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Genova per noi
Lotte operaie, organizzazione di massa, soggettività politica
Collettivo Noi saremo tutto Genova
Pubblichiamo di seguito una cronaca ed un’analisi del Collettivo Noi saremo Tutto di Genova sulle “cinque giornate” di lotta dei ferrotramvieri del capoluogo ligure.
Per cinque giorni a Genova, il trasporto pubblico cittadino è stato bloccato dall’iniziativa autonoma degli operai AMT. Ciò ha obbligato sia i sindacati di regime, il cui peso all’interno dell’azienda è ridotto all’osso, sia il “sindacato autonomo” a cavalcare la tigre della rabbia operaia. Sabato mattina, dopo una votazione farsa, lo sciopero è terminato sancendo, di fatto, una tregua armata. Al momento non ci sono né vinti, né vincitori. Una situazione di stallo che lascia aperte diverse prospettive. Questa lotta non si è limitata a questo, poiché da un lato ha assunto una valenza nazionale in relazione ai nodi del trasporto pubblico, dall’altro, ed è l’aspetto preponderante, ha indicato i non improbabili scenari che il conflitto capitale/lavoro salariato potrebbe riservare di qui a poco. Tutto ciò contribuisce non poco, sul piano del dibattito politico complessivo, a ricalibrare intorno alla centralità del lavoro operaio e subordinato i limiti e le genericità emersi dentro le giornate romane del 18 e 19 ottobre.
Nelle “giornate genovesi” si è ampiamente evidenziato come la reale posta in palio delle politiche governative sia la messa in mora della legittimità politica, sociale e sindacale dei lavoratori e la loro riduzione a puro e semplice capitale variabile. Semplici accessori dei processi di valorizzazione ai quali deve essere inibita ogni forma di esistenza e resistenza pubblica e collettiva.
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Crisi finanziaria e capitalismo cognitivo
D. G. Lassere intervista Yann Moulier-Boutang
La crisi che scuote il mondo intero da cinque anni pare non voglia calmarsi. Il discorso convenzionale pone sul banco degli accusati la separazione progressiva tra una cosiddetta economia reale, buona e produttiva, e una finanza semplicemente parassitaria, tagliata fuori da ogni connessione col mondo concreto. Da parte tua, sebbene non sottostimi per nulla il dominio e il ricatto esercitati dai mercati e dagli operatori finanziari, rifiuti ogni distinzione così netta. Pertanto, ritieni che non ci si possa più limitare a invocare un fantasmagorico ritorno al reale. Potresti spiegare perché le cose non son così semplici come sembrano?
In effetti bisogna distinguere la parte finanziaria dell’economia reale, dalla parte non finanziaria dell’economia reale. Entrambe sono pienamente reali. Del credito, che è la sostanza della moneta la cui forma consiste nella più o meno grande liquidità o esigibilità (le famose forme della massa monetaria M1, M2, M3), genera immediatamente delle possibilità d’investimento, dei salari, degli acquisti di beni e servizi, degli impieghi. Ciò che succede è che la parte finanziaria dell’economia reale diventa via via più gigantesca a mano a mano che l’economia diventa più complessa, e che si accrescono l’interdipendenza e la mutualizzazione degli impegni contrattuali o legali e regolamentari. Per 150 miliardi di dollari quotidiani di PIL mondiale e altrettanto di commercio di beni, si hanno 1500 miliardi di transazioni che coprono il rischio di cambio e 3700 miliardi di transazioni su delle promesse concernenti il futuro, i famosi prodotti derivati.
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Rivalutazione delle quote di Banca d'Italia
La più grande truffa del secolo
Piero Valerio
Ad un certo punto bisogna chiamare le cose con il loro nome: sarò pure un “populista” (e confermo di esserlo con grande orgoglio ed immenso disprezzo per chi cerca di denigrare coloro che fanno attività politica a favore dei “popoli” e non ad esclusivo beneficio di ristrette “èlite oligarchiche”), “arruffapopoli”, “masaniello dei poveri”, ma quello che sta avvenendo oggi in Italia non può essere definito diversamente da “crimine contro la nazione”, “alto tradimento”, “saccheggio”, “vandalismo istituzionale ed istituzionalizzato”. Ho sempre guardato con sospetto quei movimenti detti “signoraggisti” che vedono esclusivamente nella proprietà del denaro l’unico strumento per ridare dignità ai popoli, perché credo fortemente che non sia tanto la proprietà del denaro la vera discriminante fra una democrazia compiuta e una dittatura di fatto, quanto l’utilizzo che viene fatto del denaro e della politica monetaria in genere. Una banca centrale può essere pure privata, ma se poi le sue scelte di politica monetaria vengono subordinate alle direttive che arrivano dal governo democraticamente eletto e indirizzate al benessere dell’intero paese, a me può stare pure bene che qualche “grasso banchiere privato” si ingozzi con le “briciole del signoraggio”. Ma qui in Italia abbiamo abbondantemente sorpassato ogni limite di decenza, dando persino adito alle inutili rivendicazioni dei “signoraggisti”.
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Il debito porta scompiglio nei fan di Monti e Letta
di Guido Viale
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Queste parole di Eugenio Scalfari (Repubblica, 1-12) segnano, se prese sul serio, una svolta radicale nella linea politica di questo giornale che dal giorno della "salita" al governo prima di Monti e poi di Letta è stato, al livello delle opinioni che contano, il principale puntello di quei due governi e dei relativi presidenti del consiglio, che hanno fatto dell'accettazione incondizionata dei diktat economico-finanziari di Germania, Bce e Unione europea la ragione della loro esistenza e legittimazione. Massacrando la popolazione che avrebbero dovuto guidare fuori dalla crisi, rivelandosi tanto ridicoli quanto inetti (con il dramma degli esodati il primo, la farsa dell'Imu il secondo...).
Ora Scalfari ci spiega una cosa che già sa uno studente del primo anno di economia o un bancario a inizio carriera: quando il debito è consistente, il coltello dalla parte del manico (la «spada di Brenno») ce l'ha il debitore e non il creditore.
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Freedom not Frontex
I migranti, i rifugiati e la loro lotta per la libertà globale di movimento
di Hagen Kopp – Kein mensch ist illegal, Hanau*
Il contributo che pubblichiamo è la versione fortemente rivista e aggiornata di un articolo pubblicato nel maggio 2013 in Forum Wissenschaft. La ricostruzione di alcune vicende degli ultimi mesi, così come delle campagne che cercano di opporsi alle condizioni che le hanno prodotte, mettono in evidenza il carattere immediatamente politico delle migrazioni. Il numero agghiacciante dei morti, l’indifferenza istituzionale, la miseria amministrativa, il razzismo esplicito e latente, la sopraffazione quotidiana esercitata sui confini e dentro a ogni Stato, non stabiliscono i contorni di una questione umanitaria. Esse sono l’esito di un inesauribile e insopprimibile desiderio di libertà che ottiene come risposta una deprivazione dei diritti. Quest’ultima, tuttavia, non è una lacuna giuridica, ma lo strumento politico per costruire soggetti che dovrebbero accettare come inevitabile e naturale la loro totale assenza di potere. I movimenti dei migranti rivelano invece lo scontro tra un potere mobile e disordinato e una repressione violenta e ottusa. Questo scontro si estende ben oltre la situazione dei rifugiati, ma investe l’intera condizione dei migranti, quotidianamente presi tra il potere della loro libertà e lo sfruttamento e il razzismo istituzionale.
«Niente impronte digitali».
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Sul concetto di miseria sociale e sui proudhoniani 2.0
Sebastiano Isaia
1. Sul concetto di miseria sociale
Il lavoro-merce è una tremenda verità (1).
Il lavoro salariato come suprema maledizione sociale toccata in sorte al moderno proletariato è il punto di partenza (la tetragona premessa teorica e politica) della mia riflessione intorno alle rivendicazioni “economiche” dei lavoratori.
Qui per moderno proletariato intendo la marxiana «razza dei salariati» che fu brutalmente separata dalle condizioni materiali della propria esistenza («mezzi di sussistenza e mezzi di produzione») dal Capitale nel suo momento genetico, e che, in ragione di ciò, vede i suoi sfortunati membri nella necessità di vendere capacità fisiche e intellettuali (qui una distinzione puramente formale) in cambio di un salario. A tutti gli effetti, una razza maledetta. Oggi come e più di prima. «La separazione si estende fino al punto che quelle condizioni oggettive del lavoro si oppongono al lavoratore come persone autonome, perché il capitalista, in quanto proprietario di questa condizione, si oppone solo come loro personificazione all’operaio che è il semplice possessore di capacità lavorativa. Questa separazione e autonomizzazione sono la premessa alla realizzazione della compra-vendita della capacità lavorativa» (2).
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Il ritorno della dialettica
Recenti letture del Primo libro del Capitale a firma di Harvey e Jameson
Marco Gatto
1. Pur tenendo conto dell’imprescindibile differenza tra i due approcci al testo, le interpretazioni che David Harvey e Fredric Jameson hanno recentemente offerto del primo volume di Das Kapital condividono molto più di quanto si creda[1]. Non solo perché i due studiosi americani incarnano differenti figure intellettuali: Harvey si definisce da sempre geografo e urbanista e il suo interesse filosofico, seppure solo in apparenza periferico, è spesso spostato in un secondo piano; Jameson è un teorico della cultura (e della letteratura, in particolare) sensibile alla lezione di Lukács e della Scuola di Francoforte (con una predilezione spiccata per Adorno), e ha provato, nel corso della sua esperienza filosofica, a importare nel contesto americano, a lungo egemonizzato dall’empirismo, la tradizione dialettica europea. Tuttavia, l’uno e l’altro si inseriscono a pieno titolo in un campo marxista: probabilmente Jameson con maggiore ed esibita insistenza. Se il marxismo di Harvey nasce dall’esigenza di «rivendicare che sia sul terreno dell’analisi della crisi e delle “contraddizioni” del capitalismo che debba essere verificata la validità teorica»[2] della critica di Marx al modo di produzione capitalistico, collocandosi dunque in un ambito di demistificazione dell’economia politica e di teorizzazione della nuova spazialità finanziaria, il marxismo di Jameson è invece legato a doppio filo al cosiddetto “marxismo occidentale” (secondo l’etichetta messa in campo da Perry Anderson)[3], ossia a quella costellazione di pensatori e teorici della cultura che, nel corso del Novecento, avrebbero condotto l’eredità di Marx verso una dissoluzione del nesso “teoria-prassi” e lungo i binari di una coesistenza, forzata ma sentita come inevitabile, con altri saperi e altri codici interpretativi, decretando l’inizio di una perdurante passività politica e di un’inevitabile impotenza rivoluzionaria[4].
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MES: il metodo e la follia
Mauro Poggi
In un recente storify Claudio Borghi rammenta, con giustificata irritazione, l’esistenza di un’entità europea chiamata MES.
A dire il vero non sono sicuro che il verbo “rammentare” sia l’espressione più adeguata: si può rammentare solo qualcosa che già si conosce, e il MES – per la maggior parte di noi – è solo uno dei tanti acronimi di cui l’Europa è prodiga e di cui si ignora il significato. Insieme a LTRO, LFSF, Fiscal-compact, Two-packs, Eurogendfor e altri ancora, è solo uno dei tanti lemmi della neo-lingua europea, bizzarrie tecno-burocratiche, complicate ma in apparenza sostanzialmente innocue, davanti a cui il cittadino medio si ritrae pigramente, convinto che le cose importanti sono altrove. Una convinzione che i media assecondano con zelo, e contro la quale si levano solo le voci del web, che per loro natura non possono mai arrivare al “grande pubblico”.
Probabilmente “Fondo salva-stati” suonerebbe più familiare, ma il lodevole scopo che l’espressione sottintende è tale da indurre chiunque a darlo per assodato e a non indagare oltre. A chi non sta bene che gli stati vengano salvati?
Riepilogo allora per i più distratti.
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Andare oltre
di Sandro Moiso
A distanza di un mese dalla manifestazione nazionale del 19 ottobre a Roma, sabato 16 novembre si sono tenute due manifestazioni che per contenuti, modalità, composizione sociale e partecipazione ne hanno ripetuto i fasti ampliandone la portata e il significato politico.
Nonostante, infatti, il tentativo da parte dei media di tenere separate la manifestazione di Napoli, contro l’inquinamento camorristico e l’avvelenamento istituzionale del territorio, da quella di Susa, contro il TAV, non vi può essere alcun dubbio che le due manifestazioni fossero tra loro strettamente correlate.
Decine di migliaia di persone, molte di più di quelle già presenti a Roma, hanno finito col ritrovarsi unite in due manifestazioni che di fatto hanno delegittimato l’attuale sistema economico-politico e il regime consociativo (Destra, Sinistra, Mafie, Banche) che ne “giustifica” l’esistenza.
Le ragioni della lotta NoTAV sono state ripetutamente e frequentemente esposte qui su Carmilla e per una volta non vale la pena di tornarci sopra, ma sono stati i contenuti della manifestazione napoletana a far, letteralmente e chiaramente, saltare il banco politico.
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Reddito di povertà
di Andrea Fumagalli
26 novembre 2013: una news fa scalpore tra i media italiani. In Italia è stato introdotto il reddito minimo garantito! Colpo di scena! “Prove di reddito minimo”, titola Repubblica festante. “Spunta il reddito minimo” risponde il Corriere della Sera. Ma è vero? Pas du tout. Quello che è stato introdotto (solo in via sperimentale per tre anni), nel maxi emendamento che dovrebbe essere votato con la fiducia per approvare la legge di stabilità 2014, è in realtà un miserevole reddito parziale, selettivo, di povertà. E non può essere altrimenbti, visto che sono sati stanziati 40 milioni (meno che per la Social Card) e la sua attuazone vale solo per 12 aree metropolitane. Ancora una volta in Itala parlare di reddito di base come misura non selettiva per consentire la fuoriuscta dalla povertà e favorire il diritto di scelta di via e di lavoro è un vero e proprio tabù.
* * * * *
In Italia qualunque intervento di sostegno diretto al reddito incontra, come ben sappiamo, notevoli difficoltà, in primo luogo culturali. Nonostante il tasso di attività nel nostro Paese sia tra i più bassi a livello europeo, resta radicata un’etica del lavoro di calvinistica memoria, che considera immorale qualunque sostegno al reddito slegato dall’obbligo di una prestazione lavorativa.
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Anzola è il mondo?
Alcuni/e compagni/e
A mo’ di introduzione

Le note che seguono non hanno alcun intento normativo, né si propongono di illustrare esaustivamente il percorso, peraltro ancora in divenire, delle lotte operaie nel settore della logistica; piuttosto si vorrebbe proporre una chiave di lettura altra per inquadrare la situazione attuale delle lotte rivendicative in Italia, ed anche al di là dei confini italiani. Le lotte dei facchini della logistica hanno dato modo di sognare o, per meglio dire, di fantasticare a molti. Esse hanno permesso agli sparuti nostalgici del Gran Partito e dei ranghi compatti della classe operaia, di menare innanzi i loro sogni di ricomposizione, e hanno egualmente dato modo ad un ceto politico neo-sindacale e “movimentista” di rifarsi momentaneamente un'innocenza da tempo perduta. I primi hanno dovuto cedere alla delusione un po' ovunque. La particolarità di Anzola è che anche i secondi se la sono vista brutta. Quanto ai facchini – i famosi diretti interessati, quelli che hanno lottato per davvero e ci hanno messo la faccia e la pellaccia –, loro sono usciti dalla lotta abbastanza malridotti. Dal paragone con altre esperienze nel settore della logistica, possiamo comunque affermare che ci siano assonanze nei percorsi, nonché epiloghi simili al caso di cui trattiamo qui.
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Slavoj Žižek pensatore pericoloso?
Diego Fusaro
Domenica 1 dicembre, il filosofo Slavoj Žižek è stato ospite della trasmissione “Che tempo che fa” diretta da Fabio Fazio. Non è interessante, in questa sede, discutere della trasmissione in quanto tale, su cui peraltro già vi sarebbe molto da dire. La trasmissione di Fazio è, in estrema sintesi, l’equivalente televisivo del quotidiano “La Repubblica”, il luogo della riproduzione del politicamente corretto e dell’ideologia di legittimazione dell’esistente.
Certo, si tratta di un fatto hegelianamente noto, ma non conosciuto: ma non è di questo che intendo occuparmi, né di come la trasmissione di Fazio svolga la funzione di rassicurazione ideologica per la gente semicolta del ceto della sinistra politicamente corretta, antiborghese e ultracapitalista, nemica di ogni possibile formazione ideologica in grado di opporsi al capitale dominante.
E, tuttavia, occorre partire dal fatto che, nel rassicurante e comodo salotto della trasmissione di Fazio, vengono sempre e solo invitati ospiti organici a quella cultura. Perché, dunque, invitare il filosofo irregolare Slavoj Žižek, colui che mai ha rinnegato il nome di Marx e che, in tempi recenti, ha addirittura preteso di riabilitare Hegel, l’autore più dissonante in assoluto rispetto all’ordine della globalizzazione trionfante (si veda, a questo proposito, l’ultimo lavoro di Žižek, Meno di niente, Ponte Alle Grazie 2013)?
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L’unificazione della Germania ed il futuro dell’Europa
di Francesco Maringiò
In questo libro Vladimiro Giacché ripercorre tutta la storia della così detta unificazione tedesca, illuminando di luce diversa una vicenda storica, per anni raccontata attraverso letture apologetiche e funzionali ed un processo politico di cancellazione della RDT ed integrazione della stessa nel capitalismo tedesco occidentale. Ma nel raccontare nel dettaglio questa storia, il libro impone una riflessione critica ed una lettura diversa dei processi di integrazione europea. Un interessante contributo storiografico e di analisi dei processi politici dei giorni nostri.
(Morpheus in: Matrix, 1999, regia di Lana e Andy Wachowski).
Dovrebbe iniziare pressappoco in questo modo la premessa dell’ultima fatica di Vladimiro Giacché [Anschluss - L’Annessione, L’unificazione della Germania e il futuro dell’Europa; 2013, Imprimatur Editore, 304 pagg., 18 €] che ha, tra gli altri, il pregio di fare luce su una delle vicende più importanti della recente storia europea e sulla quale si è costruito ad hoc un mito ed una accurata narrazione, centrata sulla storia dell’unificazione della Germania, motore dell’unificazione del popolo tedesco e della fine della guerra fredda.
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Il comune senso del pudore
di Franco Senia
Nel suo ultimo saggio, pubblicato nel mese di marzo di quest'anno, "Les mystères de la gauche" (I misteri della sinistra), con il sottotitolo "dall'illuminismo al trionfo del capitalismo assoluto”, Jean-Claude Michéa riprende la formula di Castoriadis secondo cui "è da molto tempo che il divario fra la destra e la sinistra, in Francia come altrove, non corrisponde più né ai grandi problemi del nostro tempo né a delle scelte politiche radicalmente opposte." Una valutazione assolutamente banale che però non sembra poi così condivisa a sinistra. Precisa l'autore, che il suo saggio trae origine da uno scambio epistolare con un militante del PCF/Front de gauche per il quale solo "la sempre più crescente indignazione della gente comune" (Orwell) nei confronti di una società sempre più amorale, ineguale ed alienante, può essere la cifra esclusiva della sinistra.
Ragion per cui, non sembra inutile a Michéa ricordare, fin dalle prime pagine - e sotto forma di invito a valutare la cosa -, che "né Marx né Engels si sono mai sognati, nemmeno una sola volta, di definirsi come uomini di sinistra"; aggiungendo inoltre che quando sono arrivati a fare uso di un tal genere di terminologia, per loro "la destra designa l'insieme dei partiti che rappresentano l'interesse (a volte contraddittorio) della vecchia aristocrazia terriera e della gerarchia cattolica.
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La nuova ragione del mondo
Il neoliberismo come forma di vita
di Pierre Dardot e Christian Laval
[Esce in questi giorni per DeriveApprodi l'edizione italiana di La nuova ragione del mondo. Critica della razionalità neoliberista di Pierre Dardot e Christian Laval, un libro importante nel dibattito sul neoliberismo contemporaneo. Il libro di Dardot e Laval è una vera «genealogia del presente», scrive Paolo Napoli nella prefazione all'edizione italiana, un tentativo di spiegare come le società contemporanee siano diventate ciò che sono. Per Dardot e Laval il neoliberismo non è solo un'ideologia o una politica economica: è innanzitutto una forma di vita, una nuova razionalità pervasiva che struttura l'identità individuale e i rapporti sociali, imponendo a tutti di vivere in un universo di competizione generalizzata, di concorrenza mercantile, di governamentalità diffusa. Presentiamo alcune pagine del capitolo finale].
La fine della democrazia liberale
Quali sono gli aspetti fondamentali che caratterizzano la ragione neoliberista? Alla fine di questo studio, possiamo identificarne quattro.
Primo, al contrario di quello che affermano gli economisti classici, il mercato non è un dato naturale ma una realtà costruita, che come tale richiede l’intervento attivo dello Stato e la realizzazione di un sistema di diritto specifico. In questo senso, il discorso neoliberista non è direttamente connesso con un’ontologia dell’ordine commerciale. Perché lungi dal cercare la propria legittimazione in un certo «corso naturale delle cose», esso assume deliberatamente e apertamente il proprio carattere di «progetto costruttivista»[1].
Secondo, l’essenza dell’ordine di mercato non sta nello scambio, ma nella concorrenza, definita essa stessa come rapporto di disparità tra unità di produzione distinte, o «imprese». Costruire il mercato implica di conseguenza la generalizzazione della concorrenza come norma delle pratiche economiche[2].
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Ma che cos'è questa crisi
di Marcello De Cecco
Da dove origina e dove rischia di condurci la crisi che da sei anni affligge i principali paesi sviluppati? Che cosa accadrà dell'Europa e dell'euro? Pubblichiamo l'introduzione dell'ultimo libro di Marcello De Cecco, Ma che cos'è questa crisi, edito da Donzelli
La crisi affligge da sei anni i principali paesi sviluppati. Essa ha colpito il cuore dell’economia mondiale dopo avere investito, nel 1997-98, i paesi emergenti, specie quelli asiatici. Ora, secondo tradizione, pare voler abbracciare nella sua stretta mortale anche loro, che nell’attuale convulsione sembravano essere stati risparmiati e mostrare anzi un’invidiabile capacità di crescere e prosperare, malgrado le traversie del centro.
Da questa enorme convulsione l’economia ma anche gli assetti politici mondiali usciranno completamente cambiati. Non sappiamo cosa accadrà dell’Europa e dell’euro e nemmeno sappiamo quanto del cosiddetto modello europeo di organizzazione economica e politica sopravvivrà. Sappiamo che gli equilibri mondiali ne usciranno profondamente mutati, con l’ascesa che sembra inarrestabile della Cina e con il certo declino relativo dei paesi del centro: Europa, Stati Uniti e Giappone.
Che una grande crisi si stesse scatenando si poteva prevedere certamente nel 2007. Affermai che eravamo alla vigilia di un enorme sommovimento mondiale, nel maggio di quell’anno, a conclusione di una lezione che tenni all’Università di Waterloo, in Canada. C’era già stata qualche avvisaglia nelle difficoltà annunciate in febbraio da un paio di istituzioni finanziarie americane, che dichiaravano di avere problemi nel settore dei mutui subprime, una categoria della quale tutti sarebbero venuti a conoscenza di lì a qualche mese, ma che suonava ancora assolutamente sconosciuta ai non addetti ai lavori e anche a parecchi degli addetti.
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Per il buon uso dell'intelletto
Alcuni presenti e futuri lavoratori e lavoratrici dell'intelletto
Se c'è qualcosa che caratterizza drammaticamente questi tempi di "crisi" è il paradosso per cui ad un dilagare di povertà, all'emergere di nuovi (o al riemergere di vecchi) problemi sanitari ed ambientali, si accompagna una immane capacità tecnologica e scientifica inutilizzata – tra macchinari e laboratori inutilizzabili perché non profittevoli o in diicoltà finanziarie, ed intelligenze lasciate a riempire le fila dell'esercito di disoccupati.
Governi "tecnici" e tecnocrati di mezzo mondo ci assicurano che tanto l'origine quanto la soluzione del problema sia a sua volta tecnico-scientifica. La loro scienza economica, che promette di rimediare agli "errori" che ha finora giustificato, ci vorrebbe assicurare il modo in cui far ripartire la crescita. Con questa si riassorbirebbe la manodopera in eccesso, i mezzi di produzione tornerebbero in funzione, e soprattutto ripartirebbe il ciclo di innovazioni che può salvarci dalle catastrofi naturali, anche questa volta promettendo di non ripetere gli errori del passato.
Perché degli effetti controproducenti del sapere e delle applicazioni tecnico-scientifiche ne è piena la storia, anche quella recente: dai pesticidi che, colpendo tanto i propri bersagli dichiarati quanto i loro predatori, son finiti per far proliferare gli agenti infestanti, ai fertilizzanti che hanno finito per erodere la fertilità del suolo;
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Clic! Grillo, Casaleggio & co.
Dialogo con Alessandro Dal Lago
di Jacopo Guerriero
A partire da un’ evidenza: la democrazia è reversibile – e impone fatica e non è mai risolta. Apprezzabile è dunque il pensiero politico volenteroso di non mettersi in gabbia –neppure la rivoluzione è scienza, del resto. Pensando ai nostri giorni, Hanna Arendt lo diceva in modo differente e certo più profondo: «il problema delle moderne teorie del comportamento non è che esse siano sbagliate, ma che potrebbero diventare vere». Forse, allora, va in questa direzione anche Alessandro Dal Lago, sociologo (anomalo nella sinistra italiana, lo definiscono i giornali), che ha scritto un nuovo libro: Clic! (Cronopio, Napoli 2013). Critica radicale di un soggetto politico –del M5S, del grillismo, dell’ascesa dei nuovi imprenditori della politica Grillo & Casaleggio. Giova chiedersi da che parte sta, dove si schiera? Per niente, si perderebbe un occasione. Serve invece leggere questo testo – interrogarlo- ovvero farci un pezzo di strada: per capire slittamenti del pensiero comune, banalità e sottomissioni che dettano il nostro presente. Grillo – la sua attitudine a incrociare e risolvere contraddizioni; il suo amore per le retoriche della rete, il suo corpo gettato nella lotta politica; la lunare visione del mondo del suo socio Gian Roberto Casaleggio – è forse solo un sintomo: del presente e del suo piccolo borghese desiderio di palingenesi.
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Ma è possibile uscire dall'euro e adottare in Italia
le politiche della Modern Monetary Theory?
by Elido Fazi
Ringrazio Ricky che mi ha segnalato il manifesto “Non Eravamo i PIIGS. Torneremo Italia”. Il documento, preparato dagli economisti Warren Mosler (uno dei più conosciuti fautori della Moderna Teoria Monetaria), Mathew Forstater, Alain Parguez e il giornalista eretico italiano Paolo Barnard, propone un ritorno unilaterale dell’Italia alla lira e una messa in pratica nel nostro paese delle tesi della scuola economica che si rifà alla Modern Monetary Theory (MMT). Dirigo, insieme al teologo Vito Mancuso, una collana di teologia che si chiama “Campo dei Fiori” in onore di Giordano Bruno. Ho simpatia per gli eretici come Barnard, anche se su molti punti, alcuni cruciali, non sono d’accordo con lui. Ma devo riconoscergli che, al contrario di molti altri, lui cerca di andare oltre i soliti conformistici articoli sulla crisi che leggiamo troppo spesso sui giornali italiani (e anche su quelli stranieri).
Poiché la tesi dell’uscita della lira dall’Euro è legata alle teorie della Moderna Teoria Monetaria, bisogna cercare di capire che cos’è quest’ultima, portata avanti soprattutto dalla sinistra del Partito Democratico americano (tra i suoi più accesi sostenitori c’è l’economista James K. Galbraith, docente di Scienza delle Finanze all’università del Texas, figlio del celebre economista John Kenneth Galbraith, il più grande studioso della crisi del ’29, consigliere, non si sa se ascoltato o meno, di Barack Obama).
Essendo una teoria propugnata da quella parte della sinistra americana che si è battuta affinché fosse eletta Janet Yellen alla guida della Federal Reserve (a proposito, c’è qualcuno che ha capito il sacro mistero del perché Obama preferisse Lawrence Summers, noto trafficante di Wall Street, consulente di hedge fund, ispiratore della nefasta politica di deregulation sotto la presidenza Clinton, alla Yellen, che ha sempre lavorato nel pubblico e a Wall Street non ha mai messo piede?),
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La Teologia del denaro di Walter Benjamin: il debito
di Mario Pezzella
1. In un frammento del 1921, Il capitalismo come religione[1], Walter Benjamin ha messo in rilievo in che misura il debito sia diventato l’oggetto di culto di una vera e propria teologia del danaro, che ha sostituito in larga misura la “teologia politica”. Benjamin radicalizza le idee di Weber sul rapporto tra modo di produzione capitalista e cristianesimo. Se per Weber il capitale nella sua forma moderna è stimolato dalla concezione calvinista della grazia e del peccato e poi procede alla sua secolarizzazione profana, per Benjamin è esso stesso religione: priva di dogmi, ma con un suo culto ineluttabile e continuo e un “dio minore” che ne perpetua il destino. “Il capitalismo -scrive Benjamin- è la celebrazione di un culto sans trêve et sans merci. Non esistono “giorni feriali” non c’è alcun giorno che non sia festivo, nel senso terribile del dispiegamento di tutta la pompa sacrale, dell’estrema tensione che abita l’adoratore”[2]. Oggetto di questo rito è la merce, emanazione visibile della astrazione sovrasensibile e spirituale del danaro.
“Questo culto è colpevolizzante-indebitante”. Se il debito è il rapporto sociale che domina e sostituisce ogni altra forma di riconoscimento intersoggettivo tra gli uomini, esso stabilisce immediatamente anche un nesso di colpevolezza.
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E adesso, povero euro?
Mimmo Porcaro
Lasciamolo dire al Sole 24 ore, un giornale che per la sua funzione non può permettersi di raccontare troppe frottole: “Chi si illudeva che il ritorno dei socialdemocratici al governo avrebbe ammorbidito le politiche di rigore di Angela Merkel si ritrova smentito su tutta la linea: niente allentamenti, né mutualizzazione dei debiti, né solidarietà finanziaria Ue nell’unione bancaria se non come ultimissima spiaggia. Silenzio sulla crescita europea (che non c’è). Invece contratti Ue vincolanti sulle riforme degli altri”. Così Adriana Cerretelli, addì 28 novembre.
Capito? Il PD ha sempre saputo che le cose sarebbero andate così, e farà finta che sia ancora possibile ottenere, assieme al rigore, la sospirata crescita. Non si tratta di illusioni, si tratta di fare il proprio mestiere, che è, per il PD, quello di tenere i lavoratori italiani dentro la gabbia del capitalismo euroatlantico. Ma che dire della sinistra sedicente radicale, che ancora continua a coltivare speranze analoghe? “Beh – mi si risponderà – ma noi non speriamo certo nel rinsavimento della Merkel, contiamo piuttosto sulla lotta dei lavoratori europei…” . Appunto: se la Grosse Koalition tra socialdemocratici e conservatori è tirchia sull’Europa, è invece più generosa sul fronte interno.
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La Great Recession e il Saggio del Profitto
Paolo Giussani*

Nella presentazione di Guglielmo Carchedi e Michael Roberts alla decima conferenza della rivista Historical Materialism (Londra, 7-10 Novembre 2013), intitolata The Long Roots of the Present Crisis1, viene esposta quella che Roberts chiama la spiegazione monocausale della Great Recession in quanto generata dalla diminuzione del saggio e della massa dei profitti, in opposizione alle teorie postkeynesiane centrate sul sottoconsumo, la financialisation o su una combinazione di entrambe.
Il sostegno fondamentale alla tesi di Carchedi e Roberts si trova nel seguente grafico, qui riprodotto dalla pagina 7 della loro presentazione:
Grafico 1. [Vedi p. 7 di The Long Roots of the Present Crisis]
US Corporate Profits, Real Investment and GDP.
Q1-2011 to Q2-2012, $Bn.
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Moltitudine, classi e azione sociale
Risposta a Stefano Breda
di Ernesto Screpanti
Breda crede di poter rigettare l’individualismo istituzionale sulla base di una ricostruzione hegeliana della teoria marxiana del capitalismo, ma produce un cortocircuito tra la descrizione della struttura di un modello astratto e la spiegazione nomologico-causale dei processi reali. Una volta tradotta quella descrizione in un linguaggio comprensibile a tutti si scopre che, proprio perché la struttura è posta assiomaticamente come “causa sui”, non può sostituirsi a spiegazioni basate sul metodo dell’individualismo istituzionale
Voglio subito dire che l’articolo di Stefano Breda mi è piaciuto, nonostante abbia di primo acchito trovato sconcertanti alcune sue proposizioni. Alla fine ho capito che dice sostanzialmente le stesse cose che dico io, seppur in un linguaggio diverso.
“Dominio impersonale” è un bell’ossimoro che esprime poeticamente il senso di oppressione che tutti noi proviamo di fronte a mostri totalizzanti come il “capitale multinazionale”, la “speculazione internazionale”, il “mercato sovrano”, o anche soltanto “l’Europa che ce lo chiede”, e giù giù fino alla classe politica costituitasi in “casta”. Ma dal punto di vista scientifico è un non senso. “Dominio”, “Potere”, “Dipendenza”, sono concetti che definiscono una relazione tra agenti sociali. Ci deve essere qualcuno (individuo o gruppo) che domina e qualcuno che è dominato. Non possono essere usati quali definizioni di agenti sociali, come talvolta Breda sembra fare. Può una relazione essere un soggetto?
Se interpretate in quest’ultimo senso alcune affermazioni di Breda paiono sbalorditive.
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Il futuro pre-industriale dell’economia italiana
di Guglielmo Forges Davanzati
Nell’ultimo Rapporto della commissione europea (ottobre 2013), si legge che, in tutti i Paesi dell’eurozona, è in atto un significativo processo di deindustrializzazione (link), e si auspica che – a seguito dell’attuazione di “riforme strutturali” – si generi un’inversione di rotta tale da portare il tasso di industrializzazione dall’attuale 13% in rapporto al PIL al 20% entro il 20201. L’Italia è, fra i Paesi dell’eurozona, quello maggiormente coinvolto in questo processo.
E’ certamente vero che la deindustrializzazione costituisce l’altra faccia della c.d. finanziarizzazione (ovvero della crescente propensione delle imprese a utilizzare risorse per fini speculativi nei mercati finanziari)2, così come è attestato che il grado di finanziarizzazione delle imprese italiane è notevolmente più basso di quello della gran parte dei Paesi OCSE (v. Salento e Masino, 2013). Ci si trova di fronte a un puzzle che rinvia alla domanda: per quale ragione la deindustrializzazione è più accentuata in Italia a fronte del fatto che le nostre imprese mostrano minore propensione a destinare risorse, per finalità speculative, nei mercati finanziari? In altri termini, se la deindustrializzazione viene fatta dipendere dalla finanziarizzazione, ci si dovrebbe aspettare che laddove il grado di finanziarizzazione è basso, è maggiore l’accumulazione di capitale.
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Smith, Schumpeter e Marx a Pechino
Sul Plenum del Partito Comunista Cinese
di Pasquale Cicalese
(Guido Rossi, La cura cinese per l’economia globalizzata, Il Sole 24 Ore, 17 novembre 2013)
Giorno 18 ottobre, borsa Shanghai + 3,3, Hong Kong + 2,7, titoli finanziari alla riscossa. Cosa è successo durante il Plenum del Partito Comunista Cinese? E’ passata la linea nera, come strillava sabato 16 novembre il Manifesto, che dalle nostre parti appoggia niente meno che il PD?
Gli occidentali paiono avere una scarsa conoscenza della realtà cinese dell’ economia socialista di mercato. Giovanni Arrighi in Adam Smith a Pechino era stato chiaro: quel che succede da quelle parti modificherà i rapporti di forza mondiale. Altre volte avevamo suggerito che la dirigenza cinese applica un mix tra Smith, Schumpeter e Marx, un originale connubio finalizzato in ultima analisi ad una crescita poderosa della produttività totale dei fattori produttivi, un cammino incessante per raggiungere i livelli, ora calanti, occidentali. Lo hanno applicato alla forza lavoro, agli immensi conglomerati industriali pubblici, alle cooperative, alla pubblica amministrazione. Ora è il tempo di altri due settori, agricoltura e finanza. Si parla ora di titoli di proprietà. In ambito agricolo si punta a creare in pochi decenni quel che vi era durante la rivoluzione inglese, vale a dire la gentry, agricoltori che applicarono tecniche agricole innovative che fecero esplodere la produttività.
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