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The War Must Go On
di Alfonso Gianni
Rallenta su un fronte, quello palestinese, s’inasprisce sull’altro, quello russo-ucraino, proprio mentre, e forse proprio per questo, cominciano a circolare proposte di pace, che a quanto ci è dato per ora di sapere non sono poi tanto diverse da quelle avanzate poco dopo l’inizio della guerra, casomai peggiorative per l’Ucraina; senza oscurare i cinquanta e più focolai di guerra tutt’ora accesi, di cui il più grave è forse quello “dimenticato” in Sudan, o quelli che possono aprirsi da un momento all’altro (vedi gli Usa contro il Venezuela): il sistema di guerra, che ormai sovraordina le relazioni internazionali, non si ferma. Al contrario si autoalimenta. Attraverso inganni e autoinganni, falsità e costruzioni immaginarie di nemici alle porte. Nulla ci viene risparmiato, perché la guerra non è più la prosecuzione della politica con altri mezzi, è la sostituzione della politica. Conseguentemente della diplomazia, ridotta ad ancella muta di un simile cambiamento.
Per averne un’ennesima prova, basta gettare l’occhio sulla risoluzione approvata dal Consiglio di sicurezza dell’Onu sul conflitto in Palestina, che non ha fatto altro che ribadire i venti punti del cosiddetto piano di pace presentato da Trump alcune settimane fa. Un piano che fin dal suo primo annuncio si presentava come un ricatto rivolto ad Hamas e ai palestinesi: o accettate questo o sarete distrutti. Il principio di realtà è totalmente ignorato, anzi capovolto. Anche i più realisti, che non osavano chiamare i venti punti trumpiani un piano di pace, ma al massimo un progetto di tregua o anche soltanto un momentaneo “cessate il fuoco”, sono stati smentiti. Per quanto persino quest’ultimo fosse meglio del genocidio continuo, e come tale da più parti era stato accolto, tutto si può dire tranne che abbia retto alla prova dei fatti. A meno che non si voglia, come i vari inviati ed esponenti dell’Amministrazione Trump hanno fatto, fingere che una tregua possa tranquillamente “tenere” ed essere definita tale a fronte del perdurare delle uccisioni giornaliere di palestinesi, delle distruzioni operate dall’esercito israeliano in terra di Palestina, del consolidamento del possesso del 53% del territorio, demarcato dalla famigerata linea gialla, delle violenze, rivolte persino contro i molli tentativi dell’esercito israeliano di contenerne la furia aggressiva, perpetrate dai coloni in Cisgiordania, la cui condizione è ulteriormente peggiorata con l’invasione di Gaza da parte dell’Idf.
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La Sinistra Negata 06
Sinistra rivoluzionarla e composizione di classe in Italia (1960-1980)
a cura di Nico Maccentelli
Redazionale del nr. 18, Dicembre 1998 Anno X di Progetto Memoria, Rivista di storia dell’antagonismo sociale. Le puntate precedenti le trovate nei link a piè di pagina.
Parte terza. Ancora sugli Anni Ottanta.
La sinistra rivoluzionaria italiana di fronte alla crisi. (Seconda parte)
2. I FATTORI SOGGETTIVI.
Malgrado quanto si è detto, non ci si deve illudere che il crollo subito dalla sinistra di classe nel corso degli anni Ottanta sia stato dovuto in via esclusiva all’iniziativa dell’avversario.
La storia delle classi subalterne italiane e delle loro espressioni organizzate ha conosciuto momenti di repressione più dura (anche se non sotto il profilo della mistificazione ideologica, oggi acuta quanto mai in passato) senza che ciò comportasse un vero e proprio salto generazionale, né il formarsi di un drammatico vuoto di memoria.
È nostro avviso che, se ciò è avvenuto, la causa vada ricercata anche in debolezze interne, che hanno dettato reazioni sbagliate e confuse a quanto stava accadendo. Cercheremo di esaminare brevemente alcuni dei comportamenti dannosi e autolesivi che hanno consentito alla repressione di colpire tanto in profondità.
Durante l’emergenza
Alla fine degli anni Settanta la sinistra rivoluzionaria coltiva un senso di potenza rasentante l’illusione dell’invincibilità. Non vi è scuola, non vi è quartiere, non vi è grande fabbrica, nelle maggiori città italiane, in cui non si respiri aria di insubordinazione. Inoltre il ’77 ha instaurato forme di socialità e
di aggregazione in gran parte sconosciute al ’68. È possibile vivere assieme, come una grande tribù, riducendo al minimo i contatti con la società “esterna”. Per molti resta indimenticabile l’enorme corteo che alla fine del 1977 si è mosso attraverso Bologna, a conclusione del convegno sulla repressione, e la sensazione respirata nei giorni precedenti di potersi quasi impadronire di una intera città.
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La Banca Romana e il lungo filo che porta fino a Siena
di Giuseppe Gagliano
Lo scandalo della Banca Romana appartiene a un’Italia lontana, quella dei salotti umbertini, dei ministri che si muovevano tra Montecitorio e i palazzi romani con passo felpato, dei giornali che sapevano ma tacevano, dei governi che cadevano per un dossier rimasto troppo a lungo chiuso in un cassetto. Ma più si osserva quella vicenda e più si ha la sensazione che l’Italia, nei suoi tratti profondi, non sia mai cambiata davvero. Era il 1893, eppure la storia potrebbe essere scivolata senza sforzo fino ai giorni in cui il Monte dei Paschi di Siena, la banca più antica del mondo, veniva trascinato sulla scena pubblica tra svalutazioni, aumenti di capitale, derivati travestiti da strumenti salvifici e un intreccio di poteri che rendeva impossibile distinguere ciò che era politico da ciò che era bancario.
La Banca Romana era, all’epoca, uno dei sei istituti autorizzati a emettere moneta. Un privilegio enorme che avrebbe richiesto rigore, trasparenza, controlli severi. Era invece gestita come un feudo personale, un crocevia tra finanza e potere, dove la carta moneta non era un bene pubblico ma un passepartout per agevolazioni, prestiti a fondo perduto, salvataggi selettivi. Le sue casse si svuotavano mentre Roma, proclamata capitale da poco, diventava un cantiere immenso. Cantieri gonfiati, terreni venduti e rivenduti, palazzi costruiti con soldi presi a prestito e mai restituiti. La crisi immobiliare, maturata con la stessa velocità con cui le strade della città prendevano forma, travolse la banca come un’onda lunga. E la risposta della dirigenza fu un gesto che appartiene alla lunga tradizione delle scorciatoie italiane: stampare più denaro di quanto fosse consentito, creare una doppia contabilità, mascherare buchi con altri buchi, rimandare la resa dei conti in un eterno “domani”.
È difficile non rivedere in questo quadro la lunga stagione del Monte dei Paschi. Anche lì un territorio, Siena, trasformato in una cittadella del potere; anche lì una banca che non era una banca qualsiasi, ma la cassaforte di una classe dirigente, l’epicentro di un progetto politico locale che irradiava influenza fino a Roma. MPS aveva un peso di bilancio enorme nella provincia e nella regione, era la principale finanziatrice di iniziative culturali, sportive, sociali.
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Le quattro narrazioni sul conflitto in Ucraina
di Emanuele Maggio
Le posizioni sul conflitto ucraino si possono riassumere in QUATTRO grandi categorie, a partire dalla differenza tra antiamericanismo e filoamericanismo, declinati secondo interpretazioni MORALI dei fenomeni (cioè fantasiose, sceniche), oppure REALISTE (cioè basate sugli interessi delle Potenze e delle loro élites).
ANTIAMERICANISMO MORALE
L’antiamericanismo morale è tipico di coloro che istintivamente non credono a una sola parola dei media occidentali e istintivamente simpatizzano per i nemici degli Usa, fossero anche gli Unni di Attila. Secondo questa interpretazione, gli Usa e l’UE sono il Male Assoluto e qualunque cosa è meglio.
Costoro interpretano il conflitto ucraino secondo la propaganda di Mosca: la Russia, ultimo baluardo della cristianità, è intervenuta in Ucraina per debellare il nazismo e proteggere la popolazione russofona. Qualunque altra cosa è da imputare all’Occidente malvagio.
ANTIAMERICANISMO REALISTA
Chi appartiene a questa categoria sottolinea le responsabilità occidentali all’origine del conflitto ucraino e gli interessi delle élites occidentali nella sua continuazione.
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Giornalisti, vil razza dannata
di Dante Barontini
Premessa breve, ma necessaria. Siamo un giornale, alcuni di noi hanno lavorato per decenni in altri media, frequentando redazioni, l’alto e il basso della società, palazzi del potere, bar dove cronisti e “fonti riservate” si incontrano quotidianamente.
Conosciamo il mestiere e i suoi format, sappiamo riconoscere quando viene messa la sordina, ignorata una notizia o una tendenza (è la cosa più semplice: “non ne parliamo”), invertire “aggressore e aggredito” (una carica di polizia immotivata contro ragazzi a mani nude può in un attimo diventare “scontri”), e via elencando.
Insomma, siamo giornalisti pure noi, ma di quelli che hanno messo le proprie “competenze” dentro un progetto collettivo di ricostruzione della soggettività antagonista e indipendente dal “sistema dominante” (per dirla in breve).
E che sanno riconoscere i “colleghi” che obbediscono al comando della proprietà, rappresentata istituzionalmente dal direttore e dai capiredattori.
In questi giorni l’esibizione di servilismo professionale si è dovuta applicare a due compiti piuttosto abituali: silenziare preventivamente uno sciopero generale seguito da una manifestazione nazionale (più altre locali) e trovare qualcosa che aiuti a “coprire”, magari mettendo in pessima luce – direttamente o indirettamente – le aree politico-sindacali-associative che davano corpo alle mobilitazioni.
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Contro la finanziaria di guerra la mobilitazione è necessaria
di coniarerivolta
Di fronte a una manovra che smantella il Welfare e i servizi pubblici e apre le porte a un gigantesco riarmo imposto da Bruxelles, dalla NATO e dal governo italiano, lo sciopero del 28 novembre lanciato da USB diventa uno spartiacque decisivo. I numeri dell’economia italiana parlano chiaro, raccontando di un Paese che arretra mentre si accumulano più armi e meno diritti di cittadinanza.
Crescita in caduta libera: l’Italia fanalino di coda dell’Europa
La Commissione Europea ha rivisto al ribasso le previsioni di crescita del PIL italiano per il 2025, dallo 0,8% atteso a inizio anno allo 0,4% della stima del 17 novembre. Mentre l’Eurozona crescerà in media dell’1,3%, l’Italia diventa così il suo fanalino di coda. È importante sottolineare che l’enfasi sulla crescita non è un vezzo. Meno crescita vuol dire, meno occupazione e meno opportunità di lavoro complessive, quindi condizioni di vita peggiori per milioni di persone. Un rallentamento della crescita si scarica, dunque, direttamente sulle spalle di lavoratori e lavoratrici. Questo rallentamento, inoltre, non è casuale, e arriva dopo tre anni in cui il Governo Meloni si è distinto come primo della classe nell’applicazione zelante dei vincoli del Patto di stabilità ed è tornato a praticare politiche di austerità. L’Italia è tornata all’avanzo primario già nel 2024 ed ha previsto di mantenerlo per tutto il triennio successivo.
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La strana democrazia di Macron: che diamine sta accadendo in Francia?
di Clara Statello
Liberté, Egalité, Fraternité…ma solo finché sta bene a me. Che il motto dei liberal, falsamente attribuito a Voltaire, “non sono d’accordo con ciò che dici ma sono pronto a dare la vita affinché tu possa dirlo” nel corso della guerra in Ucraina si fosse trasformato in “sei libero di dire e pensare ciò che vuoi, finché la penserai come Ursula von der Leyen”, è cosa arcinota.
Ma che la Francia, la patria dell’Illuminismo e della Rivoluzione, la Nazione che ha donato la statua della Libertà agli Stati Uniti, il Paese di Sartre, Camus, Voltaire, Robespierre, Montesquie, che ha dato rifugio ai nostri perseguitati politici, si sia trasformato in uno Stato se non totalitario, certamente autoritario, è davvero difficile da credere.
Purtroppo, però, i fatti parlano chiaro e dipingono un governo che, nonostante il consenso più basso di sempre, usa il pugno duro contro i “dissidenti” (chiamiamoli così, visto che ormai, in democrazia liberale, non esiste l’opposizione) e calca la mano sulla repressione. Anche contro i ragazzi dei licei.
E’ notizia pubblicata oggi (27 novembre 2025) sul cartaceo del Corriere della Sera, l’intervento violento della polizia nei confronti degli studenti dei licei più esclusivi di Parigi, per “sedare” la tradizionale sfida natalizia della guerra degli abeti.
Si tratta di un gioco goliardico tra i ragazzi dei licei Henri-IV e Louis-le- Grand, in cui si è formata l’elite del Paese: da Emmanuel Macron a Jaque Chirac, da Michel Foucault a Simone Veil, da Jean Paul Sartre a Roland Barthes.
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Il mondo, come lo conosciamo, finisce nel 2050
di Paolo Di Marco
1- i fatti
È molto che se ne parla, a volte anche a livello di massa (tanto che ci avevano anche fatto un film), e fino all’anno scorso sembravano falsi allarmi, tanto che l’IPCC ne dava una probabilità del 4% nel 2100; gli studi più recenti hanno invece rovesciato il quadro: non è più questione di se ma di quando; e il quando più probabile è tra il 2025 e il 2095, con centro nel 2050: per allora l’AMOC, la grande corrente (Atlantic Meridional Overturning Circulation) che porta le acque calde dal sud al nord e riporta le acque fredde da nord a sud, redistribuendo il calore su tutta la superficie marina e poi terrestre (trasporta 50 volte l’energia prodotta in un anno da tutta l’umanità) si fermerà.
Il collasso ha una causa semplice: il riscaldamento globale sta sciogliendo i ghiacciai della Groenlandia, e l’acqua dolce diminuisce la salinità delle acque del nord, che è il motore base della circolazione.
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La guerra e la moneta
di Stefano Lucarelli
Un programma per l’alternativa dovrebbe sottolineare che le condizioni economiche per la pace passano per una riprogettazione del sistema monetario internazionale
Marco Bertorello e Giacomo Gabbuti nel loro appello su Jacobin Italia invitano a riflettere su un percorso possibile che dalla critica dell’economia conduca a un programma per l’alternativa. Un invito nobile e urgente che ho visto ciclicamente riproporsi negli ormai 36 anni che separano la nostra esistenza dall’evento che simbolicamente ha segnato il passaggio da un assetto mondiale a un altro. La caduta del Muro di Berlino, con il suo portato di speranze tradite, ha infatti accelerato quei processi istituzionali che hanno visto il trionfo della privatizzazione globale che, passando per guerre volte a esportare la democrazia, crisi finanziarie, reali, ecologiche, pandemie, reazioni protezionistiche da parte della potenza egemone e nuove guerre, ha amplificato sempre più gli squilibri economici fra paesi.
Il nodo del sistema monetario internazionale
Tutte le volte che viene sollevato il problema dell’alternativa, ci si rivolge anzitutto agli economisti, come se fossero depositari di saperi se non salvifici, quanto meno utili per aprire nuovi orizzonti di analisi. In effetti gli economisti dovrebbero sapere che il sistema economico internazionale del dopoguerra, il gold-exchange standard, il rapporto di cambio tra valute agganciato al dollaro e non più all’oro come stabilito a Bretton Woods, sorge da un peccato originale: fare di una valuta nazionale, il dollaro, la valuta di riserva internazionale. Com’è noto, quel sistema venne sospeso nel Ferragosto del 1971, unilateralmente, dal Presidente Nixon per realizzare un sistema di cambi flessibili in cui l’accettazione del dollaro come valuta di riserva internazionale non poggia più su ragioni economiche ma su ragioni politiche, o, per meglio dire, su rapporti di forza. Qui stanno i motivi principali della tendenza agli squilibri globali che, date certe condizioni, possono condurre a profonde tensioni finanziarie e commerciali, favorite dalla deregolamentazione finanziaria, fino a sfociare in vere e proprie guerre.
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L'imboscata
di OttolinaTV
Witkoff Leaks: l’incredibile storia della Fuga di Notizie del Secolo per impedire la Pace in Ucraina
“Witkoff dovrebbe essere processato per alto tradimento, e Trump per incapacità di intendere e di volere”; da ieri notte, gli hooligan del giardino fiorito sono in fiamme. Bloomberg, infatti, ieri sera ha lanciato lo scoop dell’anno: è l’intercettazione di una telefonata di oltre un mese fa tra l’inviato USA Steve Witkoff e il consigliere di Putin Yuri Ushakov dove, però, invece che prendersi a male parole, parlano in modo amichevole e informale di come arrivare a un piano di pace “simile a quello in 20 punti per Gaza”. Tanto è bastato a mandare su tutte le furie i tifosi della guerra senza fine che, ormai, sono sull’orlo di una crisi di nervi e che, presi dall’entusiasmo per la nuova occasione di far saltare di nuovo tutti i negoziati, si sono dimenticati di farsi la domanda più importante: ma chi è che si è permesso di intercettare uno dei più alti funzionari USA mentre svolgeva un compito così delicato e, poi, di passare l’intercettazione alla stampa, manco fosse un Fabrizio Corona qualsiasi? D’altronde, come commenta sagacemente Simplicius The Thinker, vanno capiti: “Per l’establishment NeoCon e per gli europei non si tratta solo di salvare l’Ucraina e la guerra contro la Russia, ma anche di salvare la propria pelle e la propria carriera politica”; Simplicius sposa a pieno la logica del nostro appello per mandarli #tuttiacasa – e, cioè, che se una classe dirigente decide, contro il volere del popolo, di portarti in guerra, e poi quella guerra la perde pure, non dovrebbe più essere legittimata a governare nemmeno il condominio e, nella migliore delle ipotesi, dovrebbe ritirarsi a vita privata.
Ma andiamo per gradi; il punto di partenza, ovviamente, è il piano di pace in 28 punti che, qualche giorno fa, ha travolto come uno tsunami il business as usual della guerra d’attrito contro la Russia in Ucraina, un piano che è stato accolto come una resa totale a Mosca (che, effettivamente, quando per 3 anni prendi solo pizze e, nel frattempo, hai pure svuotato i magazzini, è uno degli esiti più probabili). La controparte russa aveva apprezzato, perché, per la prima volta, si cercava di rispondere agli obiettivi veri dell’operazione militare speciale; concedere a Putin la vittoria, però, è impensabile, perché se viene meno il mito dell’invincibilità dell’Occidente collettivo, per le élite parassitarie occidentali la cosa si mette veramente male.
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Il 2026 sarà l’anno della crisi?
di Vincenzo Comito
Si moltiplicano gli allarmi autorevoli sul possibile scoppio di qualche bolla sui mercati, da quella dell’Intelligenza artificiale alle criptovalute, ai debiti sovrani. La crisi tra l’altro sarebbe più rovinosa del 2008 per il ruolo, ora incendiario e non regolatore, dell’Amministrazione Usa
Premessa
Nelle previsioni per il 2026 un posto di grande rilievo spetta, anche se in negativo, all’ipotesi di una crisi finanziaria che abbia origine dagli Stati Uniti e che si diffonda poi in diverse direzioni geografiche, in particolare verso il nostro continente, con danni più o meno gravi nei vari Paesi.
Negli ultimi tempi, in effetti, gli allarmi sul possibile scoppio di qualcuna delle numerose bolle oggi presenti sui mercati si sono fatti sempre più insistenti e formano ormai un coro; a nostro parere non bisogna sottovalutarli, anche perché tra i profeti di sventura ci sono molti personaggi e molti media certamente autorevoli. Se il sistema finanziario crolla, sarà stato una delle implosioni più previste della storia (The Economist, 2025, a). Tali allarmi sembrano in qualche modo rafforzati di recente dalla rilevante nervosità delle Borse dopo circa tre anni di rialzi continui. Non manca peraltro qualche debole voce dissenziente che vede le cose in maniera più positiva.
Di seguito analizziamo le principali ragioni avanzate a sostegno di tale minaccia.
L’eventuale scoppio della crisi avrebbe delle grandi conseguenze non solo sui mercati finanziari; essa indebolirebbe ulteriormente, se ce n’era bisogno, l’egemonia statunitense dell’ordine internazionale a favore in particolare della Cina, che pure ne avrebbe anch’essa dei danni, aumenterebbe poi le difficoltà per i paesi fortemente indebitati con in prima fila ovviamente il nostro (pensiamo poi anche a quelli poveri), accentuerebbe ancora, infine, le già forti spinte protezionistiche in atto, in particolare quelle statunitensi (The Economist, 2025, a) e così alla fine essa danneggerebbe tutti, anche se certo non in eguale misura.
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E le banche? Non pagano mai
di coniarerivolta
Dopo aver descritto le riforme in tema di IRPEF, continuiamo a descrivere alcune delle altre misure fiscali presenti, o quantomeno annunciate, nella legge di bilancio.
Fra le varie misure la parte del leone, anche nel dibattito mediatico, l’ha fatta senz’altro la questione “contributo delle banche”. Per capire esattamente di cosa si tratta, occorre fare un passo indietro, anzi due.
Il tema di un maggior contributo del sistema bancario al gettito fiscale emerge nel biennio 2022-23. A seguito dell’ondata inflattiva e conseguente aumento dei tassi di interesse dalle banche centrali, aumenta a dismisura il margine di interesse delle banche commerciali -il divario fra interessi attivi e passivi- una delle componenti fondamentali dell’utile complessivo. Come abbiamo già raccontato, un periodo d’oro per i profitti del sistema bancario.
Ne segue che nella primavera del 2023, il Governo Meloni annuncia in pompa magna una tassazione sugli “extraprofitti” delle banche, identificati appunto come l’incremento di questo margine di interesse rispetto agli anni precedenti. Su tale incremento si decide di imporre un prelievo del 40%. In poche settimane, di fronte alle proteste delle banche, il Governo fa dietrofront: invece di versare quanto dovuto, le banche possono decidere a loro discrezione di accantonare un importo pari a 2,5 volte l’imposta teorica in una riserva non distribuibile. Se i fondi accantonati in questa riserva saranno poi distribuiti agli azionisti sotto forma di dividendi, allora si tornerà a dover pagare l’imposta del 40%.
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L’impoverimento non fa soft power
di comidad
I rituali della fintocrazia prevedono che ogni tanto vi sia un conflitto istituzionale simulato, una tempesta in un bicchier d’acqua che consenta al fantoccio di turno di recitare la parte dell’impavido nocchiero. Quando si tratta di concedere a Giorgia qualche attimo di fittizio protagonismo, il presidente Mattarella si dimostra paterno e comprensivo; l’importante è che sia lui a comandare. Lo si è visto alla riunione del Consiglio Supremo di Difesa del 17 novembre scorso, dove la linea l’ha dettata lui, con Crosetto in funzione di maggiordomo. Il Consiglio presieduto da Mattarella ha rilasciato un documento finale in cui si denuncia la “minaccia ibrida” della Russia, e di altre potenze ostili, ai nostri processi democratici ed alla nostra coesione sociale. Molti hanno interpretato queste dichiarazioni come la manifestazione dell’intento di limitare ulteriormente la libertà di espressione. Sicuramente è così, ma non è questo l’elemento più rilevante da notare in dichiarazioni del genere, che rappresentano invece l’esplicita confessione di non detenere più il primato in ciò che, quando proviene dal campo occidentale, viene definito “soft power”. Secondo Mattarella e soci, il rischio è che la Russia riesca ad esercitare sulla nostra popolazione più fascinazione della NATO e dell’UE. Si tratta di un’ammissione piuttosto grave. Si vorrebbe farci credere che il motivo della fascinazione esercitata da Putin stia nella perfida abilità dei suoi troll. In realtà il crollo del soft power ha cause esclusivamente interne al cosiddetto Occidente.
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Intelligenza artificiale, bolla e disoccupazione
di Il Chimico Scettico
La bolla AI probabilmente sta per scoppiare. Le conseguenze del suo scoppio finiranno per colpire anche chi di AI non si è mai interessato.
https://www.nature.com/articles/d41586-025-03776-0
Dopo anni di clamore e investimenti in crescita esponenziale, il boom della tecnologia dell'intelligenza artificiale comincia a mostrare segni di cedimento. Molti analisti finanziari concordano ormai sul fatto che esista una "bolla dell'IA", e alcuni ipotizzano che potrebbe finalmente scoppiare nei prossimi mesi.
In termini economici, l'ascesa dell'IA è diversa da qualsiasi altro boom tecnologico nella storia — oggi gli investimenti nell'IA sono 17 volte superiori rispetto a quelli nelle aziende Internet prima del crollo della bolla dot-com dei primi anni 2000. E, con una valutazione di circa 4.600 miliardi di dollari, l'azienda di IA NVIDIA valeva più delle economie di tutte le nazioni ad eccezione di Stati Uniti, Cina e Germania.
Ma l'IA non sta mantenendo la promessa di rivoluzionare molteplici settori — quasi l'80% delle aziende che utilizzano l'IA ha riscontrato che non ha avuto un impatto significativo sui propri guadagni, secondo un rapporto della società di consulenza gestionale McKinsey, e le preoccupazioni riguardo all'architettura di base dei chatbot stanno portando gli scienziati ad affermare che l'IA ha il potenziale di danneggiare la loro ricerca.
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L’infantilismo dell’Ue disfa i piani per Kiev
di Fabio Mini
Se il teatrino europeo riesce a far fallire ancora i negoziati, Putin potrà dimostrare agli alleati dei Brics che non è colpa sua e passare così all’opzione militare, la sola cosa che conta nelle trattative
I piani sono cose serie, sono l’articolazione delle strategie e della politica. Il presunto piano per l’Ucraina di 28 punti di Trump e quello di 18 degli europei non sono piani.
Sebbene siano attribuiti alla mente maligna di Putin, a quella rapace di Trump e ai geni europei sono solo i prodotti maldestri, ingenui e raffazzonati che qualche burocrate statunitense o europeo ha tratto da una cosa seria: l’elenco delle quattro o cinque priorità e condizioni che Trump e Putin concordarono in Alaska, a voce ma opportunamente registrate, stenografate e verbalizzato. Una lista di ciò che Putin aveva sempre e pubblicamente dichiarato e che Trump sembrava aver capito. I punti che lo stesso Putin aveva illustrato ai leader dei Paesi amici della Russia che nel frattempo, durante la guerra, sono aumentati. La Russia non ha mai fatto mistero dei propri interessi e principi fondamentali riguardanti l’Ucraina: neutralità, denazificazione e demilitarizzazione e cessione dei suoi territori acquisiti con le operazioni militari e con i referendum popolari. Tutto il resto apparso nei 28+18 punti era fuffa, che però eccitava in particolare gli europei votati a sostenere il martirio ucraino come altrettanti politici americani ed europei.
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Motivazioni economiche dietro la tregua e il destino di Gaza
di Maurizio Brignoli*
Il grande vantaggio della guerra (nel nostro caso della distruzione volta a favorire pulizia etnica e genocidio) per il capitale è di distruggere il plusvalore in eccesso che determina la crisi da sovrapproduzione e di trasferire il plusvalore, dato che la guerra non ne crea di nuovo, ai vincitori e ha il grande pregio, sempre e solo per chi ne esce vittorioso, di permettere una ridistribuzione, un trasferimento (un furto) di ricchezza.
Lo sterminio israeliano di Gaza, accompagnato dalle molteplici operazioni militari in cui Israele è impegnata, è da inserirsi all’interno di un conflitto più ampio, la famosa “terza guerra mondiale a pezzi” di bergogliana memoria che si sta trasformando sempre più in un’unità completa e realizzata, di stampo interimperialistico in cui Israele svolge, almeno per ora, il ruolo di imperialismo regionale al servizio di Washington.
La ricostruzione
Su Gaza sono state riversate 200.000 tonnellate di esplosivi che hanno portato alla distruzione di case, terreni agricoli, ospedali, scuole, università, moschee, chiese, monumenti, siti storici, primari obiettivi della distruzione non solo fisica ma anche culturale e civile dei palestinesi. Il Programma dell’Onu per lo sviluppo (Undp) il 14 ottobre ha annunciato che serviranno 20 miliardi di dollari nei prossimi tre anni per iniziare la ricostruzione a Gaza, parte di un piano di ripresa complessivo quantificato dall’ultimo Interim Rapid Damage and Needs Assessment (Irdna) su Gaza da parte dell’Onu, dell’Ue e della Banca Mondiale, in 70 miliardi di dollari il cui completamento potrebbe richiedere decenni[1]. Solo la rimozione delle macerie è un compito improbo dato che i bombardamenti hanno prodotto almeno 55 milioni di tonnellate di detriti, sufficienti a riempire Central Park a New York fino a un’altezza di 12 metri o a costruire 13 piramidi di Giza[2].
La distruzione si trasforma quindi in occasione per dare vita a un nuovo processo di accumulazione con lauti affari per le imprese israeliane, saudite, americane, inglesi, italiane, qatariote e altre che si spartiranno gli appalti per la ricostruzione, ma non si può neppure escludere che qualche buon affare potrà farlo quella borghesia compradora palestinese che collabora con Israele.
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In corsa contro il tempo per concludere il conflitto in Ucraina
di Gianandrea Gaiani
“Spero di incontrare presto il Presidente Zelenskyy e il Presidente Putin, ma solo quando l’accordo per porre fine a questa guerra sarà definitivo o nelle sue fasi finali” ha scritto ieri serra (in Italia) Donald Trump in un post su Truth confermando che le trattative sono ancora aperte e il risultato non può essere dato per scontato.
Del resto il piano di pace per fermare la guerra in Ucraina presentato dagli Stati Uniti e con ogni evidenza messo a punto congiuntamente con la Russia in seguito ai colloqui tra l’inviato speciale statunitense Steve Witkoff e l’inviato russo Kirill Dmitriev, sembra essersi moltiplicato al punto che le proposte sul tavolo sono almeno tre.
Il piano americano in 28 punti, è stato giudicato positivamente dai russi. In una telefonata con Recep Tayyip Erdogan, Vladimir Putin ha detto il 24 novembre che “queste proposte, nella versione che abbiamo visionato, sono coerenti con le discussioni del summit in Alaska e, in linea di principio, possono formare la base per un accordo di pace finale”.
Tra i punti salienti il piano prevede che ai russi venga riconosciuta l’annessione di Crimea, Lugansk e Donetsk con il ritiro delle truppe ucraine da quel 10 per cento di quest’ultima regione che ancora controllano.
Nelle regioni di Kherson e Zaporizhia, anch’esse annesse alla Russia con il referendum del settembre 2022 e attualmente in mano ai russi rispettivamente per il 76 e 80 per cento, è previsto che i russi conservino il controllo delle aree sotto il loro controllo al momento della firma dell’accordo.
Se a Kherson i due eserciti sono separati dal Fiume Dnepr, confine naturale che al momento i russi non sembrano voler oltrepassare in forze, a Zaporizhia le forze di Mosca stanno accelerando le operazioni offensive.
Come previsto da Analisi Difesa, in vista di un possibile accordo che congeli il fronte, i russi premono da sud e da est per giungere a ridosso dell’omonimo capoluogo regionale, obiettivo pe5seguibile una volta caduta Hulyapole dove i russi hanno ormai raggiunto la periferia dopo aver conquistato i villaggi a est e nord est della cittadina dove le truppe di Mosca cercano di interrompere la via di rifornimento per Huliapole (nella mappa).
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Il divorzio dal reale: alcune riflessioni economico-filosofiche per una anatomia della modernità
di Andrea Granato
Il testo che segue presenta l’abbozzo di una anatomia del mondo moderno, condotta attraverso un registro molteplice: filosofico, economico e storico insieme. Vedremo così, come in tre distinti punti di vista disciplinari, si presenti la medesima traiettoria complessiva che oggi, arrivata a un punto estremo, esige di essere pensata secondo un nuovo e diverso indirizzo
Definire il moderno non è, e non è mai stato, facile. Ma c’è poi davvero bisogno di una (ennesima) definizione teorica? Vorrei dunque iniziare altrimenti, in modo quasi obliquo, forse un po’ spiazzante: ogni soldato semplice di Napoleone aveva il bastone da ufficiale nello zaino. Era lo stesso Napoleone a dirlo loro – per incoraggiarli, ed è impossibile non pensare a come questo aneddoto rispecchi la storia di un certo semisconosciuto tenente d’artiglieria, corso, divenuto più tardi Imperatore dei Francesi e andato in sposa a una figlia delle famiglie più antiche dell’Ancien Régime…Ma com’era stato possibile ciò? Com’è possibile che tutto sia possibile? Cos’è il moderno? Nello sguardo di Napoleone ogni soldato era (in potenza) un ufficiale. Egli vedeva ciò che lui stesso incarnava: il campo del possibile disancorato da ogni ordine fisso e rigido, sia esso “naturale”, “genealogico”, “censitario”. Laddove la parola “ordine” indica semplicemente la realtà già in atto. La modernità – politica ed economica – segna il sopravanzare della potenza sul reale, della libertà sull’essere. Ricordiamo il rovesciamento idealista dell’adagio scolastico: esse sequitur operari. Il sogno americano, così come il mito napoleonico, consiste nella speranza o, a seconda, nell’illusione che si possa essere dal nulla, crescere in brevissimo tempo, senza bisogno di radici sufficientemente profonde. Di fatti la maggior parte dei protagonisti economico-finanziari del mondo americano – i cosiddetti robber barons – non erano «nessuno». Il carattere se vogliamo messianico della terra nordamericana, assimilata alla terra promessa biblica, sta’ appunto in ciò: quel che è nulla (in Europa, nel Vecchio Mondo), può divenire tutto (nel Nuovo). Questo movimento viene emblematicamente espresso dalla generazione dei Carnegie e dei Rockefeller, magnati dell’acciaio e del petrolio di fine ‘800: “Nessun milionario era o sembrava più drammaticamente self-made (venuto su dal nulla) di quelli statunitensi […] L’America era ancora il Nuovo Mondo, la società aperta in un paese aperto, dove era opinione diffusa che l’immigrante senza quattrino potesse rifarsi una vita (essere un self-made man) …”[1]
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Ucraina verso l’accordo con Trump e Putin: il pensiero magico Ue non protegge Kiev
di Barbara Spinelli
Ancora non è dato sapere se gli Stati europei che minacciano di svuotare l’accordo di pace con la Russia riusciranno nel loro intento: bloccare il piano che Trump discute con Mosca perché le radici del conflitto siano infine sanate, spingere Kiev a ignorare quel che accade sul fronte, restare appesi al pensiero magico di una guerra giusta (quando si dice pace giusta s’intende guerra giusta).
Fin d’ora tuttavia è abbastanza chiaro che gli Stati in questione non riconosceranno facilmente di essersi sbagliati su quasi tutto, di non essere comunque affidabili militarmente, e di aver distrutto quel pochissimo che esisteva delle tradizioni diplomatiche europee, ben più antiche di quelle statunitensi e qualificabili come occidentali e atlantiste solo nello spazio temporale della Guerra Fredda.
Chi grida contro la capitolazione farebbe bene ad ascoltare le parole di Iuliia Mendel, ex portavoce di Zelensky e convinta sostenitrice dell’Ucraina: “Il mio Paese sta sanguinando. Molti di coloro che si oppongono istintivamente a ogni proposta di pace credono di difendere l’Ucraina. Con tutto il rispetto, questa è la prova più evidente che non hanno idea di cosa stia realmente accadendo in prima linea e all’interno del Paese in questo momento”. Il post verrà forse smentito, ma l’editorialista Wolfgang Münchau lo fa proprio e chiosa: “I più accaniti sostenitori di Kiev in Europa sono coloro che non hanno la minima comprensione della realtà militare sul campo”. Zelensky forse l’ha capita prima dei propri accaniti sostenitori, se è vero che ha accettato buona parte del piano Trump.
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Il cosiddetto piano di pace di Gaza: fase due del genocidio?
di Davide Malacaria
Secondo uno studio del Max Planck Institute for Demographic Research (MPIDR) sintetizzato da Antiwar, a Gaza sono state uccise oltre 100mila persone. Una constatazione alquanto ovvia, dal momento che le 78.318 vittime registrate finora sono quelle accertate in un territorio in cui domina un caos che rende oltremodo difficile le verifiche. Ma ora è ufficiale.
A tale analisi vanno aggiunte due considerazioni. La prima è che alle vittime dirette vanno aggiunte quelle indirette. Lo spiega Ana C. Gómez-Ugarte, che ha partecipato allo studio: “Gli effetti indiretti della guerra, che sono spesso più gravi e duraturi, non sono quantificati nelle nostre considerazioni”. Stime conservative, cioè minimaliste, sui conflitti indicano che nelle guerre a ogni vittima diretta se ne devono aggiungere 4 indirette.
Peraltro, parliamo di conflitti in cui esisteva un qualche servizio sanitario, non venivano imposte restrizioni draconiane agli aiuti né la Forza era usata in maniera tanto massiva e ingegnerizzata, cose che hanno reso l’aggressione di Gaza un unicum. A causa di questa mortalità, conclude lo studio, l’aspettativa di vita dei palestinesi di Gaza si è quasi dimezzata.
Non solo, il MPIDR ha accertato che ““la distribuzione per età e genere delle morti violente a Gaza […] è molto simile ai modelli demografici osservati in diversi genocidi documentati dal Gruppo interagenzia delle Nazioni Unite per la stima della mortalità infantile (UN IGME)”.
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Il funerale dello Stato: la deriva neoliberista che trasforma i diritti in favori
di Giuseppe Libutti e Mariangela De Blasi
C’è un funerale che si celebra in silenzio, ma con costanza e meticolosità: è quello dello Stato, o meglio, della sua funzione pubblica e sociale. Un funerale che non avviene tra lacrime e lutti, ma tra tagli di bilancio, cessioni di sovranità, applausi alla filantropia e partenariati “virtuosi”. È l’esito di una lunga deriva neoliberista che ha trasformato il principio della giustizia sociale in una parola fuori moda, e l’interesse generale in una variabile dipendente dall’interesse privato.
Il modello dominante – oggi considerato inevitabile – è quello in cui lo Stato viene rappresentato come vecchio, inefficiente, improduttivo. Non è più “il garante dei diritti”, ma un burocrate stanco, da sostituire con attori dinamici, imprenditori “illuminati”, fondazioni private e capitali “socialmente responsabili”. Il passaggio da un sistema basato su diritti universali a un sistema di favori selettivi è stato tanto silenzioso quanto devastante: ha trasformato cittadini in beneficiari, doveri in opportunità di branding aziendale, politiche pubbliche in occasioni di investimento.
La nostra Costituzione parla chiaro: è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli economici e sociali che limitano l’uguaglianza e la libertà dei cittadini. Eppure, nella pratica, queste responsabilità sono state progressivamente delegate a soggetti privati. Non si tratta più di rafforzare la cittadinanza attraverso investimenti pubblici, ma di affidarsi a chi ha capitale da “donare”. Il concetto stesso di “diritto” si dissolve, sostituito dalla “generosità” arbitraria di chi sceglie se, quando e dove intervenire.
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Non esiste il sionismo buono
di Paolo De Prai*
Nelle settimane scorse ho letto o partecipato a tre eventi che erano direttamente collegati alla valutazione che ebrei italiani hanno del sionismo.
Il primo episodio è quello di Emanuele Fiano, appartenente sia alla associazione “Italia-Israele” che al Partito Democratico, e che in varie occasioni ha negato che ci sia un genocidio, contestato e interrotto a un dibattito presso l’Università di Venezia, Ca’ Foscari.
Il secondo episodio è la relazione di Anna Foa ad un convegno organizzato dalla Chiesa Valdese a Roma, storica che condannava il genocidio a Gaza ma sollecitava in quel convegno la necessità di continuare i rapporti con le Università Israeliane.
Il terzo, letto su Contropiano, venivano riportate le critiche di Giorgio Mariani verso Carlo Ginsburg a proposito delle dichiarazioni del primo fatte per i cento anni della Hebrew University di Gerusalemme, il quale sollecitava l’importanza di continuare con essa le relazioni, a fronte “dell’orrendo pogrom” (definizione di Ginzburg) avvenuto il 7/10/23 e della “risposta criminale” di Netanyahu (altra sua definizione).
Il dato, che è necessario esaminare prima di tutto, è la difficoltà degli ebrei italiani rispetto alla relazione con uno stato estero, tra l’altro criminale, razzista e genocida, tanto che molti di loro nel nostro paese si sentano comunque legati ad esso.
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Siria, nazionicidio senza soluzione di continuità
E le stelle stanno a guardare
di Fulvio Grimaldi
Al momento di marciare molti non sanno che alla loro testa marcia il nemico. La voce che li comanda è la voce del loro nemico. E chi parla è lui stesso il nemico. (Berthold Brecht)
Nell’aprile venne scatenata in Siria, la “primavera araba”, quella con cui le potenze avevano già sistemato quanto in Medioriente si opponeva alla ricolonizzazione e all’espansione del sionismo. Ero da quelle parti, richiamato in Siria da una semisecolare frequentazione e dalla consapevolezza di cosa avrebbe significato uccidere questa nazione. Uno Stato cuore della Storia, cultura, liberazione araba e protagonista, con l’Egitto, la Libia, lo Yemen, il Libano, Algeria e l’Iraq, delle sue prospettive di giustizia sociale e autodeterminazione, avrebbe subito l’intento con il quale l’imperialismo intendeva riprendersi quanto una grande rivoluzione aveva sottratto al suo millennario sistema di negazione e spoliazione.
Nella primavera del 2011, in Libia si andava compiendo la distruzione del paese africano più prospero e socialmente equo, intollerabile modello politico-economico e promotore della sovranità e dell’autodeterminazione di tutto il continente. All’ufficio stampa del Ministero degli Esteri a Damasco, dove ero giunto ai primi clangori della locale “primavera araba”, mi mostrarono dei video di Deraa, dove, settimane prima, erano scoppiati tumulti contro l’aumento dei prezzi del carburante determinati da una prolungata siccità. Vi si vedevano scontri tra manifestanti disarmati e una polizia che si limitava a contenere la folla e non utilizzava strumenti di repressione. Tuttavia echeggiavano spari e le immagini mostravano cecchini appostati dietro mura e alberi. Le persone che cadevano, morivano o rimanevano ferite, si trovavano in entrambi gli schieramenti. Di sequenze di questo tipo ce n’erano a decine. Servivano a far dire ai compari lontani che “il regime ammazzava il suo popolo”. Come Gheddafi, come Milosevic.
Primavera araba, o terrorista?
Le autorità riferivano, credibilmente alla luce delle immagini e della prassi del regime change, di provocatori che si erano inseriti nelle manifestazioni, poi scoppiate anche a Damasco, Oms e Aleppo, per offrire agli interessati nei media e nelle cancellerie occidentali, il destro per parlare di una sanguinaria repressione del “dittatore Bashar el Assad”.
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Capitalismo monopolistico e surplus in Sweezy e Baran
di Collettivo Le Gauche
Amos Cecchi in Paul M. Sweezy. Monopolio e finanza nella crisi del capitalismo afferma che la genesi del capolavoro di Paul Sweezy e Paul Baran Il capitale monopolistico. Saggio sulla struttura economica e sociale americana affonda le sue radici nella metà degli anni ‘50, quando Paul Sweezy iniziò a concepire l’opera e a lavorarci al fianco di Paul Baran a partire dal 1956. La lettera che Sweezy scrisse a Baran nel novembre del 1956 rappresenta il vero e proprio manifesto programmatico dell’opera, delineando con chiarezza l’impostazione teorica innovativa che i due autori intendevano perseguire. In quella corrispondenza Sweezy identificava una serie di problemi reali da affrontare, a partire dalla necessità di forgiare un’idea operativa e concretamente applicabile del concetto di surplus. Questo richiedeva di comprendere che il surplus non si riferisce in modo diretto alla distribuzione convenzionale dei dati sul reddito nazionale ma deve essere analizzato attraverso la lente marxiana del lavoro produttivo e improduttivo, da aggiornare criticamente alle condizioni del capitalismo moderno. La difficoltà e al contempo il paradosso da sciogliere era il riconoscimento che grandi quote di salari vengono in realtà pagate attingendo al surplus. Intere categorie di lavoratori, così come settori economici fondamentali come la pubblicità e la finanza, non generano surplus ma lo assorbono, un campo di indagine del tutto inesistente per l’economia keynesiana e neoclassica. Il programma di ricerca si articolava poi in una duplice analisi settoriale. In primis l’analisi del settore produttivo, ossia il luogo della generazione del surplus, che richiedeva uno studio del capitalista istituzionale, delle sue leggi di funzionamento, del suo rapporto con la struttura di classe, delle sue politiche dei prezzi e dei salari e dei vincoli tecnologici. Secondariamente era indispensabile un’analisi del settore improduttivo, dedicato all’assorbimento del surplus, che esaminasse le diverse categorie di “assorbitori”: i consumatori di lusso, le industrie improduttive, la spesa governativa e le complesse relazioni di trasferimento tra di essi. Un altro punto cruciale riguardava lo studio delle interazioni, piene di problemi inesplorati, tra il settore produttivo e quello improduttivo. Sweezy osservava come in un’economia capitalistica sottosviluppata salari e profitti nel settore improduttivo potessero essere determinati dal settore produttivo, molto più grande, ma come questa dinamica non fosse più valida in un’economia matura come quella statunitense dell’epoca, dove il settore improduttivo poteva benissimo superare in dimensioni quello produttivo.
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Le differenze tra il piano per Gaza e quello sull'Ucraina
di Elena Basile
Il piano di pace a Gaza è una farsa tragicomica che diviene emblematica della politica internazionale odierna, pilotata da un Occidente in declino economico e tracollo morale che ha trasformato la democrazia in demagogia, il diritto in forza, la libertà di stampa e di espressione in censura sistematica del pensiero diverso. Così ritorniamo alla Società delle Nazioni e ai mandati coloniali. Gaza, avulsa dallo Stato palestinese, pur ben definito dalle risoluzioni dell’Onu, viene governata da un Consiglio di pace il cui presidente, Trump, deciderà le fasi di un improbabile autogoverno palestinese, demandato alle calende greche. Anp e arabi moderati sembrano sostenere il progetto che appare soprattutto una iniziativa plutocratica per il bene delle multinazionali.
Difficile comprendere come una forza internazionale composta di eserciti dei Paesi arabi moderati potrà mai installarsi su un territorio ancora sotto il controllo di Hamas. L’organizzazione ha comprensibilmente rifiutato di disarmare, data la sfiducia nei patti con Israele e la scarsa lungimiranza del piano di pace. Mentre l’aspirante al Nobel si diletta con mediazioni che sembrano scritte per un copione hollywoodiano, Netanyahu agisce, continuando a eseguire il progetto del grande Israele, seminando distruzione e morte in Palestina, rendendo il genocidio visibile e concreto per tutti coloro che hanno l’onestà di guardarlo in faccia.
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Alessandro Mariani: Quorum referendario: e se….?
Michelangelo Severgnini: Le nozze tra Meloni ed Erdogan che non piacciono a (quasi) nessuno
Michelangelo Severgnini: La Libia e le narrazioni fiabesche della stampa italiana
Diego Giachetti: Dopo la fine del comunismo storico novecentesco
E.Bertinato - F. Mazzoli: Aquiloni nella tempesta
Autori Vari: Sul compagno Stalin

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A cura di Aldo Zanchetta: Speranza
Tutti i colori del rosso
Michele Castaldo: Occhi di ghiaccio

Qui la premessa e l'indice del volume
A cura di Daniela Danna: Il nuovo volto del patriarcato

Qui il volume in formato PDF
Luca Busca: La scienza negata

Alessandro Barile: Una disciplinata guerra di posizione
Salvatore Bravo: La contraddizione come problema e la filosofia in Mao Tse-tung

Daniela Danna: Covidismo
Alessandra Ciattini: Sul filo rosso del tempo
Davide Miccione: Quando abbiamo smesso di pensare

Franco Romanò, Paolo Di Marco: La dissoluzione dell'economia politica

Qui una anteprima del libro
Giorgio Monestarolo:Ucraina, Europa, mond
Moreno Biagioni: Se vuoi la pace prepara la pace
Andrea Cozzo: La logica della guerra nella Grecia antica

Qui una recensione di Giovanni Di Benedetto










































