gravi e rischiano di saltare nei prossimi mesi o al massimo pochi anni. Per funzionare davvero c’è bisogno che venga approvata anche l’implementazione dell’unione bancaria europea, secondo la proposta avanzata ancora una volta dalla Germania tramite il ministro delle finanze Olaf Scholz.
Una volta chiuso il cerchio, il ministero del Tesoro avrebbe difficoltà immense per piazzare i titoli di Stato sul mercato e contemporaneamente le banche avrebbero una tale necessità di capitali da chiudere i rubinetti dei prestiti a famiglie e imprese (oltre a vendere i titoli di Stato italiani, contribuendo così alla caduta del prezzo, all’aumento degli interessi da pagare e a un buco supplementare nei propri bilanci). Una gelata di lungo periodo sull’economia reale che arriverebbe (arriverà) dopo oltre un decennio di crisi-stagnazione.
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Dall’odio del “manifesto” al manifesto dell’odio
Quando le colori,le sardine vanno a male
di Fulvio Grimaldi
Che ci fanno Bill Gates, Ted Turner e George Soros con Extinction Rebellion?
“Non siamo contro il Sistema” (I fondatori delle “Sardine” toscane: Danilo Maglio, Cristiano Atticciati, Matilde Sparacino, Benard Dika)
Una cosa è certa: questo PD degli Zingaretti, Marcucci, Lotti, Orfini, Guerini, non è mai stato in grado e non lo sarà mai di produrre una mobilitazione di massa, estesa sul territorio, come quella oggi in atto con le “sardine”. Per quanto possa poi risultargli favorevole nel voto. Chi sa dar vita a fenomeni del genere, solitamente effimeri, ma di grande impatto momentaneo grazie alla sinergia con un sistema mediatico controllato dagli stessi che innescano tutte le rivoluzioni colorate. Di cui sono una manifestazione le “sardine”, assieme ad altre analoghe, nelle loro più recenti invenzioni improntate a un odio sconfinato per coloro che dannano come odiatori. Sono tutti quelli che escono dal seminato, ossia non condividono, non si assoggettano, si permettono dissensi nei confronti del Sistema. Che è un nome asettico per non dire establishment, o élite, o Cupola, o padroni del mondo.
Infatti cosa proclamano in primo luogo e come caposaldo politico-ideologico i capibranco “sardine” di Firenze? “Non siamo contro il Sistema”. Non sono, quindi, contro coloro che il Sistema lo disegnano, attuano, reggono: i dominanti. Ne consegue, forzando neanche tanto: noi siamo con il Sistema, magari un tantinello critici (ma tutto scompare nell’odio per Salvini e il populismo), con l’establishment, con il Deep State, l’élite, l’UE, la Nato, la Green New Economy integrata dal catastrofismo ambientale, con l’annullamento delle identità e lo sradicamento dei popoli, con ogni criminalità organizzata, ogni forma di terrorismo, con il capitale che tutti ci governa e cui sono connaturati il totalitarismo di comunicazione e sorveglianza, le guerre sociali, economiche e militari.
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