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Cosa ci insegna il convegno fantasma
Mimmo Porcaro
Il 14 giugno avrebbe dovuto svolgersi a Bologna un convegno su euro e dintorni, relatori Alberto Bagnai e chi scrive. Prima di parlare dei motivi per cui il convegno non si è svolto, vorrei dare un’idea di quello che avrebbe potuto essere.
Si trattava, io credo, di prendere atto delle tesi di Bagnai, molte delle quali sono incontrovertibili, e di chiedersi che cosa ne possa conseguire dal punto di vista politico. E quel che ne consegue non è un argomento in più da aggiungere alla lista delle cose da “approfondire” (che poi, nel gergo della sinistra, vuol dire “censurare”). E nemmeno un tema in più da affiancare a quelli soliti: c’è l’ambiente, ci sono i diritti civili e, toh!, c’è l’euro. E’ piuttosto qualcosa che implica addirittura la ridefinizione generale della strategia della sinistra (e dello stesso significato di questo abusatissimo termine), e quindi la costruzione, né più né meno, di una nuova forza politica.
Sì, perché la critica senza appello dell’euro e dell’Unione europea, la comprensione dei motivi che hanno spinto le nostre classi dirigenti verso l’europeismo dogmatico (ossia l’uso del vincolo esterno per regolare i conti interni con i lavoratori), la polemica contro le false spiegazioni della crisi italiana (casta, corruzione, debito pubblico) e l’ascrivere invece questa crisi, nella sua essenza ultima, al debito privato ed alla volontaria sottomissione al capitalismo nordeuropeo, possono condurre a conclusioni assai impegnative. E possono farci dire che l’alleanza dei lavoratori italiani con la frazione europeista del nostro capitalismo è un patto a perdere.
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Contro il muro
L'origine comune della crisi ecologica e della crisi economica
di Claus Peter Ortlieb
Se nei centri capitalisti, la discussione pubblica interpreta la crisi economica, nonostante la sua persistenza, come un fenomeno puramente passeggero, invece si accorge perfettamente del fatto che la crisi ecologica proviene dalle stesse fondamenta del modo di vita moderna. E' troppo evidente, infatti, la contraddizione tra l'imperativo economico della crescita, da una parte, e la finitezza delle risorse materiali e della capacità dell'ambiente di assorbire i rifiuti prodotti dalla civilizzazione, dall'altra. Da alcuni anni, la catastrofe climatica annunciata occupa il primo piano della discussione, anche se oggi se ne parla un po' meno, date le nuove priorità derivanti dagli sforzi di far fronte alla crisi economica. L'obiettivo dei 2° C, grazie al quale si dovrebbe essere in grado di evitare i peggiori effetti del riscaldamento globale, viene ormai considerato del tutto irraggiungibile. Eccetto il calo che si è registrato durante l'anno di recessione 2009, l'emissione mondiale di CO2 continua ad aumentare inesorabilmente, e a sua volta il cambiamento climatico comincia a rafforzarsi, segnatamente liberando un surplus di gas serra provenienti dallo scongelamento del permafrost, o diminuendo la riflessione delle radiazioni solari nello spazio a causa dello scioglimento dei ghiacciai. Tuttavia, il cambiamento climatico non rappresenta che uno dei campi di battaglia su cui si combatte la "guerra del capitale contro il pianeta", come la chiamano i sociologhi statunitensi John Bellamy Foster, Brett Clark e Richard York nel loro straordinario libro (anche se in molti paesi non è mai stato tradotto) intitolato "The Ecological Rift. Capitalism’s War on the Earth", New York, Monthly Review Press, 2010.
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Elezioni europee, gattopardismo in salsa fiorentina e nuovo partito di massa del capitale
Domenico Moro
“Non eravamo esattamente d’accordo con l’incentivazione degli 80 euro, ma non mi sono azzardato ad avanzare alcun tipo di critica, ho compreso la necessità del governo di bloccare un voto anti europeo.”
Giorgio Squinzi, presidente di Confindustria
“Se vogliamo che tutto rimanga com’è, bisogna che tutto cambi.”
Giuseppe Tomasi di Lampedusa, Il gattopardo
1. Il quadro europeo: crisi del bipolarismo e del bipartitismo e ascesa degli euroscettici
Negli ultimi mesi i mass media annunciavano e le forze politiche principali temevano la “tempesta perfetta” del voto euro-scettico. Il 22 maggio il Sole24ore titolava: <<Il voto europeo preoccupa i mercati>>, e il 25 maggio, giorno delle consultazioni, aggiungeva: <<Europa alle urne: mercati e riforme appese al voto>>. Invece, martedì 27 lo stesso quotidiano tirava un sospiro di sollievo: <<Piazza affari vola dopo il voto, Milano (+3,61%) miglior listino d’Europa>>. Anche le altre borse non se la sono cavata male: Madrid +1,22 per cento, Francoforte +1,28 per cento, persino Parigi cresce pur con un modesto +0,75 per cento.
La borsa è uno dei termometri che misurano l’opinione del capitale rispetto all’andamento della politica. Quindi, tutto bene per i circoli dominanti dell’establishment economico e politico? No, non proprio tutto bene. L’ondata euroscettica si è manifestata con forza, sebbene non così potente dappertutto come l’establishment europeista diceva di temere. A questo proposito, due sono gli aspetti più interessanti.
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Lati nascosti imperiali e subimperiali
di Piotr
Proprio quando occorrerebbe aiutare gli USA a deimperializzarsi senza collassi verticali, vanno ovunque al governo i bauscia, i fascisti e altri disastri
Il lato nascosto di Bausciolandia
Il 40% al PD di Matteo Renzi mi ha abbastanza sorpreso ma non sconcertato.
Tuttavia conta anche il sempre più forte calo dell'affluenza alle urne, così che il 40% del 58,6% fa meno del 24%. Ovviamente è un discorso che vale per tutti.
Il 40% a Renzi è il 18 aprile del PD. Ma con una differenza rispetto all'alba della DC. Mentre nel 1948 la Democrazia Cristiana aveva dalla sua il dopoguerra, la ricostruzione e le prime avvisaglie di quello che verrà chiamato il ventennio d'oro del capitalismo, Renzi ha contro la resa dei conti di una drammatica crisi sistemica. Certo, il fiorentino cerca di usare le stesse tecniche propagandistiche ma si capisce da lontano che è un "bauscia". Non è solo una questione di stile personale o di gorgia fiorentina. Chiunque al suo posto, con la sua missione da compiere, non potrebbe essere altro che un bauscia. Diciamo che forse è il bauscia giusto al monumento giusto.
Povero Renzi, se la DC dei tempi d'oro - composta per nulla da bauscia ma da gente molto seria, democristiana ma seria - poteva giustamente mostrare al "popolo sovrano" mezza pagnotta italiana e mezza pagnotta americana, perché era nell'ordine degli eventi che l'altra mezza pagnotta venisse dalla sponda opposta dell'Atlantico, oggi le cose sono capovolte e Obama ha fatto capire chiaramente che lui ha solo mezza pagnotta e il resto glielo devono dare i suoi alleati, ad esempio tramite il "Transatlantic Trade and Investment Partnership", il famigerato TTIP.
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Gas, nazi e media: la verità sulla guerra
Franco Fracassi
Un'azienda del gas, un oligarca e un'agenzia di pubbliche relazioni senza scrupoli, un gasdotto che non s'ha da fare e impronte che portano molto vicino alla Casa Bianca
«È mia profonda convinzione che un piccolo numero di parole, ma con grande impatto emotivo, possa modificare le convinzioni dell'opinione pubblica». «In Bulgaria è andato tutto bene. Adesso bisogna spingere per Odessa». Un inglese e uno statunitense. Per adesso non importa come si chiamino, né che ruolo abbiano in questa vicenda. Odessa, Sofia, Londra, Washington e Dniepropetrovsk. Questa è la storia di due incontri segreti. È la storia del controllo dell'approviggionamento di gas all'Europa. È la storia di un'agenzia di pubbliche relazioni in grado di manipolare l'informazione internazionale. È la storia del cuore del potere mondiale, e di come esso abbia anche a che fare con profitti personali. È la storia di un massacro nazista. È la storia di una guerra. In mezzo più di quaranta milioni di cittadini inermi. In altre parole, questa è la storia (a quanto pare) del perché in Ucraina c'è stato un colpo di Stato e del perché si sta combattendo una guerra civile.
Iniziamo con lo scenario. Le più grandi riserve di gas del mondo si trovano in Russia o in Kazakistan, Paese alleato di Mosca. Ma nuovi e ricchi giacimenti sono stati recentemente rinvenuti anche in Ucraina. La Russia è il più importante fornitore di gas all'Europa. Fino a pochi anni fa la maggior parte dei gasdotti (e degli oleodotti) transitavano per il territorio ucraino.
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Big data, complessità e metodo scientifico
Francesco Sylos Labini
Oggi è tecnicamente possibile la raccolta di enormi quantità di dati. Ma il trattamento dei “big data” non è in grado, di per sé, di migliorare la capacità di previsione di fenomeni naturali o sociali. Anche di fronte alla cono- scenza delle leggi dinamiche sottostanti, infatti, rimane difficile comprendere l’evoluzione di forze che danno spesso luogo a comportamenti caotici
Grazie allo sviluppo dell’informatica e di internet è ora possibile accumulare grandi insiemi di dati; si è così venuta a creare una nuova situazione che solo fino a qualche anno fa appariva impensabile. La quantità di dati archiviati in forma digitale, infatti, sta crescendo in maniera esponenziale e questo scenario pone una serie di nuovi problemi nuovi da considerare, dalla privacy degli individui alla qualità dell’informazione che può essere estratta dalle banche dati. Mentre ci sono delle applicazioni, come ad esempio lo sviluppo di traduttori automatici, in cui i dati possono davvero rappresentare un’innovazione fondamentale, la domanda che molti si pongono è se tali dati, da soli (senza cioè un modello teorico di riferimento) possano essere sufficienti per comprendere i fenomeni naturali o sociali, e se questa nuova situazione implichi una sorta di “fine della teoria”. In realtà, ci sono dei limiti intrinseci alla possibilità di estrazione di informazioni da grandi quantità di dati. Per illustrare il punto prendiamo le mosse da un esempio “storico” di comprensione di un fenomeno naturale avvenuto senza un modello teorico di riferimento.
Il comportamento caotico dei pianeti
Ogni civiltà a noi nota ha sviluppato delle conoscenze astronomiche: sono stati osservati i cicli del sole e della luna perché la loro conoscenza era importante per programmare le semine e i raccolti.
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Così muore l’economia italiana
di Guglielmo Forges Davanzati
Il declino economico italiano data ben prima dell’adozione della moneta unica, ed è imputabile al combinato della continua caduta della domanda interna e, a questa collegata, della produttività. In uno scenario di desertificazione produttiva, le politiche di austerità e le c.d. riforme strutturali raccomandate dalla commissione europea, recepite in toto dai Governi che si sono succeduti negli ultimi anni, non producono altri esiti se non aggravare il problema
Che il declino economico italiano sia essenzialmente imputabile alla caduta della produttività è cosa nota da tempo, e sorprende che il Ministro Padoan se ne accorga solo ora o che lo renda noto solo ora, al Festival dell’Economia di Trento il 31 maggio scorso. La riduzione della produttività è imputabile a numerosi fattori, fra i quali, non da ultimo, la caduta della domanda aggregata che si è registrata, in Italia, almeno a partire dagli ultimi venti anni, aggravata dalle politiche di austerità, dalla rilevante riduzione della quota dei salari sul Pil e dalla altrettanto rilevante contrazione della produzione industriale.
La Fig.1 evidenzia che il tasso di crescita della produttività, dal 2001 al 2010, è stato, per l’Italia, sistematicamente inferiore a quello registrato in tutti gli altri Paesi europei e negli Stati Uniti. Data l’ampiezza del periodo considerato, il fenomeno può considerarsi strutturale, derivante da una dinamica di lungo periodo che ha generato la progressiva desertificazione industriale dell’economia italiana; dinamica che si è prodotta ben prima della crisi, e che ovviamente la crisi (e le politiche economiche messe in atto) ha contribuito ad amplificare. Confindustria rileva, a riguardo, che dal 2008 al 2013 la produzione industriale in Italia si è ridotta di circa il 25%.
Fig.1: La dinamica della produttività in Italia, in Europa, negli USA (fonte ISTAT, 2011)
Il nesso che lega la dinamica della domanda a quella della produttività passa attraverso questi meccanismi.
1) Se aumenta la domanda, le imprese sono incentivate a produrre di più, dunque ad accrescere le loro dimensioni. L’aumento delle dimensioni d’impresa genera aumenti di produttività, per l’operare di economie di scala, ed è di norma associato a più alti salari. Vi è di più, dal momento che la dinamica della domanda aggregata ha anche effetti sulla produttività tramite variazioni della struttura demografica. Ciò a ragione del fatto che riduzioni di domanda di beni di consumo e di investimento si associano a riduzioni della domanda di lavoro (soprattutto a danno di individui giovani) e, per conseguenza, accentuano i flussi migratori (prevalentemente di giovani con elevati livelli di scolarizzazione), determinando una condizione di progressivo invecchiamento della popolazione. Una popolazione con età media elevata genera, con ogni evidenza, una forza-lavoro meno produttiva rispetto a una condizione nella quale è più bassa l’età media degli occupati [1].
2) La caduta della domanda incide anche sulla specializzazione produttiva. Nel caso italiano, essa si è associata all’intensificazione del processo di specializzazione produttiva dell’economia italiana in settori a bassa intensità tecnologica (oltre ad aver generato ondate di fallimenti d’impresa), tipicamente il made in Italy, l’agricoltura, il turismo. Si tratta di settori nei quali operano imprese con bassa propensione all’innovazione, che non occupano lavoratori con elevata dotazione di capitale umano. I Governi che si sono succeduti negli ultimi anni si sono, per così dire, limitati ad assecondare questo processo (ovvero a dequalificare la forza-lavoro), con una decurtazione di fondi alla ricerca scientifica di entità tale da mettere seriamente a rischio la tenuta del sistema formativo italiano. E poiché è innegabile che la ricerca scientifica è la necessaria pre-condizione per l’attivarsi di flussi di innovazione, non vi è da sorprendersi se – anche per questa via – le politiche economiche hanno significativamente contribuito alla progressiva desertificazione produttiva del Paese alla quale stiamo assistendo.
3) La caduta della domanda è anche all’origine della restrizione del credito. Ciò a ragione del fatto che, riducendosi i mercati di sbocco, si riducono i profitti e, per conseguenza, si riduce la solvibilità delle imprese, rendendo sempre meno conveniente per le banche finanziarle. Date le piccole dimensioni aziendali delle nostre imprese (soprattutto nel Mezzogiorno), risulta per loro sostanzialmente impossibile attingere risorse nei mercati finanziari. Il che comporta una contrazione dei fondi destinabili per investimenti e, a seguire, la riduzione degli investimenti – in quanto accresce l’obsolescenza degli impianti – ha effetti negativi sulla dinamica della produttività.
4) La caduta della domanda aggregata agisce negativamente sulla dinamica della produttività anche a ragione del fatto che, accrescendo il tasso di disoccupazione, e riducendo conseguentemente il potere contrattuale dei lavoratori, incentiva le imprese a competere riducendo i costi di produzione (salari in primis), ovvero disincentiva le innovazioni [2].
Le opzioni di politica economica che derivano da queste considerazioni sono essenzialmente riconducibili a misure di stimolo della domanda, soprattutto per gli effetti che questi producono dal lato dell’offerta. Per contro, la Commissione Europea ha recentemente (ri)proposto una linea di politica fiscale di segno esattamente opposto, ovvero: per accrescere l’occupazione occorre “lo spostamento del carico fiscale dal lavoro alle imposte ricorrenti sui beni immobili, sui consumi e sull'ambiente, in modo da rafforzare il rispetto dell'obbligo tributario e combattere l'evasione fiscale”.
Si tratta, a ben vedere, non solo della reiterazione di proposte che si sono rivelate palesemente inefficaci (se non del tutto controproducenti), assumendo, contro ogni evidenza, che sia sufficiente la detassazione del lavoro per spingere gli imprenditori ad assumere; ma si tratta anche di provvedimenti che accrescono le diseguaglianze distributive, dal momento che l’aumento dell’imposizione indiretta grava con uguale incidenza su percettori di redditi alti e bassi [3]. Ed è anche poco difendibile l’idea che solo rendendo sempre più regressiva la tassazione che si rende possibile un aumento delle entrate fiscali, dal momento che questa misura, accrescendo le diseguaglianze distributive, deprime ulteriormente i salari reali, potendo incidere negativamente sulla produttività del lavoro, sul tasso di crescita e sulla stessa base imponibile.
Ma soprattutto, la detassazione del lavoro pone semmai le imprese nella favorevole condizione di competere tramite riduzione dei costi e, se il problema italiano è il problema della caduta della produttività, questa linea di politica economica non può che accentuarlo [4].
NOTE
[1] A ciò si aggiunge che la riforma pensionistica voluta dal Governo Monti ha significativamente contribuito ad accrescere l’età media dei lavoratori, con effetti di segno negativo sull’occupazione giovanile.
[2] Come osserva Alain Parguez, “a full employment policy automatically pushes for increased investment and therefore for the embodiment of more and more technology-innovations in the stock of equipment. It is tantamount to the proposition that a full employment policy sustains the growth of productivity in the long run” (A.Parguez, Money creation, employment and economic stability: The monetary theory of unemployment and inflation, “Panoecnomicus, 1, 2008, p.50). E’ rilevante, su questo aspetto, sgombrare il campo da un equivoco. L’indicazione prevalente, in materia di politiche del lavoro, suggerisce di commisurare i salari all’andamento della produttività del lavoro, data la duplice tacita assunzione secondo la quale i) la produttività del singolo lavoratore è quantificabile, ovvero è isolabile il suo specifico contributo alla produzione ii) le variazioni della produttività del lavoro sono interamente imputabili all’intensità lavorativa. Il punto qui in discussione è che, anche accettando l’ipotesi che la produttività del singolo lavoratore sia misurabile, il suo salario reale non può dipendere dal suo impegno individuale, giacché dipende, in ultima analisi, dalle decisioni autonome delle imprese in merito alla scala e alla composizione merceologica della produzione (ovvero al cosa e al quanto produrre). E’ del tutto evidente che una riduzione della produzione di beni di consumo riduce i salari reali, indipendentemente dal contributo del singolo lavoratore alla produzione. Cfr. A.Graziani, The monetary theory of production, Cambridge, Cambridge University Press, 2003.
[3] Si tratta anche di un un’impostazione tecnicamente discutibile. E’ infatti difficilmente difendibile l’idea che si possano raggiungere due obiettivi (accrescere l’occupazione e ridurre l’evasione fiscale) con un solo strumento (l’aumento dell’imposizione indiretta).
[4] Per una trattazione approfondita di questi aspetti si rinvia a P.Pini, Regole europee, cuneo fiscale e trappola della produttività, “Quaderni di Rassegna Sindacale”, 2, 2014.
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Lenin a Pechino?
Leggendo «Utopie letali» di Carlo Formenti
Damiano Palano
Nel suo ultimo libro, Utopie letali. Contro l’ideologia postmoderna (Jaca Book, Milano, 2013), Carlo Formenti sembra tornare all’ottimismo dell’operaismo degli anni Sessanta e alla convinzione che l’estensione del capitalismo a livello globale debba produrre il ritorno al ‘classico’ conflitto tra capitale e classe lavoratrice. Proprio per questo Formenti critica le letture che ritengono che il soggetto trainante dei nuovi conflitti sia costituito dalla nuova ‘classe creativa’ prodotta dalla rivoluzione digitale, ma soprattutto attacca quelle «utopie letali» che, nel corso degli ultimi tre decenni, hanno spostato il terreno dei conflitti dal piano ‘materiale’ della contrapposizione tra capitale e lavoro al piano delle rivendicazioni ‘identitarie’ e ‘culturali’. Se questa critica ha merito di riportare l’attenzione sull’importanza dei fattori ‘materiali’, o sul ruolo che i ‘vecchi’ conflitti continuano ad avere anche nel XXI secolo, c’è però un limite nella posizione di Formenti: un limite che riguarda proprio il ruolo della dimensione ‘culturale’, e delle identità collettive, all’interno della «composizione di classe».
Ritorno al futuro
Nata proprio mezzo secolo fa, nel 1964, «Classe operaia» chiuse la propria esperienza teorico-politica dopo meno di quattro anni di vita, nel marzo del 1967, con la pubblicazione dell’ultimo fascicolo, che un po’ goliardicamente invitava i lettori interessati a non abbonarsi. Con quel numero si concludeva l’effimera parabola di una delle riviste fondative dell’operaismo italiano.
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Su decrescita e marxismo
La decrescita è rivoluzionaria ma i marxisti non lo sanno
Marino Badiale
Vi è qualcosa di paradossale nel modo in cui il variegato mondo dell'estrema sinistra più o meno marxista ha finora discusso e criticato la proposta della decrescita. Vi è infatti un consenso abbastanza diffuso, fra i marxisti, su due questioni: in primo luogo lo sviluppo storico degli ultimi due secoli ha portato ad una situazione nella quale il rapporto sociale capitalistico non implica solamente, come in passato, sfruttamento e disumanità nei rapporti sociali, ma sta ormai minacciando la distruzione degli equilibri naturali e, quindi, delle stesse condizioni fisiche di una vita umana sensata, se non di una vita umana tout court. In secondo luogo, tale rapporto sociale, nella forma attuale, ha come elemento necessario la crescita della mercificazione di ogni ambito dell'esistenza, cioè la riduzione a merce di sempre maggiori settori dell'attività produttiva umana, e quindi la correlativa crescita del consumo di merci, perché beni e servizi prodotti sempre più nella forma di merci devono ovviamente trovare degli acquirenti.
Il pensiero della decrescita parte da una analisi che ha forti assonanze con quanto appena detto, e propone come risultato di tale analisi la riduzione della sfera dell'attività sociale organizzata secondo la logica del rapporto sociale capitalistico. Per capire questa proposta occorre naturalmente distinguere fra beni e merci: i beni (beni materiali o servizi) sono i prodotti del lavoro umano che soddisfano a qualche tipo di bisogno, le merci sono i beni prodotti per il mercato e dotati di un prezzo. La decrescita di cui si parla è quella delle merci, non dei beni. Ci si propone cioè di ridurre la sfera dell'attività umana che si esprime nella produzione di merci per il mercato. Le proposte sono di molti tipi diversi, perché è un'intera forma di organizzazione della produzione umana che deve essere ripensata.
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Le ragioni del referendum contro il Fiscal Compact
Riccardo Realfonzo*
Il rispetto del Fiscal Compact – il Trattato sulla stabilità, sul coordinamento e sulla governance dell’unione economica e monetaria, sottoscritto nel 2012 - costringerebbe il governo italiano a praticare ulteriori drastiche politiche di austerità, per i prossimi due decenni. Si tratta di impegni che tecnicamente non possono essere rispettati, a meno di volere trascinare il Paese in una prolungata recessione dagli effetti sociali devastanti. Per questa ragione, è bene che gli italiani si esprimano sul referendum che abbiamo proposto, respingendo un approccio di finanza pubblica pesantemente restrittivo che non ha alcuna giustificazione tecnico-scientifica. Il referendum ha per oggetto aspetti specifici della legge 243 del 2013, la quale dà attuazione al principio del pareggio di bilancio recentemente introdotto nella Costituzione (con la legge costituzionale n. 1 del 2012). Tuttavia, il significato politico del referendum è molto chiaro: si tratta di chiedere ai cittadini di esprimersi finalmente sull’intero sentiero di austerità previsto dal Fiscal Compact.
Per inquadrare la questione, è opportuno sottolineare che le politiche di taglio della spesa pubblica e incremento della pressione fiscale hanno già avuto effetti devastanti nell’eurozona.
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Buoni o cattivi padri? Non è questa la fine
Note su psicoanalisi e patriarcato
di Pietro Bianchi
Le note che seguono – che avviano la mia collaborazione con ∫connessioni precarie – prenderanno spunto da un intervento pubblicato su questo sito da Gerolamo Cardini, dal titolo Cattivi maestri e cattivi padri. Appunti di una pedagogia per orfani. Il carattere provvisorio e del tutto insufficiente di queste brevi riflessioni dipende dal fatto che è mio interesse primario in questo momento provare ad aprire un confronto su un tema – quello dell’intreccio tra psicoanalisi, politica e trasmissione dei saperi – che considero di grande rilevanza politica, soprattutto in questa congiuntura. Proporrò dunque delle tesi che sono ben lontane da ogni definitività ma che proprio per il loro carattere provvisorio necessitano di essere discusse e confrontate, anche criticamente, in un modo il più possibile allargato. Mi scuso quindi se, a beneficio della discussione, sarò eccessivamente ‘tranchant’ in alcuni punti o se alcuni passaggi sembreranno richiedere uno sviluppo ulteriore. Mi propongo in ogni caso di ritornare in modo più approfondito su alcune delle questioni più rilevanti.
Nel suo testo Cardini sviluppa una riflessione di grande interesse riguardo al problema della trasmissione dei saperi, dell’educazione e più in generale di una pedagogia che si ponga ancora l’obiettivo di trasformare l’esistente.
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Il conflitto dal principio
Andrea Colombo
Incontri. Come decifrare il decennio rosso italiano? Facendo un passo indietro, rientrando in fabbrica e ritrovando le origini delle lotte nella storia operaia. Parola di Maurizio «Gibo» Gibertini e Roberto Rosso
Cosa è stato davvero il «decennio rosso»? Quali sono stati i fatti salienti e i protagonisti reali di quegli anni ’70 sui quali continuano a uscire libri a raffica, ma quasi sempre centrati su armi e armati, oppure, ma in misura già infinitamente minore, sulle peraltro gloriose organizzazioni extraparlamentari? Chi, da quel quadro del passato spesso bugiardo e adoperato ad arte per condizionare il presente, è stato espunto, rimosso e cancellato? Almeno quest’ultima risposta è semplice: a essere stati cancellati dalla memoria sono stati gli operai, veri «personaggi principali» del decennio più denso di conflitti nella storia italiana, le loro lotte durissime, la loro rabbia, il potere che erano riusciti a conquistare nelle fabbriche.
Un gruppo di protagonisti di quella storia prova ora a colmare un vuoto di memoria che minaccia di trasformarsi in definitivo stravolgimento della storia. Tra questi Maurizio «Gibo» Gibertini, ex militante dell’Autonomia milanese, e Roberto Rosso, prima dirigente di Lotta continua a Milano, poi tra i fondatori di Prima Linea.
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L’epopea italiana dei fondi (in) pensione
di Maurizio Sgroi
Dunque viviamo in un’epoca in cui molti stati, ormai sfiancati dalle spese, hanno subappaltato la questione previdenziale a entità esterne. Gli strumenti di questa delega, travestita col miglior birignao di cui disponga il tecnicismo contemporaneo, sono i fondi pensioni.
Costoro, che ormai movimentano decine di trilioni di dollari nel mondo, di fatto sono uno dei costituenti del sistema finanziario globale, e rappresentano il curioso paradosso per il quale entità costituite col risparmio previdenziale di miliardi di lavoratori finiscono nel gioco globale che negli ultimi decenni ha contribuito a erodere sempre più i redditi da lavoro.
I contributi dei lavoratori, per farla semplice, sono diventati la corda che ha finito con l’impiccarli. E a stringere il cappio è stata la loro stessa avidità: pretendendo sempre più rendimenti dai loro fondi, non si accorgono dei disastri che può provocare far circolare nel mondo tali montagne di denaro a caccia di profitti.
Il segreto di questo capolavoro è stato far passare il pensiero che il risparmio previdenziale equivalga a un investimento finanziario, mentre il senso del risparmio previdenziale dovrebbe essere assicurare una rendita certa, anche se bassa, rispetto a una rendita potenzialmente alta ma incerta.
Confondere investimento finanziario e risparmio previdenziale può essere parzialmente ammesso in un sistema a capitalizzazione, mentre è un fraintendimento in un sistema a ripartizione come il nostro, dove comunque le pensioni in essere dovranno essere pagate.
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Wu Ming. L'armata dei sonnambuli
Enrico Manera
L'uscita di L'armata dei sonnambuli di Wu Ming, il nuovo romanzo del collettivo bolognese che ha già avuto tre ristampe in poche settimane, è l'occasione per ragionare su un'officina letteraria che è anche un cantiere di riflessione sociale e politica vasto e ramificato, fortemente radicato in rete e su Giap in particolare. Un factory che ha ormai quindici anni – da quando cioè Q conquistava l'attenzione dei lettori con un romanzo storico ambientato durate la riforma protestante che era anche un vero e proprio western teologico.
Da allora romanzi di gruppo e opere soliste hanno messo in scena conflitti e creato cortocircuiti in diversi ambiti, dalla Resistenza di Asce di guerra alla questione di Trieste e del confine orientale con 54, alla Rivoluzione americana e alla questione nativo-americana di Manituana; dal jazz radicale di New thing al post-umanesimo apocalittico e forestale di Guerra agli umani alla narrativa di non fiction di tema post-coloniale di Timira e Point Lenana; e intanto hanno aperto la cassetta degli attrezzi ai lettori discutendo problemi e sviscerando interessi e ossessioni culturali, con New Italian Epic o Anatra all'arancia meccanica (ma questa è una carrellata e non un elenco completo).
In questi anni Wu Ming ha travalicato i confini italiani, con diverse traduzione all'estero, e ha prodotto una folta comunità di lettori radicata in ambiti differenziati, una readership intergenerazionale che ha reagito chimicamente alla commistione di alto e basso: una voluta collisione di densità storica e concettuale e storytelling pop, risolta in uno stile anche eclettico ma riconoscibile, che produce oggetti narrativi di non/fiction di alta qualità.
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La sostanza della verità*
di Anselm Jappe
Voglio cominciare con un ricordo personale. Sono cresciuto sul confine fra due epoche: la modernità classica e la postmodernità, o tarda modernità. Infatti, ho trascorso la mia adolescenza negli anni '70. Allora, il potere utilizzava un linguaggio chiaro: la famiglia, la scuola, la chiesa, l'esercito, le istituzioni dello Stato. parlavano con linguaggio altezzoso e autoritario. Domandavano rispetto e sottomissione in quanto pretendevano di detenere la verità. Non cercavano di darci soddisfazioni immediate, ma di garantire il nostro futuro insegnandoci, o imponendoci, quello che non eravamo capaci di apprezzare e scegliere spontaneamente. Volevano anche obbligarci a fare sacrifici in nome di una verità superiore all'individuo, come la patria. In realtà, nei settori più importanti della vita, era già tutto stabilito, erano gli individui che dovevano adattarsi. Invece, quelli che non si volevano adattare parlavano di "rivoluzione", di "sovversione", e proponevano soprattutto di minare le certezze comuni. Spargere dubbi, mettere in discussione le verità ufficiali, sottolineare la relatività di ogni sapere, sembravano attività sovversive. Mentre il potere, molto tempo dopo la secolarizzazione ufficiale della società, parlava ancora in nome di un dogma che doveva essere accettato e non discusso; la contestazione, al contrario, si poneva dalla parte degli scettici, dei relativisti. Non è forse meglio, per le religioni, perseguitare gli scettici, piuttosto che i detentori di presunte contro-verità? La libertà politica e sociale dovrebbe andare di pari passo, agli occhi dei nemici dell'autoritarismo esistente, con la denuncia di ogni dogmatismo nel pensiero: l'"anarchismo epistemologico" del filosofo Paul Feyerabend ne è stato forse l'esempio più noto.
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La strategia di Obama: separare la Russia dall'Europa
di Gaetano Colonna
Nei giorni immediatamente precedenti la celebrazione dei settant'anni dallo sbarco alleato in Normandia, la Casa Bianca ha assunto delle posizioni ufficiali sulla situazione nell'Est europeo che meriterebbero molta maggiore attenzione di quella che l'Europa, concentrata sui risultati elettorali e sulla perdurante crisi economica, gli ha riservato.
Il 3 giugno scorso, infatti, è stata ufficialmente lanciata la European Reassurance Initiative, con la quale il presidente americano ha richiesto al Congresso degli Stati Uniti un miliardo di dollari, da iscrivere nel bilancio della difesa statunitense 2015 tra le Overseas Contingency Operations (OCO), per finanziare una serie di misure di carattere militare che il governo Usa intende adottare. Intensificazione, utilizzando a rotazione truppe americane, di addestramento ed esercitazioni congiunte nel territorio degli alleati europei di più recente accessione; pianificazioni congiunte con gli stessi Paesi, per accrescere la loro capacità di programmazione di quelle attività; potenziamento delle capacità di risposta degli Usa a supporto della NATO, mediante la predisposizione di strutture di pre-posizionamento di equipaggiamenti e truppe; aumento della partecipazione della flotta Usa alle attività NATO, per potenziarne la presenza nel Mar Baltico e nel Mar Nero; crescita della capacità di Paesi "stretti alleati" ex-sovietici, come Georgia, Moldova e Ucraina, di collaborare con gli Stati Uniti e la NATO, e di sviluppare le proprie forze di difesa.
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Il neocolonialismo francese in Costa d'Avorio
di Enzo Brandi
La defenestrazione e l’arresto del Presidente della Costa d’Avorio Laurent Gbagbo nel settembre del 2011 ad opera dell’esercito francese si configura – secondo il giudizio di tutte le fonti indipendenti riportate più sotto in appendice – come un vero colpo di stato – ammantato di false motivazioni “umanitarie” – attuato per difendere gli interessi neo-coloniali della Francia.
Questa vicenda si iscrive in un quadro di innumerevoli interventi simili (anch’essi riportati sinteticamente in appendice) con cui la Francia, massima potenza coloniale dell’Africa settentrionale ed occidentale, dopo essere stata costretta a concedere l’indipendenza ad una serie di sue ex-colonie, ha cercato di mantenerne l’effettivo controllo economico e politico. Anche l’attacco ad un paese indipendente come la Libia attuata dal Presidente Sarkozy, che pure non era stata una colonia francese, si iscrive in questo quadro.
Sarà utile quindi ricordare per sommi capi la storia della Costa d’Avorio (il vero gioiello dell’ex-impero coloniale francese in quanto paese più ricco dell’Africa occidentale) a partire dal conseguimento dell’indipendenza ottenuta nel 1960.
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Vergogna Renzi: un nuovo scudo fiscale è alle porte
di Alfonso Gianni
Se da un lato il premier Renzi tuona a parole contro la corruzione politica, dall’altra il suo governo pare abbia pronto un nuovo scudo fiscale. In molti negano ma un maxi emendamento in Parlamento parla di "voluntary disclosure", modo gentile e camuffato per un ennesimo colpo di spugna nei confronti degli esportatori illegali di capitali
In una recente intervista, tra le pluriquotidiane rilasciate da quando è insediato, il Presidente del consiglio Matteo Renzi, in questo caso parlando nel ruolo di segretario del Pd, ha dichiarato che andrebbero cacciati a calci nel culo coloro che si fanno corrompere nell’esercizio delle loro funzioni pubbliche. Riferendosi anche ai membri del suo partito colti con le mani nella mazzetta. L’espressione non era raffinata, ma, si potrebbe dire, quando ci vuole, ci vuole! Peccato che contemporaneamente indiscrezioni giunte alla stampa solitamente bene informata, ci rivelino l’esistenza del testo in definizione di un decreto che attuerebbe un nuovo maxicondono per favorire il rientro dei capitali trafugati all’estero. Un nuovo scudo fiscale.
Che ci sia ognun lo dice, di chi sia nessun lo sa. Come al solito la notizia è stata accompagnata da diversi non so, più che da vere e proprie smentite. Il ministro dell’economia Pier Carlo Padoan, cui spetterebbe la titolarità della materia, dichiara di non saperne nulla. Qualcuno del suo entourage suggerisce maliziosamente di cercare dalle parti della ministra dello Sviluppo Economico Federica Guidi. In fondo non è stata proprio lei, intervenendo recentemente all’assemblea annuale della Confindustria a nome del governo, a dichiarare che bisogna smetterla di criminalizzare il profitto?! Ma sì, proprio lei, come titolava il Sole24Ore con malcelata soddisfazione. La materia non sarebbe di sua competenza, ma si sa tra ministri ci si aiuta, tanto più che la scusa per il condono è che i capitali rientrati in Italia vengano reinvestiti nelle aziende e quindi la cosa verrebbe presentata come una norma a favore dello sviluppo economico del nostro paese.
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Perchè la filosofia è necessaria
Recensione di un libro di J-F Lyotard.
Pierluigi Fagan
Il libricino uscito per i tipi di Cortina Editore nel 2013, riporta le quattro brevi conferenze che J.F.Lyotard tenne alla Sorbona nel 1964
Il tempo, in filosofia, ha una suo proprio statuto. Esiste una filosofia della fascia esterna che è più o meno in sincronia col proprio tempo storico (“il proprio tempo appreso col pensiero” diceva Hegel) ma esiste anche una filosofia del nucleo interno dove l’unico tempo esistente è il -grande istante-, una sorta di presente dilatato. In questo presente che in parte è sempre già stato, ed in parte, da sempre ancora non è, le questioni non sono soggette alle categorie dell’attuale-inattuale, sono “senza tempo”[1]. La questione sul -a cosa serve la filosofia ?- è una di queste questioni atemporali. Lo statuto della filosofia, la natura del suo nucleo interno, ovvero essere riflessione sulla riflessione, è per sua stessa condizione staccata dal tempo poiché è consustanziale al suo essere in quanto essere, prima o al di là dell’ esistenza di questa o quella filosofia specifica.
Già Aristotele ci informava che a Mileto si riteneva ben stramba l’attitudine di Talete a perdersi in quella bizzarra attività che è la riflessione sulla riflessione ed addirittura le “servette tracie” ridevano del nostro che veniva trovato la mattina, intrappolato in profondi pozzi in cui si era calato la notte, senza saper più come risalirne. Questa del pozzo è una splendida metafora del rischio che corre il filosofo ma anche del senso della sua attività, migliore di quella della caverna platonica.
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#Ross@: da contenitore spurio a progetto politico compiuto
Ovvero il cerino vs la luce piena
Oltrepassiamo le ragioni apparentemente incomprensibili della difficoltà di decollo di Ross@; una ipotesi realistica di decodifica e una proposta: procediamo!
Dopo un anno vissuto pericolosamente, ma troppo marginalmente per quanto ci riguarda, nel contesto politico e sociale italiano, Ross@ è tornata a riunirsi a Bologna.
Pericolosamente perché sono stati 12 mesi intensissimi sul piano degli assestamenti politici a livello di governo (si pensi al governo Letta, alle primarie del PD -sostitutive delle elezioni, che hanno portato all’ascesa extra-istituzionale di Renzi alla guida dell’esecutivo), dell’assunzione del ruolo e delle funzioni del regime politico che si sta costruendo, alle sempre maggiori drammatiche condizioni nelle quali versano le masse popolari, impiegate o disoccupate, alle quali si sottraggono reddito, servizi sanitari, istruzione, diritti: in una parola il “futuro”.Marginalmente perché la non strutturazione in termini politici di Ross@ a livello nazionale ha impedito che fossero portate all’onor del mondo idee, progetti e obiettivi strategici. L’inconsistenza formale e di contenuto ha relegato, ovviamente, questa nascente formazione a non avere voce autorevole. Né con i movimenti autonomi né verso altre soggettività.
Dobbiamo comunque ringraziare chi, facendo parte del gruppo promotore di Ross@ nel 2013, ha consentito il riattivarsi della circolazione di idee ed elaborazioni.
Una partenza preziosa, prosecuzione di precedenti sperimentazioni (si pensi al No Debito) che per la loro natura aggregante su temi circoscritti – e mai portati a sintesi – non potevano proseguire oltre la propria funzione.
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Euro e pieno impiego: la conferenza di Grenoble
di Lorenzo Battisti
L’attuale situazione economica rappresenta una sfida per tutti gli economisti, compresi quelli “eterodossi” che pure avevano avvertito con anni di anticipo l’arrivo di una crisi di grandi proporzioni. In particolare va analizzata l’Unione Europea e il ritorno della disoccupazione di massa.
Il 15 e 16 Maggio alcuni tra i maggiori economisti critici a livello mondiale si sono riuniti a Grenoble, in Francia, per discutere e confrontarsi su questi argomenti.
Il pieno impiego in Europa: con o senza l’Euro?
Il dibattito sull’Euro attraversa ormai molti paesi, sia del Nord che del Sud Europa, poiché la crisi, iniziata negli Stati Uniti, sembra non trovare un termine in Europa. Molti pensano che la differenza tra la durata e gli effetti della crisi in queste due aree sia dovuta alla costruzione europea. Il dibattito tra gli economisti ha quindi cercato di indagare se questa sia davvero la causa, e, in questo caso, se sia meglio riformare l’Euro oppure abbandonarlo. Molti libri negli ultimi anni hanno trattato questi temii ricevendo sempre maggiore attenzione dal grande pubblico.
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La chimera della crescita
di Paolo Pini
Negli ultimi anni la politica di svalutazione caricata sul lavoro non ha fatto altro che aggravare gli effetti negativi dell'austerità sulla domanda interna. Eppure l'Ue, anche nelle ultime Raccomandazioni, continua a prescrivere continuità nelle politiche di flessibilità del mercato del lavoro, contrattuali e retributive
Ieri la Commissione europea ha presentato le sue “Raccomandazione 2014-2015” per i singoli paesi dell’Unione. Il responso elettorale ha ammorbidito il timing delle stesse ma non la loro sostanza. La rotta non muta: vincoli di bilancio da rispettare, consolidamento fiscale da proseguire, riforme strutturali da realizzare. D’altra parte non vi erano aspettative per un cambiamento, semmai per una “non indisponibilità” a fornire qualche forma di flessibilità a seguito della richiesta del nostro ministro dell’Economia e Finanze a seguito dell’approvazione del Def 2014. Nel caso italiano, la Commissione ha attestato che non siamo allineati nel percorso di rientro dal debito e quindi nel raggiungimento degli obiettivi di medio termine di pareggio del bilancio strutturale. Si richiede che entro settembre 2014 si realizzi questo allineamento con interventi aggiuntivi, oltre che rispetto degli impegni assunti sul terreno di tagli alla spesa pubblica, privatizzazioni, riforme sul mercato del lavoro, ed altro ancora, rinnovando le precedenti raccomandazioni e chiedendo un più attento monitoraggio e verifica degli interventi realizzati e programmati. Come dire “fidarsi è bene, non fidarsi è meglio”. La via dell’austerità espansiva non deve essere abbandonata!
Ricordiamo che solo due settimane orsono sono stati resi pubblici i dati congiunturali di crescita del reddito nei paesi europei per i primi tre mesi del 2014 e di crescita tendenziale ad un anno, rispetto allo stesso periodo del 2013.
La rappresentazione era sconfortante, ma allo stesso tempo non sorprendente.
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Lo spettro dell’autoritarismo e il futuro della sinistra
di Henry A. Giroux e C.J. Polychroniou
1. Si ritiene diffusamente che le società liberali avanzate stiano soffrendo una crisi di democrazia, un’opinione che tu condividi di vero cuore, anche se le ricerche empiriche, con la loro predilezione per il positivismo, tendono a essere più caute. In che modo c’è oggi meno democrazia, in luoghi come gli Stati Uniti, di quanta ce ne fosse, diciamo, venti o trent’anni fa?
Ciò cui abbiamo assistito negli Stati Uniti e in numerosi altri paesi dagli anni ’70 è l’emergere di una forma barbara di fondamentalismo del libero mercato, spesso chiamata neoliberismo, in cui non solo c’è un profondo disprezzo per i valori pubblici, i beni pubblici e le pubbliche istituzioni, ma anche l’abbraccio di un’ideologia del mercato che accelera il potere dell’élite finanziaria e delle grandi imprese svuotando contemporaneamente quelle culture e istituzioni formative necessarie perché una democrazia sopravviva. Le istituzioni egemoni della società in molti paesi, Stati Uniti compresi, sono oggi nelle mani di potenti interessi industriali, dell’élite finanziaria e di fanatici di destra il cui controllo soffocante sulla politica rende la democrazia corrotta e disfunzionale. Più specificamente, gli statunitensi vivono oggi sotto quella che il nuovo Papa ha condannato come la “tirannia del capitalismo sfrenato”, in cui le élite industriali, finanziarie e di governo plasmano la politica, aggrediscono i sindacati, mobilitano grandi estremi di ricchezza e potere e impongono un regime brutale di neoliberismo.
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Sognando Berlinguer
Massimo Recalcati e i «falsi miti edonistici del capitalismo»
Sebastiano Isaia
A pagina 48 del saggio Patria senza padri (Minimun fax, 2013), Massimo Recalcati ci regala una confessione che, credo, spiega molto delle sue inclinazioni politiche e psicoanalitiche: «Sognavo spesso Berlinguer. Lo sognavo proprio negli anni infuocati della mia giovane militanza politica». Recalcati ci informa che alla fine degli anni Settanta questo sogno era condiviso, con un certo imbarazzo, da molti altri suoi compagni di militanza politica (area Lotta Continua, con simpatie per il Partito Radicale e per il mondo “libertario” che stava “a sinistra” del PCI e “a destra” dell’Autonomia Operaia), ma che solo pochi lo presero sul serio, e fra questi bisogna ovviamente annoverare lui.
Per il noto psicoanalista, «massimo esponente italiano della scuola di Lacan», Enrico Berlinguer rappresentò una sorta di principio d’ordine che riuscì a salvarlo dalla folle deriva edipica che allora trascinò un’intera generazione di giovani contestatori nel buco nero del terrorismo: «I terroristi assomigliano al mostro che volevano combattere. Il terrorismo è stato la rivolta dei figli contro i padri» (p. 47). Questa tesi potrei pure sottoscriverla, anzi la sottoscrivo senz’altro, una volta però che sia stata fatta chiarezza circa il punto di vista da cui la cosa mi appare plausibile: «tutta la partita edipica si gioca all’interno della famiglia del comunismo». Non c’è dubbio.
Chiarito, beninteso, che ciò che Recalcati definisce «famiglia del comunismo» per me non ha nulla a che fare con il comunismo di Marx, da me sempre concepito come movimento di lotta delle classi dominate teso a conquistare per tutti gli individui il Regno dell’Umanità.
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Il fascino discreto della crisi economica
Intervista a Giorgio Gattei*
Continua il ciclo di interviste ad economiste ed economisti italiani sulla crisi economica ancora in corso. Dopo Joseph Halevi, è la volta di Giorgio Gattei
Domanda: L'emergere della crisi ha confermato la visione di alcuni economisti eterodossi secondo la quale il capitalismo tende strutturalmente ad entrare in crisi. Tuttavia, le visioni sulle cause del disastro attuale divergono. Una posizione piuttosto diffusa (appoggiata ad esempio dai teorici della rivista “Monthly Review”) è quella che attribuisce la crisi al seguente meccanismo: la controrivoluzione neoliberista ha portato ad un abbassamento della quota salari; per sostenere la domanda privata è stata quindi necessaria un'enorme estensione del credito e lo scoppio della bolla nel 2007 ha interrotto il meccanismo. Altri pensatori, come il marxista americano Andrew Kliman, ritengono invece che le cause della crisi non si possano trovare nella distribuzione dei redditi e che la depressione sia spiegabile tramite la caduta del saggio tendenziale di profitto, che è una visione tutta improntata sulla produzione. Lei cosa ne pensa?
Io non ho mai capito perchè gli economisti eterodossi debbano litigare sulla causa della crisi! Certamente siamo alle prese con un fenomeno complesso che può autorizzare molteplici spiegazioni, ma tutte riconducibili ad un fattore comune: che si tratta di una crisi di sovrapproduzione (di merci e di capitale), il che significa che l'offerta è venuta a superare la domanda.
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