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TTIP, il grande mercato transatlantico
I potenti ridisegnano il mondo
di Serge Halimi
I negoziati relativi al Partenariato transatlantico per il commercio e gli investimenti (Ttip) fra gli Stati uniti e l’Unione europea conferma la determinazione dei liberisti a trasformare il mondo, ngaggiare dei tribunali al servizio degli azionisti , fare della segretezza una virtù progressista e consegnare la democrazia alle cure dei lobbisti.
…la loro inventiva è sfrenata. Prima dell’eventuale ratifica del trattato restano da superare diverse tappe. Ma la finalità commerciale del Ttip si accompagna a mire strategiche: isolare la Russia e contenere la Cina mentre queste due potenze si avvicinano l’una all’altra.
UN’AQUILA del libero scambio statunitense attraversa l’Atlantico per far strage di un gregge di agnelli europei mal protetti. L’immagine è dilagata nel dibattito pubblico sull’onda della campagna per le elezioni europee. È suggestiva ma politicamente pericolosa. Da un lato, non permette di capire che anche negli Stati uniti diverse collettività locali rischiano un domani di essere vittime di nuove norme liberiste le quali impedirebbero loro di proteggere lavoro, ambiente e salute. D’altro canto, fa distogliere lo sguardo dalle imprese europee – francesi come Veolia, tedesche come Siemens – che esattamente come le loro colleghe statunitensi sono determinate a far causa agli Stati che osano minacciare i loro profitti (si legga l’articolo di Benoît Bréville et Martine Bulard, pagine 14 e 15). E infine, trascura il ruolo delle istituzioni e dei governo del Vecchio continente nella formazione di una zona di libero scambio sul proprio territorio.
Dunque, l’impegno contro il Ttip non deve prendere di mira uno Stato specifico, nemmeno gli Stati uniti. La posta in gioco è al tempo stesso più ampia e più ambiziosa: riguarda i nuovi privilegi rivendicati dagli investitori di tutti i paesi, magari come risarcimento per una crisi economica che essi stessi hanno provocato. Una lotta di questo tipo, portata avanti efficacemente, potrebbe consolidare solidarietà democratiche internazionali che oggi sono in ritardo rispetto a quelle esistenti fra le forze del capitale.
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Il capitale secondo Thomas Piketty
di Marco Codebo
"Le differenze sociali non possono fondarsi che sull'utilità comune": è con questa citazione dalla Dichiarazione dei diritti del 1789 che Thomas Piketty inizia Le capital au XXIe siècle (Seuil, 2013), il suo studio sugli ultimi due secoli e mezzo di disuguaglianza sociale. Nel corpo dell'opera lo spirito illuminista dell'incipit è confermato dalla volontà dell'autore di rintracciare un filo razionale all'interno della storia economica, dal rigore con cui costringe sempre l'analisi a misurarsi col dato statistico e soprattutto dalla tensione divulgativa che impone al libro, nella convinzione che condividere il sapere generi una cura più attenta del bene comune.
L'ultimo punto si traduce nell'impianto narrativo che sorregge il testo. Le capital au XXIe siècle fornisce al lettore un'imponente quantità di informazioni (provenienti quasi tutte dai paesi ricchi dell'Occidente, soprattutto Francia, Gran Bretagna e Stati Uniti), senza però schiacciarlo sotto il peso di una scienza arida e lontana: ci riesce perché il libro è strutturato come un racconto, con una voce narrante, quella paziente ed esplicativa dell'autore, un protagonista, la disuguaglianza, ed una trama che si snoda lungo il filo degli anni che ci separano dalla rivoluzione industriale.
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Keynes o Marx?
di Moreno Pasquinelli
L’attuale crisi sistemica del capitalismo occidentale sta mandando in pezzi la scuola monetarista di Milton Friedmann e con essa l’ortodossia liberista e i suoi due massimi assiomi. Il primo è di natura squisitamente filosofica e consiste in questo: ogni uomo, perseguendo egoisticamente la propria felicità contribuirebbe a realizzare quella di tutti. Il secondo, di carattere economico, considera il mercato il sistema che meglio di ogni altro contribuisce alla ricchezza generale e alla sua equa distribuzione. Ci si poteva attendere che una crisi di tale portata avrebbe rinvigorito spinte anticapitalistiche di massa e riportato velocemente in auge l’ideale del socialismo. Non è stato così. Troppo fresche le devastanti ferite subite dal movimento rivoluzionario a causa del crollo, catastrofico quanto inglorioso, del “socialismo reale”, troppo profondo il processo di imborghesimento sociale e coscienziale del proletariato occidentale maturato negli ultimi decenni. Questo contesto spiega perché il pensiero di Carlo Marx, il principale studioso del capitalismo e delle sue contraddizioni, nonché il principale assertore della necessità e fattibilità del suo superamento, lungi dal risorgere, resti confinato nell’oblio, con lo sconsolante effetto collaterale per cui gli stessi intellettuali di sinistra, tranne rare eccezioni, quasi si vergognino di dichiararsi marxisti.
Assistiamo, di converso, ad una prepotente rinascita del pensiero economico di J. M. Keynes a tal punto che è possibile affermare che la maggior parte degli economisti (di quelli seri, non per forza di quelli che usufruiscono di una cattedra in qualche blasonata università) si considera keynesiana.
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La democrazia stremata dei post moderni
di Graziella Priulla
Un Paese che distrugge la sua scuola non lo fa mai solo per i soldi, perché le risorse mancano, o i costi sono eccessivi. Un Paese che demolisce la sua istruzione è già governato da quelli che dalla diffusione del sapere hanno solo da perdere.
(Italo Calvino)
Il bilancio politico del 2013 non può essere che impietoso. Il panorama è liquido, si è addirittura liquefatto, coerente con la nuova forma che ha assunto il capitalismo – “disorganizzato”, asimmetrico, globale, neoliberista.
Forme fluide dagli esiti crudeli. Modelli privatistici che invadono i comportamenti pubblici. Governi indecisi a tutto che abdicano al ruolo di indirizzo e di regolazione della politica, rinunciano a redistribuire benessere se non nelle briciole, si limitano ad assecondare i cacciatori di rendite, tenendoli al riparo da un minimo di concorrenza e lontani da ogni accettabile idea di merito. E i popoli si ritrovano impoveriti e stremati, disillusi e incattiviti.
A causa di seri deficit nelle rispettive culture politiche, destra e sinistra paiono diventate parole obsolete, detestate, e con loro i partiti; l’epoca moderna pare finita e viene accantonata, liquidata con poche sprezzanti battute; il linguaggio politico è cambiato e con lui il pensiero. La democrazia rappresentativa è ormai affetta da un surplus di potere dei gruppi di interesse che hanno cooptato partiti, sindacati, associazioni, trasformandoli in strutture oligarchiche volte alla riproduzione del consenso, piegandoli a sequenze infinite di compromessi al ribasso. Appare particolarmente felice la definizione di “postdemocrazia” coniata da Colin Crouch.
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Sui paradossi della critica esterna*
Marcuse, i bisogni indotti e i desideri di massa
Marco Solinas
Per una critica della critica esterna
Insistere con determinazione sulla critica immanente del capitalismo contemporaneo al fine di mettere in luce le dinamiche per le quali il continuo differimento o la reiterata negazione del soddisfacimento di desideri, aspettative e bisogni divenuti ormai di massa, riconducibile negli ultimi anni ad una serie di peculiari meccanismi socioeconomici imposti su larga scala dall’ordine neoliberista, contribuisce in modo sempre più significativo, insieme ad una molteplicità di altri fattori, ad acuire la sofferenza psicosociale che impregna le società occidentali avanzate. Nel momento stesso in cui il nuovo ordine promette godimento e felicità futuri, procede difatti nel contempo alla sistematica e capillare demolizione delle precondizioni perché li si possa effettivamente raggiungere, addossando sincronicamente ai singoli individui la responsabilità di tale processo di infinito ed estenuante differimento ricattatorio dell’appagamento. Pressione costante alla responsabilizzazione e personalizzazione esasperata dall’ormai affermatasi configurazione culturale e normativa volta a legittimare e giustificare i dispositivi del nuovo ordine. E pressione che contribuisce ad alimentare una serie di reazioni di taglio depressivo e regressivo che cooperano, sul piano psicosociale, all’inibizione e all’annichilimento dei potenziali normativi emancipatori immanenti alla suddetta sofferenza.
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Dove vola l’avvoltoio
di Lanfranco Binni
C’è qualcosa di serio in quanto sta accadendo in questo paese dietro il polverone “riformistico” sollevato a uso domestico dal piazzista di Pontassieve, ed è l’asservimento italico all’accordo segreto euro-americano del Ttip, il Partenariato transatlantico per il commercio e gli investimenti.
L’offensiva liberista internazionale scatenata nel 2008 contro la spesa pubblica e i programmi sociali degli Stati nazionali è in fase di accelerazione. «La posta in gioco» – scrive Serge Halimi nel numero di giugno di «Le Monde diplomatique» – «è al tempo stesso piú ampia e piú ambiziosa: riguarda i nuovi privilegi rivendicati dagli investitori di tutti i paesi, magari come risarcimento per una crisi economica che essi stessi hanno provocato». E riguarda l’assetto geopolitico del mondo, da ridisegnare al servizio delle multinazionali. La risposta alla crisi finanziaria del 2008 è l’accelerazione delle dinamiche che l’hanno determinata, e il Partenariato transatlantico euro-americano ne costituisce lo strumento “legale”, il timone delle politiche statuali sulla base di un nuovo diritto internazionale da imporre con le armi di ogni genere e su qualunque terreno. Con l’obiettivo strategico dell’internazionalizzazione del «libero mercato», in concorrenza diretta con la Cina e con il nuovo asse Mosca-Pechino che si va delineando. Il recente viaggio di Renzi in Vietnam, in un momento di tensione tra Vietnam e Cina per ragioni territoriali (ed energetiche), rientra in questo quadro in movimento.
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A proposito di Marx & Keynes. Un romanzo economico
di Davide Gallo Lassere
I romanzi “economici”, nel campo della letteratura, non sono molto frequenti. “Marx&Keynes. Un romanzo economico” di Pierangelo Dacrema (Professore Ordinario di Economia degli Intermediari Finanziari, Università della. Calabria, non nuovo nel trattare questi temi sino a postulare la morte del denaro, obiettivo decisamente eccessivo) rappresenta un’eccezione. Il tema è quello della moneta, uno degli argomenti che più stiamo trattando su queste pagine. Ecco la recensione ragionata di Davide Gallo Lassere
Karl Heinrich Marx e John Maynard Keynes, catapultati per incanto nella primavera del 2015. Pienamente edotti sulle vicende mondiali avvenute dopo il loro decesso. Marx lettore di Keynes, che analizza e commenta la General Theory; Keynes lettore di Marx, che disamina e considera Das Kapital. Entrambi che si confrontano apertamente sulle rispettive teorie alla luce degli accadimenti più recenti, mettendo a nudo gli aspetti più intimi delle lorodivergenti personalità e sensibilità. Un romanzo biografico ed economico estremamente affascinante, che si svolge tra i caffè parigini e gli incroci newyorkesi, passando per i parchi di Londra, le strade, così diverse, di Washington e Dublino, fino ad approdare sulle coste gallesi, in cui i passaggi tra i vari luoghi, sovraccarichi di riferimenti storici e simbolici, scandiscono la progressiva presa di coscienza dei meriti e dei limiti delle proprie opere.Un modo appassionante per esplorare in maniera accessibile due tra le vite e le avventure intellettuali più straordinarie degli ultimi secoli.
Il romanzo di Dacrema si intreccia attorno a un percorso di graduale maturazione da parte dei personaggi, i quali finiscono per ritrattare – in maniera a volte eccessivamente azzardata (cfr. p. 156 e ss.) – alcuni punti fondamentali del loro lascito teorico e politico al fine di mettere finalmente a fuoco un elemento troppo spesso sottovalutato o non pienamente compreso nei loro precedenti sforzi: la moneta.
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"La fine dell'euro avverrà nel caos più totale per l'accanimento ideologico della classe politica"
"L'élite al potere oggi è più rappresentativa dell'epoca feudale che della modernità"
Alessandro Bianchi intervista Brigitte Granville
Con le elezioni europee del 25 maggio scorso, le popolazioni hanno inviato un messaggio chiaro a Bruxelles: gli europei non sono più disposti a rinunciare ulteriormente a quote della loro sovranità e vogliono rinegoziare le concessioni fatte in passato. La nuova Commissione e il nuovo Parlamento europeo ascolteranno questa volontà di cambiamento?
Certamente no, il loro comportamento sarà tale da rendere inutile il voto dato agli anti-euro, i quali costruiranno una minoranza che sarà ignorata completamente. In funzione del mandato democratico, l'élite politica considera che nulla è cambiato e che, proprio per questo, ha tutto il diritto di continuare ad agire come se nulla fosse accaduto.
La propaganda pre-elettorale dei governi al potere e di Bruxelles ha voluto rassicurarci sulla situazione economica attuale della zona euro, anche se le economie italiane di Italia, Olanda e Portogallo sono tornate a contrarsi e la Francia è in una situazione di stagnazione.
Inoltre, l'area monetaria è in una situazione di inflazione molto bassa – deflazione per diversi paesi – che rende sempre meno sostenibile la traiettoria debito/Pil di diversi paesi. In un tale contesto, ritiene che la zona euro rischia una nuova crisi che potrebbe rimettere in discussione gli strumenti creati o davvero « il peggio è dietro di noi » come ci hanno detto?
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Produzione di austerità a mezzo di austerità
Sergio Cesaratto
Che l'austerità fosse un circolo vizioso l'abbiamo detto dal 2010. Ora è dominio quasi comune. Forse per questo ora scriviamo di meno. Allora eravamo in pochi a denunciarlo. In un ottimo articolo Boitani e Landi riprendono quanto già denunziato in un articolo di Fantacone et al. che i metodi di calcolo europei delle violazioni dei vincoli di bilancio sono tali per cui l'austerità ti allontana dal rispetto dei parametri giustificando la richiesta di ulteriore austerità. Se Renzi o Padoan fossero persone politicamente serie contesterebbero questa roba, rimuovendo i funzionari italiani incapaci di denunciarle. Ma naturalmente la scelta è politica, e ci si deve credere, e avere l'intelligenza per crederci. Padoan l'avrebbe, in astratto, ma si sa, la poltrona è la poltrona (ma forse lo sopravvaluto).
Data la pigrizia a scrivere (ma sto preparando un paper su l'MMT, e assolutamente simpatetico almeno nei riguardi del punto discusso) riporto qui uno scambio di e mail che ho avuto con Lanfranco Turci, Giancarlo Bergamini e l'ottima Antonella Palumbo (UniRoma3), allieva di Garegnani, naturalmente.
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Il libbberista e il pensionato
Alberto Bagnai
(un appassionato dialogo fra lettori che ritengo di dover portare alla vostra attenzione...)
anto ha lasciato un nuovo commento sul tuo post "Sub tuum presidium...":
[Nota: sicuramente off topic ma non sapevo proprio dove postarlo…]
Il pensionato è quella cosa oggi tanto vituperata e osteggiata al punto che qualsiasi liberista, oggi, può sentirsi in diritto e in dovere di attaccare e criticare. E nonostante innumerevoli riforme che hanno toccato profondamente la previdenza, al punto da renderla ormai pienamente sostenibile (vedi qui, per esempio) , il liberista continua a martellare sul disavanzo pensionistico (per es. secondo Giannino viaggia ormai a 40 miliardi annui) e quindi sulla necessità/urgenza di sottrarre senza indugio ulteriori fondi agli esosi pensionati.
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La via uruguagia alla felicità
di Frank Iodice
Da qualche tempo un piccolo Paese latinoamericano incastrato tra l’Argentina e il Brasile è al centro dell’attenzione mediatica internazionale. L’Uruguay misura circa tre volte la Svizzera, conta poco più di tre milioni di abitanti, dei quali un milione e mezzo a Montevideo, la capitale. Le ragioni della sua notorietà sono riconducibili alla figura anticonformista del Presidente della Repubblica, José Mujica, responsabile di progetti innovativi a favore delle famiglie prive di reddito; oppure per le leggi di approvazione dell’aborto e del matrimonio gay; o, ancora, per la recente regolarizzazione dell’uso e del commercio della marijuana.
Durante il suo discorso alle Nazioni Unite a Rio de Janeiro nel 2012, José Mujica cattura l’attenzione mondiale parlando di felicità come scopo ultimo dell’Essere Umano. «Per essere felici dobbiamo fare ciò che a noi piace», dice il Presidente Mujica, «e per fare ciò che a noi piace bisogna avere tempo». Concetti tanto semplici quanto dimenticati nella nostra società di consumo iniziano a fare il giro del mondo e passano di bocca in bocca; Mujica diventa innovatore del linguaggio politico, rinuncia al 90% del suo stipendio e lo cede al progetto a favore delle famiglie senzatetto. Dimostra quindi col suo stile di vita ai limiti della povertà che ciò che racconta è realizzabile.
Questo è un sunto degli articoli che possiamo leggere su importanti testate di ogni Paese, daEl País al Financial Times, da Il Mattino a Al Jazeera, a firma di voci autorevoli, addirittura di premi Nobel come lo scrittore Mario Vargas Llosa.
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L’anima moderna del neoliberalismo
Paolo Godani
Una delle idee più nefaste per la comprensione del neoliberalismo è quella che associa il suo programma di liberalizzazione economica al diffondersi di una deregulation morale e di un edonismo generalizzato. Ai molti che (sulla scia, per esempio, di Gilles Lipovetsky) criticano l’ipermodernismo neoliberale perché avrebbe incitato oltremisura gli spiriti animali del capitalismo e demolito le basi morali della convivenza civile, i valori tramandati, i legami sociali (dando luogo a una società liquida individualista, narcisista, nichilista e consumista), bisognerebbe ricordare come il neoliberalismo si sia imposto, tanto nella teoria quanto nella sua realizzazione politica, come un’equilibrata combinazione di deregolamentazione economica e di disciplinamento morale e sociale. E bisognerebbe mostrare come si tratti di una combinazione non casuale, ma necessaria.
A testimoniarlo sarebbe sufficiente considerare come l’avvento di Ronald Reagan e del suo programma neoliberista al vertice della politica statunitense, nel 1981, sia stato reso possibile (lo ricorda David Harvey nella sua Breve storia del neoliberismo) dall’alleanza organica dei repubblicani con la destra cristiana raccolta attorno alla «Moral Majority» del reverendo Jerry Falwell. Liberalizzazioni e crociate antiabortiste, privatizzazioni dei servizi e lotta senza quartiere contro una scuola pubblica laica, globalizzazione economica e nazionalismo culturale «bianco», individualismo e familismo, interessi finanziari e tradizionalismo religioso si alleano non solo perché le politiche neoliberali repubblicane hanno bisogno del consenso elettorale di quel 20% di americani cristiano-evangelici, ma più profondamente per il fatto che la fredda logica economica della concorrenza, temendo di produrre la pura e semplice disgregazione della società, ha bisogno di richiamarsi ai valori «caldi» della morale e della religione.
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Il mantra mediatico delle riforme
di Alberto Burgio
Non credo di essere il solo a provare nausea per l’ossessivo martellamento sulle «riforme». Un incubo. In passato abbiamo denunciato l’abuso di questo nobile lemma del lessico politico, e l’ironia che ne ribaltava il senso. Sullo sfondo della globalizzazione neoliberista, «riforme» erano i colpi inferti alle conquiste sociali e operaie, dalle pensioni alle tutele del lavoro, al carattere pubblico di sanità, scuola e università. Non avevamo ancora visto nulla. Non avevamo immaginato che cosa sarebbe stato il mantra delle riforme al tempo del renzismo trionfante. Non c’è giornale né telegiornale che non gli dedichi il posto d’onore. E che fior di riforme! Da settimane tengono banco quelle del pubblico impiego e del Senato: la precarizzazione del primo e il ridimensionamento del secondo, trasformato in una docile Camera degli amministratori.
Nel merito di entrambe ci sarebbe molto da dire. Il governo straparla di crescita e occupazione, ma intanto minaccia i dipendenti pubblici – notori nababbi fannulloni – con misure che sconvolgeranno letteralmente la vita di milioni di famiglie, soprattutto se il lavoratore in questione è una donna con figli. Quanto al Senato, il disegno è stato demolito dai più importanti costituzionalisti, che hanno mostrato come esso miri, in sinergia con la nuova legge elettorale, a costituzionalizzare la primazia dell’esecutivo quale produttore di norme. Cioè a rovesciare l’ispirazione anti-autoritaria della Carta del ’48. Ma non è della sostanza delle riforme che vorrei parlare, bensì del deplorevole stato dell’informazione politica, tra le principali concause – credo – del disastro italiano.
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Essi sfruttano
“Il Capitale” di Marx come romanzo fantahorror
di Luca Cangianti
IlCapitale di Marx è un romanzo fantahorror. All’origine dell’opera c’è infatti il tentativo di dimostrare, attraverso un lungo viaggio dialettico, che i fenomeni non spiegati dalle teorie economiche convenzionali sono conseguenze di una più profonda e invisibile realtà: “Ogni scienza sarebbe superflua”, ricorda il filosofo, “se l’essenza delle cose e la loro forma fenomenica direttamente coincidessero” (Marx, 1981, III, 930).
Noël Carroll ha individuato due grandi insiemi nei quali far rientrare le trame fantahorror: quello delle narrazioni basate sul disvelamento di una realtà nascosta e quello connotato dalla tracotanza dello scienziato folle che si spinge verso le zone proibite del possibile. Come esempi di quest’ultimo gruppo possiamo ricordare: Frankenstein, Il dottor Jekyll e il signor Hyde, L’isola del dottor Moreau. Il Capitale, invece, mostra interessanti analogie con il primo tipo di struttura, che secondo Carroll si articola in quattro fasi: l’inizio, la scoperta, la conferma e il confronto (Carroll, 1990, 97 e sgg.).
Facciamo un esempio. Il film di John Carpenter Essi vivono (Usa, 1988) inizia con l’arrivo di John Nada in una Los Angeles devastata dalla crisi economica. Tutto sembra procedere nella calma più deprimente se non fosse per una serie di strani messaggi pirata che periodicamente si inseriscono nei programmi dell’onnipresente televisione.
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Sanguinante e purulento da tutti i pori
di Robert Kurz
Nessun ordine sociale ha provocato in tutta la sua storia così tante guerre, guerre così estese e devastatrici, di quanto abbia fatto il capitalismo con la sua meravigliosa modernità. Nessun ordine sociale ha attirato su una così grande parte dell'umanità così tanta miseria materiale, producendo, allo stesso tempo, una ricchezza così notevole [Kurz distingue qui la ricchezza materiale dalla ricchezza sociale storicamente specifica al capitalismo, cioè il valore]. Parimenti, non è mai esistito un sistema sociale capace di condurre l'umanità più vicino alla distruzione delle sue infrastrutture naturali sul scala planetaria. Mai gli uomini sono stati più socializzati, intrattenendo tra di loro dei rapporti di dipendenza, di ripartizione delle funzioni e di mediazione mondiale, e mai gli individui sociali sono stati così atomizzati nelle loro strutture e mai si sono considerati l'un l'altro con così tanta indifferenza, come monadi astratte degli interessi.
Queste non sono né tesi né affermazioni che devono essere provate. Tutte queste manifestazioni negative, distruttrici e catastrofiche, sono visibili nella loro innegabile evidenza storica e strutturale.
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Segretezza e meccanismi di egemonia del capitale
L'incontro del Bilderberg 2014 a Copenhagen
Domenico Moro*
Quest’anno il consueto incontro del Gruppo Bilderberg si è tenuto a Copenhagen tra il 29 maggio e il primo giugno. In Italia rispetto all’anno scorso, almeno tra i mass media, è stata data meno attenzione all’evento, forse perché, a differenza di Monti e di Letta, Renzi non è mai stato ospite né dirigente del Bilderberg. È un peccato, perché l’influenza del Bilderberg sui governi europei va ben al di là della partecipazione diretta di loro esponenti e anche quest’anno il Bilderberg si rivela essere un consesso all’altezza della sua fama, riunendo una fetta importante dell’”élite del potere”, come direbbe Wright Mills. Una élite che, però, è internazionale e non solamente statunitense come quella studiata dal sociologo Usa negli anni ’50. Quest’anno si riscontra una più massiccia presenza di scandinavi e la rappresentanza italiana è un po’ più piccola, ma sempre di altissimo livello: Mario Monti, Franco Bernabè, John Elkan e Monica Maggioni.
Il Bilderberg è l’organizzazione più famosa del capitale occidentale e transatlantico. Essendo il corrispettivo della Nato sul piano economico e politico, il Bilderberg riunisce alcune tra le più importanti personalità di Usa, Canada, Europa occidentale e Turchia.
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La cavalcata populista verso l’Eliseo di Marine Le Pen
e lo sfondamento a sinistra del Front National: un’analisi
Matteo Luca Andriola
Con quasi il 24,8% Marine Le Pen fa tremare i palazzi di Parigi e quelli della trojka, mandando a Bruxelles 25 deputati, seguita dai gollisti dell’Ump col 20,8%. La Francia, inutile dirlo, è ormai schierata a destra, molto a destra. La leader del Front infatti, non perde tempo e la sera stessa del suo trionfo manda l’avviso di sfratto a Hollande: «Non vedo come il Presidente della Repubblica non possa non prendere la decisione che si impone per rendere l’Assemblea nazionale rappresentativa. E questo esige evidentemente una modifica delle modalità del voto», dice raggiante il leader del partito populista francese. «Ed è solo il primo passo» ha commentato la Le Pen, arrivando all’Elysee Lounge, un ristorante molto chic a pochi metri dall’Eliseo, scelto dal Front national per festeggiare la valanga di voti che lo hanno incoronato primo partito dell’Esagono, ora proiettato all’Eliseo: «Hollande adesso deve indire elezioni politiche anticipate. Oggi l’assemblea nazionale non è più nazionale. Cos’altro può fare il presidente della Repubblica – continua Marine – se non sciogliere le Camere dopo un fallimento così grande come quello che abbiamo appena visto?». Insomma, la tenuta dell’Unione europea potrebbe passare anche dalla tenuta del governo socialista, ridotto ai minimi termini col 14% dei consensi. Più di un elettore su quattro infatti, in uno dei pilastri dell’Unione europea, entità a trazione franco-tedesca, ha votato un partito xenofobo. Ma Hollande, inutile dirlo, non vuole dimettersi: «Ci vuole tempo e io chiedo tempo», ha detto il primo ministro Manuel Valls, intervistato dalla radio Rtl.
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Internet, l’illusione della libertà
di Carlo Formenti
Un nuovo pamphlet del collettivo di hacker libertari Ippolita smonta due luoghi comuni sulla Rete: che sia uno strumento intrinsecamente democratico. E che disporre di più informazione significhi automaticamente essere più liberi
Già autori di feroci quanto argomentate requisitorie contro i “signori del Web” (memorabili le dissacrazioni di Google e Facebook), nonché di puntuali ridimensionamenti di altri miti cari al “Popolo della Rete” (vedi la disincantata analisi dei limiti dell’ideologia dell’open e del free) i ragazzi e le ragazze del collettivo Ippolita (una comunità di hacker libertari) tornano a colpire con un nuovo pamphlet (“La Rete è libera e democratica”. FALSO!) appena uscito per i tipi di Laterza (nella collana Idòla).
In questo caso, tuttavia, il bersaglio non è solo un’applicazione, come un motore di ricerca o un social network, né una comunità di prosumer, come gli sviluppatori di software open source, bensì la Rete in quanto tale che, come ricordano opportunamente gli autori, non si riduce al Web o ad altre piattaforme informatiche, ma è fatta dell’insieme di tecnologie “hard” (computer, cavi, satelliti, router, ecc.), “soft” (protocolli, programmi, codici, ecc.) e “bio” (programmatori, utenti, imprese, ecc.) che convergono in quell’immane e supercomplesso ambiente di relazioni umane e macchiniche che è Internet.
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Perché “la scintilla di Caino”?
di Carlo Augusto Viano
Da non molto è sugli scaffali delle librerie l’ultimo libro di Carlo Augusto Viano, “La scintilla di Caino”. Nel testo che segue, Viano presenta al lettore del “Rasoio di Occam” le principali direttrici argomentative del libro, e spiega a quali usi si è dovuto piegare nella storia del pensiero il concetto di “coscienza”
Non ho mai avuto particolare simpatia per la parola “coscienza” e, soprattutto, per i discorsi, specialmente i discorsi filosofici, che si fanno sul suo conto, anche se, quando ho fatto il mio apprendistato filosofico, quella parola era l’insegna dell’idealismo e dello spiritualismo e condiva tutte le filosofie edificanti, né mancava nelle consuete celebrazioni del primato dell’uomo, contrapposto alla natura. In tempi più recenti, ho assistito al consumo di due suoi usi, che si erano consolidati in importanti tradizioni culturali. Infatti il termine “coscienza” aveva assunto particolare rilevanza in formule quali obiezione di coscienza e libertà di coscienza, strumenti di rivendicazioni morali, politiche e giuridiche o espressioni di diritti costituzionalmente protetti. Ebbene proprio questi usi della coscienza si sono consumati. L’obiezione di coscienza al servizio militare, dopo essere stata estesamente invocata in modo opportunistico, ha perso senso in seguito all’abolizione della coscrizione obbligatoria, almeno in molti paesi liberali e democratici, nei quali era pur stata riconosciuta.
Il richiamo alla coscienza è comparso nell’etica medica per richiamare i medici al rispetto dei malati e ha preso la forma dell’obiezione di coscienza quando, in Inghilterra, si è manifestata la resistenza di genitori all’obbligo della vaccinazione antivaiolosa dei loro bambini.
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Dialogo a tre sul nostro futuro
Vi proponiamo un dialogo (via mail) fra i curatori del blog. Senza pretese di grande profondità teorica, crediamo che sia interessante per i lettori, poiché vengono toccati temi sui quali in molti ci arrovelliamo. Vengono messi a confronto punti di vista e prospettive diverse, che offriamo alla vostra valutazione.
FT: Voi sapete qualcosa di questa iniziativa? http://www.fiom-cgil.it/web/aree/europa/news/573-lanciata-la-campagna-contro-il-ttip-da-60-associazioni-in-europa
CM: Alcuni movimenti locali seguono la vicenda da un po', mi sembra con scarsi risultati.
FT: Non è strano, più il nemico si allontana, meno è facile costruire opposizione. In fondo è sensato non crederci. Pensa: una trattativa fra UE e USA, che cosa pensi di poterci fare? Davvero dovremmo riuscire a dire che l'unica cosa sensata sarebbe uscire da quest'incubo e tornare in una condizione in cui possiamo pensare di incidere nella realtà.
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Renzi, Draghi e l’Italia che affonda
Luigi Pandolfi
Spentisi gli effetti euforici della droga mediatica propinata a piene mani nel corso della campagna elettorale da poco conclusasi, le criticità della situazione economica italiana stanno venendo vigorosamente a galla, in tutta la loro drammaticità.
Gli ultimi giorni sono stati caratterizzati da una girandola di notizie sull’evoluzione del quadro macroeconomico nazionale e sulle misure che il vero dominus delle politiche economiche europee, la Bce, ha annunciato per bocca del suo presidente Mario Draghi. Cerchiamo di fare il punto, partendo dai fondamentali, ovvero dallo stato di salute del nostro Paese.
Come ha confermato recentemente l’Istat[1], il Pil italiano è diminuito nel 2013 dell’1,9%, ma non in modo omogeneo da un capo all’altro della penisola. Si va da un -0,6% nel Nord-Ovest ad un secco 4% nel Mezzogiorno. Italia sempre più duale, insomma. E l’occupazione? Le cifre sono ormai da capogiro. Nel primo trimestre del 2014 il tasso di disoccupazione ha toccato il 13,9% (+ 0,8% rispetto allo stesso periodo dello scorso anno), con quella giovanile al 46%. Al Sud siamo più vicini alla Grecia che al resto del paese: tasso generale al 21,7%, che sale fino al 60,9% tra i giovani.
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La decrescita non è un'alternativa
di Pierluigi Fagan
“Tis the time’s plague when madmen lead the blind”.
W. Shakespeare King Lear (Atto IV°, scena prima)
Le opinioni ed il dibattito su quel composito mondo di stimoli ed idee che cade sotto il termine -decrescita-, partono da un assunto. Questo assunto risale al momento nel quale questo termine, ed il successivo movimento di idee che lo seguì, nacque.
Eravamo ai primi degli anni ’70 e a cominciare dall’economista franco-rumeno N. Georgescu Roegen, ma in contemporanea nel movimento dell’ecologismo scientifico e nelle analisi del Club of Rome, nonché in certa cultura sistemica, si prese coscienza del semplice fatto che una crescita infinita (modello economico dominante) in un ambito finito (pianeta), era impossibile. Prima che impossibile era assai dannoso per le retroazioni che si sarebbero innescate sia in termini ecologici, sia negli stessi termini economici termini che avrebbero portato con loro, pesanti conseguenze sociali, alimentari, sanitarie, culturali, geopolitiche, paventando la formazione di chiari presupposti catastrofici. L’intuizione della decrescita, una sorta di cassandrismo destinato come tutti i cassandrismi a risultare antipatico e sospetto di eccesso paranoide, nasceva quindi da uno sguardo in prospettiva e nasceva proprio nel momento in cui la società della crescita era al culmine dei suoi gloriosi trenta anni di galoppata.
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Ciao proletariato!
di Michel Prigent
La differenza fra la critica del capitalismo moderno fatta da Debord e quella di Moishe Postone, ovvero: i limiti della critica di Guy Debord
"I Commentari alla Società dello Spettacolo" di Guy Debord vennero pubblicati a Parigi nel maggio del 1988. Quando, più tardi, vennero pubblicati in Inghilterra, il titolo fu mal tradotto: Malcom Imrie non aveva rimarcato il riferimento a Giulio Cesare. Non si può pretendere tutto da cosiddetti esperti.
Alla fine degli anni 1980, la crisi prolungata nel blocco dei paesi dell'Est e altrove, aveva spinto Debord ad aggiornare la sua critica, ma purtroppo non aveva più l'ispirazione della Società dello spettacolo, nella quale, nel 1967, aveva scritto: "che lo spettacolo moderno era già essenzialmente il regno autocratico dell'economia di mercato pervenuto ad uno status di sovranità irresponsabile"; era stato più tagliente di quello che scriveva nei suoi Commentari, ossia: "il segreto domina questo mondo e per prima cosa come segreto del dominio". Debord aveva dimenticato di rileggere il "Marx esoterico" del Capitale e dei Grundrisse, dove Marx sviluppa la sua critica del valore, mentre Debord rimane fermo nel "Marx essoterico" della lotta di classe. Un errore fatale. Un altro errore è stato quello di dire che non aveva bisogno di cambiare una sola parola del suo libro del 1967, e quindi era insostituibile. In questo modo era arrivato a delle posizioni retrograde, aveva adottato un punto di vista molto "XIX secolo" della storia, che era stato quello di molte persone all'epoca - a sinistra come a destra - cioè a dire un punto di vista poliziesco della storia che poteva essere definita come teoria "complottista" della storia, per farla semplice.
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Verso il 28 giugno
Intervista al Collettivo Militant (Noi saremo tutto)
a cura di Luca Fiore
Il 28 giugno a Roma si terrà la manifestazione nazionale di apertura del controsemestre popolare che movimenti sociali, sindacati e politici intendono opporre al semestre di presidenza dell'Unione Europea, per il lavoro, il reddito, il welfare e contro la guerra alle porte dell'Europa. Con quale spirito e con quali obiettivi state promuovendo questa mobilitazione?
Con la piena consapevolezza di come la sinistra di classe oggi non possa fare a meno di affrontare la “questione europea”. L'Unione Europea nasce in aperto conflitto con le organizzazioni e i movimenti comunisti e si pone ai giorni nostri come un polo imperialista autonomo rispetto agli Stati Uniti. Fino a poco tempo fa c'era chi affermava, anche a sinistra, che servisse “più Europa” e che il problema dell'UE fosse il presunto deficit di democraticità. Apriamo gli occhi! L'Unione Europea agisce sulla base di una strategia neoliberista e antiproletaria che ha l'obiettivo di ottimizzare l'appropriazione di valore. Quest'ultima, a fronte di una crisi economica sistemica e non episodica, agisce ormai a livello internazionale, superando i confini dello Stato-nazione e fagocitando il cosiddetto “capitalismo dal volto umano”, su cui tante speranze avevano riposto le varie opzioni socialdemocratiche. Diamo una risposta popolare, di classe, europea!
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Renzi? Come la Thatcher
Leonardo Clausi intervista Perry Anderson
Gli italiani governati da un premier thatcheriano. Ieri sudditi degli Usa, oggi della Ue e del suo neoliberismo economico. Di cui Matteo Renzi, leader carismatico e assolutista, altro non sarebbe che il cavallo di Troia. L’analisi del guru della New Left
Perry Anderson non la manda a dire. L'ultimo saggio sulla "London Review of Books" dell'insigne storico inglese, nume tutelare della New Left, è una lucida scorreria nella storia italiana recente. S'intitola, senza troppi guizzi metaforici, "The Italian Disaster", Ma anziché essere l'ennesima geremiade sulla presunta incapacità civile e culturale del Paese di assurgere a membro virtuoso del consesso europeo, il saggio di Anderson individua l'origine dei mali negli stessi principi inerenti alla governance dell'Unione europea, ai quali l'Italia è stata finora recalcitrante: soprattutto quel neoliberismo economico saldamente agganciato alla marginalizzazione della politica e della sua rappresentanza. Di questo neoliberismo Matteo Renzi, leader carismatico e assolutista di un partito alla cui tradizione politica è del tutto alieno, altro non sarebbe che il cavallo di Troia. Ne consegue l'analisi puntigliosa di varie tappe della storia italiana recente, dalla fine di Tangentopoli sino al crollo di Berlusconi, fortemente voluto da Bruxelles attraverso la presidenza di Napolitano, e all'abbraccio di Renzi come ultima spiaggia di fronte alla disorientante eterodossia del fenomeno Grillo. Ad Anderson abbiamo rivolto una serie di domande.
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