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Vite di commessi elettori. Le elezioni americane e la «middle class»
di Sarah Jones
Recensione del volume «The Sinking Middle Class» di David R. Roediger
«Per una volta in vita mia vorrei possedere qualcosa interamente prima che si rompa» dice Willy Loman, il protagonista di Morte di un commesso viaggiatore di Arthur Miller. È una frase che per David R. Roediger, autore di The Sinking Middle Class (OR Books, 2020) descrive bene la condizione della classe media che vive acquistando costantemente a credito. Ma a ben pensarci è la condizione stessa della classe media a essere in bilico, a non essere mai «posseduta interamente» ma sempre in modo precario e parziale, a essere «sempre già rotta».
È la costante minaccia di perdere il proprio status sociale, il «sinking» nel titolo del libro: la minaccia di affondare nella classe operaia, di naufragare nella proletarizzazione. E anche se si resta a galla nella classe media, quello status non sarà mai pienamente proprio. Lo status della classe media pretende la messa a lavoro non solo del corpo ma anche dell’anima. La maggior parte del tempo della vita è trascorso a lavoro e nel poco tempo restante si è tormentati dall'ansia, dalla depressione e dalle dipendenze, «sempre già rotti», prendendo in prestito sempre più soldi nella speranza che qualcosa di nuovo tappi i buchi. Il sogno della classe media si compra a credito.
Pur sostenendo che si tratta di una condizione ampiamente diffusa, Roediger afferma che l'estensione della classe media negli Stati Uniti è grossolanamente sopravvalutata. Per «middle class» sia i democratici che i repubblicani intendono tutte le persone che guadagnano meno di 250.000 dollari, ovvero il 96% degli americani. Il sogno americano resta quello ottocentesco: un paese di «contadini, liberi professionisti e negozianti», un ceto medio artefice del proprio destino, senza padroni né resti di feudalesimo contro cui combattere.
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Disuguaglianze e crisi ambientale. Alle origini del Covid-19*
Èlia Pons intervista Joan Beach
Traduciamo e pubblichiamo questa intervista al dottor Joan Beach, che parte dalla situazione in Catalogna e Spagna ma presenta dei dati e delle valutazioni estremamente interessanti anche per noi. In particolare questo approccio consente di uscire dalla polemica sterile tra autoritarismo sanitario e negazionismo, riportando al centro della discussione i veri temi delle disuguaglianze nella salute, della difesa della sanità pubblica e dell’ambiente (red.)
Parliamo con Joan Benach, ricercatore in sanità pubblica all’Università Pompeu Fabra e direttore del Gruppo di Ricerca sulle Disuguaglianze nella Salute – Employment Conditions Network, sull’impatto della pandemia nei gruppi più vulnerabili della popolazione, le carenze del sistema sanitario pubblico e l’effetto del capitalismo e delle attività umane nell’emersione di pandemie.
* * * *
Qual’è la situazione e l’evoluzione attuale della pandemia? Conosciamo davvero tutti i sui effetti?
In realtà ignoriamo come sarà l’evoluzione della pandemia a breve e medio termine. È prevedibile che la situazione peggiori in inverno, ma invero sono tutte speculazioni. Abbiamo ancora una visione superficiale e molto incompleta dei cambiamenti e degli effetti della pandemia sulla salute collettiva e le disuguaglianze nella salute. A metà ottobre il numero ufficiale globale di morti nel mondo ha superato il milione di persone, delle quali ufficialmente circa 34.000 sarebbero morte in Spagna. Ma sappiamo che c’è un “eccesso di mortalità” (cioè il numero di decessi che ci saremmo aspettati di vedere in condizioni ‘normali’ rispetto agli anni precedenti) che si avvicina ormai a 60.000 decessi (la situazione appare molto peggiore in Paesi come Russia, Perù o Ecuador). Questo non vuol dire che tutti i decessi siano per covid-19 però molti si verificano per il contesto sociale e sanitario in cui sono inseriti: malati diagnosticati e trattati tardivamente con malattie oncologiche, polmonari, di salute mentale o altre. In mancanza di una valutazione profonda, credo che ci siano tre temi importanti che bisogna considerare: la debolezza dei sistemi informativi e di vigilanza epidemiologica e di sanità pubblica esistenti, che rende molto difficile confrontare gli indicatori tra i paesi e al loro interno; l’uso di parte e poco trasparente che molte istituzioni e governi fanno dei dati e degli indicatori come dimostra il caso della Comunità di Madrid per esempio; e la stessa difficoltà scientifica di comprendere tutti gli impatti psicosociali e sanitari (decessi, malattie, problemi cronici, sofferenze ecc.), in gruppi e luoghi diversi.
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Pietra d'inciampo
di Salvatore Bravo
Sei ancora capace di scandalizzarti come Karl Marx? La "pietra d'inciampo" ("Scandalum") è anche qualcosa che rende presente il tuo cammino. Pensa allora allo scandalo del denaro e del possesso, pensa alla tua, e altrui, libertà interiore
Se vuoi godere dell’arte, devi essere un uomo artisticamente educato; se vuoi esercitare qualche influsso sugli altri uomini, devi essere un uomo che agisce sugli altri uomini stimolandoli e sollecitandoli realmente. Ognuno dei tuoi rapporti con l’uomo, e con la natura, dev’essere una manifestazione determinata e corrispondente all’oggetto della tua volontà, della tua vita individuale nella sua realtà. Se tu ami senza suscitare una amorosa corrispondenza, cioè se il tuo amore come amore non produce una corrispondenza d’amore, se nella tua manifestazione vitale di uomo amante non fai di te stesso un uomo amato, il tuo amore è impotente, è un’infelicità.
Karl Marx
Lo scandalo del denaro
I Manoscritti economico-filosofici del 1844 di Marx e pubblicati nel 1932, sono giudicati un’opera “giovanile”. In realtà i manoscritti sono fondamentali per riscontrare – in un periodo di passaggio tra le opere giovanili e le opere della maturità – il nucleo profondamente umanistico del pensiero marxiano. Per umanistico si intende la centralità dell’essere umano nella storia e nel sistema sociale e politico, che può essere giudicato positivamente, se risponde all’essenza generica e sociale dell’essere umano.
L’umanesimo marxiano pone al centro della storia l’essere umano. Non si tratta di un essere umano astratto ed idealizzato, ma colto nella concretezza della sua realtà materiale. L’umanesimo marxiano riporta il male ed il dolore alle condizioni storiche che ne determinano la genesi, per trascenderlo. Il male non ha realtà ontologica, ma alligna nei rapporti sociali ed economici. Marx è nello stesso solco di autori come Spinoza e Rousseau, i quali hanno smascherato il male metafisico per riportarlo a quella che è realmente la sua dimensione all’interno delle relazioni sociali. Il male è l’epifenomeno dei sistemi che negano la natura sociale dell’essere umano. L’essere umano che soffre è spesso il portatore infetto di relazioni sociali sbagliate, innaturali.
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Per un nuovo socialismo
Leo Essen intervista Gennaro Scala
Dopo tre decenni di maledizione per ogni discussione sui fondamenti del modo di produzione capitalistico, e dunque anche sul suo necessario superamento, sembra indispensabile alzare lo sguardo oltre l’immediato e confrontarsi ex novo con i “massimi sistemi”.
La crisi sistemica più che decennale – anche a voler fare data dal 2007-2008, pur se in realtà risale ormai agli anni ‘70 – ha avuto un’accelerazione formidabile con la pandemia. Si è passati in pochi mesi da una prospettiva di “stagnazione secolare” (un mascheramento molto pudico dell’”esaurimento della spinta propulsiva” del capitalismo) a una caduta verticale da cui nessuno sa dire quando e se si uscirà mai.
Chi ci prova fa wishful thinking, non analisi scientifica.
Per di più, la gestione della pandemia ha fatto vedere in azione modelli operativi molto diversi.
Quello classicamente neoliberista è stato egemone in tutto l’Occidente, in cui la priorità è stata ed è ancora “non fermare la produzione”, con una pallida distinzione tra il “convivere con il virus” (la maggior parte dei paesi europei) e “negare la pericolosità del virus” (Usa, Gran Bretagna, Brasile, ecc). Un approccio che dopo qualche mese si è rivelato sostanzialmente simile, e che ha portato all’”invidiabile risultato” di moltiplicare la dimensione di contagi e morti affossando al contempo l’economia.
All’opposto, è esplosa in modo solare l’efficacia complessiva dell’approccio fondato su pianificazione e programmazione, normalmente associato con il pensiero socialista. Chi ha agito in questo modo, mettendo esplicitamente come priorità la lotta al virus, e dunque la salute della popolazione, è riuscito non solo a ridurre a quasi nulla l’impatto dell’epidemia, ma sta ora raccogliendo i frutti anche in termini di crescita economica, occupazionale, di prospettiva.
Questo è ormai un dato empirico, verificato e indiscutibile.
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“Dipendenza”
di Alessandro Visalli
A settembre 2020 è uscito il libro “Dipendenza. Capitalismo e transizione multipolare”[1]. Un libro che si può leggere in tre modi: racconta una storia che si sviluppa dal New Deal ad oggi, mostrando un andamento ciclico ed interconnesso di periodi di disordine sistemico, di espansione e di destabilizzazione; individua una teoria che con questa storia reagisce; presenta la sconfitta politica di un generoso tentativo.
Il primo piano si concentra sulla concatenazione di crisi che aprono sempre alla successiva, con un meccanismo (descritto nella teoria) mosso dalla tendenza del capitalismo alla concentrazione e (quindi) al sottoinvestimento. E descrive quindi le controtendenze che la tengono sotto controllo: guerra fredda, cetomedizzazione, esportazione di capitale, dipendenza interna ed esterna. Ne deriva anche una spiegazione interna della crescita della classe media nel “trentennio” e della ‘società del benessere’ non come confutazione della tesi marxiana (delle “due classi”) ma come sua estensione[2]. Ma ne deriva anche il “teorema di impossibilità” che Baran e Sweezy enunciano con la loro “legge della crescita del surplus”[3], e quindi il tentativo di investire le periferie (e non il centro) del compito della rivoluzione.
Questa è l'ipotesi politica della dipendenza che cade quando le periferie sono sussunte (o sono disperse) nell’inversione degli anni ottanta. Di qui nasce la “teoria dei sistemi mondo” che sposta l'attenzione più avanti nello spazio e nel tempo.
Per descrivere analiticamente il testo.
Un primo blocco teorico descrive le posizioni di quegli autori che convergono nella creazione dell’assiomatica di base. Almeno dei principali: sono Paul Baran negli anni cinquanta, Paul Sweezy negli anni sessanta, Gunnar Myrdal e Francois Perroux.
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Pandemia, economia e crimini della guerra sociale
Stagione 2, episodio 1: la schiuma
di Sandro Moiso, Maurice Chevalier e Jack Orlando
“L’unico attore sociale che ancora mancava nella crisi più clamorosa della modernità è dunque arrivato in scena, presentandosi a Napoli: è il ribellismo che scende in piazza […] contro tutto, la Regione, il governo, le regole, la prudenza, la paura, in quanto è fuori dal sistema, alla deriva in un luogo sconosciuto della politica dove anche il contratto tra lo Stato e i cittadini pare non avere più valore […] Come Napoli ha anticipato, qualcuno fa i conti con il costo di questa emergenza infinita, questa precarietà permanente, questa instabilità costante, scopre che il costo è alto almeno quanto il rischi del contagio, e presenta il saldo al potere. Ognuno ha il suo conto privato da protestare sul tavolo del governo, non c’è al momento una cambiale nazionale da far scadere in piazza, dunque non c’è un disegno unitario capace di raccogliere i diversi reclami, trasformandoli in una ‘causa generale, quindi in un’occasione politica. […] Così i ragazzi che pedalano sulle biciclette delle consegne a domicilio si trovano accanto in piazza i pizzaioli che temono la chiusura, i disoccupati dei Bassi, le badanti, i venditori di souvenir a cui hanno chiuso i banchetti nei vicoli: ognuno con una rabbia distinta di categoria, con una rivendicazione peculiare di mestiere, con un credito di lavoro specifico, in una collezione di risentimenti separati uniti soltanto dal momento della ribellione. […]
Un elemento unificante in realtà esiste, ed è la delusione generale per i buchi che ognuno scopre ogni giorno nella copertura sanitaria di base […], oltre ai mezzi pubblici sovraffollati che trasportano infezione. La sensazione è quella dell’abbandono per il cittadino lasciato solo, […] mentre il potere pubblico – Stato e Regioni – ha sprecato l’estate in uno scaricabarile di responsabilità che è un’altra conferma della scomposizione del Paese, a partire dal potere pubblico”.
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La vita non essenziale
di Cristina Morini
«Le attività non essenziali»: passerà alla storia questa dizione legata alla pandemia Covid-19 a definire tutto ciò che non attiene alla sfera delle attività ufficialmente immesse nel processo di produzione capitalistico e non formalmente retribuite. Per essere più chiari essa prova a definire quegli atti che non sono «condizioni oggettive del lavoro» della «forza-lavoro viva», quindi, marxianamente, non fanno parte «dei mezzi di sussistenza e dei mezzi di produzione» [1]. O, più semplicemente ancora, circoscrive tutto ciò che non può dirsi «occupazione retribuita, considerata come mezzo di sostentamento e quindi esercizio di un mestiere, di un’arte o di una professione» [2].
Si tratta perciò della sfera ibrida delle azioni umane improduttive che hanno a che vedere con il relazionarsi con gli altri, con i legami sociali, con aspetti che impegnano le nostre vite e il loro mantenimento in una rete di rapporti molteplici con altri esseri viventi, al di fuori dal tempo del lavoro produttivo certificato come tale. L’affermazione del governatore Toti di tenere a casa i non indispensabili non fa che ribadire ulteriormente il principio ispiratore degli apparati decisionali di fronte all’emergenza sanitaria. Un piano tutto ordinato intorno al ruolo essenziale del profitto che va accettato in una sorta di sottomissione collettiva ritualizzata. A fare resistenza rispetto alla narrazione dominante, governata attraverso lo strumento velenoso della paura mediatica, sono state soprattutto le donne.
Affermo una volta per tutte, per l’ennesima volta, che il problema dell’emergenza sanitaria è grave e reale, soprattutto perché il sistema si è dimostrato incapace di reggerne l’urto. Le disposizioni governative che abbiamo visto succedersi fino ad ora hanno messo in luce un modello atto soprattutto a preservare le attività esplicitamente economiche (pubblico-produttive) e a limitare tutte quelle correlate alle relazioni umane (privato-improduttive).
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Benvenuti in Covidworld
di Ian James Kidd e Matthew Ratcliffe
In questo articolo su The Critic, si ragiona su questo nuovo "Mondo Covid" che si sta manifestando a noi, ponendo una particolare attenzione alla mancanza di spazio per un dibattito pubblico aperto e onesto sul tema della pandemia e di come affrontarla al meglio. Sembra quasi prendere vita un mondo nuovo, dove la rilevanza e proporzionalità delle misure adottate all'interno del contesto più ampio sembrano rispondere a regole nuove e diverse, proprie di un mondo a sé
"Cercar di comprendere Covidworld, la nostra nuova realtà alterata in cui le norme comunemente accettate non si applicano più"
L’8 settembre, l'Organizzazione mondiale della sanità (OMS) ha lanciato l’allarme su una malattia mortale che rischia di uccidere circa 11 milioni di persone nel mondo ogni anno, tra cui 2,9 milioni di bambini, la maggior parte dei quali potrebbero essere salvati. Date queste orribili proiezioni, è sicuramente chiaro che è necessaria un'azione urgente: distanziamento sociale; mascherine; lockdown; investimenti senza precedenti nello sviluppo di vaccini.
Ma non è così che si affronta il problema, perché stiamo parlando di sepsi, malattia che colpisce 49 milioni di persone ogni anno e lascia anche a molti sopravvissuti dei problemi di salute a lungo termine.
Mentre il suo comunicato stampa sulla sepsi ha ricevuto poca attenzione da parte dei media, l’allarme successivo dell'OMS che il bilancio globale delle vittime del Covid-19, anche se venisse trovato un vaccino, potrebbe raggiungere i 2 milioni di persone, ha ottenuto una posizione di rilievo sul sito web della BBC News e anche altrove. Quindi di cosa dovremmo preoccuparci di più e dove dovrebbero essere investiti i nostri sforzi per ridurre al minimo la sofferenza, le malattie a lungo termine e le morti?
L'accento è stato posto fermamente sulla prevenzione dei decessi da Covid-19, la maggior parte dei quali coinvolge persone anziane con comorbilità significative. Dimenticatevi la sepsi. Dimenticate le numerose altre malattie gravi e che si potrebbero prevenire.
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Gramsci a Wuhan*
di Valerio Romitelli
L’epoca d’oro della democrazia all’americana, ovvero neoliberale, è decollata col crollo del muro di Berlino e ha cominciato a declinare da quando Cina e Russia sono ridiventati protagonisti della scena mondiale. Se è vero che l’epoca in corso è caratterizzata dall’emergere del modo sovranista e populista di pensare e sperimentare la politica[1], ciò è possibile anche per il ritorno alla ribalta di questi due paesi ex comunisti, il primo dei quali restato tale almeno ufficialmente.
Anche le elezioni di Trump, così come molte sue scelte, sarebbero restate impensabili nel mondo precedente, quello nel quale gli Stati Uniti godevano di una superpotenza illimitata. Parecchi fatti storici cruciali attestano l’esaurirsi di questa supremazia globale di Washington. Tra di essi l’andamento della guerra in Siria, nel quale la distruzione sistematica del paese adottata per la Libia di Gheddafi è stata bloccata dall’intervento russo. Ma anche nell’emergenza pandemica, mentre gli Stati Uniti hanno dimostrato inefficienze disastrose, la Cina, nonostante tutte le calunnie occidentali, è apparsa capace di mettere in opera la soluzione di distanziamento e controllo della popolazione che a partire da Wuhan è diventata il modello promosso dall’Organizzazione mondiale della sanità e seguito in ogni angolo del globo. Quello che è stato l’«Impero di mezzo», già tre secoli fa esempio del mercato prediletto dallo stesso Smith[2], sembra oggi tornare a primeggiare non più solo in fatto di commercio e produzione.
Stato e corpi collettivi
Per arrivare subito al cuore del primo punto occorre sbarazzarsi del maggiore pregiudizio che su simili temi viene diffuso dalla propaganda in uso in paesi vassalli degli Stati Uniti come il nostro.
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Servitori, bottegai e castellani. La vera lotta e quella finta
di Alessandro Visalli
Tentiamo.
Quello che la crisi economica, che è direttamente sociale e direttamente politica, indotta sul corpo malatissimo del nostro presente illumina non è nuovo. Lo abbiamo sempre avuto con noi e ne abbiamo sempre parlato. Tuttavia si sta presentando in un modo che è insieme scontato ed inaspettato. Si scoperchiano contemporaneamente linee di frattura che erano presenti e che sono stati prodotti dal carattere del nostro tempo.
Si tratta, peraltro, di linee vecchie. Sono state prodotte da decenni e molti, moltissimi, sono talmente abituati ad esse da considerarle naturali e irreversibili. Per dargli forma si tentano sempre metafore spaziali, geografiche, o topografie fondate sull’esperienza di base del nostro corpo: dialettica tra le periferie ed i centri, scontro tra alto e basso, tra il vicino ed il lontano, tra l’amico ed il proprio e l’estraneo, l’ostile. D’altra parte, tanti e diversi operatori, tanti spregiudicati imprenditori, cercano costantemente di metterle a frutto, di trarne dividendi politici. Di fare di queste fratture, di queste differenze, merce politica.
In questo modo la putrefazione del corpo del presente si fa posta nel gioco che affaccendati mestatori continuano a rilanciare freneticamente. Un gioco roco, pieno di urla, di ira simulata per intercettare e trarre a frutto, per sé, la vera e giusta ira di coloro che sono naufragati, nelle periferie, soli, in basso. Di coloro che, scivolando, si attaccano alle vesti dei poveretti che sono appena qualche centimetro sopra di loro, li vogliono trascinare in basso, invece di fare forza insieme e salire.
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Sulla dialettica in Marx
di Bollettino Culturale
Introduzione
Lo sviluppo filosofico che Louis Althusser intraprende all'interno della teoria marxista richiede, come egli stesso sottolinea, di essere inquadrato nella congiuntura storica degli anni Sessanta. Il movimento comunista internazionale fu sconvolto da due eventi accaduti dopo la morte di Stalin: il XX Congresso del PCUS nel 1956, che proclamò l'inizio del processo di "destalinizzazione" e la critica al "culto della personalità" e il XXII Congresso del 1961 che segna la rottura definitiva tra il PC di Cina e il PC dell'URSS. Entrambi gli eventi hanno avuto ripercussioni non solo in ambito politico ma anche in ambito ideologico e teorico; è nel contesto di quest'ultimo che Althusser indirizzerà la sua critica alle "reazioni ideologiche" degli intellettuali comunisti. Queste reazioni, che sotto lunghi fiumi di inchiostro "liberatorio" hanno criticato il "dogmatismo" staliniano, sono riuscite a riabilitare il vecchio e moderno problema della "libertà", dell’"uomo" e dell’"alienazione" utilizzando le opere giovanili di Marx come strumento teorico.
Il risultato diretto di questo fenomeno si fece sentire in tutta la filosofia marxista, capovolgendo la situazione in cui si trovava. Se negli anni '30, con la comparsa dei Manoscritti Economico-Filosofici del 1844, furono i socialdemocratici a leggere il Capitale alla loro luce e proclamare, nella loro battaglia contro il marxismo, la continuità di un tema etico in entrambi, ora, all'interno dei partiti comunisti, è stata imposta una nuova interpretazione "umanista" dell'opera di Marx.
Potremmo quindi dire che l'impresa althusseriana si concentra principalmente sul “tracciare una linea di demarcazione” tra la teoria marxista (materialismo storico e materialismo dialettico) e tendenze ideologiche che assumono una forma filosofica e politicamente soggettivista.
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Pandemizzare il mondo per vaccinare tutti
ID 2020: una nuova operazione AktionT4 si appresta all’orizzonte
di Costantino Ragusa
È inutile girarci tanto intorno, quello che si va non tanto preparando, ma piuttosto predisponendo, la fase preparatoria è già avvenuta da tempo, è un progetto di manipolazione del vivente quando non direttamente di annientamento dello stesso che non ha precedenti per ampiezza e portata. ID2020 Digital Identity Alliance è di un portato tale da far passare come piani di poco conto quelli effettuati dai nazisti con l’operazione T4 destinati all'”eutanasia” nella Germania nazista. I piani Aktion T4 e dell’ Agenda ID20201 hannonon poche similitudini, prima fra tutte è sicuramente la non segretezza. Assenza di segretezza non significa che vi fosse chiarezza su quello che erano gli obiettivi ultimi dei progetti nazisti, anche se questi si svolgevano in rispettabili ospedali con complicità o indifferenza molto allargate. La scelta del momento, la preparazione dei malati o presunti tali, la corrispondenza con i familiari, il disbrigo di richieste importune, tutti questi problemi venivano risolti autonomamente dalle amministrazioni statali e cittadine, dalle direzioni e dai gestori dei singoli istituti, in una forma del tutto cordiale ed estremamente collaborativa con lo svolgersi del piano Aktion T4. Anche se non di massa non sono state poche le selezioni atte a far assassinare tutti coloro ritenuti inutili per la società, a partire da disabili, malati cronici, anziani non autosufficienti e soggetti affetti da presunte malattie psichiatriche.
Se il clima e il contesto del tempo fossero stati più favorevoli, senza le guerre in corso e le prime seppur marginali voci critiche, sicuramente simili progetti non sarebbero stati ritirati strategicamente.
Tanta conoscenza vi è intorno ai capannoni destinati a lager, ma poco si sa, nel sapere diffuso, su quello che erano certe rinomate cliniche e centri di ricerca che per tanto tempo ancora hanno continuato ad ispirare e insegnare al mondo intero anche a fine guerra e quindi a nazismo finito.
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The Lancet: Covid-19 non è una pandemia, ma una sindemia
di Edmondo Peralta
The Lancet è considerata una delle più prestigiose riviste medico-scientifiche. Sia chiaro, anche The Lancet ha preso cantonate, come quando ha dovuto smentire uno studio (poi ricusato) sui pericoli della idrossiclorochina, studio che è servito all’Oms per sospendere l’uso del farmaco nei trial clinici, e lo stesso ha fatto l’Aifa italiana.
Di recente la rivista ha pubblicato un intervento del suo direttore, Richard Horton, che contesta, in riferimento al Covid-19, non solo le clausure il terrorismo sanitario dei governi, bensì lo stesso concetto di pandemia e propone quello di Sindemia. Un neologismo inglese Sindemia (synergy e epidemic) che è usato per caratterizzare l’aggregazione di due o più epidemie concomitanti o sequenziali o gruppi di malattie in una popolazione con interazioni biologiche che aggravano la curva prognostica delle malattie stesse. [Vedi: G. Collecchia, Il modello sindemico in medicina, in Recenti Progressi in Medicina, 220, 2019, pp. 271 ss]
Segnaliamo ai lettori l’articolo che segue.
* * * *
“Covid-19 is not a pandemic“: non una pandemia, ma una “sindemia“. Per il direttore di The Lancet la gestione dell’emergenza, basata solo su sicurezza ed epidemiologia, non raggiunge l’obbiettivo di tutelare la salute e prevenire i morti. Covid-19 non è la peste nera né una livella: è una malattia che uccide quasi sempre persone svantaggiate, perché con redditi bassi e socialmente escluse oppure perché affette da malattie croniche, dovute a fenomeni eliminabili se si rinnovassero le politiche pubbliche su ambiente, salute e istruzione. Senza riconoscere le cause e senza intervenire sulle condizioni in cui il virus diventa letale, nessuna misura sarà efficace. Nemmeno un vaccino.
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Una critica alla teoria dell'utilità marginale
di Bollettino Culturale
La teoria del valore è stato un campo di discussione permanente in economia: le due linee principali (teoria del valore-lavoro e teoria dell'utilità marginale) hanno presentato approcci totalmente dissimili alla questione.
La teoria del valore-lavoro, proposta da Adam Smith e continuata da David Ricardo, postula che il valore dei beni dipende dalla quantità di lavoro socialmente necessaria per la loro produzione. L'approfondimento di questa teoria, portato avanti da Karl Marx, ha portato alla formulazione della nozione di plusvalore (un aumento di valore che viene trattenuto dal capitalista a scapito del lavoratore).
Le derivazioni della teoria del valore-lavoro e dei concetti che ne derivano (generazione di plusvalore e sfruttamento della forza lavoro) sono state molto disturbanti per l'attuale ordine sociale. Questa teoria, quindi, ha superato l'ambito della discussione accademica ed è stata ampiamente utilizzata nei dibattiti politici del XIX e XX secolo.
Con l'obiettivo esplicito di cercare un'altra base di sostegno alla teoria del valore, che presentasse meno conflitti sociali, alla fine del XIX secolo un gruppo di economisti iniziò ad abbozzare una proposta alternativa. I lavori di Stanley Jevons, Karl Menger e León Walras, seguiti da quelli di Eugen Böhm-Bawerk, Alfred Marshall e Vilfredo Pareto, hanno gettato le basi per una teoria del valore basata sulle preferenze del consumatore utilizzando i concetti di utilità o ofelimità e concentrandosi sull’analisi del comportamento delle unità aggiuntive, dando origine all'approccio marginalista.
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Quei sacrifici che ci rendono solo più poveri
di Giovanni Mazzetti
Introduzione al quaderno n. 8/2020 del Centro studi e iniziative per la riduzione del tempo individuale di lavoro e redistribuzione del lavoro complessivo sociale
“Ogni sterlina risparmiata
è un’occupazione cancellata”
Perché riproporre oggi ai lettori italiani una conversazione radiofonica di John M. Keynes, su Spesa e risparmio, che ebbe luogo nel gennaio del lontano 1933? La ragione è abbastanza semplice: perché le cose che Keynes cercò di esporre in quell'occasione, e nei suoi altri interventi di quel periodo, non sono ancora entrate a far parte del comune sapere dei cittadini dei paesi economicamente maturi. E in questo gli italiani non fanno eccezione. D'altronde, come cercheremo di mostrare in questa breve introduzione, si tratta di questioni che hanno una grande rilevanza ai fini della comprensione delle difficoltà economiche che gravano sulla società contemporanea e della spiegazione delle cause dell'odierna disoccupazione di massa.
Il sapere sociale è incapace di far fronte a questa situazione, e si macera da un quarantennio in ricorrenti riti sacrificali, favoriti dal riemergere delle ideologie conservatrici, appunto perché è ancora impastato di rappresentazioni, esperienze, concetti che risalgono al periodo che precedette l'affermarsi dello Stato Sociale e ignora l'ABC della rivoluzione keynesiana. Tutto lo sviluppo che ha avuto luogo nel trentennio antecedente al momento in cui è esplosa l'attuale crisi non riesce pertanto ad essere compreso; e ancora meno si riescono ad afferrare i problemi che a quello sviluppo sono conseguiti. Per questo la società torna lentamente sui suoi passi e subisce un lacerante impoverimento. Al mancato progresso nella comprensione dei processi sociali che hanno consentito l’arricchimento, deve necessariamente conseguire la loro dissoluzione e un grave regresso materiale.
Per non subire passivamente l'impoverimento
È vero che la maggioranza della popolazione rifiuta questa evoluzione. Che vaste minoranze dimostrano attivamente contro i tagli e i sacrifici.
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Il tallone di ferro sul popolo dell’abisso
di Filippo Violi
Jack London, pseudonimo di John Griffith London, è morto suicida a quarant’anni (1916), ritrovato cadavere in un cottage nella residenza di Beatty Ranch, nella contea di Sonoma in California, probabilmente a causa di un’overdose di antidolorifici. Un atto estremo da tempo premeditato si direbbe, ma solo dopo essersi imbattuti nella lettura del suo antieroe per eccellenza “Martin Eden” (1909), romanzo autobiografico.
Il giovane marinaio proletario individualista che sogna di diventare scrittore e ci riesce, conquista l’amore di una giovane dell’alta borghesia, grazie al suo enorme bagaglio culturale autodidatta. Raggiunto il successo per protesta si autodistrugge contro una fama in cui non si riconosce, in polemica con il professionismo letterario dell’epoca. E con quella pena di cui London si fece carico, ossia l’orribile obbligo di scrivere per vivere che lo accompagnò sempre e lo tormentò fino in fondo.
Il romanzo di London si svolge come melodramma e fiaba mentre intorno c’è la creazione della società moderna, si fanno discorsi sulla democrazia e l’individuo, ma al contempo c’è la nascita dell’industria culturale, al fine di dare identità alla nazione e alla società, c’è la nascita della cultura di massa. Jack London è forse il primo grande autore globale, letto dalla California alla Russia, che si misura con questa industria e che alla fine ne rimarrà schiacciato.
Ma perché parlare di London oggi? Ad un secolo e oltre dalla sua morte? Forse perché non si è scritto e non si è detto già abbastanza? O forse, meglio, perché la sua figura così spietata nell’agire, nello scrivere, nell’indagare (per lui stessa cosa), priva di compromessi, satura di eccessi, sfrontata, dissacrante, palesemente anticapitalista, socialista, luddista, rivoluzionaria, visionaria, anticipatrice, risulta scomoda ancora oggi?
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La fuga di Logan
di Piotr
Il capitalismo è un sistema che esclude. L'inclusione o l'esclusione sono decise in base all'efficienza nel generare profitto e rendita. Per il resto il capitalismo non si sente vincolato da nessun obbligo verso la società, i suoi uomini e le sue donne. Questa logica può essere dissimulata durante i periodi di espansione, ma quando la crisi morde si riaffaccia poco a poco per poi conclamarsi apertamente.
Il Nixon shock del 1971 segnalò l'inizio della crisi sistemica che ancora oggi, enormemente aggravata, ci avvolge. Seguì quasi un decennio di scontri tra il Potere del Denaro e il Potere del Territorio. Il primo spingeva verso politiche di austerità, di liberalizzazione, di privatizzazione del dominio pubblico, di super sfruttamento dei lavoratori interni e di meticoloso controllo e sfruttamento degli spazi esterni ai centri capitalistici storici. Il secondo cercava di resistere con politiche espansive che rilanciassero l'economia reale (sempre capitalistica, ovviamente) e le sue benefiche ricadute sulla “middle class”, sentendosi vincolato verso la società (Nixon si spinse a dire “Adesso siamo tutti keynesiani” - pochi mesi dopo venne fatto fuori dallo scandalo Watergate).
Alla fine degli anni Settanta questa lotta stava indebolendo entrambe le parti e i due Poteri di conseguenza strinsero un patto all'insegna del nuovo paradigma di accumulazione, cioè la coppia finanziarizzazione-globalizzazione. Iniziò l'epoca di Reagan e della Thatcher e tutto quel che ne seguì: una ripresa dell'aggressività imperialistica dopo la breve pausa seguita alla sconfitta in Vietnam e la progressiva concentrazione della ricchezza in mano a una ristretta élite, il famoso “1%”. Un uno per cento, però, che raccoglie attorno a sé ceti ancillari che da questa concentrazione traggono beneficio e/o di questa concentrazione sono i funzionari o di questa élite sono i giullari.
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Perché non voglio parlare di scuola
di Gianluca D’Errico
Perchè in questo momento è più utile agire
“Non crediamo agli assoluti” ma “nell’azione per una modificazione delle condizioni che ci circondano, e assieme a questa in una azione per la modificazione delle componenti fondamentali dell’uomo, per non parlare di quelle della società”. Questa è la frase che mi è risuonata in mente più spesso dall’inizio del cosiddetto lockdown, anche perché l’avevo letta da poco (grazie al volumetto I “Piacentini”: Storia di una rivista (1962-1980) di Giacomo Pontremoli dedicato ai “Piacentini” e pubblicato dalle Edizioni dell’asino). Goffredo Fofi la scrisse, sui “Quaderni Piacentini” appunto, in un articolo del 1967. La interpreto come un invito non certo allo stolto pragmatismo, ma al fare politico in contrapposizione alla postura intellettuale.
Dall’inizio della pandemia ho cercato gli altri, ho provato a fare gruppo, a confrontarmi, ad agire. Non sono stato mai “solo”. Potrei arrivare a dire che nessuna riflessione su ciò che è accaduto da febbraio 2020 a oggi sia stata, per me, una riflessione individuale. Qui a Napoli è nata una rete di insegnanti, educatori e genitori che già da inizio marzo ha cominciato a incontrarsi, telematicamente, con molta frequenza. Ne sono nati azioni e pensieri collettivi, ovviamente imperfetti, incompleti, frammentati: come tutto ciò che nasce nella condivisione. Un piccolo miracolo. E le parole che qui scrivo sono parole nostre più che mie.
Abbiamo dapprima, come molti, pensato che quello che stava accadendo poteva essere una “occasione” per la scuola pubblica. Un’occasione di ripensamento radicale e complessivo di quanto già nell’ordinario non ci piaceva.
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Trump contro Biden: si scrive post-ideologia, si legge propaganda
di Camilla Pelosi
Molto spesso la definizione di “post-ideologia” in politica copre la volontà dei politici di coprire affermazioni senza alcun appiglio nella realtà e create come semplici artifici retorici e di propaganda. Camilla Pelosi nel contesto del dossier “AMERICANA” oggi studia la questione in riferimento al dibattito tra Donald Trump e Joe Biden
Il dibattito politico attuale ama autodefinirsi “post-ideologico”, sottintendendo di appartenere a un’era ormai depurata da ideologie e altri mostri novecenteschi.
“Qualcuno è POST senza essere mai stato niente!” suggeriva Giovanni Lindo Ferretti già alla fine degli anni Ottanta, in Svegliami. Può l’essere umano fare a meno dell’ideologia, restando animale politico? Se essa rappresenta i valori e il senso comune che garantiscono il funzionamento di una società civile, il nostro periodo storico avrà pur dovuto sostituirla con qualcosa e questo qualcosa, in quanto essenzialmente non ideologico, sarà soprattutto e in primo luogo pragmatico. A livello della vita pubblica, si prospetterebbe l’avvento di una sorta di tecnocrazia illuminata: solo ed esclusivamente i fatti muoverebbero le decisioni di un elettorato finalmente razionale e ragionevole. Dato che le questioni di costume non possono appellarsi a nessuna conferma numerica che sostenga una tesi in maniera univoca, esse verrebbero cancellate dal confronto: la politica finirebbe per essere inglobata dall’economia, in quanto i principali punti quantitativi di una campagna elettorale riguardano questioni meramente economiche.
Chiaramente, la realtà è ben lontana da questo scenario (per fortuna, ci viene da aggiungere). L’ideologia è viva e vegeta: ha solo cambiato forma. Come i servizi, i mezzi di comunicazione e le relazioni umane, si è smaterializzata, ma proprio grazie alla perdita di consistenza è ormai in grado di infilarsi in ogni interstizio della nostra struttura percettiva del reale. Non fa più capo ai fardelli ingombranti e problematici dei dogmi politici del passato, dove serviva da spartiacque per dividere il mondo in due chiaramente distinguibili sfere di influenza; è più sfaccettata, e quindi più difficile da riconoscere.
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Il ruolo dello Stato nel conflitto di classe
di Francesco Pietrobelli
Non è passato inosservato – grazie a numerosi articoli usciti sull’Ordine Nuovo – il ruolo dello Stato nella crisi economica scatenata dall’attuale pandemia. Un’azione di sempre maggiore intervento nel campo economico e di sostegno alle imprese, in linea con la tendenza sempre più marcata per cui il ruolo dello Stato a supporto del capitale privato è essenziale1, affinché vi siano manovre pubbliche che tutelino il fronte padronale da un drastico calo dei profitti. Numerose sono state le mosse governative che si sono così susseguite, fin dai primi mesi di crisi, a sostegno delle imprese, fra le quali troviamo moratorie sui prestiti o garanzie statali sui finanziamenti aziendali2. Particolare scalpore è stato causato dalla richiesta di FCA, a maggio, di usufruire della garanzia statale sui prestiti bancari, prevista dal DL liquidità, con la quale aveva diritto – di fronte alle perdite economiche causate dalla pandemia – di chiedere un prestito, pari al 25% del fatturato dell’anno precedente, a un istituto bancario con garante, fino al 70% del totale, lo stato italiano tramite la SACE, una controllata della Cassa Depositi e Prestiti. Prestito poi ottenuto – ben 6,3 miliardi con Intesa Sanpaolo – con non il 70%, ma bensì l’80% di garanzia da parte dello Stato, data la strategicità dell’azienda, senza al contempo che venissero bloccati i cospicui dividendi di 5,5 miliardi, previsti per il 2021, fra i propri azionisti3. Detto in soldoni: i soldi pubblici, dei lavoratori, saranno utili alla FCA per pagare i profitti dei propri azionisti.
Che lo Stato si sia rivelato lasco nelle misure concesse alle aziende lo ha rivelato anche lo strumento della cassa integrazione covid.
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La libertà di non essere sfruttati
di David Harvey
La destra si erge a difesa delle libertà individuali. Ma essere liberi veramente significa sottrarre le nostre vite ai vincoli rigidi del capitalismo. Un'anticipazione dal nuovo libro di David Harvey
Il tema della libertà è stato sollevato mentre tenevo alcune lezioni in Perù. Gli studenti erano molto interessati alla domanda: «Il socialismo comporta che la libertà individuale debba essere sacrificata?». La destra è riuscita ad appropriarsi del concetto di libertà come proprio e a usarlo come arma nella lotta di classe contro i socialisti. Bisogna evitare la sottomissione dell’individuo al controllo statale imposto dal socialismo o dal comunismo a tutti i costi, sostengono.
Ho risposto che nell’ambito di un progetto socialista di emancipazione non bisogna rinunciare al concetto di libertà individuale. Il raggiungimento delle libertà individuali è, ho sostenuto, uno scopo centrale di tali progetti di emancipazione. Ma questo risultato richiede la costruzione collettiva di una società in cui ognuno di noi abbia adeguate possibilità di vita e possibilità per realizzare ciascuna delle proprie potenzialità.
Marx e la libertà
Marx diceva cose interessanti su questo argomento. Una di queste è che «il regno della libertà inizia quando il regno della necessità viene lasciato indietro». La libertà non significa nulla se non hai abbastanza da mangiare, se ti viene negato l’accesso a un’adeguata assistenza sanitaria, alloggio, trasporti, istruzione e simili. Il socialismo deve soddisfare le necessità di base in modo che le persone siano libere di fare ciò che vogliono.
Il punto finale di una transizione socialista è un mondo in cui le capacità e i poteri individuali sono completamente liberati da desideri, bisogni e altri vincoli politici e sociali.
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Il frutto marcio del Recovery Fund
di coniarerivolta
La situazione dei contagi in Italia e in Europa peggiora di giorno in giorno. Il sistema sanitario, sfiancato da anni di austerità, mostra, oggi come durante la scorsa primavera, tutte le sue difficoltà nel gestire la nuova fase dell’emergenza. Nuove chiusure hanno riguardato alcune attività commerciali e alcuni sciacalli continuano opportunisticamente a tirare in ballo il MES, affermando con franchezza che sarebbe la via per legare le mani alla politica economica. La cronaca politica, tuttavia, con un afflato messianico, è da mesi impegnata a cantare le magnifiche sorti e progressive del Recovery Fund. Di questo strumento ci siamo già occupati, mostrandone tutte le criticità. Ora, tuttavia, sembra che sia la sua stessa impalcatura a scricchiolare. È infatti arrivata dalla Spagna, seguita a ruota dal Portogallo e forse dalla Francia, la notizia che il governo di Pedro Sanchez vuole rinunciare ai circa 70 miliardi di prestiti che le spetterebbero dal Recovery Fund pur rimanendo interessato ad ottenere i circa 72 miliardi di contributi a fondo perduto. Anche alla luce di ciò, riteniamo opportuno ripassare quale sia la struttura di questo programma, quali le insidie e a quale punto sia la sua implementazione.
Come abbiamo già avuto modo di raccontarvi, il Recovery Fund è un programma di finanziamento di 750 miliardi di cui 360 miliardi di prestiti e 390 di contributi a fondo perduto, da spalmare nel triennio 2021-2023. Tuttavia, come sappiamo, il diavolo si annida nei dettagli. Nonostante le cifre roboanti, il Recovery Fund, da un lato, rappresenta un programma di rilancio economico del tutto inadeguato rispetto alla gravissima crisi e dall’altro, invece, si qualifica come un efficace lubrificante dei meccanismi di controllo europeo sulle politiche nazionali portando con sé un pesante e certo carico di austerità e riforme.
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Social e capitalismo crepuscolare (living in a box)
di Roberto Fineschi
Funzionamento e funzione dei social nelle dinamiche del capitalismo crepuscolare
Che cosa ci sia dietro ai social è ormai noto a chiunque lo voglia sapere. [1] Mi permetto di fare una breve sintesi di letture e visioni in una prospettiva personale legata ad altre riflessioni recentemente sviluppate sul capitalismo crepuscolare.
1) Costruire la “scatola”
I proprietari di Facebook, Twitter e compagnia cantante sono degli scienziati sociali. Non è una mia nomina ad honorem, lo sono veramente, in particolare sono esperti di psicologia sociale e “comportamentismo”. La nuova alleanza che hanno instaurato è con web designers ed esperti di calcolo, progettisti questi ultimi dei fantomatici algoritmi. Vediamo come funziona questa triplice alleanza.
1.1) Lo scienziato sociale
I comportamentisti mettono sul tavolo la loro psicologia sociale, ovvero lo studio del comportamento umano spontaneo, automatico, precosciente. Forti di evidenze sia teoriche sia sperimentali sulle modalità di reazione a stimoli di diverso tipo, individuano reazioni standard, soprattutto quelle legate alle pulsioni più profonde e condizionanti dell’animale uomo (piacere, dolore, paura, rabbia, autoconservazione, socialità, appartenenza ecc.). Studiano come innescare delle reazioni automatiche, utilizzando scientemente stimoli che attivino queste pulsioni profonde. In particolare sono interessati a produrre comportamenti in tutto e per tutto identici a quelle che chiamiamo “abitudini”, ovvero che si ripetono senza il ripetersi di uno stimolo esterno, ma che vengono compiuti “spontaneamente” da chi agisce: lo stimolo viene in sostanza introiettato.
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Il partito dei lavoratori e gli utili idioti del Capitale
di Antonio Martino
Quando Alberto Asor Rosa pubblicò nel 1977 il suo Le due società: ipotesi sulla crisi italiana nemmeno la fantasia del più fervido indiano metropolitano avrebbe potuto immaginare lo scenario di questi giorni. L’ipotesi di un virus in grado di paralizzare la vita del potentissimo e liberissimo Occidente, infatti, poteva affascinare un lettore di Urania, e non certo un compagno di movimento. Oltre quattro decenni dopo la fantascienza è realtà: anzi, parafrasando Marx, è farsa. Tralasciando l’enorme massa di argomenti sulla (pessima) gestione e sui (falsi) rimedi contro la (scontata, essendo in autunno) seconda ondata, vorremmo concentrarci sull’analisi sociale delle conseguenze della crisi, in accordo con quanto già scritto in merito al problema della classe rivoluzionaria.
Partiamo dal dato reale: chi preme per il cd. lockdown è di norma un soggetto che ha dalla propria parte la sicurezza del posto di lavoro e un certo benessere accumulato. Viceversa, chi si oppone è sovente un piccolo imprenditore- proprietario di attività al dettaglio e di commercio minuto, piccole imprese con pochi dipendenti-, un libero professionista o una partita iva. Dal punto di vista strutturale, la linea di faglia è tra garantiti e non, tra lavoratori dipendenti (pubblici e privati di grandi imprese) e unità produttive autonome. In più, l’enorme massa dei disoccupati e dei precari che tende naturalmente a salvaguardare quegli scampoli di normalità fittizia. Si può perciò affermare, generalizzando, che la gestione delle misure di contenimento (sic) del virus siano un’immensa cartina di tornasole della divisione in classi della società italiana.
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Cosa ci si deve aspettare?
intervista a Leonardo Mazzei
Pubblichiamo l’intervista che Leonardo Mazzei ha rilasciato per la prestigiosa testata tedesca Makroskop
D. Il governo cerca di imporre un secondo lockdown che colpisce anche i diritti politici. Quale è il ragionamento del governo, delle èlite in generale – e le reazioni su scala popolare?
R. Proprio oggi, domenica 25 ottobre, è uscito il nuovo Dpcm (Decreto del presidente del consiglio dei ministri) che punta a restringere ulteriormente la libertà di movimento ed attacca il diritto al lavoro di milioni di persone, in particolare quelli dei servizi turistici e della ristorazione. A differenza di quanto avvenuto a marzo, adesso la linea del governo è quella della chiusura progressiva. Ma continuando così alla fine il risultato non sarà molto diverso. Questa strategia viene perseguita con un Dpcm a settimana. Un modo che, se da una parte mostra le difficoltà di Conte, dall’altro sembra fatto proprio per generare, oltre alla paura, un’assoluta incertezza sul futuro. Il precedente Dpcm, del 18 ottobre, ha stabilito di fatto la sospensione del diritto a riunirsi in luoghi pubblici. Contro questa lesione dei diritti democratici, attaccati in parallelo a quelli sociali, manifesteremo il 31 ottobre davanti alle prefetture dei capoluoghi di regione. Il ragionamento delle èlite sembra chiaro: siccome la crisi è gravissima ed il malessere sociale è alle stelle, la sola tecnica di governo che può funzionare è la strategia della paura. E’ una linea che presenta dei rischi anche per il blocco dominante, ma che finora – come dimostrato anche dai risultati delle elezioni regionali di settembre – ha funzionato. Che continui a funzionare è invece tutto da vedersi. Proprio a causa del clima di paura, la reazione popolare è stata finora modesta. Ma a tutto c’è un limite. E i fatti degli ultimi giorni, a Napoli e non solo, ci dicono che le cose stanno finalmente cambiando.
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Tutti i colori del rosso
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