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Egemonia del capitale e unità della sinistra
di Alberto Burgio
L’ubiquità dell’egemonia
Se la matrice gramsciana del concetto di egemonia è universalmente nota, meno diffusa è la consapevolezza della sua complessità. Questa idea suole essere ricondotta (e ridotta) a una (o a talune) delle sue molteplici accezioni: il più delle volte alla dimensione culturale (dove «egemonia» è sinonimo di influenza ideologica e di capacità di orientamento o di manipolazione); talora alla sua dimensione immediatamente politica (secondo l’accezione leniniana e terzinternazionalista – relativa al tema delle alleanze tra le classi – che connota la prima comparsa del termine nelle pagine del carcere1 e la sua stessa irruzione nel lessico gramsciano degli anni Venti, tra le Tesi di Lione e gli appunti sulla Quistione meridionale). Egemonia come «direzione intellettuale e morale» della società, dunque; quindi come traduzione «in atto» della filosofia (della cultura, delle idee), secondo quanto Gramsci scrive reinterpretando la rivoluzione d’Ottobre come «teorizzazione e realizzazione dell’egemonia» da parte di Lenin, e in questa misura come un grande avvenimento dotato «anche» di valore «metafisico»2.
In effetti, stando alle pagine più classiche dei Quaderni nelle quali si tratta dell’egemonia, questi si direbbero gli unici significati del termine.
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Il fenomeno Bitcoin
Moneta alternativa o moneta speculativa?
Gianluca Giannelli e Andrea Fumagalli
Negli ultimi mesi, una bolla seculativa ha interessato il Bitcoin, la moneta digitale lanciata dalla galassia hacker alternativa nel 2009 come possibile nuovo strumento monetario per realizzare scambi privati, al di fuori del controllo dei potentati creditizi-finanziari. E’ stato scritto che il Bitcoin potrebbe rappresentare una minaccia al sistema della moneta “fiat”, quella emessa dalle Banche Centrali. Ma è proprio così? E’ possibile pensare a circuiti finanziari alternativi?
* * * * *
Arricchimento, clamore, volatilità. Queste le parole associate, di recente, al fenomeno “Bitcoin” (BTC) e, in generale, delle monete virtuali o criptomonete, come vengono definite.
Molti, anche in Italia, soprattutto nell’ultimo mese, ne hanno sentito parlare. Pochi ancora sanno cosa sono. Tutti però le associano a possibilità di ricchezza improvvisa.
Il BTC e le altre circa 40 monete nate in sua emulazione, sono semplicemente file criptati ovvero sequenze alfanumeriche (numeri e lettere) generate da computer – a seguito della esecuzione e risoluzione di un determinato algoritmo - collocati all’interno di una rete “peer to peer”.
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Un economista controcorrente*
Alain Parguez e la Teoria del Circuito Monetario
di Riccardo Bellofiore
(Le parole devono essere un po’ selvagge, perché devono andare all’assalto dei non pensanti)
John Maynard Keynes
1. Alain Parguez – con Bernard Schmitt e Augusto Graziani uno dei fondatori della moderna Teoria del Circuito Monetario (nel seguitoTCM) - è uno degli autori che più ha influito sulla mia riflessione, sia dal punto di vista della impostazione teorica, sia dal punto di vista della interpretazione della dinamica concreta del capitalismo.
I suoi scritti sono caratterizzati da una compattezza e da una coerenza logica rare, che ben si accompagnano al coraggio della innovazione concettuale e alla integrità intellettuale, due qualità che ne fanno una figura così rara tra gli economisti, una specie purtroppo in via di estinzione.
Fioriscono invece, nell’eterodossia, i bricoleur che mettono insieme pezzi incompatibili di teorie inservibili, e intanto si affollano a competere come consiglieri di un auspicato nuovo Principe.
Ho partecipato, sin quasi dagli inizi, ad una delle esperienze fondatrici del ramo italiano del circuitismo, facendo parte del Seminario di Graziani che mensilmente si riuniva a Napoli, all’inizio degli anni Ottanta; ma anche di ciò che precede, dalla seconda metà degli anni Settanta cioè, ho una conoscenza molto ravvicinata.
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Tra crisi della riproduzione sociale e welfare comune
Antonio Alia intervista Silvia Federici
Silvia Federici non ha bisogno di presentazioni. Militante e intellettuale femminista, da sempre impegnata nei movimenti sociali, è stata tra le fondatrice della campagna Wages for Housework. Le abbiamo rivolto alcune domande per offrire una lettura della crisi e delle possibili alternative con cui sicuramente occorre confrontarsi. L’intervista si chiude con un commento ad un articolo di Nancy Fraser. Nell’intervento, Silvia Federici ricorda l’importanza di quel femminismo che ha ispirato lotte e riflessioni teoriche e che non ha concesso nulla ai processi di istituzionalizzazione neoliberale. Un femminismo che fa definitivamente i conti con la fine di ogni possibile riformismo contro cui occorre invece “costruire nuove strutture e nuovi rapporti alternativi allo Stato e al mercato”.
La crisi globale esplosa nel 2007, a sei anni di distanza, non trova una soluzione di continuità e se la guardiamo da una prospettiva storica perde il carattere di fenomeno contingente.
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Neoliberismo e egemonia culturale*
di Daniela Palma e Francesco Sylos Labini
Il 5 novembre del 2008 la regina d’Inghilterra visitò la prestigiosa London School of Economics e durante la cerimonia fece una domanda passata alla storia come “la domanda della regina”. Ci sono delle versioni discordanti sulle parole esatte che ha utilizzato, ma il senso è questo: “Come mai la maggioranza degli economisti non ha previsto la crisi finanziaria del 2008?” Ricordiamo, infatti, che il fallimento della Lehman Brothers nel settembre del 2008 ha dato origine alla più grande crisi finanziaria dal 1929 e alla recessione di tanti paesi che ancora dura, e che economisti di fama mondiale non sono stati capaci né di prevedere la crisi né di interpretare quello che stava avvenendo dopo che la bolla era già scoppiata.
Dieci autorevoli economisti inglesi hanno poi scritto alla Regina una lettera, spiegando che una delle ragioni principali dell’incapacità della professione di dare avvertimenti tempestivi della crisi imminente è la formazione inadeguata degli economisti, concentrata sulle tecniche matematiche: così che “l’economia – l’economics – è diventata una branca delle matematiche applicate.”
Sono passati da quei giorni più di quattro anni e la crisi si è approfondita, mentre nulla sembra essere cambiato delle posizioni assunte sulla crisi dagli economisti che hanno voce in capitolo nelle maggiori istituzioni internazionali e nel governo degli stati. Qualcuno direbbe che, ultimamente, un numero crescente di attori della crisi sta maturando una riflessione sugli sbagli fatti e sulle possibili correzioni da mettere in pratica per cominciare almeno a invertire la direzione del declino economico che si è inesorabilmente affermata.
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Banche, crisi, porti. La vecchia talpa scava ancora
di Girolamo De Michele
Sergio Bologna, Banche e crisi. Dal petrolio al container, Postfazione di Gian Enzo Duci, Derive Approdi, Roma 2012, pp. 198, € 17.00
Le lotte degli anni ’60-’70 sono state attraversate, in un rapporto di reciproca produzione e rilancio, da alcuni importanti testi “teorici” (chiamiamoli così, per comodità), che avevano all’epoca una finalità militante, e che sono oggi dei classici, nel senso autentico del termine: testi che non hanno ancora smesso di dirci qualcosa, veri e propri scrigni del tesoro nei quali si trova sempre qualcosa di nuovo. Testi che ci parlano del tempo presente pur essendo stati scritti in anni talmente lontani da sembrare epoche, o ere. Operai e Stato di Mario Tronti, Crisi dello Stato-piano e Marx oltre Marx di Toni Negri, e Moneta e crisi di Sergio Bologna (gusti miei, sia chiaro, senza alcuna pretesa di completezza e di gerarchia): non certo per caso, testi che attraversano i Grundrisse di Marx, un altro classico la cui attualità continua a sorprendere1.
Tempo fa, noi carmilli eravamo sul punto di ripubblicare il lavoro di Sergio Bologna, perché ci pareva ingiusto che un testo di tale importanza fosse irreperibile2: e lo avremmo fatto, se non ci fosse giunta notizia dell’imminente riedizione da parte di DeriveApprodi.
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L’ingiustizia fiscale e la recessione
di Guglielmo Forges Davanzati
Fin dal Rapporto Growing unequal del 2008, l’OCSE ha documentato la crescente diseguaglianza distributiva nella gran parte dei Paesi industrializzati. Dal 2008 a oggi, e con particolare riferimento all’Italia, la diseguaglianza distributiva è costantemente aumentata. A fronte della molteplicità delle cause del fenomeno, non appare irrilevante considerare il profilo sempre meno progressivo che ha assunto l’imposizione fiscale in Italia: detto diversamente, in termini percentuali si è notevolmente assottigliata la differenza fra le imposte pagate dalle famiglie con reddito elevato e quelle pagate dalle famiglie con basso reddito. In tal senso, la questione fiscale, in Italia, non attiene tanto agli oneri eccessivi che, in termini assoluti, gravano su imprese e famiglie, ma alla sua distribuzione in base al reddito disponibile.
E’ rilevante osservare che il grado di progressività delle imposte, in Italia, si è continuamente ridotto a partire dalla prima metà degli anni ottanta, in virtù di una sequenza di “riforme” che hanno fatto sì che all’aumentare del reddito imponibile l’imposta da pagare aumenti proporzionalmente sempre meno.
La massima accelerazione di questo processo si è avuta con il secondo Governo Berlusconi.
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Renzinomics: The Times They Are Not A-changin’
Federico Stoppa
“Non abbiamo bisogno di manovre o aggiustamenti, quello che ci serve è un cambio di orizzonte mentale, un nuovo paradigma economico, sociale e politico che rompa con gli schemi del passato”. Yoram Gutgeld, israeliano, ex McKinsey, presenta così il programma economico del nuovo PD targato Matteo Renzi. Il titolo del lavoro promette bene: ”Più uguali, più ricchi” (Rizzoli, 2013).
Il lettore potrebbe dedurre che la questione della disuguaglianza sia stata di nuovo messa in cima alle priorità della politica – e in particolare del principale partito della Sinistra. Si tratterebbe, questa si, di una rivoluzione copernicana, di un’abiura del paradigma neoliberista e del suo principale assioma : la disuguaglianza genera crescita, e la crescita economica diffonde benessere, anche nelle classi più povere (“effetto sgocciolamento“). Un teorema molto alla moda nella letteratura economica della “nuova” sinistra: da Alberto Alesina e Francesco Giavazzi (Il liberismo è di sinistra, Il Saggiatore, 2007) fino a Pietro Reichlin e Aldo Rustichini (Pensare la Sinistra. tra Equità e Libertà, Laterza, 2012). Un teorema – come sappiamo – abbondantemente falsificato dall’evidenza empirica.
L’Italia, secondo due rapporti dell’ Ocse (2008,2011), è il terzo paese più diseguale d’Europa, dopo Regno Unito e Portogallo, e anche quello che cresce di meno.
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Il colpo di Stato di banche e governi
di Luciano Gallino
Il tracollo finanziario di questi anni non è dovuto a un incidente del sistema ma è il risultato dell'accumulazione finanziaria perseguita ad ogni costo per reagire alla stagnazione economica di fine secolo. L'introduzione al libro del sociologo Luciano Gallino, "Il colpo di Stato di banche e governi"
La crisi esplosa nel 2007-2008 è stata sovente rappresentata come un fenomeno naturale, improvviso quanto imprevedibile: uno tsunami, un terremoto, una spaventosa eruzione vulcanica. Oppure come un incidente tecnico capitato fortuitamente a un sistema, quello finanziario, che funzionava perfettamente. In realtà la crisi che stiamo attraversando non ha niente di naturale o di accidentale. E stata il risultato di una risposta sbagliata, in sé di ordine finanziario ma fondata su una larga piattaforma legislativa, che la politica ha dato al rallentamento dell'economia reale che era in corso per ragioni strutturali da un lungo periodo. Alle radici della crisi v'è la stagnazione dell'accumulazione del capitale in America e in Europa, una situazione evidente già negli anni Settanta del secolo scorso. Al fine di superare la stagnazione, i governi delle due sponde dell'Atlantico hanno favorito in ogni modo lo sviluppo senza limite delle attività finanziarie, compendiantesi nella produzione di denaro fittizio. Questo singolare processo produttivo ha il suo fondamento nella creazione di denaro dal nulla vuoi tramite il credito, vuoi per mezzo della gigantesca diffusione di titoli totalmente separati dall'economia reale, quali sono i «derivati», a fronte dei quali – diversamente da quanto avveniva alle loro lontane origini – non prende corpo alcuna compravendita di beni o servizi: sono diventati di fatto l'equivalente dei tagliandi di una lotteria.
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Il Quinto Stato
Guido Viale
C’è uno scarto enorme, e non solo un ritardo, tra l’evoluzione che il sistema economico ha attraversato nel corso degli ultimi tre decenni – da capitalismo industriale, fondato sulla grande fabbrica e sull’organizzazione del lavoro fordista a capitalismo finanziario, fondato sul predominio della finanza e la frantumazione e la delocalizzazione delle attività produttive – da un lato e, dall’altro, l’evoluzione dei conflitti sociali e delle sue prospettive che quel mutamento radicale ha portato con sé. Qui non vanno segnalati solo i ritardi dell’analisi sociale o, se vogliamo, della percezione delle nuove contraddizioni che attraversano il sistema; analisi e percezioni rimaste per troppo tempo abbarbicate a una concezione dicotomica del conflitto di classe – tra proletariato e borghesia – che il movimento operaio aveva ereditato dal pensiero politico addirittura di un secolo e mezzo fa; ma che sembrava comunque aver trovato conferma negli sviluppi del capitalismo della prima parte del secolo scorso, fin quasi alla metà degli anni ’70; né va sottolineato solo un altro ritardo: quello nei confronti di quella tripartizione dell’analisi e della percezione sociale che, tra le due classi antagoniste fondamentali, aveva introdotto il cuscinetto dei “ceti medi”: un contenitore di profili sociali scarsamente omogenei e ancor più scarsamente analizzati; spesso disprezzati (“topi nel formaggio” li aveva definiti Sylos Labini, come ci ricordano gli autori) e utilizzati in sede analitica soprattutto per attribuire una base sociale al potere del grande capitale e “spiegare” così il fatto che la lotta di classe avesse finito per imboccare una strada diversa da quella delle magnifiche sorti e progressive del socialismo, della rivoluzione, della società senza classi.
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Populismo e imperialismo
Note sul movimento dei “forconi”
Collettivo City Strike – Noi saremo tutto - Genova
Le mobilitazioni dei “forconi”, in maniera un po’ inaspettata, hanno catturato l’attenzione dell’intero mondo politico. Percepiti come qualcosa di non dissimile da una sagra folcloristica hanno finito, attraverso alcune giornate di mobilitazione sparse in parti non irrilevanti del territorio nazionale, con l’obbligare un po’ tutti a ragionare sul significato e il senso di quella che, a detta degli organizzatori, si è presentata come l’inizio della “rivoluzione popolare”. I reportage sulle manifestazioni sono talmente tanti che pare superfluo starne a riportare l’ennesima sintesi. Scoop giornalistici a parte, ciò su cui sembra importante intervenire è il dibattito che, a sinistra, si è aperto intorno a queste giornate.
Andando all’osso, di fronte ai “forconi”, all’interno del movimento comunista e antagonista, si sono delineate due posizioni. La prima, sostanzialmente maggioritaria, ha identificato i “forconi” come movimento apertamente neofascista e ne ha tracciato il profilo tenendo costantemente a mente la genealogia propria del fascismo. In tal senso, e molto giustamente, sono stati richiamati alla mente le fasi “diciannoviste” e “sansepolcriste” dei fasci di combattimento e, con questi, tutta l’epopea “radicale” che ha tenuto a battesimo il fascismo.
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Nei cantieri marxiani. Il soggetto e la sua produzione
di Sandro Mezzadra
Anticipo qui il primo capitolo di un piccolo libro che sto scrivendo su Marx, provvisoriamente intitolato “Nei cantieri marxiani. Il soggetto e la sua produzione”
Capitolo primo – Marx oltre il marxismo
“Accade oggi alla dottrina di Marx quel che è spesso accaduto nella storia alle dottrine dei pensatori rivoluzionari e dei capi delle classi oppresse in lotta per la loro liberazione. Le classi dominanti hanno sempre ricompensato i grandi rivoluzionari, durante la loro vita, con implacabili persecuzioni; la loro dottrina è stata sempre accolta con il più selvaggio furore, con l’odio più accanito e con le più impudenti campagne di menzogne e di diffamazioni. Ma, dopo morti, si cerca di trasformarli in icone inoffensive, di canonizzarli, per così dire, di cingere di una certa aureola di gloria il loro nome” (Vladimir Ilic Lenin, Stato e rivoluzione [1917], trad. it. in Id., Opere scelte in sei volumi, Roma-Mosca, Editori Riuniti-Progress, s.d., vol. IV, p. 235).
Sbaglieresti a pensare che io “ami” i libri, scrisse Marx alla figlia Laura nel 1868: piuttosto, continuava, “sono una macchina condannata a divorarli per vomitarli in una nuova forma, come concime sulla terra della storia” (MEW, XXXII, p. 545). Prende avvio da questa immagine la lettura di Marx recentemente proposta da Pierre Dardot e Christian Laval in un libro ponderoso (Dardot e Laval 2012). Singolare metabolismo, quello qui delineato: libri, autori e teorie macinati da una macchina di lettura che li restituisce “in una nuova forma” alla storia, per renderla più fertile. Un continuum di variazioni e di ripetizioni su temi ereditati dalla storia per produrre dal loro interno quell’innovazione che alla storia deve tornare.
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Il capitale: un’economia del capitalismo in una teoria della società moderna
Dialogo con Gérard Duménil
Jacques Bidet
0. Le seguenti riflessioni nascono in parte da una serie di discussioni avute con Gérard Duménil[1] a margine di una stretta collaborazione nella scrittura di un libro[2]. Partiamo entrambi da un’idea comune: la società contemporanea presuppone tre forze sociali primarie, che allora chiamavamo (provvisoriamente e per compromesso) “capitalisti”, “quadri e competenti” e “classi popolari”. La coesione tra le prime due è andata indebolendosi a partire dagli anni ’30 sotto la pressione della terza, ma si è rinsaldata negli anni ’80 sotto l’egida della prima e nella forma del neoliberismo. In mancanza di una chiara comprensione di questa triangolazione del rapporto di classe la sinistra cosiddetta “radicale” è destinata a rimanere paralizzata in una opposizione binaria tra capitalisti e resto della società ispirata a un marxismo vetusto, e incapace di elaborare strategicamente una vera prospettiva di emancipazione. A nostro giudizio, invece, se intendono davvero infrangere il blocco dominante le classi “popolari” non hanno altra scelta, oggi come già nel passato, se non quella di unirsi e cercare di forgiare un’unione sufficientemente forte da egemonizzare i cosiddetti “quadri” attraverso un’alleanza al contempo suscettibile di legittimazione e sovversiva. Queste tesi sono di natura insieme socio-analitica, storica e strategica. Esse mostrano come quelle che oggi chiamiamo “la destra” e “la sinistra” corrispondano almeno in parte (perché la sinistra non si limita solo a questo) a due facce della dominazione di classe, e propongono una politica di sinistra e di classe.
Un altro punto di convergenza tra me e GDriguarda a mio avviso l’uso che oggi si può fare del Capitale.
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Il governo dell’uomo indebitato
Federico Chicchi
Non è oggi giunto il tempo per mollare gli ormeggi? Non è giunto il momento di mettersi in viaggio? “Partire nel mezzo, per il mezzo, entrare e uscire, non cominciare né finire”, per Deleuze, partire significa tracciare una linea, una linea di fuga: e nelle linee di fuga “c’è sempre un tradimento (…), si tradiscono le potenze fisse che vogliono trattenerci”. Occorre svincolarsi dai segmenti che ci trattengono, che hanno il potere di individuarci e di decidere la qualità dei nostri sogni.
Questo “potente” tema deleuziano, attuale più che mai, immersi come siamo nelle piaghe putrefatte della società salariale, mi pare in sintesi la tensione fondamentale che attraversa, dall’inizio alla fine, l’ultimo e formidabile libro di Maurizio Lazzarato Il governo dell’uomo indebitato (DeriveApprodi, 2013).
L’oggetto specifico del tradimento, cui ci invita l’autore, si palesa solo negli ultimi capitoli del volume, ma après-coup fornisce una pragmatica a tutto il volume. Il tradimento da realizzare passa dal rifiuto del lavoro.
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"L’impossibile è il nostro possibile"*
di Elisabetta Teghil
L’accumulazione di informazioni è il processo costitutivo della produzione e riproduzione sociale e, di conseguenza, anche dell’esistenza stessa del femminismo. La lotta per l’informazione è quindi anche una lotta per la nostra liberazione.
La lettura degli avvenimenti storici è il movimento dell’informazione , è il processo di memoria dei collettivi umani, delle formazioni sociali determinate, delle classi, di frazioni di esse e di gruppi specifici.
Pertanto, la facoltà di conservare e accumulare informazioni è un passaggio obbligato per il femminismo. Per questo, l’informazione che è segno, testo, linguaggi, ha sempre un carattere di genere e di classe.
Il femminismo è un sistema di sistemi di segni, di lingue, di scelte e delle loro concrete manifestazioni come testi.
All’origine del femminismo c’è la contraddizione insanabile tra genere e società patriarcale, ma questa non è appiattibile su una generica contraddizione fra i sessi.
Il patriarcato è correlato funzionalmente alla società capitalista e, nella stagione del neoliberismo, questa connessione prevede una specifica modellizzazione della società patriarcale. Ogni sistema modellizzante rispecchia una realtà oggettiva ad esso esterna ed è, di questa , segno ideologico.
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La società del debito
Andrea Sartori
Il debito su cui pare oggi fondarsi la vita degli individui e degli stati – tenuti in scacco da un pugno di oligarchi della finanza – è per un verso un ritorno a un’originaria condizione naturale dell’uomo, per un altro una sua contraffazione. Un pensiero comune alla riflessione antropologica, dall’Oratio de dignitate hominis (1486) di Pico della Mirandola al trattato di antropologia elementare L’uomo (1940) di Arnold Gehlen – passando per il Saggio sull’origine del linguaggio (1772) di Johann G. Herder, e per buona parte del pensiero di Friedrich Nietzsche, di Sigmund Freud e da ultimo di Peter Sloterdijk – individua nell’uomo un essere deficitario, privo di quelle risorse istintuali e di quelle dotazioni morfologiche, che in natura fanno invece la fortuna dell’animale. Proprio in quanto originariamente manchevole di una condotta predeterminata, l’uomo – per riprendere un’idea di Martin Heidegger espressa durante il corso invernale del 19291930 all’Università di Freiburg in Breisgau – dà forma al proprio mondo (Welt), che è pertanto qualitativamente altro dall’ambiente (Um-welt) in cui è costretto a muoversi l’animale, il quale è provvidenzialmente pilotato dall’automatismo dei propri istinti. Essendo già da sempre in debito d’un indirizzo innato a cui volgere le propria esistenza, l’essere umano non può che fare affidamento sulla libertà dell’agire, sull’uso di simboli e di un linguaggio che lo distanzino dalla coazione a ripetere della pulsione immediata, e in definitiva sulla sua autonoma capacità di generare cultura e forme condivise di socialità.
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Ascesa e caduta del modello economico italiano
Stefano Perri
La debolezza dell’economia italiana, resa evidente dalla crisi globale, ha radici lontane e richiede una attenta riflessione sia sull’andamento della domanda aggregata sia sulle caratteristiche strutturali del nostro sistema economico. Come le due lame della forbice di Marshall, anche dal punto di vista macroeconomico questi due aspetti sono interdipendenti: quello che accade alla domanda aggregata influenza le caratteristiche strutturali e viceversa. Qui mi concentro sugli aspetti strutturali[1], legandoli però alla distribuzione del reddito; in quanto segue confronterò i dati stilizzati della nostra economia con quelli della Francia, della Germania, della media dell’area euro a 12 paesi e degli Stati Uniti, questi ultimi considerati come pietra di paragone per le performance dell’economia dei paesi europei.
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L'Italia ha sufficienti risorse culturali per uscire dalla crisi?
di Quarantotto
Mi pare sempre più evidente che ormai l'andamento della crisi sia puramente inerziale. E, per lo stesso motivo, le sue stesse conseguenze si manifestano in modo meccanicistico.
Un moto uniformemente accelerato che non muterà a meno che non intervenga una forza-vettore "esterna", in senso divaricato e con effetti tanto più imprevedibili quanto più tale moto avrà sviluppato la sua crescente forza cinetica.
Facciamo un esempio; parlando con un esponente di una parte politica che non esclude una posizione anti-euro, mi sono imbattuto nella simultanea pervicace idea che tagliando la spesa pubblica, presunta per la maggior parte come "improduttiva" (l'esempio fatto era quello dei 30.000 -?- forestali calabresi), si potevano tagliare le tasse e rilanciare l'economia.
Al che obietto che:
a) tagliare le tasse si può fare anche senza tagliare la spesa pubblica, basta avere la piena sovranità, monetaria e fiscale, conforme a Costituzione;
b) il taglio della spesa pubblica, per effetto del suo moltiplicatore (pressocchè doppio di quello dei tagli dell'imposizione tributaria) è più recessivo e non viene compensato dalla simultanea ed equivalente riduzione fiscale;
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Geopolitica e disinformazione strategica
di Alberto Melotto
In un volume uscito nei primi mesi di quest'anno, Invece della catastrofe, Giulietto Chiesa suggerisce, anzi afferma senza giri di parole, che la lotta di classe è stata esautorata, vanificata d'ogni reale significato, dal fatto che il nemico ha saputo trasportare la battaglia altrove, su un altro livello, in un'altra dimensione.
Ciò significa che da qualche parte alcuni tremebondi soldati stanno ancora attendendo che si diradino la nebbia e il fumo dei cannoni per poter tornare a caricare le spingarde e mirare alla volta delle divise ostili. Attendete di vedere il bianco dei loro occhi!, grida rauco il sergente, col poco fiato che gli rimane. Nel mentre il grande capitale ha aggredito città, preso d'assedio comunità, sventrato e rovinato mari, pianure e montagne.
Si poteva evitare questa capitolazione, l'onta di essere assaliti alle spalle quasi senza colpo ferire? Forse, a patto di riconoscere che la cognizione degli uomini, la loro capacità di discernere la realtà esterna, passa attraverso l'abbeverarsi a quella fontana generosa, multicolore e mai spenta che è la società dello spettacolo. Chi controlla quei canali di immissione di contenuti fittizi può formare come morbida argilla la coscienza di interi popoli.
Il volume del quale vogliamo raccontare è il primo di una trilogia dedicata a questa volgare truffa, a questo insistito inganno. L'autore, Paolo Borgognone, tratteggia in questa prima parte i tratti che contraddistinguono il fenomeno nel suo insieme e passa poi ad analizzare la situazione del continente latino-americano.
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J’accuse! L’Europa è morta il 22 settembre
Lelio Demichelis
J’accuse! Ma a differenza di Zola – che si rivolgeva al presidente francese – noi non possiamo rivolgerci a presidenti come Barroso, Angela Merkel o Mario Draghi, perché non sono super partes come poteva essere Félix Faure ma anzi, e peggio, sono loro gli autori diretti di un’autentica e deliberata ingiustizia.
Di più: di un autentico crimine economico e sociale (oltre che intellettuale) compiuto contro l’Europa come ideale e contro l’umanità di milioni di europei oggi impoveriti e con aspettative di qualità della vita (individuale e sociale, politica ed economica) drammaticamente decrescenti. Tutto questo mentre vi erano (e vi sono) alternative decisamente migliori rispetto alle politiche (antipolitiche e antisociali) fin qui adottate dall’Europa. E se non sono state adottate, è perché l’ideologia ha prevalso sull’intelligenza. Il crimine – da loro compiuto con ostinatissima determinazione e ideologica premeditazione (con dolo) – è di aver fatto morire ancora di più l’Europa (che già non stava troppo bene) e i suoi valori di solidarietà, socialità, uguaglianza, libertà e fraternità, e di ricerca di un virtuoso essere-in-comune.
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Anche Marx bloccherebbe le strade
Piccola nota sul 9 dicembre
Davide Grasso
“Bottegai, mercatari, negozianti, partite Iva”: a questo la manifestazione Fermiamo l’Italia iniziata il 9 dicembre si ridurrebbe, secondo alcuni, nonostante tanto nell’hinterland milanese quanto a Torino (come ho potuto vedere di persona) da lunedì si sia espressa una partecipazione molto più complessa, in cui hanno avuto presenza molto forte i giovani, anche se di sicuro non i “soliti” giovani, e sia quelli che vanno a scuola che quelli che non ci vanno. Il fattore di aggregazione di questi ragazzi ha avuto origine fuori dai canali politici cui si era abituati: è stato puramente e squisitamente urbano e, accanto a mille differenze, questo è un fattore simile a ciò che in passato è accaduto nelle rivolte metropolitane francesi e inglesi. Il montare dell’adesione alla protesta si è collocato, nelle settimane precedenti il 9, negli epicentri della socialità metropolitana socialmente oppressa: lo stadio da un lato, le periferie dall’altro. Le curve sono da decenni luogo di sedimentazione di amicizie, relazioni, culture e pratiche organizzative (per quanto, naturalmente, disprezzate da chi nulla sa di esse), e il loro ruolo è echeggiato anche nella ritmica e nello stile dei cori contro i politici che hanno animato le piazze. Il quartiere, soprattutto periferico, un tempo roccaforte di una sinistra che da molti anni ha preferito trasferirsi tra le banche e i palazzi, è il luogo dove variegati frammenti di “popolo” condividono l’orizzonte quotidiano e, nella percezione diffusa, sopravvive la veracità e la sincerità dei rapporti umani, improntati al bene come al male.
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L’invisibile popolo dei nuovi poveri
di Marco Revelli
Torino è stata l’epicentro della cosiddetta “rivolta dei forconi”, almeno fino o ieri. Torino è anche la mia città. Così sono uscito di casa e sono andato a cercarla, la rivolta, perché come diceva il protagonista di un vecchio film, degli anni ’70, ambientato al tempo della rivoluzione francese, «se ‘un si va, ‘un si vede…». Bene, devo dirlo sinceramente: quello che ho visto, al primo colpo d’occhio, non mi è sembrata una massa di fascisti. E nemmeno di teppisti di qualche clan sportivo. E nemmeno di mafiosi o camorristi, o di evasori impuniti.
La prima impressione, superficiale, epidermica, fisiognomica – il colore e la foggia dei vestiti, l’espressione dei visi, il modo di muoversi -, è stata quella di una massa di poveri. Forse meglio: di “impoveriti”. Le tante facce della povertà, oggi. Soprattutto di quella nuova. Potremmo dire del ceto medio impoverito: gli indebitati, gli esodati, i falliti o sull’orlo del fallimento, piccoli commercianti strangolati dalle ingiunzioni a rientrare dallo scoperto, o già costretti alla chiusura, artigiani con le cartelle di equitalia e il fido tagliato, autotrasportatori, “padroncini”, con l’assicurazione in scadenza e senza i soldi per pagarla, disoccupati di lungo o di breve corso, ex muratori, ex manovali, ex impiegati, ex magazzinieri, ex titolari di partite iva divenute insostenibili, precari non rinnovati per la riforma Fornero, lavoratori a termine senza più termini, espulsi dai cantieri edili fermi, o dalle boîte chiuse.
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“Siamo un po’ più uguali ai movimenti globali"
Guido Viale
So ben poco, oltre a quanto ciascuno di noi può desumere da foto, filmati, reportage e commenti pubblicati da giornali e internet in questi giorni, o da qualche incontro fortuito, sul movimento “Fermiamo l’Italia” ovvero “9 dicembre”; ma non mi sento per questo in una condizione molto diversa da altri commentatori, perché tutti sono (siamo) stati presi alla sprovvista.
Questa è una rivolta, covata, ma anche preparata e cresciuta per più di un anno, fuori dal cono di luce dei media. Quanto scrivo non ha quindi la pretesa di un’analisi di questo movimento. E’ solo un modesto tentativo di aprire una discussione con qualche lettore di un’area politica e culturale a cui di fatto appartengo, anche se ne condivido sempre meno perimetro e impostazioni.
Innanzitutto, non chiamiamoli “Forconi”. Forconi è il simbolo delle jacqueries di un tempo – un arnese peraltro un po’ attempato, come lo sono la falce e il martello – ovvero la sigla di una delle componenti di questo movimento. La maggior parte dei coloro che partecipano al movimento l’hanno chiamato – e non a caso — “Fermiamo l’Italia” o “9 dicembre”. Rispettiamone la volontà.
Per mesi si è svolto su riviste e blog di sinistra un dibattito sul perché in Italia non ci siano stati movimenti di piazza analoghi a quelli di Grecia, Spagna o Stati uniti, nonostante il nostro paese sia uno tra i più colpiti dalla crisi, dall’economia del debito e dal malgoverno.
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Talking Dead
di Sandro Moiso
“Noi riteniamo che sono per se stesse evidenti queste verità: che tutti gli uomini sono creati eguali; che essi sono dal Creatore dotati di certi inalienabili diritti, che tra questi diritti sono la Vita, la Libertà, e il perseguimento della Felicità; che per garantire questi diritti sono istituiti tra gli uomini governi che derivano i loro giusti poteri dal consenso dei governati; che ogni qualvolta una qualsiasi forma di governo tende a negare questi fini, il popolo ha diritto di mutarla o abolirla e di istituire un nuovo governo fondato su tali principi e di organizzarne i poteri nella forma che sembri al popolo meglio atta a procurare la sua Sicurezza e la sua Felicità”.1
Non siamo stati noi a suggerirglielo. Hanno fatto tutto da soli.
Speravano di prolungare la vita dei morti al governo scoraggiando legalmente le arruffate speranze elettoralistiche grilline e renziane. Speravano nell’ennesimo, pirandelliano gioco delle parti. Invece si sono dati una bella zappata sui piedi. Diciamolo pure: se li sono proprio amputati. La Consulta lo ha detto elegantemente: “Il Porcellum ( legge n. 270 del 21 dicembre 2005, altrimenti detta “legge Calderoli”) è una legge incostituzionale!”
E anche se il dubbio che dietro alla decisione della Consulta vi sia anche qualche fibrillazione dei partiti maggiormente propensi ai possibili “inciuci” legati al sistema proporzionale sia più che legittimo, ciò non toglie che Pietro Alberto Capotosti, presidente emerito della Corte costituzionale, in un’intervista abbia potuto dichiarare: “Dal giorno dopo la pubblicazione della sentenza questo Parlamento è esautorato perché eletto in base a una legge dichiarata incostituzionale”.
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I nodi vengono al pettine
I “Forconi” a Torino
di Salvatore Cominu
In questa settimana, le manifestazioni e i blocchi attuati dal cd. “movimento dei forconi” sta interessando un po’ tutta l’Italia. Partendo dall’esperienza di Torino, Salvatore Cominu analizza il fenomeno in atto, anche alla luce di alcune preoccupazioni relative alle possibili infiltrazioni di estrema destra. Si tratta di impressioni a caldo: la situazione è in continua evoluzione e per analisi più compiute servirà più tempo. Ma cominciamo a ragionarci.
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Quanto sta accadendo in questi giorni (soprattutto a Torino e nel Ponente Ligure, altrove per caratteristiche e intensità la mobilitazione dei “forconi” si presta ad altre valutazioni) è troppo importante e complesso per essere liquidato con poche battute impressionistiche. Peraltro molte/i compagne/i hanno seguito in modo continuo la situazione ed è soprattutto alle loro analisi che mi sento di fare riferimento, oltre che ad alcune impressioni dirette che mi sono fatto seguendo per un po’ di tempo uno dei blocchi stradali in città e parlando con conoscenti vari.
Molti dei nodi di cui abbiamo discusso in questi anni stiano venendo al pettine.
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