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Osare dichiarare la morte del capitalismo, prima che ci trascini tutti con sé
di Francesco Piccioni
Questo fulminante articolo di George Monbiot, apparso sul Guardian qualche giorno fa, pone il problema del superamento del capitalismo in termini ultimativi. E’ apparentemente paradossale che sia un pensatore liberal a porre la questione in termini tanto drammatici, ma a noi sembra invece assolutamente normale.
Se “è l’essere sociale a determinare la coscienza, non viceversa”, allora si può arrivare a conclusioni identiche pur partendo da premesse totalmente differenti. Naturalmente bisogna pensare con coerenza ed onestà intellettuale, senza cercare “soluzioni ad hoc” che riducano la difficoltà di far coincidere andamento oggettivo del mondo e desideri individuali o collettivi. Il “princìpio speranza”, insomma, è l’anticamera della disperazione.
Monbiot parte dall’ambiente, mentre noi comunisti siamo storicamente sempre partiti dallo sfruttamento del lavoro. Entrambi i termini – lavoro umano e natura – si pongono allo stesso tempo come risorse e limiti del capitale. Il capitalismo usa questi fattori per crescere, ma arrivaoggettivamente al punto in cui un ulteriore salto di qualità nello sfruttamento di queste risorse diventa fisicamente impossibile e quindi si apre la crisi del sistema di produzione capitalistico.
Sul piano dello sfruttamento del lavoro umano – unica fonte da cui è possibile estrarre plusvalore– il limite viene approssimato proprio in questi anni con lo sviluppo dell’automazione. Un robot fa le stesse cose di un operaio o di un impiegato, lo fa in modo più veloce e preciso, non sciopera e non protesta mai (basta fare la manutenzione…), non va retribuito. Peccato che non compri nulla. Il massimo di capacità produttiva coincide dunque con la tendenziale distruzione dei consumatori.
Salta qui una delle contrapposizioni ideologiche che hanno fatto la fortuna del neoliberismo negli ultimi 40 anni, quella tra consumatori e lavoratori; per cui bisogna(va) ridurre al minimo il costo del lavoro (salario, contributi previdenziali, stato sociale, diritti, ecc) per abbassare al massimo i prezzi, conquistare i consumatori e battere la “concorrenza”.
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L’insegnamento non è una missione, ma un compito sociale
di Carlo Scognamiglio
Nutro il sospetto che siano molti, moltissimi, gli insegnanti disorientati dall’imprevedibile dinamica trasformativa delle linee guida ministeriali o delle raccomandazioni europee, in merito al significato pubblico dell’istruzione. Uno smarrimento comprensibile, perché a tratti la nostra scuola appare resistente a ogni cambiamento, mentre in altre fasi tutto sembra correre, sebbene in modo scomposto. Mi interessa solo in parte, adesso, l’individuazione delle ragioni di un simile disorientamento. È però vero che sempre più, nella società a frammentazione attentiva in cui siamo immersi, è necessario fermarsi a riflettere, analizzare documenti e normative in costante aggiornamento, formarsi e confrontarsi e – come raccomanda Werner Herzog – bisogna leggere, leggere, leggere.
Sono importanti le connessioni tra passato e presente, tra politica e pedagogia, tra ragione ed emozione. Il lavoro dell’intellettuale è proprio quello di annodare i fili isolati, di approfondire e poi recuperare una visione d’insieme. E l’insegnante, mi piace ricordarlo, è – e deve rimanere – un intellettuale.
Giuseppe Benedetti e Donatella Coccoli, un docente e una giornalista, hanno recentemente deciso di riaprire un discorso pubblico sulla pedagogia gramsciana, con un libro intenso, edito da “L’asino d’oro” (Gramsci per la scuola. Conoscere è vivere, 2018), impreziosito da una breve ma bella prefazione di Marco Revelli.
Lavorare sui testi di Gramsci non è facile, e non è sbagliata l’idea di liberarsi dallo smarrimento di cui scrivevo in apertura, attraverso l’ancoraggio a un solido pilastro della tradizione culturale italiana, che fu egli stesso maestro, e molta cura dedicò al tema dell’educazione. È del tutto evidente l’intenzione dei due autori di ridefinire un orizzonte categoriale e ideale noto (sebbene dimenticato) per fronteggiare alcune superficialità del dibattito pedagogico contemporaneo. L’operazione, in tal senso, riesce e non riesce, nonostante la bellezza del libro. Proverò a soffermarmi su tre passaggi-chiave del testo, per poi provare a raccogliere in sintesi l’effetto.
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Capitale e Fascismo
di Thomas Meyer
Editoriale [*1] del n°16 della rivista Exit!, maggio 2019
«Se, come è purtroppo possibile, noi dobbiamo perire, facciamo almeno in modo di non scomparire senza essere prima esistiti. Le forze considerevoli che dobbiamo combattere si apprestano ad annientarci; e certo esse possono impedirci di esistere pienamente, cioè di imprimere al mondo il suggello della nostra volontà. Ma c'è un settore in cui esse sono senz'altro impotenti. Esse infatti non possono impedirci di sforzarci a comprendere con chiarezza l'oggetto dei nostri sforzi. Se non ci sarà dato di realizzare ciò che vogliamo, potremo almeno averlo voluto, e non solo desiderato alla cieca. D'altra parte, la nostra debolezza può certo impedirci di vincere, ma non di comprendere la forza che ci schiaccia.»
(Simone Weil, da "Oppressione e Libertà", 1934) [*2])
«Chi non vuole parlare del capitale dovrebbe tacere sul fascismo». Oggi, questa frase di Horkheimer è ancora valida, e dovrebbe essere ampliata dell'altro: chi non vuole parlare della costituzione feticista della società della dissociazione-valore, dovrebbe tacere anche a proposito delle lotte sociali. Non c'è dubbio che la «costituzione sociale» si trova sempre più al centro dell'attenzione, soprattutto vista nel contesto della vittoria elettorale di Donald Trump avvenuta due anni fa. Sono molti quelli che, in questo processo, hanno criticato il fatto che la «classe operaia» avesse smesso da tempo d'occupare un posto centrale, e che ora ci fosse una classe media di sinistra concentrata sulla «politica identitaria» e sulle «questioni LGBT», ragion per cui i lavoratori e le lavoratrici avrebbero optato per Trump. Queste critiche possono essere corrette nella misura in cui la borghesia di sinistra si è, di fatto, poco interessata alla «sotto-classe sociale», ai lavoratori poveri, la cui miseria è diventata ormai da tempo innegabile (i senzatetto, gli anziani che raccolgono bottiglie per convertirle in pochi euro fanno ormai parte del quotidiano) ed ha raggiunto anche la classe media. Tuttavia, sono fuori strada coloro che pretendono che il razzismo abbia la sua vera causa nell'impoverimento di questi ultimi anni, come a più riprese ha sottolineato la nazional-sociale Sarah Wagenknecht.
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Accumulazione di capitale e ruolo dell’innovazione
di Maurizio Donato
La dinamica valorizzazione – svalorizzazione nel rapporto tra innovazione e accumulazione
Nel primo trimestre del 2019 il ‘valore’ mondiale delle obbligazioni a tassi negativi è tornato ad avvicinarsi ai livelli massimi toccati nell’estate del 2016. Da allora, a riportare in alto i tassi nominali spingendo al rialzo anche i rendimenti delle obbligazioni è stata unicamente la ripresa nelle aspettative di inflazione. Questo obiettivo, una maggiore inflazione, è stato al centro dell’impegno delle banche centraliche dal 2009 hanno iniettato quasi 20mila miliardi di dollari attraverso numerose politiche espansive. Ma evidentemente una politica monetaria pure ultra-accomodante non serve o non basta: i problemi dell’economia sono ‘reali’.
Secondo gli economisti del periodo classico, affinché possa ripartire il meccanismo di accumulazione, una parte significativa del capitale in eccesso sulle possibilità medie di valorizzazione deve essere svalutato o distrutto, non solo capitale nella sua forma monetaria, ma capitale costante, merci nella loro duplice natura di valori d’uso e valore tout-court, e capitale variabile, la forza-lavoro pagata al suo valore, la cui svalutazione continua sta comportando conseguenze almeno altrettanto paradossali e ben più tragiche dei tassi di interesse negativi.
Non performing capital
Nel succedersi dei cicli economici è normale che una parte dello stock di capitale esistente resti interamente o parzialmente inattiva, mentre il resto viene valorizzato ad un saggio di profitto inferiore al massimo teorico possibile proprio a causa della pressione del capitale totalmente o parzialmente inattivo. Una parte dei mezzi di produzione, del capitale fisso e del capitale circolante periodicamente cessa di agire come capitale, una parte delle imprese produttive in azione resta inoperosa; la direzione della traiettoria, il segno del rapporto tra valorizzazione e svalorizzazione, dipende dalla forza della concorrenza che decide quale e quanta frazione del capitale globale debba nei diversi casi particolari essere condannata all’inoperosità.
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L’albero filosofico del Ténéré
di Fernanda Mazzoli
Recensione di Salvatore A. Bravo: L’albero filosofico del Ténéré. Esodo dal nichilismo ed emancipazione in Costanzo Preve, Ed. Pétite Plaisance, 2019
Dai muri della città dove abito, i manifesti pubblicitari di una delle maggiori catene della grande distribuzione (che si richiama, peraltro, a valori solidaristici) ammoniscono i passanti che «Siamo quello che scegliamo». A chiarimento della scelta in questione, campeggiano i primi piani di persone di diversa età che covano con sguardo fra l’affettuoso e l’orgoglioso chi un vasetto di marmellata (naturalmente biologica), chi uno spazzolino da denti, chi una confezione di caffé macinato. Così, la straordinaria stratificazione architettonica, paesaggistica, storica e culturale di questa piccola e bellissima città si appiattisce improvvisamente nel piano liscio dove a scorrere sono solo le merci, prodigiosamente inesauribili, tutte diverse nella loro sollecitazione alla scelta, tutte interscambiabili nell’indistinto della bulimia dei consumi. Questo piano liscio nutre una nuova antropologia, in cui l’uomo è dato dalla sua relazione con le merci e la libertà – quella libertà senza la quale l’esistenza perde senso e valore – diventa libertà di scegliere il prodotto più confacente alle proprie esigenze.
L’uomo – questo essere su cui la natura e la storia hanno inciso segni tanto profondi quanto quelli che da lui hanno ricevuto – si risolve in un consumatore, responsabile e soddisfatto della nuova leggerezza acquisita: il necessario fardello del suo rapporto con se stesso e con il mondo ha ridotto le sue dimensioni a quelle di un carrello del supermercato.
La centralità della merce è religione che non ammette devoti tiepidi: avendo da tempo travalicato gli argini della sfera economica, ha finito per modellare comportamenti sociali e condotte individuali, per riorientare la percezione che si ha di sè e del mondo, per plasmare menti e corpi, pensieri e sentimenti.
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‘Tutto il potere ai Soviet!’. Parte terza
Lettera da lontano, correzioni da vicino: censura o rimaneggiamento?
di Lars T. Lih
Pubblichiamo la parte terza di questo scritto di Lih, l'unica che mancava dei sette che il sito Traduzioni marxiste ha meritoriamente messo in rete e che a suo tempo non eravamo riusciti a reperire. In ogni caso in fondo all'articolo abbiamo inserito l'elenco completo con i link
L’interpretazione corrente del bolscevismo nel 1917 basata sul concetto di “riarmo del partito” è una narrazione avvincente e altamente drammatica, che può essere riassunta, grosso modo, nel modo seguente: il vecchio bolscevismo era stato reso irrilevante dalla Rivoluzione di febbraio, i bolscevichi in Russia si trovarono in affanno sino al ritorno di Lenin, il quale provvedette al riarmo del partito, e quest’ultimo, successivamente, si divise riguardo a questioni fondamentali nel corso di tutto quell’anno. L’unità del partito venne infine restaurata – quantomeno in una certa misura – dopo che gli altri principali esponenti bolscevichi cedettero alla superiore forza di volontà di Lenin. Solo in tal modo il partito intraprese quel riarmo che lo dotò di una nuova strategia, una strategia che proclamava il carattere socialista della rivoluzione – una condizione essenziale della vittoria bolscevica in ottobre.
Osservatori con punti di vista politici significativamente contrastanti avevano tutti le loro ragioni per sostenere una qualche versione della narrazione del riarmo [1]. Questa sembrò trovare duplice conferma quando, negli anni Cinquanta, divenne noto che la versione della prima lettera da lontano di Lenin, pubblicata dalla Pravda nel marzo 1917, era stata pesantemente emendata, con la rimozione di circa un quarto del testo. Fatto divenuto la base di un vivido e persuasivo aneddoto su come i bolscevichi di Pietrogrado, esterrefatti e impauriti, avrebbero censurato Lenin, il loro stesso vozhd [guida, leader, n.d.t.].
Ecco come viene generalmente raccontata questa storia: ai primi del marzo 1917, subito dopo la caduta dello zar, Lenin esponeva la propria reazione agli sconvolgimenti russi in quattro cosiddette Lettere da lontano, servendosi delle succinte notizie di cui disponeva in Svizzera. Ma i bolscevichi di Pietrogrado si mostrarono assai scandalizzati da quanto espresso nelle Lettere di Lenin, e questo a causa di audaci innovazioni in fondamentale rottura col vecchio bolscevismo. Il turbamento suscitato dall’audacia di Lenin nei redattori della Pravda fu tale che questi rifiutarono di pubblicare tre delle Lettere da lontano, e anche la sola che venne effettivamente diffusa subì pesanti censure, con tagli che ne sfiguravano l’essenza del messaggio.
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Unicredit e il destino delle banche europee
di Vincenzo Comito
Il destino di Unicredit si lega alla crisi delle tedesche Commerzbank e Deutsche Bank e alla possibile fusione con Société Générale. La punta dell’iceberg del riassetto del sistema bancario europeo e mondiale
Unicredit al centro dell’attenzione
Non capita di frequente che delle banche italiane si parli con molto rilievo nella stampa internazionale, se non in occasione di possibili crisi delle stesse. Ma in queste settimane le vicende di Unicredit sono state al centro dell’attenzione del mondo politico e finanziario europeo ed oltre; e questo, oltre che per la pesante multa comminata dagli Stati Uniti alla banca (alcune delle cui filiali, in particolare quella tedesca, avrebbero infranto le sanzioni all’Iran e ad altri Paesi),anche per il suo interesse all’acquisizione della tedesca Commerzbank e/o (non è chiaro) per una possibile fusione con la francese Société Générale, nonché infine per una possibile multa che potrebbe essere comminata all’istituto dalla Commissione Europea per una supposta violazione delle norme antitrust, sempre da parte della filiale tedesca (la violazione avrebbe peraltro interessato anche altre sette banche del nostro continente).
Partendo in particolare dalle citate ipotesi di fusione, si può cercare di sviluppare qualche ragionamento più ampio intorno allo Stato e alle prospettive delle grandi banche del nostro continente.
L’ipotesi di acquisizione
L’Unicredit, come del resto più in generale il sistema bancario italiano, sono usciti da poco da una grave crisi. A suo tempo l’istituto aveva avviato una strategia di grande espansione all’estero, in Europa e nel resto del mondo, che era arrivata a toccare anche le lontane steppe dell’Asia centrale; tali sviluppi (insieme alla crisi economica del nostro Paese, con i conseguenti grandi strascichi di crediti inesigibili),avevano condotto dei gravi guasti nei bilanci aziendali, mentre l’istituto, solo da poco, è tornato alla normalità attraverso un durissimo piano di ristrutturazione ed un fortissimo aumento di capitale.
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Sull'alternanza scuola-lavoro
di Salvatore Bravo
La verità del capitalismo assoluto
Il valore di scambio è la sostanza storica del capitalismo, il capitalismo eguaglia in nome del valore di scambio, demofobico per necessità, addestra all’uguaglianza astratta mediante il valore di scambio. L’alternanza scuola lavoro (ASL) è una delle modalità con cui formare al valore di scambio, ovvero attraverso l’addestramento al lavoro nell’istituzione scolastica, si favorisce la cultura dell’astratto sottesa al valore di scambio. In tal modo si struttura la categoria della quantità: non è fondamentale la qualità del lavoro, ma il lavoro in sé, come modalità acquisitiva di un ruolo sociale e di una imprecisa quantità di denaro, obolo per il consumo. La categoria dell’inclusione-gabbia d’acciaio opera fin all’interno della quotidianità scolastica per inibirne l’esodo. In questo frangente storico Marx ci è di aiuto per porre uno sguardo cognitivo nella caverna, sempre più simile ad un fondo di magazzino1 :
”Quello che particolarmente distingue il possessore di merce dalla merce, è il fatto che ogni altro corpo di merce si presenta alla merce stessa solo come forma fenomenica del suo proprio valore. Quindi la merce, cinica ed uguagliatrice dalla nascita, è sempre pronta a fare lo scambio a fare scambio non soltanto dell’anima ma anche del corpo come qualsiasi altra merce, fosse pur questa piena di aspetti sgraditi ancor più di Maritorne. Il possessore di merci con i suoi cinque e più sensi completa questa insensibilità della merce per la concretezza del corpo delle merci”.
L’opera al nero non potrebbe essere più chiara. Il valore di scambio è il paradigma all’interno del quale, si devono leggere le riforme neoliberiste degli ultimi decenni. E’ necessario deviare lo sguardo cognitivo dalle parole della propaganda (buona scuola, via della seta, missione di pace, bombardamento umanitario, riqualificazione urbana) che occultano la verità, per trascendere la certezza sensibile e cogliere la verità del fenomeno storico.
Formare alla plebe
L’integralismo economicistico nella sua corsa all’atomizzazione ed al consumo rende i popoli consumatori, migranti, accelera le disuguaglianze e favorisce la conflittualità orizzontale. La plebe è consegnata alle variazioni del mercato, è così un pulviscolo incapace di comprendere i fenomeni in atto ed ipostatizza il presente.
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Venezuela o di un giardino di casa alquanto riottoso
di Gianfranco Greco
“La corda è sempre più tesa e può rompersi (o essere rotta) in qualsiasi momento, trascinandoci in un caos ben più pericoloso di quello libico.” (Manlio Dinucci, Il Manifesto 16 aprile 2019)
Che uno scadente comico da avanspettacolo si possa autoproclamare presidente della “Republica de Venezuela” ci può anche stare. L’area caraibica è stata interessata, nel corso di una storia più che decennale da episodi di tal genere. Guaidò ne è l’ultimo sguaiato esempio. Ci sta invece un po’ meno che a schierarsi col presidente in carica, Maduro, ci sia, oltre alla Cina e Russia, la Turchia di Erdogan. Un po’ di sconcerto lo suscita in quanto oggetto di riferimento è un alleato storico degli Stati Uniti, membro tra i primi della Nato, nonché solerte cane da guardia posto ai confini meridionali dell’ex Unione Sovietica. La crisi dei missili di Cuba – ottobre 1962 – scoppiò in conseguenza del dispiegamento sull’isola caraibica, da parte dell’URSS, di missili balistici proprio in risposta a quelli dispiegati dagli States in Turchia. L’attuale contesto sembra offrirci una riedizione di quella crisi laddove l’arrivo in Venezuela di due aerei militari russi unitamente ad un centinaio di soldati è visto dall’amministrazione Trump come una sorta di attentato alla sempreverde dottrina Monroe. Una dottrina a cui opportunamente riferirsi per contrastare la crescente penetrazione russa e cinese in Venezuela. La criticità della fase attuale può ingenerare un certo comparativismo tra i due eventi anche se, per meglio decifrare questa nuova realtà, interviene un elemento che ha connotato il cinquantennio appena trascorso: i due blocchi in cui allora era diviso il mondo non esistono più.
Se nel 1962 la Turchia si sarebbe mai sognata di schierarsi con Russia e Cina, nel 2019 questo avviene in quanto, nel frattempo, le dinamiche capitalistiche ingenerate da una crisi di sistema, che tuttora perdura, hanno provocato sconquassi tali da sancire la fine del bipolarismo russo-americano, la successiva consunzione dell’unipolarismo a “stelle e strisce” nonché il prorompere di un multipolarismo che ha ridisegnato ruoli e strategie con l’entrata in scena di nuovi attori globali. Ciò comporta conseguenzialmente la messa in discussione ed il progressivo ridimensionamento di egemonie ritenute fino a poco tempo addietro incontestabili.
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Ideologie, superstrutture, linguaggi nei Quaderni del carcere di Antonio Gramsci
di Fabio Frosini (Università di Urbino)
«Marx irride le ideologie, ma è ideologo in quanto uomo politico attuale, in quanto rivoluzionario. La verità è che le ideologie sono risibili quando sono pura chiacchiera, quando sono rivolte a creare confusioni, ad illudere e asservire le energie sociali, potenzialmente antagonistiche, ad un fine che è estraneo a queste energie. […] Ma come rivoluzionario, cioè uomo attuale di azione, non può prescindere dalle ideologie e dagli schemi pratici, che sono entità storiche potenziali, in formazione»1.
1. Che cosa è il marxismo ortodosso?
Il punto di attacco per un’esposizione del nesso tra ideologia e superstrutture nel pensiero di Gramsci non può che essere il modo in cui questo nesso interviene nell’elaborazione del marxismo suo per un verso, per un altro nella più ampia e generica discussione teorica e culturale in corso in Italia e in Europa nei primi decenni del Novecento. Sul primo versante, ciò che sopratutto caratterizza l’approccio gramsciano è l’insistenza sul carattere non univoco dell’ideologia, sul suo poter essere cioè tanto nascondimento e illusione della situazione reale, quanto conoscenza vera.
Gramsci si inserisce cioè nella discussione marxista sull’ideologia mettendone profondamente in discussione l’accezione canonica, depositatasi nella definizione engelsiana di «falsa coscienza» (falsches Bewusstsein)2.
Sul secondo versante, della discussione teorica e culturale nello scenario italiano e continentale, l’intervento di Gramsci è di polemica contro le concezioni caricaturali del materialismo storico, patrocinate – a partire dagli anni Venti – sopratutto da Benedetto Croce e tendenti a ridurre la nozione di “superstruttura” a un mero epifenomeno della “necessità” economica, di un’“Economia” sostanzializzata che opera come un “dio ascoso”, muovendo tutti i fili della storia.
Questa duplice incombenza – riscattare il marxismo dalla liquidazione crociana e sviluppare in positivo una teoria dell’ideologia come fatto irriducibile a mera “falsità” gnoseologica – è parte di una strategia di contrasto a quello che Gramsci considera il fenomeno duplice e correlato: la volgarizzazione del marxismo come coprodotto della sua espansione di massa, e il lungo ciclo del revisionismo, avviato nell’ultimo lustro dell’Ottocento da Bernstein, Croce, Sorel, e proseguito con grande lucidità e determinazione da Croce (con oscillazioni congiunturali) per tutto il primo trentennio del Novecento, come strategia borghese di riconquista dell’iniziativa egemonica.
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La politica economica degli equilibristi ed illusionisti
di Civil Servant
Molte delle previsioni catastrofiche sulle conseguenze del reddito di cittadinanza e di “quota 100” diffuse da vari organismi internazionali si basano su un uso piuttosto spregiudicato del paradigma dell’equilibrio economico generale, lo stesso che è stato impiegato negli ultimi anni per decantare le virtù delle riforme restrittive delle pensioni e della liberalizzazione del mercato del lavoro.
Un esempio di questa impostazione è il recentissimo rapporto dell’OCSE sull’Italia (OECD, Economic Surveys, Italy, aprile 2019), che suggerisce di perseguire la crescita economica, il benessere e l’inclusione sociale attraverso un programma di riforme dal lato dell’offerta, che aumenterebbero la capacità produttiva potenziale dell’economia. Secondo l’OCSE, queste misure sarebbero più che sufficienti a compensare gli effetti recessivi di un piano di riduzione del debito pubblico che prevede avanzi primari dal 2% al 3,3% del PIL ogni anno. Un cardine del programma di riforme proposto è il rafforzamento degli incentivi al lavoro, con l’abolizione di quota 100 e la riduzione dell’importo del reddito di cittadinanza al 70% della soglia di povertà relativa, combinata con politiche attive più energiche e con la riduzione del cuneo fiscale sui lavoratori a basso salario e sui secondi percettori di reddito del nucleo familiare.
Queste raccomandazioni discendono dall’uso di una classe di modelli denominati DSGE (Dynamic Stochastic General Equilibrium), largamente utilizzati per simulare gli effetti complessivi dei provvedimenti di politica economica, basati sull’ipotesi che i mercati tendano spontaneamente verso una situazione di equilibrio che può essere favorita rendendo prezzi e salari più flessibili. Su questi modelli pesa lo scetticismo manifestato dal premio Nobel Robert Solow che, pur essendo un economista molto ortodosso, nel 2010 sostenne davanti ad una commissione del Congresso americano che i DSGE non superavano neanche lo “smell test”.
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Con i piedi per terra
di Michele Castaldo
A proposito dell’appello unitario di Confindustria e sindacati per le elezioni europee
Con l’approssimarsi della scadenza elettorale del 26 maggio si ripresenta, per la sinistra, una nuova occasione per discutere della spinosa questione sindacale. Lo spunto viene offerto, questa volta, dall’appello unitario firmato da Confindustria e Cgil Cisl Uil, ovvero – ancora a tutt’oggi – i sindacati maggiormente rappresentativi. Come è possibile, perché due controparti firmano un appello unitario, cosa unisce padroni e operai, borghesi e proletari? Perché cadere così in basso, si chiedono addirittura certe formazioni di estrema sinistra? Evidentemente c’è qualcosa che non va, o tra i sindacati confederali oppure fra quanti non hanno chiara la natura del sindacato, la natura del capitalismo e innanzitutto il modo di vivere del proletariato nel capitalismo.
In verità la questione è ben più complicata di come la si vorrebbe rappresentare, perché investe il modo d’essere del capitalismo come movimento storico che in questa sede purtroppo non è possibile approfondire.
Va detto innanzitutto che il sindacato sorge come riflesso agente del modo di produzione capitalistico da parte dei lavoratori. Fin dalle prime formazioni di muto soccorso esso si caratterizza come necessità di difesa di una parte contro un’altra di un tutto, che erano e sono complementari. Detto in parole semplici: il sindacato nasce e si sviluppa perché nasce e si sviluppa il capitalismo. E nasce lì dove nasce la rivoluzione industriale per svilupparsi insieme all'estendersi a macchia d’olio di tale modo di produzione. E nasce – si badi bene – sempre a seguito di mobilitazioni improvvise e molto spesso violente dei lavoratori contro lo sfruttamento, contro i bassi salari e le invivibili condizioni negli ambienti di lavoro. Come racconta Jerey Brecher nel suo bel libro Sciopero! edito da Derive Approdi nel 1999. Solo dopo, quelle strutture sorte dalla spontaneità divengono istituzioni dei lavoratori in un cammino comune nel modo di produzione capitalistico in un rapporto altalenante con il capitale secondo il procedere dello sviluppo dell’accumulazione.
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Istruzione e disoccupazione: chi non è causa del suo mal non pianga se stesso
di coniarerivolta
Non si fa mai in tempo ad indicare la Luna, che qualche editorialista de Il Sole 24 Ore si precipita a guardare il dito. Qui però non si tratta di stolti, ma di ben educati alfieri del liberismo proni e pronti a procurar sciagure ai diseredati. Il tema, nostro malgrado, è ben noto: l’atavico problema della disoccupazione che attanaglia l’economia italiana. La risposta della stampa padronale, con minime variazioni sul tema, è sempre la stessa: quella sbagliata.
Di recente Il Sole 24 Ore ha pubblicato l’ennesimo articolo in cui la colpa della disoccupazione giovanile ricadrebbe ancora una volta sui giovani stessi. Quale sarebbe la loro colpa, nello specifico? Avere scelto un percorso di studi non congruo alle richieste del mondo del lavoro. Ad un buon osservatore, potrebbe far già ridere così. Ma proviamo ad andare con ordine.
Qual è il paradigma che ispira l’autore del pezzo lo si capisce dalle prime righe: la domanda aggregata non ha alcuna importanza, nel determinare il livello d’occupazione. Detto altrimenti, secondo l’autore per le imprese non è rilevante quanta domanda di beni (e servizi) si trovino a dover fronteggiare, nel decidere quante persone assumere. Il problema vero, apparentemente, risiederebbe negli sbagli fatti dai ‘giovani’ al momento di scegliere quale scuola superiore frequentare o a quale facoltà iscriversi: abbiamo pochi studenti che frequentano i corsi di avviamento professionale e troppi che invece si accaniscono nelle inutili lauree umanistiche.
“L’Italia ha anche la più bassa percentuale di laureati in Europa”, afferma anche l’autore, e aggiunge: “questa scarsità però non si traduce in un vantaggio”. Pare di capire, quindi, che il problema sia che in pochi si iscrivono all’università e buona parte di quelli che lo fanno si iscrive alla facoltà sbagliata. Ad aggiungere la beffa al danno, tra i molti che invece all’università non ci vanno solamente pochi scelgono scuole utili, cioè quelle che idealmente dovrebbero trasformare lo studente in un precoce e spersonalizzato ingranaggio della catena produttiva.
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Sei risposte a chi difende il TTIP Zombie
di Stop TTIP Italia
Da quando il nostro governo ha dato il suo via libera in Consiglio europeo all’avvio di una nuova trattativa di liberalizzazione commerciale con gli Stati Uniti, abbiamo assistito a un disperato tentativo di convincere l’opinione pubblica del fatto che il TTIP non fosse tornato dal mondo dei morti. Invece, è andata è proprio così: un TTIP zombie è stato riesumato
Questo nuovo dossier liberamente scaricabile fornisce non una, ma sei risposte alle sterili e tristissime obiezioni diffuse in questi giorni. Per capire che siamo in presenza di un rilancio del trattato tossico che milioni di cittadini hanno contrastato in questi anni – e per capire come rispondere – bisogna infatti porsi alcune domande:
- il “vecchio” TTIP è davvero morto?
- Cosa contengono i mandati negoziali richiesti dalla Commissione per sedersi al tavolo con Trump?
- Quali lobby hanno spinto per riavviare il negoziato?
- Perché ci dicono che non è possibile il cibo e l’agricoltura potranno essere toccati dal nuovo TTIP quando invece è vero il contrario?
- Che impatto avrà questo trattato sui diritti e sull’ambiente?
- Cosa possiamo fare per non farci prendere in giro e far fallire anche il nuovo TTIP?
Nel breve dossier che abbiamo realizzato trovate tutte le spiegazioni, che mettono a nudo tutta l’ipocrisia di quei partiti, Ministri e parlamentari – italiani ed europei – che hanno provato a giustificare una scelta che resta irresponsabile e inaccettabile.
* * * *
1) Il nuovo TTIP non esiste = falso
Nessuna affermazione potrebbe essere più scorretta di questa, anche se è la Commissione Ue in primis, seguita inaspettatamente anche da alcune forze politiche italiane, a sostenerlai. Il 25 luglio scorso, infatti, il presidente degli Stati Uniti Donald Trump e il presidente della Commissione Europea Jean-Claude Junker hanno sottoscritto una dichiarazione comune per raggiungere un nuovo accordo di liberalizzazione commerciale tra USA e UE che “aprirà mercati per agricoltori e lavoratori, aumenterà gli investimenti e porterà a una maggiore prosperità sia negli Stati Uniti che nell’Unione europea.
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Sovranità costituzionale: in fondo a sinistra
di Giovanna Cracco
La proposta politica di queste elezioni europee registrerà un vuoto a sinistra. Probabilmente inevitabile, in questa fase. Da un lato la sopravvivenza, nonostante il crollo di consensi, di un partito come il Pd, che pur avendo più nulla del pensiero di sinistra si posiziona ancora su quel lato dell'arco parlamentare, crea l'illusione che la sinistra sia ancora politicamente rappresentata e cattura i voti di un elettorato che nella gran parte non è nemmeno più socialdemocratico ma si sente ancora ideologicamente lì posizionato (se il Pd si decidesse a dichiararsi un partito liberale di centro farebbe un'operazione di verità, cosa che ovviamente non ha la convenienza elettorale a fare.) Dall'altro la difficoltà vissuta dal pensiero di sinistra nel comprendere il presente, le sue dinamiche economiche e sociali, e aggiornarsi di conseguenza, l'ha portato a essere assente per lungo tempo sul piano culturale, il primo da sviluppare per poter poi formulare una proposta politica, con il risultato che i partiti - al plurale, viste le numerose divisioni - di sinistra hanno perso terreno anno dopo anno fin quasi a scomparire. Intendiamoci: non si sta affermando che le categorie storiche del pensiero di sinistra siano superate: la principale, il conflitto Capitale/lavo-ro, è oggi più viva che mai, così come i meccanismi con cui il capitalismo riesce a superare ogni sua crisi; ma la realtà dei Paesi a capitalismo avanzato, ancor più in un sistema globalizzato come quello attuale, è divenuta più complessa di quella del Novecento. Il lavoro è stato reso 'flessibile' e precario ed è dunque diventato una lotta individuale, molto è divenuto cognitivo mentre il lavoratore è stato trasformato in 'capitale umano' e l'idea di 'classe' è scomparsa; la finanziarizzazione, la libera circolazione dei capitali e la catena del valore divenuta internazionale hanno reso meno individuabile e raggiungibile, anche nelle lotte, la proprietà contro cui aprire il conflitto, mentre il dumping sociale ha innescato quello tra lavoratori; il capitalismo digitale ha messo a valore la vita e non più solo il lavoro.
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Come domare gli ‘spiriti animali’ del capitalismo?
di Carlo Formenti
Vi sono momenti storici in cui, come diceva Gramsci, il vecchio muore ma il nuovo non riesce a nascere. In simili momenti è un intero apparato concettuale (teorie, visioni, ideologie, parole) a entrare in crisi: politici, intellettuali, persone comuni si rendono conto che tutto quello che hanno imparato attraverso la loro educazione e le loro esperienze professionali e di vita non serve più (o almeno serve sempre meno). Il mondo cambia troppo in fretta perché si riesca a descriverlo, né tanto meno a comprenderlo. Al disorientamento generato da questa incapacità dei linguaggi di aderire alla realtà, si tende a reagire aggrappandosi alle rassicuranti categorie del passato, cercando di adattarle il più possibile all’attualità, non ci si rassegna a rinunciarvi, nemmeno di fronte alla loro palese inutilità di fronte alle sfide economiche, sociali e politiche che incombono. In questi frangenti il coraggio dei pochi che tentano di esplorare nuovi percorsi teorici, di cambiare il punto di vista sul mondo, è un dono prezioso che merita riconoscimento. Un esempio di tale coraggio viene dall’ultimo libro di Onofrio Romano, “La libertà verticale. Come affrontare il declino di un modello sociale” (Meltemi), in cui l’autore propone una spiazzante ricostruzione delle dinamiche e delle cause delle grandi crisi che la società capitalista ha attraversato nell’ultimo secolo.
L’originalità del lavoro di Onofrio Romano consiste nello sforzo di assumere una postura “laterale” nei confronti dei modelli teorici – economici, politici, sociali - consolidati con cui è stato sviscerato il periodo storico in questione, che è quello fra le due transizioni di secolo XIX-XX e XX-XXI. Pur non rinunciando a confrontarsi con tali modelli e con i loro massimi interpreti, Romano li integra con – o per meglio dire li ingloba in - una visione prevalentemente culturale/antropologica dei fenomeni analizzati. Ne emerge un quadro in cui le classiche categorie oppositive della moderna teoria sociale (progresso/conservazione; democrazia/totalitarismo; capitalismo/socialismo; destra/sinistra, ecc.) passano in secondo piano rispetto all’inedita endiadi orizzontalismo/verticalismo.
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Golpe fallito? I media gli fanno la respirazione artificiale........
Venezuela:si rompe l'osso o si rompono i denti?
di Fulvio Grimaldi
“Noi resteremo fermi in difesa dell’ordine costituzionale e della pace della Repubblica, assistiti come siamo da legge, ragione e storia. Leali sempre, traditori mai!” (Vladimiro Padrino, Ministero della Difesa della Repubblica Bolivariana del Venezuela)
Alì Primera, da ascoltare, volendo, in sottofondo.
Com’è che diceva Emilio Fede?
La figura di merda in questione si dà per scontato sia quella dell’ennesimo gaglioffo da avanspettacolo inventato dai servizi Usa su mandato dell’Universal P2, S.p.A., per sostituire a un governo democratico e, magari, emancipatore e sovranista, un fantoccio duro e puro, addestrato al servo encomio alla Cupola e al suo braccio armato statunitense. Già perché, dopo il cazzuto, affidabile e durevole Fuehrer cileno, non si è verificato che un sequel di catastrofici pirla, buoni solo ad accaparrare mazzette imperiali sulla parola. Honduras, Ucraina, Ecuador, Haiti, Afghanistan, Libia, Yemen: reggono solo perché puntellati dall’Impero con le sue basi. Livelli intermedi li conosciamo in Europa. Scelte al massimo ribasso che riflettono fedelmente spessore e qualità dei mandanti.
Più esilarante, per quanto non meno scontata, la figura in oggetto inflittasi dai media, come al solito più italiani che quelli, un tantino avveduti, esteri. Ci si arrampica sugli specchi per mantenere ancora per un po’, almeno a livello mediatico, l’attenzione sul “dittatore” Maduro, sulla disperazione del popolo affamato e sul sacrificio di un’opposizione democratica massacrata. Proprio come si era tentato dopo il megaflop del procuratore Mueller per tenere a galla la ciambella del Russiagate. Uno specchio, liscio quanto può esserlo un vetro smerigliato, è la fola diffusa da Pompeo (uno fuggito dal set di “Gomorra”, o del “Padrino” e sostituito malamente da Marlon Brando) secondo cui i vertici delle Forze Armate avrebbero deciso di deporre Maduro, con tanto di “dimissioni onorevoli”, già pronte, ma poi ci avrebbero ripensato.
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Note in merito al libro di Ferrero e Morandi su Marx
di Luigi Ficarra
Paolo Ferrero, Bruno Morandi: Marx oltre i luoghi comuni, editore Derive Approdi
“Non esiste vento favorevole per il marinaio che non sa dove andare ”, dice Seneca in un passo delle ‘Lettere a Lucilio’ citato da Ferrero (p. 228). Passo che si può anche leggere così: ‘ Non esiste vento favorevole per il marinaio che segua una rotta sbagliata’, la quale in tal caso tale rimane. Citazione su cui tornerò più avanti.
♦ Da leggere con cura la parte scritta da Morandi , di cui, per chi non ha approfondito la conoscenza della teoria dello Stato in Marx, (come ha fatto chi scrive, sia per motivi personali di studio, che, soprattutto, per impegno politico), consiglio una lettura approfondita, perché fa comprendere l’errore d’impostazione che sul tema commise Engels. Il quale nella sua opera “ L’origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato ”, parla delle caratteristiche dello Stato in generale, affermando in modo astorico una teoria valida per tutti i tempi, e quindi non coglie la natura specifica dello Stato borghese che nasce dalla scissione fra società civile e società politica, determinata dal modo di produzione capitalistico. Scissione, separazione che, ripeto, è - come spiega Marx - la fondamentale caratteristica della società capitalistica e della sua specifica ‘funzionale’ democrazia. Infatti, lo Stato di diritto kantiano, che come diceva Della Volpe, in polemica col revisionismo dei Bernstein e Mondolfo, trova il suo fondamento nel ‘ Contratto sociale ’ di Rousseau, è reso necessario dai rapporti di produzione capitalistici, alla cui gestione esso è funzionale (v. Marx in ‘ Critica della filosofia hegeliana del diritto pubblico ’, in ‘La questione ebraica’, anche ne ‘Le lotte di classe in Francia dal 1848 al 1850, e nella ‘Critica del programma di Gotha’, ed. di Mosca, 1947, p. 37, in cui scrive che ‘la presente radice dello Stato è la società borghese’).
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L’estensione del concetto di ideologia in Gramsci e la genesi delle sue articolazioni
Gianni Francioni (Università di Pavia)
1. Seguendo il «ritmo del pensiero in isviluppo»1 nelle pagine dei Quaderni del carcere, vorrei mostrare come nascono, tra il giugno 1929 e il novembre 1930, gli elementi costitutivi della famiglia concettuale dell’ideologia.
Quella che indico come “famiglia concettuale” è appunto un insieme di concetti correlati fra loro. Come tutte le famiglie, ha una forma ristretta e una allargata, se vi si includono anche i parenti meno vicini. Se limitiamo al massimo le relazioni di parentela, possiamo dire che appartengono certamente alla famiglia concettuale dell’ideologia, oltre al termine che le dà il nome, lemmi come: soprastruttura, filosofia, concezione del mondo (e le sue varianti: concezione del mondo e della vita, concezione della vita o, nell’originale tedesco dell’espressione, Weltanschauung, che però Gramsci usa pochissime volte nei suoi quaderni); e ancora: religione, senso comune, folklore. La famiglia può essere ampliata includendovi egemonia, conformismo, linguaggio, utopia, mito ecc.
Per Gramsci, come per ogni buon marxista, l’ideologia è innanzi tutto una soprastruttura: secondo le notissime espressioni usate da Marx nella Prefazione del 1859 a Per la critica dell’economia politica, l’insieme dei rapporti di produzione costituisce la «struttura economica della società», «base reale sulla quale si eleva una superstruttura giuridica e politica e alla quale corrispondono determinate forme sociali della coscienza»: «forme giuridiche, politiche, religiose, artistiche o filosofiche», definite nella loro generalità «forme ideologiche»2. D’altro canto, come ogni marxista del suo tempo, Gramsci impiega spesso in tutti i quaderni il termine ideologia sia in un’accezione negativa, sia in un’accezione neutra, descrittiva (entrambe erano usuali all’epoca in cui egli scrive).
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New management, autonomia scolastica ed autonomia differenziata
di Fernanda Mazzoli
Nella cornice del New Public Management trova fertile humus la richiesta dell’autonomia differenziata da parte di alcune regioni italiane che rivendicano il governo diretto di diversi ambiti della vita pubblica. Sono regioni fra le più ricche d’Italia che mirano a stabilire legami diretti con le altre regioni più avanzate d’Europa e ritengono di poterlo fare con maggiore successo, se svincolate dal quadro istituzionale nazionale e dagli obblighi - fiscali in primo luogo, ma non solo - che esso comporta. Hanno in primo luogo bisogno di controllare settori strategici e, fra questi, uno dei più importanti è rappresentato dalla scuola. Non è un caso che sulla scia delle più note Emilia, Lombardia e Veneto, anche Marche e Umbria abbiano avviato un percorso in comune di autonomia differenziata limitato a poche discipline e che riguarda proprio l’istruzione e la formazione tecnica e professionale, nonché l’università. La posta in gioco è appetitosa: la riorganizzazione dell’istruzione in senso regionale comporta non solo la gestione del personale, ma la possibilità di intervenire sul curricolo degli studenti e sull’Alternanza Scuola-Lavoro. La regionalizzazione del sistema scolastico (o di parte di esso) punta a costruire in tempi brevi quella sinergia tra istruzione ed impresa invocata dagli organismi europei e dalle associazioni di categoria degli industriali e chiamata a fare della scuola il luogo dell’addestramento delle giovani generazioni alle competenze richieste dalle aziende del territorio.
* * * *
A partire dagli anni ’80 del secolo scorso comincia ad imporsi una corrente di pensiero, destinata ad influire profondamente sulle dinamiche socio-politiche e culturali del nostro tempo, che propone di importare le regole di funzionamento del mercato concorrenziale nel settore pubblico. I principi ispiratori del new management e della public governance affondano le loro radici nell’elaborazione del concetto di “società imprenditoriale”. Peter Drucker, teorico del management, riprendendo certi aspetti dell’imprenditore schumpteriano- l’uomo della “distruzione creatrice”- propugna la costruzione di una nuova società di imprenditori, il cui spirito deve diffondersi in tutta la società.
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Senza democrazia non può esserci libera informazione (e viceversa)
di Norberto Fragiacomo
Ho udito, non molto tempo fa, un giornalista affermare alla radio che senza l’Unione Europea non avremmo in Italia democrazia e diritti – e che comunque nessuno può fornire prove dell’asserto contrario (“non esiste controprova”, mi pare abbia detto).
Più che di una spudorata menzogna potremmo parlare di una smaccata contraffazione della realtà, che assieme all’onere probatorio viene bellamente capovolta: siamo di fronte ad una μυθοποίησις, cioè alla cosciente creazione di un mito – termine che non a caso in greco antico significa “favola”. Giornalisti che anziché descrivere l’esistente ci raccontano favole: ecco il punto di partenza di una breve riflessione dedicata al tema, oggi attualissimo, dei rapporti fra democrazia e comunicazione.
Visto che le astrazioni ci interessano fino a un certo punto, cominceremo la nostra analisi dal dato testuale, partendo non da un’opera qualsiasi, bensì dalla Costituzione del ’48. L’articolo 1 proclama che l’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro, e già dalla scelta del participio possiamo desumere utili informazioni sul significato che i costituenti vollero assegnare ad un sostantivo di per sé ambiguo – o, per meglio dire, non di rado ambiguamente adoperato.
Democrazia non è sinonimo di suffragio universale né di multipartitismo, perché gli articoli 2, 3 e 4 trattano di tutt’altro: di diritti fondamentali, doveri civici, uguaglianza effettiva e promozione della piena occupazione. Secondo chi redasse la Costituzione repubblicana non ci può essere democrazia autentica senza diritti civili, sociali ed economici garantiti alla generalità dei cittadini.
Fra i diritti e doveri in ambito civile figurano quelli ricompresi nei primi due commi dell’articolo 21: la libertà di espressione (e comunicazione: “Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione”) e la libertà di informazione (“La stampa non può essere soggetta ad autorizzazioni o censure”).
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Alle radici di una storiografia militante
1 maggio 1945 – 1 maggio 2019
di Sergio Bologna
74 anni. Prendo spavento a pensare che c’ero, anzi, che me lo ricordo quel 1 maggio del 1945. E che i testimoni di quegli avvenimenti non sono rimasti tanti. Non dico in generale, dico quelli che hanno visto ciò che ho visto io, a Trieste, in una casa da dove si vedeva la sagoma del Castello, ultima roccaforte della resistenza tedesca all’avanzata dell’esercito di liberazione yugoslavo. I maschi della mia famiglia, tranne mio padre, erano tutti sotto le armi. Mio nonno era prigioniero in Africa, ad Asmara, ma non se la passava male, mi raccontò qualche anno dopo. Ci era andato volontario nel ’36 con le truppe italiane. S’era arruolato per ottenere l’amnistia, aveva una condanna per diserzione. Allora abbandonare una nave commerciale era considerato diserzione, come fosse una nave militare. Lui, elettricista di bordo, toccato un porto degli Stati Uniti, se l’era svignata per inseguire il sogno americano. Aveva sbagliato data, era il 1929. A Trieste s’era lasciato alle spalle una moglie e quattro figli: mia madre, la prima, una donna sensibile, bella, sportiva, s’era ammalata di tubercolosi a 15 anni e avrebbe passato la vita tra sanatori e ospedali. Poi tre figli maschi, uno alto, ben piantato, calciatore semiprofessionista, arruolato nei granatieri, era prigioniero in Germania, “internato militare”, per la precisione, preso dai tedeschi l’8 settembre ad Atene e ficcato in un vagone piombato. Un altro più giovane, Giorgio, dolce e tenero ragazzo, era caduto a 21 anni a El Ghennadi in Tunisia, pochi giorni prima della resa delle truppe italiane, nel maggio del ‘42. L’ultimo, di cui non ricordo il nome, era morto di meningite a 4 anni.
Non so qual è stato il tributo di sangue che i partigiani di Tito hanno versato per conquistare Trieste prima che ci mettessero su le mani gli Alleati. Ma qualche fonte parla di migliaia di caduti sul Carso. Me li ricordo ancora, gli elmi nei boschi. Erano elmi tedeschi, molti foderati di pelle, li raccoglievo e me li ficcavo in testa, subito redarguito da mio padre, potevano averci i pidocchi. I partigiani portavano bustine, copricapi di stoffa, erano un po’ scalcagnati.
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La patrimoniale sbagliata è quella che piace alla Ue
di Claudio Conti
In calce l'articolo di Guido Salerno Aletta sull'argomento
Patrimoniale, panacea per tutti i mali economici? Dipende… Quando – cadendo nella trappola ideologica imposta dalla narrazione dominante – si prova a rispondere alla domanda “dove si trovano i soldi per fare quello che proponete?” (chiunque sia a proporre una strategia diversa da quella ordoliberista), la mente di tutti va immediatamente a due totem: combattere l’evasione fiscale e fare una patrimoniale.
Non paradossalmente, tutti sono d’accordo a dire che “bisogna combattere l’evasione fiscale” –farlo, è notoriamente tutt’altra cosa – mentre la patrimoniale risulta normalmente più “divisiva”, spesso definendo il campo della destra autentica e quello della presunta “sinistra”.
Non ci dilungheremo qui sulla lotta all’evasione, che richiede la capacità di ricoprire un ruolo di governo con intento e determinazione rivoluzionari. E ragioniamo invece sulle facce nascoste della “patrimoniale”.
Lo facciamo facendoci aiutare – come spesso ci capita – da Guido Salerno Aletta, che ha prodotto l’editoriale di Milano Finanza che qui sotto riproponiamo.
La prima operazione da fare è relativamente semplice: cos’è una patrimoniale? E’ qualunque tipo di tassa calcolata, invece che sul reddito, sul patrimonio del contribuente. Salario, pensione, sussidi, ecc, sono redditi; depositi bancari, investimenti finanziari, immobili, terreni, ecc, sonopatrimonio.
Cosa c’è di più semplice allora che immaginare una tassazione sui secondi? Semplicità che nella realtà non esiste, però. Intanto perché bisogna distinguere i patrimoni mobiliari (che si possono cioè muovere, anche fuggendo all’estero, come soldi, azioni, obbligazioni) da quelli immobiliari, che stanno dove stanno e nessuno li può portare via.
Nel concreto della società italiana, il quadro è particolarmente complicato. Praticamente tutti i lavoratori dipendenti (e i pensionati) sono obbligati ad avere un conto corrente in banca o alle Poste. Quindi praticamente tutti hanno un patrimonio mobiliare, anche se quasi sempre minimo e spesso addirittura negativo (quando “si va in rosso”).
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Alcune geniali intuizioni di Alberto Moravia nel romanzo La ciociara
di Eros Barone
Estetizzazione della guerra, critica sociale in bocca nazionalsocialista e antitesi ‘furbi-fessi’
Alcuni romanzi contengono pagine di una forza così intensa e inaspettata che quando il lettore ci arriva, dopo deve fermarsi. Non può continuare a leggere, ma sente il bisogno di chiudere il libro, magari tenendo il segno con l’indice incastrato fra le pagine, respirare profondamente, ricacciare indietro le lacrime. Sono momenti di commozione potente che i grandi scrittori dosano con parsimonia e che sanno travolgere chi legge con l’autenticità della vita. La ciociara contiene più di un momento del genere.
Sandra Petrignani
La ciociara, romanzo pubblicato nel 1957 ma iniziato dieci anni prima e poi abbandonato, non solo rappresenta il momento più avanzato, marxista e comunista, della evoluzione ideologica e culturale di Alberto Moravia, ma fornisce anche la chiave per comprendere i diversi aspetti che caratterizzano, in quel periodo, l’opera dello scrittore. 1 L’argomento del libro è noto, grazie anche alla riduzione cinematografica di Vittorio De Sica e all’interpretazione di Sofia Loren (1960): vi si narra la storia di Cesira, una bottegaia romana – una ciociara sposa di un uomo molto più vecchio di lei e ben presto vedova – e di sua figlia Rosetta, entrambe sfollate durante l’ultimo periodo della seconda guerra mondiale, come accadde anche allo stesso autore e ad Elsa Morante, allora sua moglie, nelle montagne vicino a Fondi, comune della provincia di Latina.
Le due donne vivono in quei mesi del 1943 i sacrifici, le ansie, le speranze e le illusioni di tutti coloro che aspettavano la pace e la liberazione, maturando nel contempo anche una nuova consapevolezza attraverso i quotidiani discorsi con un giovane intellettuale antifascista (il dialogato di questo romanzo è uno dei pregi più avvincenti della mossa scrittura moraviana). Michele Festa – questo è il nome dell’intellettuale – viene portato via e ucciso da una delle ultime pattuglie tedesche in ritirata e le due donne, finalmente liberate, s’imbattono in un reparto di marocchini che abusa di loro. Sennonché il trauma dello stupro, tanto più violento in quanto la giovinetta era del tutto semplice e ingenua, spinge Rosetta a perdere ogni pudore e a darsi a tutti gli uomini che incontra, finché, sulla strada del ritorno a Roma, un nuovo trauma (l’assassinio del suo ultimo amante) non le restituisce l’equilibrio perduto.
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Riflessioni sparse leggendo il libro “Smagliature digitali”
di Silvia Guerini
In occasione dell’iniziativa “Gorgoni – corpi imprevisti” del 5 maggio al FOA Boccaccio a Monza [1].
Il libro “Smagliature digitali” contiene vari saggi. Uno di questi è il manifesto Xenofemminista, recente è la pubblicazione di “Xenofemminismo” di Helen Hester. È più semplice criticare questo estremo hi-tech dove tutto è riprogettabile [2], più difficile scorgere e mettere in luce che siamo già arrivate a un punto in cui l’attivismo e le analisi trans-femminista e queer sono portatrici delle stesse logiche neoliberali di mercificazione, di ingegnerizzazione del vivente e di superamento dei limiti di questo sistema tecno-scientifico. Tendenze figlie di questi tempi che si presentano come radicali e sovversive, ma che andranno solo a rafforzare le fondamenta su cui si regge questa società.
Senza giri di parole, quello che noi vorremmo distruggere per un mondo altro, chi porta avanti queste analisi lo vorrebbe mantenere. Ci troviamo davanti a un adesione entusiasta al tecno-mondo e a un’ammirazione delle tecnologie.
Già da tempo il personale ha fagocitato il politico, perché è certamente più facile essere in un continuo processo di cambiamento individuale, considerandolo come la chiave per cambiare la società, invece che guardare fuori da sé intraprendendo un percorso di lotta. Ma bisogna intendersi anche su questo. Perchè è di moda pensare che autoprodursi sex-toys sia una pratica sovversiva. Così nascono come funghi laboratori ludici di giocattoli sessuali e di mutande masturbatorie, come se davvero questo possa intaccare in qualche modo questo sistema.
Un saggio di “Smagliature digitali” ci illustra il “pornoattivismo accademico”, un’altro gioco, da chi può permettersi il lusso di giocare mentre tutto attorno precipita sempre di più. Così in questo teatro dell’assurdo basta calarsi le mutande in qualche performans trans-queer per destabilizzare e sovvertire… quanto è lontana e quando è profondamente altra cosa, la tensione che contraddistingue un lottare fino in fondo, fuori dalle stanze accademiche e fuori dai social network, correndo sotto le stelle fino all’ultimo respiro…
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