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Rinnovamento industriale
di Avis de tempetes
In questi giorni qualche timido fiocco sta imbiancando le pianure, le foreste e le colline di Belgrado est. Il termometro stenta a salire sopra lo zero nella capitale serba. In questo secondo fine settimana di gennaio sono previste nuove giornate di azione contro il progetto di apertura della più grande miniera di litio d'Europa (58.000 tonnellate all'anno), lanciato dal gruppo anglo-australiano Rio Tinto. Da diversi mesi migliaia di persone partecipano a manifestazioni, ma soprattutto a blocchi stradali in tutto il paese. La devastazione ambientale programmata da questo progetto minerario nella valle di Jadar è l'innesco di una «rivolta ecologica» che a poco a poco sta minacciando la stabilità del regime autocratico. E se le massicce proteste non hanno dato luogo ad ostilità più accese in un Paese particolarmente devastato dall'inquinamento industriale, il governo serbo comincia tuttavia a ritenere più prudente sospendere temporaneamente l'arrivo del colosso minerario Rio Tinto.
All’indomani di queste giornate d’azione, e mentre un pugno di attivisti lanciavano uova contro l'ufficio informazioni di Rio Tinto a Loznica, un illustre industriale francese è intervenuto a Parigi durante una piccola cerimonia organizzata nei palazzi del Ministero dell'Economia. Quel 10 gennaio, Philippe Varin ha solennemente consegnato alle autorità il suo rapporto sulla sicurezza della fornitura all’industria di materie prime minerali. Varin vanta un nutrito palmares: ha cominciato la sua carriera di industriale nei gruppi siderurgici, per diventare in seguito direttore del gruppo PSA Peugeot Citroën di cui ha guidato la ristrutturazione industriale, e poi passare al gruppo nucleare Orano (ex-Areva), di cui ha diretto la ristrutturazione in qualità di presidente del consiglio di amministrazione; sua la responsabilità della chiusura del cantiere del reattore nucleare EPR in Finlandia.
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Filosofia e politica
Marco Mazzeo intervista Paolo Virno
Dal tuo primo libro, Convenzione e materialismo, che risale al 1986 (riedito poi da DeriveApprodi nella nuova edizione del 2011), e anche dai tuoi primi scritti più politici negli anni Settanta, fino a quest’ultimi libri, Dell’impotenza (Bollati Boringhieri 2021) e ora Negli anni del nostro scontento (pubblicato in questi giorni da DeriveApprodi) è stata percorsa una lunga strada. Potresti ricordarne le tappe principali? (cosa che equivale a raccontare la storia della tua vita in un modo o nell’altro).
Ho cominciato a occuparmi sistematicamente di filosofia in seguito a una sconfitta politica. Parlo della sconfitta dei movimenti rivoluzionari che gremirono la sfera pubblica in Occidente tra la morte di John Kennedy e quella di John Lennon, dunque dall’inizio degli anni Sessanta alla fine del decennio successivo. Quei movimenti, che provarono orrore per il socialismo reale e si augurarono fin dal principio lo scioglimento del Pcus, avevano utilizzato Marx al di fuori e contro la tradizione marxista, mettendolo in contatto diretto con le lotte di fabbrica e la vita quotidiana delle società pienamente sviluppate. Un Marx letto insieme a Nietzsche e a Heidegger, posto a confronto con Weber e Keynes. Tuttavia, nel momento della sconfitta, quando l’intero panorama sociale fu sconvolto dall’iniziativa capitalistica, ci sembrò naturale saggiare i limiti, e mettere a nudo le omissioni, di questo nostro Marx. Ecco, per me il vagabondaggio filosofico è iniziato chiedendomi: quale teoria della conoscenza, quale etica, quale filosofia del linguaggio si possono desumere da Marx, senza che però egli le abbia mai sviluppate?
Il mio primo libro, Convenzione e materialismo, scritto tra il 1980 e il 1985, affronta con evidente povertà di mezzi questioni filosofiche niente affatto stagionali: il rapporto tra intelletto astratto e sensi, la genesi del singolare dall’impersonale, il radicamento dell’istanza etica nel funzionamento del linguaggio.
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Logiche Relazioni
Lucia Olivieri e Osvaldo Ottaviani dialogano con Massimo Mugnai

* ** *
In un contributo di qualche anno fa1 hai parlato di Leibniz come di un “logico del Novecento”. È soltanto un modo paradossale di dire che la riscoperta della logica lei- bniziana data dai lavori di Louis Couturat ai primi del Novecento o c’è qualcosa di più, nel senso che nei suoi scritti di logica Leibniz ha effettivamente anticipato temi e soluzioni della logica moderna (da Boole a Gödel)?
“Logico del Novecento” è una caratterizzazione che intende cogliere entrambi gli aspetti che avete menzionato. È un dato di fatto che soltanto col libro di Couturat (La logique de Leibniz, 1901) e con la pubblicazione degli Opuscules et fragments inédits (1903), sempre a cura di Couturat, è sorto l’interesse per la logica di Leibniz.
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Un concerto di cigni starnazzanti (e neri)
di Franco Bifo Berardi
Crisi russo-ucraina, declino USA, depressione, eventi impensabili: a che serve l’ottimismo quando la prospettiva è il caos?
Stento a crederci. Forse c’è qualcosa che non funziona più bene nella mia testa: quel che accade non riesco a spiegarmelo.
In Italia non se ne parla neanche, siamo impegnati a eleggere l’uomo della Goldmann Sachs oppure un altro chissenefrega. Ma quello che sta accadendo alla frontiera orientale del continente è la situazione più prossima alla guerra atomica che io abbia visto in vita mia. Avevo undici anni ai tempi della crisi dei missili per Cuba, e ricordo che non si parlava d’altro. Oggi nessuno parla più con nessuno, zitti e Mosca. A proposito, ricapitoliamo i fatti.
Quando Biden parlò alla nazione in agosto, quando disse “war in Afghanistan is over” mentre i suoi collaboratori afghani si accalcavano all’aeroporto, rincorrevano gli aerei in partenza, si attaccavano alle ali e cadevano giù da mille metri di altezza, pensai: quest’uomo è finito, ma il problema è che gli Stati Uniti d’America saranno ora costretti a fare i conti con se stessi.
Dopo due catastrofiche guerre concluse in modo ignominioso, con l’Iraq trasformato in terreno di guerra perenne, consegnato in parte all’arcinemico iraniano, e l’Afghanistan restituito ai talebani, pensavo che il ceto dirigente americano avrebbe preso per lo meno una pausa di riflessione.
Per qualche ragione che fatico a capire, Biden ha invece pensato che, perdute due guerre regionali contro nemici militarmente primitivi, il solo modo per ristabilire l’onore dell’America e per recuperare l’appoggio del suo popolo che si prepara a nuove elezioni, era lanciare una guerra contro un regime granitico nel suo nazionalismo, e dotato di un arsenale atomico che può annientare il genere umano.
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Perché così tanti medici diventarono nazisti?
Nella risposta, e nelle sue conseguenze, un bioeticista può trovare delle lezioni di morale per i medici di oggi
di Ashley K. Fernandes*
Un articolo segnalatomi tempo fa (mi scuso, ma non ricordo più da chi) e che può essere molto utile da leggere oggi nel Giorno della Memoria, per tenere a mente quello che è stato l'importante ruolo dei medici e degli scienziati nelle atrocità naziste. Quando la scienza perde il suo legame con l'etica e la filosofia morale, non ha più una bussola che la guida e può facilmente invertire quello che sarebbe il suo scopo originario, a favore della persona umana
Questo saggio è scritto dal punto di vista di un medico, un docente della materia e un bioeticista che trova nel deplorevole coinvolgimento dei medici nella Shoah un'opportunità per evidenziare delle lezioni morali sempre valide per la professione medica. Medicina e diritto sono intimamente legati tra loro e, a partire dalla professionalizzazione della medicina negli Stati Uniti e in Europa nella seconda metà dell'Ottocento, lo sono ancora di più. Una disciplina che collega entrambi è la filosofia morale; poiché tanto la legge quanto la medicina implicano la ragione e la volontà orientate al bene della persona. Quindi, la storia dell'Olocausto è una tragedia che si è svolta a causa della corruzione della filosofia morale prima, della medicina e del diritto in secondo luogo.
Perché questo è importante? Il motivo è che c'è chi si oppone all'applicazione ai giorni nostri delle lezioni apprese dagli orrori della medicina nazista. Alcuni dicono che la “medicina nazista” non fosse vera medicina o scienza: non possiamo nemmeno chiamare “medicina” ciò che facevano i nazisti, poiché la medicina contiene in sé un presupposto di rigore e benevolenza. Questa è un'obiezione che sento da scienziati medici, che indicano le garanzie rappresentate dal Codice di Norimberga (1947), dalla Dichiarazione di Helsinki (1964) e dal Rapporto Belmont (1978) come prova della natura radicalmente diversa della scienza odierna. Ma questo argomento è circolare.
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Quello che potremmo diventare
di Claudia Cipriani
Sono in tanti a considerare il green pass come la sintesi di tutta la strategia che il governo ha adottato dall’inizio della pandemia: addossare le responsabilità ai cittadini. Per questo c’è chi si chiede come mai molti a sinistra lo hanno giustificato senza avere neanche la curiosità di osservare da vicino un movimento complesso che si oppone al governo Draghi. «Bisognerebbe guardare positivamente al fatto che persone che non si sono mai occupate di politica sentono oggi il bisogno di prendere posizione – scrive Claudia Cipriani, documentarista – Ammetto che io stessa spesso in quelle piazze mi ci sono ritrovata un po’ a disagio perché accanto a chi teneva un cartello con la scritta “Ora e sempre resistenza”, c’era magari quello con l’icona di un santo. Per la prima volta però ho vissuto cortei eterogenei, dove persone di provenienza culturale e politica diversa si sono trovate insieme. È una cosa che non avevo mai visto e mi ha fatto riflettere…». Per chi protesta il re è nudo. Per dirla con Foucault, oggi l’obiettivo non è scoprire che cosa siamo ma rifiutare quello che siamo e «immaginare e costruire ciò che potremmo diventare».
* * * *
In questi ultimi due anni mi tormenta una domanda che non ho mai fatto a mia nonna. Lei fu un’adolescente durante gli anni del fascismo, della guerra, e mi raccontò di come fosse spesso triste, cupa, di come tutto ciò che le accadeva intorno le sembrasse assurdo e ingiusto. “Ma gli altri, quelli che invece andavano avanti come sempre, come facevano?”. Ecco, è questa la domanda che vorrei farle, adesso che purtroppo non c’è più. So che i paragoni con quel periodo fanno arrabbiare molti, ma d’altronde viviamo da più di due anni in uno stato d’emergenza e abbiamo subito per mesi il coprifuoco, provvedimento che non si aveva dai tempi della seconda guerra mondiale. Io più che altro, ancora oggi, dopo tanti mesi, mi chiedo come facciano molte persone a far finta che sia tutto normale.
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Politica, miti e realtà delle privatizzazioni in Italia
di Matteo Di Lauro
Il milieu ideologico delle privatizzazioni
Dagli anni ‘90 il clima culturale si è fatto ostile alle ideologie politiche e alle posizioni di parte. La democrazia non andrebbe più intesa come scontro tra ideali diversi, ma si ridurrebbe a un presunto “governo dei migliori”, dove le uniche qualità che contano sono la competenza e l’onestà.
Inutile dire che una persona può essere competente ed onesta, fermo restando il carattere politico delle sue idee. Dietro una scelta squisitamente tecnica si nasconde comunque una visione del mondo, degli obiettivi di lungo periodo e una qualche gestione di parte del conflitto distributivo.
Come sappiamo, in economia politica non esistono scelte squisitamente tecniche, ma sempre delle policy a favore o a sfavore di una certa classe sociale. In politica non esistono scelte neutre: è per questo che il tentativo, sia mediatico sia accademico, di ricondurre qualsiasi presa di posizione politica ad un presunto criterio tecnico scientifico ha fatto degenerare profondamente il dibattito pubblico in questo paese.
Ne è un esempio la riforma dell’IRPEF di Draghi, che, per quanto vanti un carattere tecnico scientifico, nasconde dietro di sé intenti chiaramente politici: una politica di classe.
Per questo, applicare un criterio puramente tecnico all’analisi delle riforme ha poco senso, senza prima aver esplicitato la propria posizione circa i possibili conflitti distributivi che scaturiscono dalla riforme stesse. Da qui, l’impossibilità di avere un esito win-win: qualcuno ci perde sempre.
Inoltre, si constata in modo del tutto singolare che, da quando la politica ha iniziato ad essere pervasa dal mito dell’onestà e della competenza, chi ha perso di più sono state le classi subalterne. Strano. Non sarà mai che gli onesti e competenti alla Draghi siano classe dominante e seguano una propria agenda politica a difesa dei propri interessi?
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Lenin e la pratica filosofica*
di Carlo Di Mascio
La verità non sta all’inizio, ma alla fine, o, più esattamente, nella continuazione. La verità non è l’impressione iniziale…
Lenin, Quaderni filosofici
Bisogna ribadire ‘ad nauseam’ […] il fatto che l’idealismo di Hegel non implica la tesi secondo la quale lo scibile è posto da un ‘io’, vale a dire da un sé che è l’essenza di ogni autoscienza, o addirittura da un isolato soggetto-coscienza.
Hans-Friedrich Fulda, Dialektik in Konfrontation mit Hegel
I.
Louis Althusser, nel suo Lenin e la filosofia, analizzando la distanza tra Lenin e la filosofia ufficiale, quella professorale, accademica, distanza che tende ad annullarsi ogni volta che la filosofia si trova costretta a fare i conti con l’urgenza dell’azione politica e della sua inesorabile relazione con essa, commentava come Lenin, «un naïf e un autodidatta in filosofia […] semplice figlio di maestro, piccolo avvocato diventato dirigente rivoluzionario», avesse avuto l’ardire di confrontarsi con la filosofia ufficiale e tutto questo con l’obiettivo preciso di promuovere «una pratica veramente cosciente e responsabile della filosofia»1. Ora, tuttavia, ciò che maggiormente colpisce di questa premessa è il fatto che Lenin, con tutte le inadeguatezze del caso, abbia inteso occuparsi – in un momento storicamente decisivo, connotato dalle conseguenze del fallimento rivoluzionario del 1905, dal disorientamento «ideologico» di molti intellettuali marxisti del tempo2, dalla singolare parabola della Seconda Internazionale, dal 1889 sino al suo crollo nel 19143, nonché dall’avvicinarsi di un conflitto mondiale e di una rivoluzione proletaria inevitabile – proprio di filosofia, ed in particolare tra il 1908 e il 19164, pur riconoscendo a più riprese, come sottolineato in una lettera a Gorki del 7 febbraio 19085 di non essere un filosofo, di essere impreparato, ma purtuttavia di non fare filosofia come quelli che la fanno di professione, i quali, invece, si limitano a «ruminare nella filosofia.
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Usa, Cina e futuro del sistema dollaro
L'intervista al gen. Mini sui libri di Qiao Liang
Claudio Gallo* intervista il generale Fabio Mini
Qiao Liang è un ex generale maggiore dell'aviazione dell'Esercito Popolare di Liberazione diventato celebre nel 1999 con il libro Guerra senza limiti (LEG Edizioni, 2001) di cui è coautore insieme con il collega Wang Xiangsui. Con gli usuali occhiali ideologici, i media occidentali hanno presentato lo studio come l'annuncio di un nuovo tipo di guerra che la Cina stava progettando contro l'America. Gli autori affrontavano il concetto di conflitto asimmetrico, prefigurando in qualche modo eventi che sarebbero accaduti di lì a poco, come l'attacco dell'11 settembre.
Qualche anno fa, Qiao ha scritto un nuovo libro, L’arco dell’impero, ancora tradotto dalla LEG (Libreria editrice goriziana). E’ la prima edizione in una lingua occidentale ed è stata curata dal generale Fabio Mini, già capo di stato maggiore del Comando NATO del Sud Europa nel 2000-2001 e comandante della Forza internazionale in Kosovo (KFOR) a guida NATO dal 2002 al 2003. Mini aveva introdotto in Italia anche Guerra senza limiti: la sua prefazione italiana è stata tradotta e inclusa nella seconda edizione cinese.
Il nuovo lavoro di Qiao è uno studio sulla superpotenza americana. Spiega il suo incredibile successo e le possibili ragioni del suo declino. Secondo Qiao, gli Stati Uniti hanno superato la logica imperiale colonialista dell’Impero britannico del XIX secolo adottando un rivoluzionario sistema di dominio economico, che ha raggiunto il suo apice con la fine gli accordi di Bretton Woods del 1971. Il potere del dollaro come moneta universale sostiene il primo impero finanziario della storia. The City Upon a Hill dei Padri Pellegrini, l'immagine dell'eccezionalismo americano amata da Reagan, è, in realtà, la Zecca sulla Collina. Con questa "economia finanziaria coloniale", la ricchezza americana è pagata dal resto del mondo.
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Culture e pratiche di sorveglianza. In balia dell’Incoscienza Artificiale e dell’algocrazia
di Gioacchino Toni
«Il punto è che non esiste una protesi cerebrale artificiale che sia intelligente; il calcolo senza significato può al massimo esprimere l’ossimoro dell’“intelligenza incosciente” […] La perdita di conoscenza e di autonomia fanno parte di un processo iniziato nel Ventunesimo secolo, nel corso del quale stiamo invertendo il rapporto gerarchico tra noi e le macchine. Oggi siamo sempre più portati a mettere in dubbio la risposta a una nostra domanda dataci da una persona, oppure quella di un assistente virtuale?» Massimo Chiariatti
«gli algoritmi sono pur sempre progettati da esseri umani, sono opachi, ossia poco trasparenti, e perseguono non solo obiettivi di efficienza, ma ancor più di profitto. Quando imparano dall’esperienza, poi, tendono a replicare i pregiudizi umani» Mauro Barberis
Nonostante si tenda a pensare all’Intelligenza Artificiale antropomorfizzandola, come se si trattasse di una macchina in grado di prendere “sue” decisioni ponderate, questa si “limita” a elaborare una mole di dati non governabile dagli esseri umani e a farlo con una velocità altrettanto al di sopra dalle loro possibilità. Per gestire le informazioni disponibili l’essere umano ha sempre teso a esternalizzare alcune funzioni del suo cervello estendendole nello spazio e nel tempo; sin dalla notte dei tempi l’umanità ha fatto ricorso a protesi tecnologiche per superare i suoi limiti fisici e cognitivi ma giunti alla digitalizzazione delle informazioni queste sono talmente aumentate che per la loro gestione si è resa necessaria una tecnologia sempre più sofisticata e performante soprattutto in termini di velocità di elaborazione.
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La relazione capitale-lavoro come rapporto di classe
di Sebastiano Isaia
È il capitale che impiega il lavoro. Già questo rapporto,
nella sua semplicità, è personificazione delle cose e
reificazione delle persone. In questo modo, il capitale
diventa un essere incredibilmente misterioso (K. Marx).
La relazione Capitale-Lavoro è in primo luogo e fondamentalmente un rapporto di classe, non un fatto meramente economico che si esaurisce sul mercato del lavoro o dentro il luogo di lavoro. Quella relazione, che caratterizza la società capitalistica, presuppone e pone sempre di nuovo l’esistenza del rapporto capitalistico di produzione, il quale si fonda sulla separazione dei produttori diretti (i lavoratori) dai mezzi di produzione e, quindi, dal prodotto del loro lavoro. I lavoratori posseggono solo la loro capacità lavorativa, che essi offrono sul mercato del lavoro al miglior offerente per riceverne in cambio un salario; i mezzi di produzione (macchine, edifici, materie prime, ecc.) e i mezzi di sussistenza comprati dai lavoratori con il salario ricevuto sono invece di esclusiva proprietà del Capitale – non importa in quale forma giuridica esso si presenti dinanzi al lavoratore: capitale privato, capitale pubblico, azionario, “misto” pubblico-privato, cooperativistico, e quant’altro.
Riprendendo ironicamente la celebre frase di Proudhon («La proprietà è un furto»), Marx definisce la proprietà specificamente capitalistica nei termini di un «furto di lavoro altrui». «La proprietà di capitale possiede la qualità di comandare sul lavoro altrui» (1).
Apro una piccola parentesi a proposito della fenomenologia giuridica del Capitale. Nel Manifesto del partito comunista del 1848, Marx ed Engels scrivono: «I comunisti possono riassumere la loro dottrina in quest’unica espressione: abolizione della proprietà privata» (2).
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Marx e Freud in Lacan: dall'inestricabile intreccio alla perfetta compatibilità
di David Pavón
Sembra che, politicamente, Jacques Lacan sembra sia stato un conservatore. Di certo non era un comunista, e nemmeno un socialista. Ha deriso a più riprese sia gli intellettuali marxisti che gli attivisti di sinistra. Quando era giovane, dichiarò di essere un sostenitore della monarchia, e partecipò alle riunioni di un'organizzazione di estrema destra, l'Action Française. Anni dopo, in piena maturità, ha ammesso di aver votato a destra, per Charles de Gaulle. Sebbene di destra e ostile al marxismo, Lacan ha sempre mostrato grande interesse, e un'ammirazione quasi fervente per Marx. Non ha mai smesso di leggerlo, e di riferirsi a lui con passione. È vero che a volte lo ha criticato, ma più spesso ha riconosciuto i suoi grandi meriti, i suoi successi e le sue scoperte. Inoltre, ha ampliato molte delle sue idee usandolo ripetutamente in quella che è stata la sua interpretazione del pensiero freudiano. Negli scritti di Lacan, e nel suo insegnamento orale, Marx non smette di continuare a incontrare Freud. Gli incontri, tanto frequenti quanto consistenti, profondi e significativi, a volte danno luogo a relazioni strette che organizzano internamente la teoria lacaniana. Tuttavia, quale che sia il grado di citazione di Marx messo in atto da Lacan, appare chiaro che a lui non viene conferito lo stesso posto di Freud. Lacan non adotta il punto di vista di Marx. Non si considera un suo seguace.
Lacan si attiene a Freud. È a lui che aderisce. Si considera un freudiano, non un marxista, e di certo non un freudo-marxista. La sua visione del freudo-marxismo non è per niente positiva. Lo descrive, nelle sue stesse parole, come se si trattasse di un groviglio inestricabile, come se fosse il «vicolo cieco», o «senza soluzione».
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Presidenza della Repubblica: verso una democrazia postmoderna
di Stefano G. Azzarà
Il percorso verso il superamento della Costituzione repubblicana è segnato e si intravvedono già i contorni della Repubblica presidenziale. Accuratamente nascosto sotto l’altezzoso sorriso Ancien Régime di Mario Draghi o magari sotto quello più rassicurante di qualche democristiano, c'è l'approdo a una democrazia postmoderna che si instradi sui binari di una forma flessibile di bonapartismo plebiscitario mediatico
Dopo l’inevitabile sceneggiata con la quale in questi giorni, a partire da Silvio Berlusconi, tutti gli attori sul palcoscenico hanno cercato di alzare il proprio prezzo e riacquisire una centralità politica spendibile nel prossimo futuro, è probabile che questa settimana Mario Draghi venga eletto presidente della Repubblica, poco conta se alla prima o dopo la quarta votazione. Del resto, questa non sarebbe affatto una sorpresa: nonostante la suspense o la fumisteria creata più o meno ad arte dalle ambizioni personali di qualcuno, arrivato fuori tempo massimo, questo esito sarebbe esattamente quanto era risaputo sin dall’inizio, ovvero da quando l’ex presidente della Banca d’Italia e poi della BCE è stato nominato premier da una vasta coalizione di unità nazionale, dopo che Renzi aveva staccato la spina al governo PD-M5S. E, si può dire, sarebbe esattamente ciò per cui quella nomina era a suo tempo avvenuta e quanto il sistema industriale dei media – impegnatissimo h.24 a fare il tifo per lui e a spianargli la strada delegittimando ogni alternativa – ha sempre dato per scontato.
Non si tratta di una scelta irrilevante e da valutare nichilisticamente con senso di sufficienza, sia chiaro. I gruppi economici dominanti sono alle prese con il serissimo problema di una crisi organica della loro egemonia, che è logora e fa acqua da tutte le parti. E se vogliono recuperare quei pezzi di ceti medi e classi subalterne che si sono sottratti al loro controllo ideologico diretto durante la lunga fase della crisi economica e dell’impauperimento generalizzato, devono a ogni costo ricostruire almeno parzialmente il blocco sociale messo in discussione dalla rivolta populista (abilmente cavalcata dai settori outsider interni al medesimo mondo industrial-finanziario) e dargli un barlume di plausibilità e coesione.
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Antibiotici, vaccini e pandemia
di Noi non abbiamo patria
Le crescenti preoccupazioni delle soggettività della necessità del modo di produzione capitalistico
Che cosa ne è del progresso della medicina? In fondo [clicca qui] a questa introduzione c’è un articolo apparso sul The Economist del 21 Gennaio 2022 dal contenuto davvero allarmante (e con accenti anche sciovinisti nei confronti dei paesi dell’Asia). Il cosiddetto progresso capitalistico, il cui sviluppo della accumulazione comportava progresso tecnico e miglioramento delle condizioni di vita, seppur in maniera diseguale e combinata, ora tornano indietro come un boomerang con tutte le contraddizioni nefaste rafforzate di questo modo di produzione. La resilienza della vita alle malattie ed ai patogeni batterici o virali è in regresso. Quanto predisposto da decenni di progresso medico scientifico non sta producendo più i risultati auspicati ed anzi appare essere esso stesso fattore di concausa ed origine di una nuova emergenza sanitaria.
Le organizzazioni sanitarie del Pakistan, India e Bangladesh si trovano a fronteggiare infezioni batteriche che risultano resistenti ai farmaci antibiotici ed antimicrobici con esiti fatali. Ma sono questi stessi antibiotici ed antimicrobici usati in agricoltura o negli allevamenti intensivi ad aver prodotto dei super batteri veicolati da super microrganismi davvero resilienti ai farmaci che hanno curato malattie fatali per l’uomo negli anni ’50, ’60 e ’70 e che ora non stanno salvando più le vite come in precedenza. Le infezioni batteriche già conosciute da decenni di esperienza medica appaiono decisamente più resistenti agli antibiotici determinando un impegno sanitario quintuplicato per le cure ospedaliere e farmacologiche, e un gran numero di morti imprevisto.
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Valore-lavoro e il lavoro come valore
di Temps Critiques
Il saggio Sur la valeur-travail et le travail comme valeur è stato originariamente pubblicato su Temps critiques, 15 Novembre 2021 ed è consultabile su Sur la valeur-travail et le travail comme valeur. Successivamente è stato ripubblicato su Lundimatin #313 e in versione inglese in Ill Will, 29 Dicembre 2021, consultabile su Labor Value and Labor as Value. Di seguito la traduzione a cura di J. Cantalini.
«Questo sono io» Il discorso performativo del Potere
Con i suoi attacchi contro assistenzialismo e reddito garantito, il discorso pronunciato da Macron il 9 novembre 2021 sul valore-lavoro (o sul lavoro “come valore”) è stato, in prima battuta, poco più di un revival di ciò che Jospin[1] aveva già detto nel 1998 durante il mouvement des chômeurs (movimento dei disoccupati), conclusosi nel 2001 con la creazione di un bonus assunzioni, che si sarebbe gradualmente trasformato in premio di produzione dopo il 2006; e poi, una replica di quello di Sarzoky sul «lavorare di più, guadagnare di più», pronunciato a proposito dell’introduzione di straordinari esentasse. Ciononostante, le misure adottate o proposte oggi (premi di produzione, “indennità inflazione”) contraddicono quanto dichiarato inizialmente da Macron, in quanto investono sull’individuo-consumatore bisognoso piuttosto che sull’individuo produttivo e creativo. In altre parole, non è il valore del lavoro e il conseguente salario («il potere del lavoro» secondo la dichiarazione rilasciata a Le Monde l’11 novembre da Aurélien Purière, direttore della Sécurité sociale) che il governo sta tentando di migliorare, ma il potere d’acquisto stesso, senza che intervenga il minimo cambiamento nel rapporto di potere tra capitale e lavoro. È da questo che dipende l’assenza di pressioni sul capitale e di aumento dello SMIC[2], mentre compaiono solo calcoli sofisticati, a quanto pare troppo complessi persino per il ministro del Lavoro Bruno Le Maire, cosa che il Presidente intende chiarire[3]. A livello più generale, è la stessa logica che è stata applicata durante il movimento dei Gilet jaunes, ossia la previsione di un bonus suppletivo al premio di produzione e un bonus concesso a titolo eccezionale dal governo Macron.
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Il Capitale, per molti e non per pochi
di Sebastiano Taccola
Roberto Fineschi riesce a tenere insieme complessità e divulgazione della teoria di Marx, disegnandola come una «cassetta degli attrezzi» per analizzare il modo di produzione capitalistico
Negli scorsi anni, anche grazie alle celebrazioni del bicentenario della nascita, in Italia (e nel mondo) si è assistito a un intensificarsi delle pubblicazioni su Karl Marx. Testi nuovi e di carattere diverso – divulgativo e scientifico, ammesso che sia possibile fare una distinzione netta tra questi due piani – hanno riportato Marx e il marxismo sugli scaffali delle novità delle nostre librerie e biblioteche. Una simile vitalità ha probabilmente un valore duplice: da un lato, ha rappresentato un’espressione dell’esigenza di un «ritorno a Marx» fortemente avvertita con la crisi economica del 2007-2008; dall’altro lato ha tentato di dare nuovi spunti critici in grado di entrare in sinergia con i fermenti del presente e dare loro nuova forza.
Se all’estero sono stati soprattutto studiosi come David Harvey o Michael Heinrich a tentare di riportare all’attenzione del grande pubblico la teoria dell’autore del Capitale, in Italia, invece, c’è stata più timidezza (con alcune eccezioni, come ad esempio il Karl Marx di Marcello Musto e la Storia del marxismo curata da Stefano Petrucciani). Del resto, gli addetti ai lavori conoscono bene la difficoltà di sciogliere e rendere comprensibili i nodi e i passaggi più complessi della teoria marxiana del Capitale, pur essendo altrettanto consapevoli della necessità di compiere questo lavoro. Non si tratta tanto di divulgare Il capitale di Marx, ma di operare nelle maglie della società e della cultura contemporanee per radunare un nuovo pubblico per quest’opera: un’opera di scienza, le cui categorie possono aiutarci a spiegare la riproduzione e l’ampliamento delle più diverse forme di sfruttamento oggi in atto. Le sfruttate e gli sfruttati non mancano. Si tratta di tentare di tessere i fili nella direzione giusta.
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Poche note sulla questione delle classi
di Alessandro Visalli
Tema della "composizione di classe": dopo gli interventi, nei numeri scorsi di "Cumpanis", di Alessandro Testa e Carlo Formenti, pubblichiamo questo articolo di Alessandro Visalli, architetto, docente all' Università degli Studi "La Sapienza" di Roma
In questo breve intervento sarà prodotta qualche divagazione a partire dai numerosi stimoli che derivano dai lavori di Alessandro Testa, “La lotta di classe oggi: tra teoria del valore ed organizzazione del lavoro”, e Carlo Formenti, “Composizione socioeconomica e composizione sociopolitica, questioni di metodo”.
Il mio omonimo Alessandro Testa parte dal concetto di “lotta di classe” (formula composta che, come proveremo ad argomentare, è utile pensare come inerente non già al suo apparente oggetto, ‘classe’, quanto al sostantivo ‘lotta’), e lo collega a modalità ‘tipiche’ del capitalismo e ‘specifiche’ del modo in cui questo crea il ‘valore’. Ovvero, in altri termini, a come questo organizza il lavoro a partire da specifici rapporti sociali.
Per entrare subito nel tema si può prendere un esempio. Come sottolineato anche da Carlo Formenti nel secondo capoverso la giusta istanza di analisi rigorosa dei mutati termini di formazione del lavoro e della classe consente, nella sua formulazione, al lettore meno attento di scivolare sul rischio sempre presente di oggettivare la ‘classe’. Accade perché viene auspicata una ‘analisi scientifica’ di essa. Sovrapponendo con ciò la confusa incertezza su cosa si intenda esattamente con ‘scienza’ a quella su cosa sia la ‘classe’ e quale materialmente sia. Intendiamoci, Testa fa bene a dirlo. Una ricerca sistematica, razionale, ben fatta, della sociologia e socioantropologia delle relazioni e rapporti sociali e dell’organizzazione del lavoro è utile e necessaria. Ma il lemma della (o delle) “lotte di classe”, o della/e lotta/e della/e classe/i è guidato dal sostantivo ‘lotta’ (e dal verbo “lottare”) e non dall’oggetto ‘classe/i”. Esiste quindi un limite insuperabile alla sua oggettivazione come conoscenza data.
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L’università indigesta 2
Nota sui professori
di Francesco Maria Pezzulli
Il tema delle «industrie riproduttive» costituisce uno dei nuclei centrali delle elaborazioni contenute in Transuenze, sono diversi, infatti, i contributi che abbiamo proposto, tra cui un articolo di Francesco Pezzulli sulla condizione studentesca nell’Università trasformata dalle riforme (https://www.machina-deriveapprodi.com/post/l-universit%C3%A0-indigesta-note-da-un-inchiesta). Nell’articolo odierno riprendiamo le riflessioni dello stesso autore che, in questo caso, si concentra sull’esercizio dell’attività di docenza e sul ruolo dei professori, sempre di più indirizzati dalle disposizioni normative e dai criteri di valutazione industriale introdotti con le riforme.
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In una intervista del 2016, un Professore dell’Università di Bologna racconta che la scelta di dare alle stampe il suo ultimo libro sulla nuova università, l’ottimo Universitaly. La cultura in scatola, è dovuta a «un senso di tradimento dell’idea di cultura e alla sensazione molto concreta di perdere il significato stesso del mio lavoro». Più avanti, dei colleghi dice di essere colpito soprattutto dal fatto:
che tanta rassegnazione, indifferenza, conformismo, opportunismo, pigrizia o vigliaccheria si manifestino proprio in persone che dovrebbero dedicare la loro vita alla ricerca, al sapere critico, alla decostruzione dei luoghi comuni, guidati da facoltà ingovernabili come la curiosità, l’ironia, l’autonomia del pensiero e del giudizio. Lo dico a ragion veduta, senza chiamarmi fuori, con l’esperienza di chi ha vissuto in prima persona queste «passioni tristi», come le chiamerebbe Spinoza, e che ha cercato quotidianamente di scacciarle dal suo animo con battaglie incerte e sfiancanti[1].
L’osservatorio è privilegiato, la Direzione di un Dipartimento universitario alle prese con l’applicazione delle normative introdotte dalle ultime Riforme. Una posizione fondamentale assunta nel momento in cui tutto stava cambiando: il raddoppio dei Titoli, la moltiplicazione dei Corsi di Laurea e degli Insegnamenti, l’organizzazione in «moduli» di questi ultimi, la definizione degli indirizzi, l’applicazione di criteri standard di valutazione e monitoraggio, eccetera.
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Piero Sraffa, la sfinge marxiana
di Franco Romanò
Perché tornare a occuparsi di un uomo enigmatico e di un economista per lungo tempo dimenticato? Tanto più che la teoria economica appare ostica ai più. Cercherò di dirne le ragioni, evitando il più possibile argomenti troppo specifici.
Nel mondo rovesciato in cui ci capita di vivere, sono sempre più numerosi gli articoli e i saggi critici sull’andamento dell’economia e sulla teoria economica medesima, scritti da uomini di potere. Uno in particolare mi ha colpito perché al centro del suo discorso compare una metafora poco usuale in un uomo e mi piace pensare che senza il femminismo di mezzo, non gli sarebbe venuta in mente. Tanto più che Giandomenico Scarpelli, un dirigente della Banca d’Italia che si occupa di collocazione dei titoli di stato, è ritornato a occuparsi di teoria economica per aiutare la figlia a sostenere gli esami universitari. Al centro del suo discorso c’è una mirabolante cucina: il forno è acceso e va a mille, i fuochi pure, le pentole sono già pronte e così tutti gli accorgimenti tecnici più sofisticati; solo che non c’è più nulla da cucinare e infatti nel titolo del suo saggio l’economia odierna diventa una Ricetta senza ingredienti. Ecco, una prima risposta al quesito che ho proposto posto all’inizio potrebbe essere questa: perché l’economia di Sraffa, parte dagli ingredienti per arrivare alla cucina.
In economia esiste prima di tutto una sostanza fisica: il grano, per esempio, oppure la tela, le stoffe e tutto ciò che serve per riprodurre la vita di ogni giorno, che richiede cura e attenzione, oggi come migliaia di anni fa. Tale sostanza fisica si estende poi alle costruzioni, alle case e a quello che nel gergo economico si definisce infrastruttura: le strade, i ponti, le ferrovie, i beni che permettono di vivere.
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Cuba al bivio
di Carlo Formenti
A proposito del libro Cuba 11J. Protestas, respuestas, desafíos, curato da Julio Carranza Valdés, Manuel Monereo Pérez e Francisco Lopez Segrera ed editato dalla ELAG (Escuela de Estudios Latinoamericanos y Globales) e dalla rivista argentina Pagina 12
Cuba 11J. Protestas, respuestas, desafíos, curato da Julio Carranza Valdés, Manuel Monereo Pérez e Francisco Lopez Segrera ed editato dalla ELAG (Escuela de Estudios Latinoamericanos y Globales) e dalla rivista argentina Pagina 12 è un libro (uscito nel dicembre scorso) che prende spunto dalle manifestazioni di protesta che si sono svolte in alcuni quartieri dell’Avana e in altre città cubane l’estate scorsa, per analizzare le difficoltà che il Paese socialista caraibico si trova a fronteggiare a causa della crisi pandemica e del concomitante inasprimento del bloqueo imposto dall’amministrazione degli Stati Uniti (voluto da Donald Trump e confermato dal neopresidente democratico Joe Biden). Il libro si articola in 16 capitoletti firmati da altrettanti autori (economisti, sociologi, politologi ed esponenti di altre discipline) ed è dedicato ad uno di essi, il sociologo e storico della Rivoluzione cubana Juan Valdés Paz, venuto a mancare lo scorso ottobre. In appendice il testo di un discorso tenuto dal Presidente Miguel Diaz Canel il 18 luglio 2021 e alcune interviste a intellettuali ed artisti, nonché a giovani studenti che hanno partecipato alle proteste.
I punti di vista espressi dagli autori nei sedici testi raccolti nel volume sono articolati e differenziati, per cui è praticamente impossibile riassumere il contenuto del libro. Ho quindi deciso di non stendere un banale elenco delle varie posizioni, bensì di concentrare l’attenzione sui sei contributi che mi sono parsi più stimolanti, raggruppando i temi che vi sono trattati in tre aree: (1) ricostruzione degli adempimenti del regime nei primi trent’anni di vita e delle cause che, a partire dagli anni Novanta, rischiano di metterli a rischio; e valutazione di quali riforme economiche (2) e politiche (3) potrebbero consentire di superare la crisi.
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Collettivismo… forzato?
di Nico Maccentelli
Una delle critiche più ricorrenti che gran parte della sinistra, dagli euroglobalisti a certi “antagonisti”, rivolge a chi va in piazza contro il green pass e l’obbligo vaccinale è quello di essere individualista, individui che pensano solo a se stessi, a cui non frega nulla della pandemia e che quindi non hanno alcuna responsabilità per la salute pubblica, senza una visione collettiva della società. Articolando questa critica su un piano più teorico, i “no vax” sarebbero degli autentici esegeti del liberalismo borghese. Ma è davvero così?
Il movimento no green pass nel suo complesso, dunque, per chi sbandiera modelli di collettivismo da realismo socialista sarebbe dunque espressione di tante ambizioni e rivendicazioni individualistiche. Di fatto i nostri “collettivisti responsabili” tirerebbero fuori niente po’ po’ di meno che John Stuart Mills (1806-1873) il filosofo ed economista britannico che con la sua visione utilitaristica sarebbe il padre del liberalismo moderno, ossia la libertà e l’autonomia dell’individuo in opposizione allo Stato e al suo potere di controllo sociale e sulle individualità.
In pratica rivendicare una libertà (non la libertà totale, questo è il primo enunciato truffaldino dei nostri) come quella di dissentire, di avere dubbi e quindi di non accettare il ricatto statale di questo tipo di vaccinazione, sarebbe una rivendicazione di tipo liberale borghese. Si potrebbe già replicare col fatto che la questione in realtà è sul terreno dell’efficacia immunizzante o meno di questi vaccini e che è evidente che se da un vaccino dipendesse la vita di tutti il discorso cambierebbe. Quindi, altra replica elementare sarebbe sul carattere teleologico di tale scienza, questa sì non certo neutrale e del tutto liberal borghese, tutt’altro che finalizzata al bene comune, ma ai lauti profitti di multinazionali come la Pfizer: la multinazionale farmaceutica con il record di risarcimenti miliardari per farmaci nocivi (affidereste mai vostro figlio undicenne a un pedofilo?).
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Lenin in Inghilterra, Krahl in Italia1
di Marcello Tarì
Questo articolo mi è stato domandato tempo fa da Meike Gerber, Julian Volz e Emanuel Kapfinger per il volume “Für Hans-Jürgen Krahl. Beiträge zu seinem antiautoritären Marxismus” che esce in questi giorni in Germania per la casa editrice Mandelbaum Verlag in onore e memoria del leader francofortese del SDS scomparso a soli 27 anni nel 1970. Il volume tratta i temi centrali delle sue ricerche come l’analisi di classe, il suo confronto con Adorno, la mediazione di teoria e pratica, la dialettica e quindi la ricezione internazionale e la rilevanza contemporanea dell’approccio antiautoritario di Krahl. L’articolo è una breve rassegna ragionata della ricezione della sua opera in Italia a partire dal 1968 e nella sua versione tedesca è arricchito da una bibliografia e alcune note esplicative per il pubblico tedesco. Hanno partecipato al volume Pauline Corre-Gloanec, Samuel Denner, Andreas George, Meike Gerber, Emanuel Kapfinger, Robin Mohan, Alexander Kluge, Hermann Kocyba, Hans-Jürgen Krahl, Marcello Tarì, Julian Volz e Frieder Otto Wolf
La ricezione italiana delle idee di Hans-Jürgen Krahl fu non solo immediata rispetto alla loro formulazione, ma quasi contemporanea a quella della Scuola di Francoforte da parte del grande pubblico. Sebbene infatti alcuni dei lavori di T.W. Adorno fossero stati pubblicati in italiano a partire dalla metà degli anni ’50 – ma Dialettica dell’illuminismo appare in traduzione italiana solamente nel 1966 – fino al ’68 le idee della scuola francofortese non ebbero grande circolazione oltre il ristretto circolo di specialisti e studiosi, soprattutto per via dello stretto controllo del Partito Comunista sul dibattito teorico che al tempo era ancora dominato dallo storicismo nella sua variante specificamente italiana. Quindi, la cosa abbastanza curiosa che accadde è che la conoscenza della Scuola di Francoforte da parte del grande pubblico fu contemporanea a quella della sua critica da sinistra operata dal movimento studentesco tedesco. Non per caso, a parlare per primi di Krahl in Italia furono due giovani ricercatori italiani che si trovavano a studiare la Teoria Critica a Francoforte durante il ’68 e che ovviamente partecipavano alla ribellione in corso, la quale era una rivolta contro la società capitalista ma anche nei confronti dell’ortodossia marxista-leninista e dello storicismo (e il moralismo) italiano.
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Rileggere Marx con gli occhi di Lukàcs
di Carlo Formenti
“Ombre rosse”, che sarà a giorni in libreria per i tipi di Meltemi, è un saggio atipico rispetto ai miei libri precedenti, nella misura in cui prende di petto alcuni nodi teorico-filosofici che altrove erano appena abbozzati, o rimanevano sullo sfondo rispetto all’analisi sociologico-politica. L’esigenza di imbarcarmi in questa impresa è nata un paio d’anni fa, subito dopo l’uscita di un volumetto (1) che conteneva la registrazione di una lunga conversazione fra chi scrive e Onofrio Romano, nel corso della quale tentavamo di capire di quali limiti la teoria marxista dovrebbe sbarazzarsi per riacquistare tutto il suo potenziale rivoluzionario. L’intento non era, come troppo spesso capita, riscoprire l’autentico pensiero di Marx per contrapporlo alle falsificazioni degli epigoni. “Il punto di vista adottato dagli autori di questo libro, scrivevamo, è diverso: partendo dal presupposto che l’originario corpus teorico marxiano - accanto a straordinari elementi di attualità sia sul piano teorico che su quello politico - contiene tesi datate, incomplete e contraddittorie, assume che non lo si possa contrapporre né separare dai tentativi storici di calarlo nella realtà. Pensiamo che sia più utile cercare di capire quali concetti - presenti tanto in Marx quanto nelle varie tradizioni marxiste, anche se con diverse sfumature – vadano aggiornati o addirittura archiviati, in quanto non servono più alla trasformazione rivoluzionaria dell’esistente, se non rischiano di contribuire alla sua conservazione.”
Nella nostra conversazione venivano indicati una serie di punti di criticità: in particolare, affermavamo la necessità:
1) di problematizzare la visione ottimista secondo cui, una volta superata l’estraneità del lavoratore al prodotto del proprio lavoro attraverso il processo di ri-appropriazione dei mezzi di produzione, si passerà automaticamente dal regno della necessità al regno della libertà;
2) di criticare l’ideologia progressista che accomuna certe parti delle opere di Marx al culto liberale della missione “civilizzatrice” della società capitalista;
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Il Passante «green». Una civica e coraggiosa colata d’asfalto
di Wu Ming
Cinque anni fa, insieme a Wolf Bukowski, abbiamo condotto un’inchiesta in sette puntate sul «Passante di Bologna», ovvero l’allargamento a 16/18 corsie del nastro autostradale che attraversa la periferia del capoluogo emiliano, a poco più di tre chilometri dalle Due Torri.
I primi tre articoli vennero pubblicati sul sito di Internazionale, con le foto di Michele Lapini, nel dicembre 2016. Gli altri quattro qui su Giap, tra gennaio e marzo 2017.
Non si trattò di un lavoro fatto solo sulle carte: assistemmo agli incontri del farlocchissimo «percorso partecipativo», ci intrufolammo alle cerimonie di presentazione del progetto, incontrammo le persone che abitano a ridosso dell’opera, organizzammo iniziative e camminate a tema.
Una sera di gennaio
L’11 gennaio 2017 illustrammo la prima parte della nostra ricerca al centro sociale Làbas, nell’ex-caserma Masini, tra le altre cose un luogo di memoria, dove furono rinchiusi e torturati diversi partigiani.
Non eravamo habitués di quello spazio e per la prima volta contribuivamo a riempirlo, per dare un segnale in un momento critico. Fioccavano le minacce di sgombero, di svendita dell’immobile da parte della proprietà – Cassa Depositi e Prestiti – e di speculazione edilizia in tandem con l’amministrazione. Non passava giorno senza che sulla stampa si leggesse di future, mirabili «riqualificazioni». L’allora sindaco Merola parlava di un albergo di lusso e di nuovi parcheggi. Fermare quei progetti e fermare il Passante per noi erano la stessa lotta, contro il partito dell’asfalto e del cemento-e-tondino.
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L’integrazione continentale dell'industria bellica e l'imperialismo europeo
di Domenico Moro
La crisi è sempre una spinta a centralizzare i capitali, cioè a unire capitali diversi sotto una medesima direzione, attraverso processi di fusione e acquisizione di imprese. Infatti, mettere insieme più imprese comporta un risparmio di costi, grazie alla realizzazione di migliori economie di scala, e permette alle imprese di allargare e meglio presidiare il proprio mercato di sbocco, creando oligopoli. In questo modo, il capitale combatte la caduta tendenziale dal saggio di profitto. Dal momento che oggi, in un’epoca di globalizzazione, le imprese operano su scala mondiale o almeno continentale, le fusioni e le acquisizioni avvengono soprattutto attraverso le operazioni cosiddette cross-border, cioè oltre i confini nazionali, con la creazione di oligopoli su scala europea e mondiale. Per quanto riguarda il capitale italiano si sta assistendo a un ulteriore salto di qualità del suo livello di internazionalizzazione, che passa attraverso un processo di integrazione con altri capitali, in primo luogo quello francese e quello tedesco. Questo è particolarmente evidente anche nel settore dell’industria della difesa, che, a causa della sua natura strategica per lo Stato, è di particolare importanza per i risvolti politici e geostrategici e per le implicazioni riguardo al processo di integrazione politica europea, nonché per definire il ruolo e le caratteristiche della formazione economico-sociale italiana a partire dalla struttura del capitale industriale italiano.
Cominciamo dal quadro generale. Le attività di fusione e acquisizione (M&A, Merger and Acquisition), che hanno visto protagoniste le imprese italiane, hanno raggiunto nel 2021 un nuovo record.
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