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La Terza guerra dell'oppio avanza
di Stefano G. Azzarà
La Terza Guerra dell'oppio avanza
2 4 2022
Guerra difensiva e resistenza ucraina o guerra imperialista globale di lunga durata?
Questa non è una guerra difensiva e non si svolge solo in Ucraina. È la guerra - già in corso dal 1990, in atto su un teatro globale e dall'andamento a tappe - degli Stati Uniti contro la Russia ma anche contro l'Europa e contro lo stesso genere umano. È una guerra che si inscrive in un progetto di ricolonizzazione del mondo e di rilancio dell'imperialismo americano. E' la guerra che non si ferma davanti a niente e che mette in conto il ricorso alle armi atomiche. Ed è la guerra che precede e prepara (anche sul piano della dottrina strategica e della messa a punto della propaganda domestica) quella contro la Cina, che avverrà con il pretesto di Taiwan o dei diritti umani nello Xingjang. E' dunque una sorta di Guerra dell'oppio postmoderna, che vede l'Occidente coalizzato per imporre la "libertà" di commerciare le proprie merci ai prezzi fissati e lo sfruttamento del resto del mondo.
A questa guerra i governanti dell'Ucraina si sono prestati - e del resto sono stati messi là e armati preventivamente fino ai denti proprio a tale scopo - consapevoli che questo sacrificio guadagnerà a loro il Nobel e al loro paese la cooptazione in Occidente, tra le democrazie liberali, tra i popoli bianchi.
La popolazione ucraina ne fa le spese in maniera più tragica e diretta, quella europea ne fa le spese in maniera più indiretta, svenandosi per finanziare il conflitto e la ripresa negli USA.
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Per Washington, la guerra non finisce mai
di Diana Johnstone*
Continua ancora e ancora. La “guerra per farla finita con tutte le guerre” del 1914-1918 portò alla guerra del 1939-1945, detta Seconda Guerra Mondiale. Questa non è ancora finita, principalmente perché per Washington, è stata una Guerra Buona, è la guerra che ha reso possibile il Secolo Americano : perchè no, ora ad un Millennio Americano ?
Il conflitto in Ucraina può essere la scintilla di quello che già adesso si comincia a chiamare la Terza Guerra Mondiale.
Non si tratta di una guerra nuova. È la stessa guerra che abbiamo già visto, un’estensione della Seconda Guerra Mondiale, che non fu la stessa per tutti coloro che ne presero parte.
La guerra russa e la guerra americana furono molto, molto differenti.
La Seconda Guerra Mondiale della Russia
Per i russi, la guerra fu un’esperienza di gigantesche sofferenze, lutti e distruzioni. L’invasione nazista dell’Unione Sovietica fu spietata in modo estremo, spinta da un’ideologia razzista di spregio per gli slavi e di odio nei confronti dei “bolscevichi ebrei”. Si stimano in 27 milioni le vittime russe di quel conflitto, due terzi delle quali civili. Nonostante soverchianti perdite e patimenti, l’Armata Rossa riuscì a rovesciare la direzione di marcia della marea nazista che aveva ormai soggiogato gran parte dell’Europa.
La gigantesca lotta per spingere gli invasori tedeschi fuori dalle loro terre è conosciuta dai russi come la Grande Guerra Patriottica ed ha alimentato un orgoglio nazionale che ha aiutato il popolo a consolarsi delle terribili vicende che era stato costretto ad attraversare. Nonostante l’orgoglio per la vittoria, gli orrori della guerra ispirarono al paese un sincero desiderio di pace.
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Momento populista e rivoluzione passiva
di Carlo Formenti
In varie occasioni ho definito il populismo come la forma che la lotta di classe ha assunto da quando la controrivoluzione liberista ha sconfitto le classi lavoratrici, annientandone l’identità socioculturale e inibendole la possibilità di rappresentare politicamente i propri interessi. Questa definizione è stata erroneamente interpretata come una legittimazione “ideologica” del populismo, benché chi scrive abbia sempre sostenuto che il populismo non è né è mai stato un’ideologia; sia perché non esiste un corpus teorico e ideologico condiviso dai movimenti populisti, sia perché gli sforzi di definire elementi comuni a tutti i movimenti populisti del passato e del presente non hanno prodotto altro che degli “idealtipi” inadeguati a cogliere la complessità del fenomeno. Dire che il populismo è la forma in cui oggi si manifesta la lotta di classe non implica attribuirgli connotati positivi. Chi ritiene che il conflitto di classe abbia sempre e comunque valenza progressiva dimentica che le idee dominanti sono sempre quelle delle classi dominanti, ed è per questo che, in assenza di un progetto politico controegemonico, ogni moto sovversivo tende a risolversi in una “rivoluzione passiva” che cavalca le lotte delle classi subalterne per rivolgerle contro i loro stessi interessi. Dal momento però che non penso neppure che il populismo sia di per sé un fenomeno regressivo, necessariamente destinato ad assumere connotati “di destra”, le mie tesi sono state impropriamente associate a quelle del filosofo argentino Ernesto Laclau.
Laclau sostiene che la diffidenza e il disprezzo nei confronti del populismo è un riflesso – apparentemente anacronistico - della paura delle oligarchie tardo ottocentesche nei confronti dell’irruzione delle masse sulla scena del conflitto politico: paura della democrazia insomma.
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La Russia sta perdendo la guerra dell'informazione?
di Laura Ruggeri - Strategic Culture
Il 10 marzo, quando il direttore della CIA Bill Burns si è rivolto al Senato degli Stati Uniti e ha dichiarato che "la Russia sta perdendo la guerra dell'informazione sull'Ucraina", ha ripetuto un'affermazione che era già stata amplificata dai media angloamericani dall'inizio delle operazioni militari russe in Ucraina. Sebbene la sua affermazione sia effettivamente vera, non ci dice perché e riflette principalmente la prospettiva dell'Occidente. Come al solito la realtà è molto più complicata.
L'abilità nella “guerra dell'informazione” degli Stati Uniti non ha eguali: quando si tratta di manipolare le percezioni, produrre una realtà alternativa e conseguentemente armare le menti del pubblico, gli Stati Uniti non hanno rivali. Anche la capacità, da parte degli USA, di dispiegare strumenti di potere non militari per rafforzare la propria egemonia e attaccare qualsiasi stato intenda metterla in discussione, è innegabile. Ed è proprio per questo che alla Russia non è rimasta altra scelta che quella dell'utilizzo dello strumento militare per difendere i propri interessi vitali e la propria sicurezza nazionale.
La guerra ibrida - e la guerra dell'informazione come parte integrante di essa - si è evoluta nella dottrina standard degli Stati Uniti e della NATO, ma non ha reso la forza militare ridondante, come dimostrano le guerre per procura. Con capacità di guerra ibrida più limitate, la Russia deve invece fare affidamento sul suo esercito per influenzare l'esito di uno scontro con l'Occidente che Mosca considera esistenziale. E quando la propria esistenza come nazione è a rischio, vincere o perdere la guerra dell'informazione nel metaverso occidentale diventa piuttosto irrilevante. Vincere a casa e assicurarsi che i propri partner e alleati comprendano la posizione e la logica dietro le proprie azioni ha, inevitabilmente, la precedenza.
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PNRR: una, nessuna o cinquecentoventotto condizioni
di coniare rivolta
Abbiamo provato a delineare quali sono alcune delle principali condizioni che l’Italia si è impegnata a soddisfare per avere accesso ai fondi del Recovery Fund. Ci eravamo però lasciati senza finire il discorso, che purtroppo ha ulteriori aspetti dirompenti e preoccupanti.
Per il profitto privato, il PNRR è anche un’occasione d’oro per consumare qualche vendetta, come quella sul referendum per l’acqua pubblica del 2011, quando 26 milioni di italiani sancirono la natura pubblica di questo bene di prima necessità e della sua gestione. Tra le condizioni da rispettare per il prossimo dicembre, infatti, si legge anche di una “Riforma del quadro giuridico per una migliore gestione e un uso sostenibile dell’acqua”, una misura “per garantire la piena capacità gestionale per i servizi idrici integrati”. Basta approfondire la documentazione del PNRR per scoprire che questo significa “rafforzare l’industrializzazione del settore favorendo la costituzione di operatori integrati, pubblici o privati e realizzando economie di scala per una gestione efficiente degli investimenti e delle operazioni”. Ecco che la prima tranche di Recovery Fund diventa un grimaldello per riformare la normativa sulla gestione dell’acqua favorendone la privatizzazione, affermando un modello di multiutility (da qui l’enfasi sulla natura integrata del servizio) che calpesta il diritto all’acqua per garantire l’accumulazione di profitti e rendite monopolistiche (da qui, invece, l’enfasi sulle economie di scala).
La foga liberalizzatrice e privatizzatrice del PNRR non si ferma, ovviamente, qui. Ci siamo, infatti, impegnati a riformare i dottorati “al fine di coinvolgere maggiormente le imprese e stimolare la ricerca applicata”, con lo scopo di “semplificare le procedure per il coinvolgimento di imprese e centri di ricerca e rafforzando le misure per la costruzione di percorsi di dottorato non finalizzati alla carriera accademica”.
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La critica marxiana del misticismo logico hegeliano e la critica antirevisionista del feticismo democratico
di Eros Barone
La fortuna del giovane Marx e il suo uso revisionista
Gli opportunisti del nostro tempo ripetono cose che i revisionisti della Seconda Internazionale avevano già scoperto. Per questo le critiche che Lenin fece ai Kautsky, ai Vandervelde, agli Otto Bauer, colpiscono giusto anche oggi. Anzi, come oggi il riformismo ha accentuato la sua funzione di agente del capitalismo e dell’imperialismo in seno alla classe operaia, nel senso che questo legame è diventato diretto e immediato, così ha perso in gran parte quella capacità teorica che distingueva pur sempre i revisionisti dell’epoca di Lenin. Oggi la mistificazione della essenza rivoluzionaria del marxismo è più grossolana e assai meno ‘dialettica’ di un tempo.
Per quanto concerne le opere giovanili di Marx e, segnatamente, la Critica della filosofia hegeliana e i Manoscritti economico-filosofici del 1844, occorre rilevare innanzitutto che esse sono state edite soltanto nei primi decenni del ventesimo secolo, cioè in un periodo in cui il marxismo si identificava praticamente con l’Internazionale Comunista e con la dittatura del proletariato in Unione Sovietica. Immediatamente, fin da quegli anni, e poi ancora più clamorosamente in séguito, il “giovane Marx” ebbe una fortuna insospettata in Europa occidentale e particolarmente in Germania. Intorno al 1930 il giovane Marx fu preda degli intellettuali socialdemocratici e non marxisti, che lo usarono in funzione anticomunista e antisovietica. Accadde così che per combattere la concezione, allora dominante (grazie alla grandiosa opera di Lenin e, poi, di Stalin) del marxismo come scienza e del socialismo come movimento rivoluzionario tendente ad instaurare la dittatura del proletariato, fu “scoperto” un Marx “umanista”, “democratico”, “storicista”, “moralista”. Il terreno favorevole a questa operazione, del resto, era già stato inconsapevolmente preparato con successo negli anni Venti dall’“ultrasinistrismo” di filosofi (“piccolo-borghesi”, secondo il giudizio di Stalin) come György Lukács e Karl Korsch, che avevano teso a sottolineare gli aspetti soggettivistici, volontaristici, antipositivistici, del pensiero marxiano.
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Sulle conseguenze economiche della guerra
di Domenico De Simone
Si discute molto in questi giorni oscuri delle conseguenze economiche delle sanzioni, sia per la Russia che per i paesi europei e anche, di riflesso per il resto del mondo. C’è una narrazione occidentale che esalta l’efficacia delle sanzioni prese nei confronti della Russia perché si ritiene che l’economia russa ne sarà violentemente condizionata almeno a medio termine. Si rileva anche che, tuttavia, anche i paesi europei che più dipendono dalle forniture di gas e petrolio russi, dovranno fare sacrifici nei prossimi mesi ma che la diversificazione delle fonti di approvvigionamento riuscirà a sostituire queste forniture, mentre la Russia è destinata a un arretramento economico e sociale irreversibile perché non le sarà più consentito vendere in Europa e quindi nemmeno rifornirsi di tecnologia e di beni di provenienza europea. Insomma, grazie a qualche sacrificio, l’Europa sarà in grado di superare ogni problema in breve tempo, mentre per la Russia si prospetta un futuro di fame e di povertà crescente in cui l’ha piombata la guerra insensata voluta da Putin. Peccato che questa narrazione si alimenti della presunzione occidentale di essere indispensabile per chiunque e di avere ragione sempre e comunque. Le cose, da un punto di vista strettamente economico, stanno in maniera un po’ diversa.
Non c’è dubbio che le sanzioni colpiscano la Russia e che lo stile di vita dei russi dovrà fare a meno nel prossimo futuro di McDonald, Prada, Mercedes, spaghetti made in Italy, ma anche di componenti importanti per l’industria di estrazione, di produzione e anche dell’industria bellica. Tuttavia, le prospettive per la Russia non sono poi così nere.
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Il nuovo disordine mondiale / 9: la guerra nell’era del totalitarismo neoliberale
di Gioacchino Toni
«Quel Novecento che aveva visto il susseguirsi di guerre mondiali e totalitarismi, lo spreco incommensurabile di un’inutile corsa agli armamenti, il proliferare di autoritarismi e rivoluzioni fallite, con l’happy ending del “trionfo della democrazia”, aveva creato l’illusione che l’umanità e i governi che pretendono di rappresentarla potessero dimostrare, anche grazie agli straordinari progressi tecnologici e all’immensa ricchezza circolante, una maggiore capacità di costruire la pace, per non ripetere gli errori tragici del passato. E invece tutto ciò che la mia generazione è riuscita a fare è stato trasmettere ai propri figli soltanto una diversa civiltà della guerra»
Fabio Armao
Nel recente volume di Fabio Armao, La società autoimmune. Diario di un politologo (Meltemi 2022), viene analizzata l’ingarbugliata trama del potere che contraddistingue la contemporaneità: un “totalitarismo neoliberale” che, al di là delle differenti sembianze che assume – mafie, gang, neofascismo, finanza underground, capitalismo clientelare, femminicidio, ecocidio e persino, come si vedrà, privatizzazione della guerra – ha, secondo l’autore, nella rinascita del clan la struttura di riferimento del sistema sociale.
Tale convincimento, attorno a cui ruota il volume, si inserisce all’interno di una più generale riflessione a cui Armao ha dedicato due suoi precedenti testi: L’età dell’oikocrazia (Meltemi, 2020) [su Carmilla] e Le reti del potere (Meltemi, 2020). Secondo lo studioso la struttura del clan, in grado com’è di interporsi tra individui e istituzioni e di mediare tra locale e globale, risulterebbe particolarmente adatta alla gestione della globalizzazione neoliberale nel suo imporre gli interessi economici privati sull’interesse politico pubblico. Si tratterebbe dunque di una “oikocrazia”1 assurta a modello universale capace di adattarsi sia alle esigenze dei regimi democratici che a quelle delle autocrazie.
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Rileggere «Operai e capitale»
di Mario Tronti
Nel 2006, a quarant’anni di distanza dalla prima edizione, DeriveApprodi ha ripubblicato Operai e capitale di Mario Tronti. Mercoledì 31 gennaio 2007, presso la facoltà di Scienze politiche della Sapienza di Roma, DeriveApprodi e la Rete per l’autoformazione hanno organizzato un convegno su quello che è, senza dubbio, il testo fondamentale dell’operaismo politico italiano. In quella straordinaria occasione di dibattito sono intervenuti Alberto Asor Rosa, Rita di Leo, Toni Negri, Brett Neilson. Pubblichiamo oggi la relazione di Tronti, capace di mettere – come recitava il sottotitolo del convegno – lo stile operaista alla prova del presente.
* * * *
Passato questo anniversario dei quarant’anni di Operai e capitale, dovremmo tornare a un discorso più specifico e, se volete, scientifico dell’operaismo. Vorrei spendere alcune parole per rispondere alla domanda: perché ancora l’operaismo malgrado l’assenza delle condizioni che l’hanno originato e prodotto? Tali condizioni si possono sommariamente riassumere nel neo-capitalismo industriale, con cui per la prima volta ci si confrontava in Italia, e oggi decaduto; nella fase fordista, anch’essa archiviata; in un ciclo di lotte operaie che hanno investito il paese nei primi anni Sessanta, con al centro la figura dell’operaio-massa. Credo che oggi il passaggio, ormai avvenuto, dalla centralità alla marginalità non riguarda solamente l’operaismo. Questo passaggio riguarda anche il capitale. Nel senso proprio del Das Kapital marxiano, come lo intendeva Marx ma anche come lo intendevamo noi: il capitale cosiddetto sociale, o il piano del capitale come si diceva nei «Quaderni rossi». Come gli operai, così anche questa forma di capitale è diventata da centrale a marginale. La lotta era lotta di classe tra due centralità: ognuna aveva il proprio campo e il proprio blocco sociale, ognuna era centrale nella propria parte.
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La guerra nella guerra
di Militant
Il precipitare della situazione ucraina dopo l’invasione da parte della Russia dello scorso 24 febbraio ha scompaginato gli equilibri internazionali determinando una ridefinizione dei campi a livello internazionale e, di riflesso, anche alle nostre latitudini. Senza entrare nel merito di una questione complessa, che andrebbe trattata in termini generali nelle sedi opportune e che potremmo sintetizzare come la certificazione dell’irreversibile emersione di un mondo multipolare in sostituzione di quello a guida del “poliziotto americano”, appare sempre più difficile eludere una serie di questioni che, almeno tra chi non si è accorto il mese scorso che alle porte d’Europa si stava per determinare una situazione esplosiva provocata dalla strutturale crisi in cui l’imperialismo è precipitato, dovrebbero essere sciolte.
Diciamo un’ovvietà – guardando al mondo dei compagni – se ricordiamo che questo conflitto ha radici profonde e non è di certo imputabile a quella che la narrazione personalistica delle più grandi testate giornalistiche (per altro con interessi diretti nel riarmo dell’Europa come notavamo sui social in questi giorni) imputano alla follia di un pazzo – ovviamente Putin – o ai deliri imperial-sciovinisti di una ex-potenza mondiale declassata a potenza regionale come la Russia. Quella che oggi è guerra dispiegata nel cuore d’Europa è infatti stata per otto anni un massacro a bassa intensità per le popolazioni russofone del Donbass e della zona orientale dell’Ucraina. Un massacro che ha prodotto all’incirca 14.000 morti frutto di un martellamento incessante da parte di quella che oggi viene ribattezzata in blocco come la “resistenza” ucraina.
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L’economia della guerra permanente
di Andrea Fumagalli
Nel messaggio che Mario Draghi ha rilasciato il giorno prima del summit europeo di Versailles, l’11 marzo scorso, si affermava: “L’Europa e l’Italia non sono in una fase di “economia di guerra”, ma il “futuro preoccupa” e “bisogna prepararsi”.
In realtà siamo già in un’economia di guerra. Tale termine implica l’adozione di “misure di politiche economiche al fine di adeguare il sistema economico nazionale alle esigenze che derivano dalla partecipazione dello Stato ad un evento bellico”.
La definizione citata fa ovviamente riferimento ad un reale stato di guerra militare, con morti, bombardamenti, profughi, ecc. – come sta avvenendo in questi giorni in molte città dell’Ucraina.
Ma negli ultimi decenni la metafora della guerra si è estesa e la logica economica sottostante è diventata parte della nostra vita, sino al punto di poter affermare che viviamo in un’economia di guerra: un’economia di guerra, che, senza andare troppo indietro nella storia, ha cominciato a diffondersi quando è entrato in crisi il paradigma fordista e il dualismo tra i blocchi Usa-Urss. La guerra economica, come la guerra sanitaria, è oramai una costante, mentre il ricorso alla guerra militare, pur cresciuto all’indomani del crollo dell’URSS e dello scioglimento del patto di Varsavia, è un’ultima ratio.
La logica tuttavia è più o meno la stessa. Guerra è sinonimo di distruzione e a ogni distruzione segue una ricostruzione, cioè si devono creare le condizioni per una nuova accumulazione capitalistica. Se la guerra può prescindere dal capitalismo, il capitalismo non può fare a meno dalla guerra. La guerra, la moneta e lo Stato sono forze ontologiche, cioè costitutive e costituenti, del capitalismo e le guerre (e non La guerra) sono da intendersi come il principio di organizzazione della società (Eric Alliez, M. Lazzarato, Guerres et capital, Ed. Amsterdam, Paris, 2016).
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Riflessioni sul programma minimo e su un movimento politico organizzato[1]
di Enzo Gamba e Francesco Schettino
Riceviamo e volentieri pubblichiamo come spunto di dibattito alcune importanti riflessioni sulla necessità di trasformare l'enorme dissenso sociale presente in Italia in un movimento politico organizzato che sappia rappresentarlo degnamente
Sarebbe ingeneroso nei confronti di tutte le compagne e i compagni non tener conto del grande impatto pratico ed emotivo che hanno avuto gli eventi collegati alla lunghissima pandemia nell’ultimo biennio abbondante, così come le vicende belliche contemporanee. È vero, e facciamo bene a riconoscerlo, che ne siamo usciti tutti con le ossa più frantumate di quanto non lo fossero prima. Per quanto le nostre conoscenze ci abbiano tenuto al riparo da danni ancora maggiori – rinvenibili in tutto mondo – due anni abbondanti di stato emergenziale ci hanno resi probabilmente più deboli. Le nostre iniziative vedono sempre meno adesioni, il coinvolgimento di larghi settori delle classi più povere e subalterne è ancora più arduo e il clima di angoscia e sfiducia di certo non rende più semplice il nostro lavoro.
Tuttavia, queste considerazioni non possono agire da pretesto per limitare la nostra azione o addirittura per decidere che non c’è più nulla da fare. Al contrario questi fenomeni, diffusissimi in ogni angolo della nostra società, sono assai utili per comprendere la misura di quanto, in una fase di crisi perdurante come quella che viviamo, il nostro ruolo sia ancora più centrale, nonostante la sostanziale invisibilità che ci viene ormai concessa.
Sono tanti i presunti tentativi di riunificazione alla sinistra del PD, come ce ne sono stati tanti nel passato e probabilmente altrettanti ce ne saranno nel futuro. Nonostante le buone intenzioni si tratta troppo spesso di fusioni “alle proprie condizioni” che determina rapidamente un deteriorarsi dei rapporti interni e dunque la pressoché immediata interruzione di percorsi, di fatto, mai iniziati. Tuttavia, non possiamo che cogliere con favore le aggregazioni di vasti settori popolari attorno alle iniziative degli operai Gkn (Insorgiamo tour) il cui lavoro è al contempo originale ed encomiabile e della nuova formazione istituzionale che ha visto la nascita di un nuovo soggetto, ManifestA, che unisce PRC e Potere al Popolo!, nella Camera dei deputati.
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La scomparsa delle fabbriche? Appunti sui cambiamenti nella geografia di classe in Italia
di Carlotta Caciagli, Gianni Del Panta
L’idea che non esista più la classe operaia è diventata da anni pervasiva, anche a sinistra. Ciò nonostante la classe operaia viene chiamata in causa spesso: per spiegare la vittoria di Trump, la Brexit oppure l’avanzata della Lega di Salvini. Grazie all’utilizzo di un approccio spaziale, questo articolo mostra come ciò che è stato etichettato come la scomparsa della classe operaia sia in realtà un processo di riorganizzazione della struttura di classe in Italia, socialmente e geograficamente. A differenza del recente passato, quando le grandi fabbriche fordiste si concentravano nelle aree urbane delle principali città del nord-ovest, la manifattura ha prevalentemente sede oggi nelle aree semi-urbane delle città di provincia del nord-est e di alcune zone del centro. Questa, come altre trasformazioni, hanno decretato un’accresciuta centralità del settore logistico, dove alcune delle più significative vertenze si sono sviluppate negli ultimi anni. Più in generale, i cambiamenti del tessuto produttivo e della sua geografia interrogano l’azione degli anticapitalisti, chiamati a “decolonizzare” la propria azione militante oltre le aree urbane delle principali città.
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Introduzione
In un articolo pubblicato su Il Fatto Quotidiano nell’ottobre del 2020, Paolo Ferrero, segretario di Rifondazione Comunista dal 2007 al 2017 e attualmente uno dei massimi esponenti di quel partito, dava notizia di un convegno a Torino sulle ragioni della rivolta operaia del 1969–70, a cinquant’anni di distanza da quegli eventi. Secondo Ferrero, per quanto lo sfruttamento dei lavoratori sia brutale oggi come allora, un paragone sarebbe però impossibile.
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Si svuotino gli arsenali
di Piotr
Ospito volentieri questo nuovo intervento dell'amico Piotr sulla guerra in corso. Anche se, questa volta, non mi sento di condividere al 100% ciò che scrive
Intendiamoci: non si può che provare empatia per il suo grido di dolore per l'idiozia criminale delle scelte dei governi europei, i quali si accodano supinamente al gioco mortale innescato da un'America disperatamente protesa a conservare il suo ruolo egemonico. Così come sono assolutamente d'accordo con la sua analisi delle cause di fondo - ricostruite a partire dalla lezione di Giovanni Arrighi - di quanto sta accadendo. Tuttavia, pur avendo a mia volta giocato più volte negli ultimi anni il ruolo di Cassandra nel prevedere la catastrofe imminente che (per chiunque fosse dotato di buon senso: non era necessario essere dei geni della geopolitica) era scritta nei fatti, e anzi proprio perché tutto ciò era razionalmente prevedibile, mi pare inutile appellarsi al buon senso (per non dire alla buona volontà!) dei responsabili per evitare il peggio. Piotr scrive che è sbagliato - ed economicista - attribuire tutto al keynesismo di guerra senza capire che una volta fabbricate le armi verranno anche usate. Il punto è che le due cose non sono in contraddizione: come ci ha insegnato Marx, la razionalità economica del capitale è intrisa di cupio dissolvi: quando è in crisi (e quanto più la crisi è grave) il capitale lotta per la sopravvivenza immediata costi quel che costi, il suo motto diventa dopo di me il diluvio o, se preferite, muoia Sansone con tutti i Filistei. Resta solo da sperare nell'unica fonte di razionalità che oggi il mondo abbia da offrire, che abita a Pechino, e che, in questa lotta mortale per sopravvivere, il capitalismo nella più folle incarnazione egemonica che abbia avuto nei suoi cinque secoli di vita - quella a stelle e strisce - commetta abbastanza errori per uscirne sconfitto. [Carlo Formenti]
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“Svuotare gli arsenali, riempire i granai!”
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“La Russia torna al Gold standard”. Lo stupefacente abbaglio della contro-contro informazione
di Megas Alexandros (alias Fabio Bonciani)
Mentre in Europa si rischia seriamente il razionamento energetico ed alimentare, i blog "mal-informanti", alla sola vista dell'oro, non perdono tempo a prospettare il ritorno al "gold standard". Ovvero la follia dei cambi fissi sulla quale è stato costruito il sistema-euro
Oggi proverò a fare chiarezza su alcuni temi, che in questi giorni vengono trattati in modo confusionale e falso; talvolta da chi li affronta in modo approssimativo e privo dei concetti scientifici di base; spesso da chi, invece, si schiera nel nutrito team della contro-contro informazione.
Si, cari Amici, siamo passati dall’informazione indipendente o contro-informazione (ovvero NOI, come ComeDonChishiotte ed altri), che per ovviare all’informazione a senso unico di regime, ci siamo presi sulle spalle l’onere di ricercare di raccontare i fatti e la realtà per ciò che è, ad esempi concreti e sempre più frequenti di contro-contro informazione.
Oggi, che Putin sta facendo vedere al mondo con i fatti, le falsità su cui è stato costruito il mondo globale, caratterizzato del “Dio mercato” sopra tutto e tutti (Stati democratici compresi); la contro-contro informazione ha iniziato il suo numero da circo del salto triplo, con l’intento di riportare il cittadino comune (che, proprio adesso inizia a comprendere), di nuovo in stato confusionale.
Tenere i popoli, il più possibile, lontani dalla verità è sempre stato il “must” per eccellenza, usato dall’élite, per mantenere saldamente nelle loro mani il bastone del comando. Come del resto, da quando il mondo è mondo, la lotta di classe ne è eternamente il suo “leitmotiv”.
Ma veniamo ai fatti. In riferimento alle dichiarazioni di Putin e le conseguenti azioni del Cremlino e della Banca Centrale di Russia, susseguitesi alle sanzioni inflitte dal mondo occidentale – nel mainstream ed in certi blog, si stanno mischiando una serie di concetti e previsioni che non trovano corrispondenza – nè con le parole, nè con i fatti oggetto delle azioni del presidente russo e tantomeno con le verità che la scienza economica ci insegna.
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Fare storia della rivoluzione in tempi di cancel culture
di Roberto Paura
Antonino De Francesco rilegge le rivoluzioni atlantiche ponendo al centro l’emancipazione dei neri
Prima di iniziare un articolo che ha nel titolo cancel culture conviene sgomberare il campo da possibili equivoci attraverso due assunti di base. Primo: se per cancel culture intendiamo la definizione corrente di un movimento culturale prima che politico teso a cancellare le tracce di un passato scomodo non più in linea con il comune sentire contemporaneo, allora non si tratta di un fenomeno moderno; come spesso accade, la Rivoluzione francese ne fu antesignana. Basti ricordare l’abbattimento delle statue dei sovrani (quella di Luigi XIV a place Vendôme, ribattezzata piazza delle Picche; quella di Luigi XV nell’omonima piazza ribattezzata piazza della Rivoluzione, l’odierna place de la Concorde), la distruzione dell’ampolla dell’olio sacro di Reims, la sostituzione dei nomi delle città ribelli (Lione che diventa Ville-affranchie, Tolone Port-la-Montagne).
Secondo: dal punto di vista della ricerca storica – quel che qui ci interessa – la cancel culture può e deve assumere una forma costruttiva anziché distruttiva, vale a dire che, piuttosto di cancellare la memoria (ciò che per uno storico equivarrebbe a violare il giuramento d’Ippocrate per un medico), si occupa di recuperare una memoria cancellata. È la differenza che passa tra il rancore dei neoborbonici che vogliono abbattere le statue di Garibaldi nel Sud Italia e la moderna riflessione storiografica sul meridionalismo. Nel caso francese è la differenza che passa tra la polemica dello scorso anno sull’opportunità o meno di celebrare il bicentenario della morte di Napoleone – considerata da molti inopportuna in quanto Napoleone restaurò lo schiavismo nelle colonie (cfr. Daut, 2021) – e la rinnovata attenzione delle storiche e degli storici sul tema dello schiavismo e del razzismo nell’età rivoluzionaria e napoleonica, passato sottotraccia per quasi due secoli (di cui un esempio recente è la nuova storia della Rivoluzione francese proposta in Un nuovo mondo inizia dall’americano Jeremy D. Popkin, già autore di Haiti. Storia di una rivoluzione).
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Il Mezzogiorno del PNRR
di Stefano Lucarelli
Il testo offre spunti per riflettere sul Pnrr per il Mezzogiorno. Riprende dalla letteratura grigia i discorsi e le «mentalità» di analisti e pianificatori e mostra, oltre «Ripresa» e «Resilienza», le nuove logiche di dipendenza fra i territori «centrali» e i territori «periferici», ovvero la solita e nota «logica dello sviluppo capitalistico»
Gloria del disteso mezzogiorno quand'ombra non rendono gli alberi, e più e più si mostrano d'attorno per troppa luce, le parvenze, falbe.
il sole, in alto, - e un secco greto.
1. I versi di Eugenio Montale, tratti dall’opera Ossi di Seppia, descrivono il tempo del mezzogiorno: ci potremmo trovare ovunque ma troveremmo in alto il sole e intorno un «secco greto», e ancora e soprattutto «parvenze falbe» a causa della troppa luce. Quell’aggettivo, «falbo», indica il giallo scuro e si è soliti riferirlo al manto degli animali, dei cavalli in particolare.
Il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza per il Mezzogiorno può in effetti apparire come un sole, ma potrebbe proprio essere il sole accecante del poeta, una luce che si risolve in parvenze, in arsura.
E cominciamo allora dalle parvenze, che sembrerebbero al centro dell’immaginario del PNRR che si ramifica nelle mente di alcuni analisti. Facciamo un esercizio utile a mostrare qual è lo stato d’animo – la mentalità comune emergente – che sembra prevalere a riguardo: digitiamo in uno dei motori di ricerca più utilizzati sul web le parole «PNRR», «Mezzogiorno», «Sud». Nello scorrere i risultati della ricerca, anche limitandosi ai titoli dei documenti, c’è una significativa ricorrenza delle parole «occasione», «opportunità», «svolta», in una convivenza fra il timore della inadeguatezza e l’eccitazione per l’ammontare delle risorse che giungeranno.
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La guerra in Ucraina e la questione nazionale nell'epoca della maturazione imperialistica
di Rostrum
S’intende da sé, che per poter combattere, in generale, la classe operaia si deve organizzare nel proprio paese, in casa propria, come classe, e che l’interno di ogni paese è il campo immediato della sua lotta. Per questo la sua lotta di classe è nazionale, come dice il Manifesto comunista, non per il contenuto, ma “per la forma”. Ma “l’ambito dell’odierno Stato nazionale”, per esempio del Reich tedesco, si trova, a sua volta, economicamente “nell’ambito” del mercato mondiale, politicamente “nell’ambito” del sistema degli Stati. […] E a che cosa il Partito operaio tedesco riduce il suo internazionalismo? Alla coscienza che il risultato del suo sforzo “sarà l’affratellamento internazionale dei popoli“, – frase presa a prestito dalla Lega borghese della libertà e della pace, e che deve passare come equivalente dell’affratellamento internazionale delle classi operaie, nella lotta comune contro le classi dominanti e i loro governi. K. Marx, Critica del programma di Gotha, 1875
L’operaio che pone l’unione politica con la borghesia della «propria» nazione al di sopra dell’unità completa con i proletari di tutte le nazioni agisce quindi contro i propri interessi, contro gli interessi del socialismo e della democrazia. Lenin, Tesi sulla questione nazionale, 1913
Fino a poche ore prima dello scoppio del conflitto in Ucraina, nessuna delle varie organizzazioni o gruppi che si richiamano all’internazionalismo proletario aveva nulla da eccepire sulla definizione della guerra in arrivo come guerra imperialista, su entrambi i fronti. Sono bastati pochi giorni di intensa, pervasiva, totale e violenta propaganda di guerra da parte dei media delle potenze imperialistiche occidentali per far emergere perplessità, ripensamenti più o meno dichiarati, emendamenti o sofisticazioni a proposito della caratterizzazione del conflitto in corso e dei compiti dei rivoluzionari internazionalisti.
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Realtà parallela e realtà della guerra
di Roberto Buffagni
Prima parte
In questa prima parte sintetizzo con la massima brevità i punti essenziali dall’operazione di guerra psicologica condotta dall’Occidente nell’ambito delle ostilità tra Russia e Ucraina, volta alla creazione di una vera e propria Realtà Parallela; operazione disinformativa di una vastità, capillarità, radicalità senza precedenti storici. Elenco gli snodi essenziali della “narrativa” occidentale, e li metto a confronto con le realtà fattuali e documentali che essi distorcono e occultano.
Nella seconda parte analizzerò i fondamenti culturali e ideologici sui quali la campagna di guerra psicologica fa leva e aggiungerò alcune considerazioni.
1. Dall’inizio delle ostilità in Ucraina l’Occidente ha organizzato una vastissima, capillare, radicale campagna di guerra psicologica volta alla creazione di una Realtà Parallela.
2. Che cos’è una Realtà Parallela? Quale caratteristica essenziale la distingue dalla realtà? La Realtà Parallela è dove muoiono solo gli altri. La realtà è dove muori anche tu, dove muoio anche io. Come il desiderio, la Realtà Parallela non ha limiti. La realtà è ciò che impone limiti al desiderio.
3. A creare la Realtà Parallela è lo sforzo internazionale di circa 150 aziende di Pubbliche Relazioni, coordinate da Nicky Regazzoni, cofondatore di PR Network[1] e Francis Ingham[2], un esperto di pubbliche relazioni strettamente legato al governo britannico. Nell’articolo di Dan Cohen linkato in calce, abbondanti informazioni e documentazione in merito[3].
4. Gli snodi narrativi fondamentali della Realtà Parallela sono:
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Armi in Ucraina,"Rifornire i paramilitari aumenta ancora i rischi per la popolazione"
di Fabio Mini
Rilanciamo questo lungo e approfondito articolo del generale Fabio Mini pubblicato sul Fatto Quotidiano il 23 marzo. Per chiunque voglia disintossicarsi dei media con l'elmetto e comprendere bene che cosa realmente stia rischiando l'Italia con la decisione di inviare armi in Ucraina, divenendo di fatto co-belligerante nel conflitto, non vi può essere lettura migliore
La cortina fumogena. Kiev, esercito allo sbando: mani libere ai paramilitari. Rifornirli aumenta ancora i rischi per la popolazione
Sembravano teorie del complotto o fantasie dei “filo putiniani”, le valutazioni che fin da prima dell’attacco confutavano la narrazione fornita dall’Ucraina, ma orchestrata e preparata dall’esterno. Alle voci dubbiose di alcuni storici ed esperti occidentali, compresi quelli americani, subito tacciati di filoputinismo, si sono aggiunte in questi giorni voci inaspettate, oltre alla nostra: il bollettino n.27 di Jacques Baud , il colonnello dell’intelligence svizzera, ora analista internazionale di professione con un attivo di decine di libri e rapporti su questioni militari diventati dei “must read” in Europa e nel mondo e il Financial Times del 20 marzo con le molte altre voci di esperti europei raccolte da Sam Jones da Zurigo e John Paul Rathbone da Londra.
Genesi e operazioni
A parte la provocazione della Nato nei confronti della Russia iniziata nel 1997 con l’espansione a est, secondo Baud la questione russo-ucraina non è sorta a causa del separatismo o indipendentismo del Donbass. Il conflitto nasce invece da fenomeni interni all’Ucraina e l’Occidente, non la Russia, ha fatto in modo che esso si ampliasse e degenerasse. Dal 2014, con i fatti di Maidan e i massacri in Donbass e Odessa, si dimostra la debolezza delle forze armate ucraine, succube di regimi che non si fidano di esse, che deliberatamente le abbandonano e si rivolgono alla componente paramilitare per l’ordine interno.
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Gas e rubli, l’economia di carta davanti al baratro
di Francesco Piccioni - Guido Salerno Aletta
A qualche giorno di distanza, la decisione russa di far pagare in rubli ai “paesi ostili” le esportazioni di gas e petrolio, anziché in dollari o euro, appare decisamente meno bislacca o “ricattatoria” di quanto scritto dai propagandisti neoliberisti.
Per quanto motivata da un’esigenza “politico-militare” – la necessità di sottrarre le entrate russe all’erosione del valore di cambio di una moneta “paria”, che nessuno accetta (o accetterebbe) più – questa mossa dice molto su come sta cambiando il sistema internazionale.
Ci facciamo aiutare ancora una volta dalle acute osservazioni di Guido Salerno Aletta, in un editoriale di TeleBorsa, che centrano il punto.
Abbiamo scritto spesso che l’economia occidentale degli ultimi venti o trenta anni è stata segnata dal prevalere assoluto della finanziarizzazione, ossia dalla centralità delle attività finanziarie su quelle dell’economia reale, sulla produzione di merci fisiche, servizi, beni “immateriali” ma concretissimi come il software, ecc.
Con un’immagine efficace, è il prevalere dell’economia di carta su quella fisica.
Di questa prevalenza, monete come il dollaro, e in misura minore euro-sterlina-yen, sono state il pilastro fondamentale, visto che anche che il sistema dei pagamenti internazionali (lo Swift) è sotto controllo paramilitare degli Stati Uniti. Le “sanzioni”, detto altrimenti, sono effettive solo per questo motivo, perché vengono impediti gli scambi con una serie di account sospesi o cancellati.
Chi controlla questo mondo virtuale, da decenni, può permettersi l’enorme privilegio di pagare con “carta” stampata a volontà merci e beni che vengono prodotti-estratti con fatica e sudore.
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“La Russia ha vinto la guerra, quello che resta è un lavoro di pulizia”
intervista a Larry C. Johnson
In un’intervista Larry C. Johnson, un ex ufficiale della CIA, sostiene che la Russia ha già vinto la guerra e che rimane solo il lavoro di pulizia. Johnson ha addestrato i commando delle operazioni speciali dell’esercito americano per 24 anni e poi ha lavorato nell’ufficio antiterrorismo del Dipartimento di Stato.
* * * *
Può spiegare perché pensa che la Russia stia vincendo la guerra in Ucraina?
Nelle prime 24 ore dell’operazione militare russa in Ucraina, tutte le capacità ucraine di intercettazione radar a terra sono state distrutte. Senza questi radar, la forza aerea ucraina ha perso la sua capacità di interdizione aria-aria. Per le tre settimane successive, la Russia ha stabilito una no-fly zone de facto sull’Ucraina.
Anche se ancora vulnerabile ai missili terra-aria [Manpad] forniti agli ucraini dagli Stati Uniti e dalla NATO, non vi è alcuna indicazione che la Russia abbia dovuto ridimensionare le sue operazioni aeree di combattimento.
Mi ha colpito anche l’arrivo della Russia a Kiev tre giorni dopo l’invasione. Ho ricordato che i nazisti hanno impiegato sette settimane per raggiungere Kiev durante l’operazione Barbarossa [1941] e altre sette settimane per sottomettere la città.
I nazisti avevano il vantaggio di non risparmiare nessuno sforzo per evitare vittime civili ed erano ansiosi di distruggere le infrastrutture essenziali. Tuttavia, molti cosiddetti esperti militari americani hanno affermato che la Russia era impantanata.
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L’Europa va alla guerra: dalla “green economy” al business della morte
di Tendenza internazionalista rivoluzionaria
L’aggressione russa all’Ucraina, qualunque sia il suo esito sul campo, ha dato l’impulso a un terremoto riarmista in Europa, con epicentro in Germania, che sconvolgerà l’assetto del continente e mondiale molto più di quanto possa fare l’avanzata dei carri armati russi su Kiev.
La Germania del socialdemocratico Scholz, mentre si toglie la foglia di fico del divieto di esportare armi in teatri di guerra (è già il quarto esportatore mondiale di armi), abbandona anche la linea adottata per 50 anni del Wandel durch Handel, il cambiamento mediante il commercio, per riprendere la strada militarista già tragicamente perseguita nel suo passato. Infatti, oltre ad inviare grandi quantità di armi al governo dell’Ucraina, e ad adottare le pesanti sanzioni finanziarie contro la Russia, il governo di Bonn ha annunciato che la Germania aumenterà la propria presenza militare all’Est: truppe in Lituania, ricognizioni aeree in Romania, costituzione di unità NATO in Slovacchia, rafforzamento del pattugliamento navale nel Baltico, Mare del Nord, Mediterraneo, difesa dello spazio aereo dei membri orientali della NATO con missili antiaerei. Infine, tra gli scroscianti applausi tanto dei deputati della maggioranza quanto dei deputati democristiani al Bundestag, Scholz ha annunciato che il governo si dota di un fondo speciale di 100 miliardi per il riarmo, portando la spesa militare oltre il 2% del PIL. Ciò significa un balzo enorme, di almeno il 50% in più, degli investimenti in armamenti. Serviranno tra l’altro per “costruire la nuova generazione di aerei da combattimento e carri armati qui in Europa insieme ai partner europei, e in particolare la Francia”, oltre agli eurodroni e a un nuovo aereo con capacità nucleare che succederà al Tornado.
Riarmo europeo a guida tedesca? Dalla “green economy” al business della morte. In Borsa le azioni di Fincantieri e Leonardo, i campioni del complesso militare industriale italiano, sono immediatamente balzate in alto del 20% e del 15%; e l’italiana Oto Melara del gruppo Leonardo si è prontamente candidata a partecipare alla costruzione del carro armato europeo insieme a tedeschi e francesi.
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L’economia russa post-sovietica
di Vincenzo Comito
I tentativi di Gobaciov, i contraccolpi sull’economia russa della fine dell’Urss, la nascita degli oligarchi, l’arrivo di Putin e le due fasi della sua politica economica. Per capire le interdipendenze e i possibili esiti della sanzioni
Con le note che seguono cerchiamo di fotografare solo molto schematicamente alcuni aspetti dei grandi mutamenti dell’economia russa nel periodo che va dagli ultimi anni dell’Unione Sovietica sino ai nostri giorni, sottolineando come la realtà dei fatti sia certamente più complessa di quanto si possa rappresentare in scarne note.
Antefatto
Nel 1988 è capitato a chi scrive, per le bizzarrie del caso, di partecipare, insieme ad una cinquantina di economisti dell’Est e dell’Ovest (c’era nel gruppo anche un ben noto studioso italiano), ad un progetto “segreto” di riforma dell’economia sovietica. Il progetto era sponsorizzato da Gorbaciov e dal suo primo ministro Ivanov da una parte, dalla fondazione “Open society” di George Soros dall’altra. Le riunioni del gruppo si sono svolte a suo tempo tra Mosca e Londra.
Durante lo svolgimento dei lavori, fummo colpiti dal fatto che il sistema economico di allora era in grado di offrire alla popolazione i prodotti ed i servizi di base – certo con differenziazioni tra città e campagna e tra le varie aree del paese – e, sul piano del lavoro, la sostanziale piena occupazione, ma poco di più. I privilegi delle classi dirigenti, che pure esistevano, erano ridotti se pensiamo alla situazione delle società occidentali di allora e di oggi e l’indice di Gini, che misura i livelli di diseguaglianza economica nei vari paesi, era allora tra i più bassi del pianeta. Incidentalmente, a parere di chi scrive, alcune delle conquiste del periodo andrebbero perlomeno ristudiate.
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MMT: facciamo un po’ di chiarezza contro le (solite) incomprensioni
di Domenico Viola
Da alcuni anni, a livello internazionale, una teoria economica (di stampo istituzionalista e, in parte, post-keynesiano), dal nome Modern Money Theory (MMT d’ora in avanti), si è fatta strada su più fronti, da quello del dibattito pubblico e politico a quello del dibattito accademico ed istituzionale, da quello della ricerca scientifica a quello dell’insegnamento universitario. Rappresentanti politici, comuni cittadini-lavoratori, imprenditori, investitori dei mercati finanziari, banchieri centrali, giornalisti, studenti e docenti universitari, in molti si sono interessati alla MMT, prova ne è l’intenso dibattito che si ha da alcuni anni in più parti e contesti del mondo.
Negli USA la MMT è diventata una teoria da prendere in seria considerazione come uno degli strumenti-guida delle decisioni di politica economica e delle decisioni riguardanti le riforme istituzionali e sociali da attuare alla luce degli obiettivi e delle sfide future che interessano la società americana (e non solo). La professoressa Stephanie Kelton, una delle principali esponenti accademiche della MMT, nonché autrice dell’ultimo libro Il mito del deficit, è stata capo economista per i democratici nella commissione Bilancio del Senato e consigliera di Sanders e di Biden. Lo stesso Mario Draghi, verso la fine del suo mandato da governatore della BCE, dichiarò che fosse necessario o comunque auspicabile aprirsi a nuovi approcci alla teoria economica come quelli appartenenti alla MMT, ed iniziare a tenere in seria considerazione la teoria qui menzionata.
L’Italia è uno dei Paesi in cui la MMT ha avuto grande rilevanza culturale sin dal lontano 2012 con la formazione di diverse associazioni civiche e culturali di divulgazione della MMT.
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