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"Razza, nazione, classe. Le identità ambigue"
Una recensione per nuove strategie di lotta
di Bollettino Culturale
“Razza, nazione, classe. Le identità ambigue” è un'opera composta da tredici capitoli di due autori diversi e, come vedremo, potrebbe benissimo essere inteso come due distinti libri. Mentre Wallerstein è chiaro e conciso, la scrittura di Balibar è estremamente complessa (forse nello stile possiamo riconoscere le rispettive nazionalità degli autori). I frutti migliori vengono estratti da Balibar in seconda lettura, matita alla mano. Balibar è anche autore di un'ampia prefazione che, data la sua complessità, serve meglio da guida per quella seconda lettura che non esitiamo a consigliare. Al contrario, Wallerstein scrive in modo leggero e può essere affrontato senza problemi partendo una comprensione generale delle basi del marxismo.
Entrambi gli autori adottano una prospettiva critica, prendendo le distanze in alcuni punti dal marxismo "classico". Tuttavia, leggendo Balibar abbiamo l'impressione di trovarci davanti a un autore che non è marxista, nello stesso preciso senso in cui lo stesso Marx dichiarava di non esserlo neanche lui. Quanto a Wallerstein, che Balibar considera forse troppo economicista e non per questo necessariamente meno rigoroso, crediamo di poterlo collocare entro i parametri di ciò che ci si può aspettare da un autore di questa tradizione. Sebbene mostri alcune distanze importanti, queste sono ancora specifiche. Ciò che Wallerstein propone è una lettura di Marx adattata alla realtà socio economica dell'attuale sistema-mondo.
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Il Primo Maggio è la tua festa. In cerca dell’unità perduta dei lavoratori
di Andrea Muni
Quando i lavoratori si riuniscono […] si appropriano insieme di un nuovo bisogno, del bisogno della socialità, e ciò che sembra un mezzo, è diventato un fine. Questo movimento pratico può essere osservato nei suoi risultati più luminosi. Quando i lavoratori si uniscono […] il fumare, il bere e il mangiare insieme, non sono più “mezzi” per stare uniti, “mezzi” di unione politica. A loro basta la socialità, l’unione, la conversazione che questa stessa socialità ha a sua volta per scopo; la fratellanza degli uomini non è presso di loro una frase, ma una verità, e la nobiltà dell’uomo s’irradia verso di noi da quei volti induriti dal lavoro
(K. Marx, Manoscritti economico-filsofici)
Il 27 aprile scorso gli operai di una fonderia controllata dalla Renault hanno sequestrato per alcune ore, come si usava fare un tempo, alcuni dei loro manager per protestare contro i tagli previsti al personale e contro la decisione di smantellare la fonderia. La notizia in Italia è stata diffusa online nientemeno che da www.quattroruote.it (perché interessa il mondo dei motori, e non certo per solidarietà con i lavoratori), a ennesima testimonianza del disinteresse, per non dire della censura, che cultura e media mainstream esercitano nei confronti della reale condizione dei lavoratori e delle loro lotte nel Paese e in Europa. Eppure i rapporti dei media pseudo-progressisti italiani con la Francia, a giudicare dalla enorme visibilità data all’arresto dei sette ex-brigatisti italiani, sembrano più che ottimi.
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Sinistra, disciplina e libertà
di Alessandro Pascale
Dialogo Magris-Rizzo, "Corriere della Sera", 28 marzo u.s.: alcune considerazioni
Perchè ancora un partito comunista?
Magris fa notare come il Partito Comunista guidato da Rizzo sia «un partito nel senso classico del termine anziché una fluida formazione come molti altri attuali raggruppamenti politici, numericamente più forti»; «il suo Pc è piccolo, ma non è un gruppuscolo; è immune dalla superbia ideologica, culturale e vagamente esoterico che caratterizza spesso le cerchie dei pochi fieri di essere pochi, una supponente aristocrazia d’accatto». Più avanti caratterizza l’azione del partito così: «l’elemento più originale del suo discorso è la critica a chi si proclama di sinistra mentre ne ignora o ne viola, a suo avviso, alcuni valori fondamentali».
La sorpresa di Magris riguardo alla tenuta “solida” del PC merita una riflessione. Il sociologo Zygmunt Bauman ha descritto la società occidentale con la formula della “modernità liquida”, caratterizzata dal dissolvimento di ogni legame stabile e duraturo. L’egemonia ideologica in questa società è la cosiddetta “condizione postmoderna”, ossia la morte delle “ideologie”, o dei “pensieri forti” (Vattimo) che dir si voglia. La caduta della modernità in questo pastiche che propugna politeismo dei valori, relativismo estremo, fino addirittura all’aperto scetticismo moderno è un processo che si è accompagnato cronologicamente all’offensiva neoliberista. Il testo fondamentale del postmodernismo, firmato Lyotard, data 1979, esattamente lo stesso anno in cui la Thatcher e Reagan annunciavano il ritorno in grande stile della pratica mercantile spinta a livelli fondamentalisti.
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Come il nazismo ha creato il moderno manager
di David Bidussa
Nazismo e management di Johan Chapoutot è un libro spinoso, urticante, ma indispensabile per capire le lunghe radici del tempo presente. Non capita spesso nella saggistica storica. Un precedente illustre è Modernità e Olocausto di Zygmunt Bauman, libro che ha stentato molto a divenire un luogo culturale. Non perché quel libro sia non compiuto, ma perché mettere in questione il senso comune è sempre un’impresa complicata e destinata all’insuccesso.
Mi spiego meglio.
Quando nel 1989 Zygmunt Bauman pubblica Modernità e Olocausto, il libro si salva perché Bauman ha ormai raggiunto una certa rispettabilità, ma non contribuisce a rovesciare significativamente il senso comune. Per questo, a differenza di altri suoi testi diventati “manifesto del nostro tempo” veri e propri hashtag, quel titolo non riesce a compiere quel salto.
Dove stava lo scandalo o l’imbarazzo suscitato da quel libro? Stava nel descrivere un tema e nel non dare un nome, ma obbligare il suo lettore a rivedere complessivamente il modo in cui era stato archiviato un passato. Dire che l’olocausto non era finito nel 1945, ma che ciò che lo aveva reso possibile non solo era sopravvissuto a quell’evento, ma costituiva un tratto essenziale della modernità e delle sue inquietudini, dopo il 1945, a meno di non sorvegliare, costituiva il centro della questione.
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Curare il Covid-19 a casa: studio clinico su un possibile trattamento precoce
di Istituto Mario Negri
È stato appena pubblicato su MedRxiv in versione pre-print * lo studio dal titolo "A simple, home-therapy algorithm to prevent hospitalization for covid-19 patients: a retrospective observational matched-cohort study" (Un semplice algoritmo [ndr. schema sistematico di calcolo] per il trattamento domiciliare di pazienti Covid-19 per prevenire l'ospedalizzazione: uno studio di osservazione retrospettiva).
Come precisa il prof. Remuzzi, coautore dello studio,“pur essendo in attesa della pubblicazione ufficiale, abbiamo pensato di rendere noti i dati emersi alla comunità scientifica perché i risultati sull'ospedalizzazione sono di un certo interesse".
Lo studio in questione, infatti, si propone, come altri studi attualmente in corso, per il trattamento domiciliare dei pazienti Covid-19, di presentare ai Medici di Medicina Generale una possibile cura precoce nelle prime fasi dell'infezione.
Nei primi 2-3 giorni, infatti, il Covid-19 è in fase di incubazione: la persona non presenta ancora sintomi, ovvero è presintomatica. Nei 4-7 giorni successivi, la carica virale aumenta facendo comparire i primi sintomi (tosse, febbre, stanchezza, dolori muscolari, mal di gola, nausea, vomito, diarrea). Intervenire in questa fase, iniziando a curarsi a casa e trattando il Covid-19 come si farebbe con qualsiasi altra infezione respiratoria, ancora prima che sia disponibile l'esito del tampone, potrebbe aiutare ad accelerare il recupero e a ridurre l’ospedalizzazione.
Seguire questo approccio offre vantaggi sia ai pazienti che al il sistema sanitario, il cui sovraccarico è attualmente ancora un problema.
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Nancy Fraser, “Capitalismo. Una conversazione con Rahel Jaeggi”
di Alessandro Visalli
Per i tipi di Meltemi, collana Visioni Eretiche, diretta da Carlo Formenti, è uscito nel 2019 questo impegnativo libro, sotto la poco usuale forma di un dialogo tra le due autrici. Il testo affronta l’ambiziosa impresa di fare il punto su come si possa sviluppare oggi una descrizione generale ed una critica al capitalismo. Le due autrici hanno una formazione piuttosto diversa: Nancy Fraser, settantadue anni, insegna scienze politiche e sociali e filosofia alla New School di New York, è Presidente della divisione est dell’American Philosophical Association, è stata a lungo condirettore di Constellations[1]. Dal punto di vista accademico e della influenza editoriale è certamente una donna di potere. Laureata nel 1969 e dottorata nel 1980, attraversa biograficamente tutta la parte ascendente del movimento libertario americano. Si specializza nel corso degli anni novanta nell’articolazione del concetto di “giustizia”, per il quale distingue due dimensioni reciprocamente separate, ma correlate: la giustizia distributiva e la giustizia del riconoscimento. Seguendo la traccia di questa concettualizzazione la Fraser è giunta al termine a sostenere che i movimenti identitari, concentrati sul riconoscimento di diverse identità di gruppo all’interno della società, hanno compiuto l’errore di trascurare l’altra dimensione correlata della distribuzione. Di qui è passata a criticare il femminismo liberale, come abbiamo visto in alcuni suoi recenti articoli[2], come in un libro del 2013[3] e nel recente manifesto “Femminismo per il 99%”[4].
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Lenin e il taylorismo proletario
di Marco Beccari e Domenico Laise
Lenin mostra, già prima della rivoluzione, un interesse per l’organizzazione scientifica del lavoro di Taylor, mettendo in guardia i bolscevichi dal non commettere l’errore, simile a quello dei luddisti, di combattere il taylorismo in quanto tale e non il suo uso capitalistico
Questo articolo trae spunto dal seminario “L’organizzazione del lavoro nella fabbrica capitalistica” tenuto da Domenico Laise per l’Università Popolare A. Gramsci nell’anno accademico 2018-2019. [1]
Nel 1913 Lenin partecipa a un convegno sul taylorismo a San Pietroburgo. Nello stesso anno scrive un primo articolo, molto critico, comparso sulla “Pravda”, dal titolo: Il sistema scientifico per spremere sudore [2]. Tale sistema è quello elaborato e sperimentato da Taylor, con il quale: “si spreme il sudore secondo tutte le regole della scienza”. Lenin si domanda innanzitutto: ”In che cosa consiste questo sistema scientifico?” La risposta è: “Nello spremere dall’operaio tre volte più lavoro in una eguale giornata lavorativa”. Precisa inoltre che “il progresso della tecnica e della scienza significano nella società borghese il progresso nell’arte di spremere il sudore”.
Un anno dopo, nel 1914, Lenin ritorna sul tema e scrive un altro breve articolo dal titolo: Il taylorismo asserve l’uomo alla macchina [3].
Lenin, in questo nuovo articolo, premette che “il capitalismo non può segnare il passo nemmeno un istante … La concorrenza … costringe … ad inventare sempre nuovi mezzi di produzione per ridurre i costi di produzione. E il dominio del capitale trasforma tutti questi mezzi di produzione in strumenti per opprimere ancora di più l’operaio”. Il taylorismo è simile, cioè, alle altre innovazioni scientifiche. Esso è, difatti, una innovazione scientifico-organizzativa che accresce la forza produttiva del lavoro sociale, vale a dire è un veicolo che accresce la produttività del lavoro sociale.
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Governare la società del dopo covid
a cura di Salvatore Biasco
Documento di sintesi delle discussioni organizzate dal Network “Ripensare la cultura politica della sinistra” il 28 dicembre 2020 e il 5 e 6 marzo 2021
Le coordinate politiche del documento
Il filo rosso delle discussioni tenute in incontri (chiusi) dal nostro Network ha riguardato l’orizzonte possibile per la sinistra nella riorganizzazione del Paese dopo la tempesta della pandemia. Non a caso il documento di sintesi parla di biforcazione nelle scelte da adottare, il cui percorso dipenderà in gran parte dal tipo di politiche che il Paese progetterà e implementerà.
Non si trattava di discutere il Recovery Plan avanzando un ennesimo contropiano e neppure di redigere un manifesto. Ma di mettere a fuoco una cultura politica capace di condurre alle domande giuste nella definizione di una visione dell’Italia, senza lasciarle poi sospese nell’aria, ma indagando anche le possibili risposte ed entrando, per quanto possibile, nel merito delle questioni. Nel corso degli incontri (pur con l’intervallo di appena due mesi) si è verificato un significativo passaggio di fase, che invita a riflettere sugli interlocutori e destinatari di queste riflessioni collettive.
La visione culturale che ispira questa sintesi non combacia con gli schemi mentali cui ci ha abituato la sinistra ufficiale in questi anni. Mai come in questo momento è divenuta evidente come la sua modesta capacità di produrre idee, il suo distacco dal paese reale e l’indeterminatezza della rappresentanza, siano alla base dell’indubbia sconfitta che ha subito con le vicende che hanno portato all’avvento del governo Draghi. Quella sconfitta non può essere archiviata solo come questione di numeri parlamentari. Essa pone in rilievo ancora una volta che fuori da una qualificante presenza di governo la sinistra rimane disarmata, senza egemonia, senza idee forza, progetto politico e mobilitazione sociale.
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Malattia e mercato
di Salvatore Bravo
I popoli non sono più costituiti da cittadini, ma sono potenziali malati a cui far consumare farmaci, la nuova plebe deve brucare farmaci, in questo modo dipende dal mercato gestito dalle multinazionali e nel contempo è ossessionata dalla salute: scruta i sintomi di ogni potenziale malattia, ne insegue l’evoluzione, ne vuole prevenire lo sviluppo. La distinzione tra malati e sani diviene tanto sottile da non essere più distinguibile. L’antiumanesimo si radica, anche, nel mito della salute ad ogni costo, del corpo come feticcio da adorare e servire, mentre la vita interiore avvizzisce e la creatività è addomesticata con la fobia della malattia. L’atomocrazia si espande mediante la paura dell’altro, il quale è portatore di virus e batteri. Ogni politica decade e si cancella nel timore che l’altro sia il latore della morte. La trasformazione del cittadino in paziente è il successo delle multinazionali del farmaco colluse con la politica, un flusso indeterminato e vorticoso di denaro. Non solo hanno negato il giuramento di Ippocrate seppellendolo nella strategia di marketing, ma hanno trasformato i popoli in plebi impaurite dalla malattia. I nuovi pazienti sono sollecitati ad allungare i giorni della propria vita affidandosi religiosamente a medici e luminari che spesso sono rappresentanti delle multinazionali, sono la truppa che assalta il mercato diffondendo timori, incutendo il terrore, ammalando i pazienti che dovrebbero guarire. Il mercato trasforma il farmaco in prodotto e il cittadino in consumatore, per arrivare a questo obiettivo deve diffondere l’inquietudine della malattia.
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Austerità e riforme: il Piano di Draghi è servito
di coniarerivolta
Dopo una lunga attesa, la nuova versione del Piano di Ripresa e Resilienza (PNRR) firmata dal premier Draghi è finalmente tra noi. Si tratta del programma di investimenti che il Governo deve presentare alla Commissione europea entro la fine di aprile per poter spendere la quota italiana del Next Generation EU, lo strumento che l’Europa ha messo in campo per rispondere alla crisi da Covid-19.
Mentre la stampa ci racconta di una straordinaria capacità programmatica dei competenti, materializzatasi in un documento chiave per accedere ai fantastiliardi in arrivo dall’UE nei prossimi anni, ad un’attenta lettura le cifre di cui stiamo parlando si rivelano purtroppo per quei due spicci che sono. Non solo, il contenuto del Piano si presenta come l’ennesimo addentellato di un percorso di pericolose riforme e di austerità lacrime e sangue.
I soldi, per prima cosa, vanno contati
Già, perché quando parliamo di ‘risorse europee per risollevarci dalla crisi‘ stiamo parlando, conti alla mano, di circa 200 miliardi di euro spalmati su sei anni. Si tratta, in larga parte, di prestiti, e di risorse che finanzieranno progetti già in programma e in bilancio.
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Riconoscere il dominio, riprendersi la vita
di I Diavoli
“Dominio”, l’ultimo libro di Marco D’Eramo, racconta di come la nuova guerra di classe – quella dichiarata dai ricchi contro i poveri, e vinta dai ricchi contro i poveri – sia stata una guerra combattuta sul piano dell’ideologia, volta a imporre la ragione neoliberale sul mondo e nella mente di ognuno di noi, lasciandoci credere all’impossibilità di un’alternativa.
Quello che dobbiamo fare, se vogliamo riprenderci una minima parte di quello che i padroni ci hanno tolto in questi anni, è comprendere come e perché siamo stati noi a darglielo. E come siamo stati pure contenti di farlo, regalando loro diritti e tutele faticosamente conquistate nel passato.
Simili agli indigeni che salutavano lo sbarco dell’uomo bianco come epifania della divinità, e a lui offrivano i migliori doni e frutti della propria terra, prima di farsela espropriare e di farsi trucidare, così noi, esseri liberi del mondo occidentale, da quando il capitalismo estrattivo ha cominciato a ricavare valore da sentimenti, emozioni e desideri, diventate lavoro tout court, abbiamo offerto noi stessi in sacrificio alle divinità neoliberali.
Ma come è potuto succedere tutto questo? «Una spiegazione», scrive Marco D’Eramo, «ce la fornisce Wendy Brown. Detta brutalmente: la vittoria della controffensiva ideologica dell’ultimo mezzo secolo, della counter-intellighentsia, non ha privatizzato solo ferrovie, scuole, sanità, eserciti, polizia, autostrade, ma ci ha privatizzato il cervello».
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Pensare la pandemia: la soglia tra “pubblico” e “privato”, la crisi attuale e le forme del potere. Presentazione
di Fabio Frosini (Università di Urbino), Anxo Garrido Fernández (Universidad Complutense de Madrid)
Pubblicato su “Materialismo Storico. Rivista di filosofia, storia e scienze umane", n° 2/2020, a cura di Stefano G. Azzarà, licenza Creative Commons BY-NC-ND 4.0
1. Questa rivista, quest’anno di pandemia
In quest’anno pandemico si sono moltiplicate le prese di posizione, più o meno autorevoli, di “esperti” del settore (epidemiologi e virologi), spesso in stridente contraddizione tra loro. Sono però in particolare i politologi, i sociologi, gli antropologi e in primo luogo, sì, i filosofi che vengono chiamati a gran voce a dire la loro su questo “evento” che a detta di tutti sarà uno spartiacque “storico” o “epocale”. Non staremo qui a elencare i fascicoli monografici che talvolta in tempi record sono stati pubblicati, i libri e libretti di maîtres-à-penser e il profluvio, pressoché inarrestabile, di interviste e articoli1. Noi stessi ci vediamo partecipi ‒ volenti o nolenti ‒ di questo «naufragio continuo e comune non meno degli scritti nobili che de’ plebei» (per riprendere la frase memorabile di un libro che ebbe, immeritatamente, scarsa fortuna)2. Siamo del resto coscienti della difficoltà di dire qualcosa di sensato nella cacofonia più totale: anche per questa ragione abbiamo accolto in questo dossier un articolo di quotidiano pubblicato il 23 marzo 2020 da José Luis VILLACAÑAS, Il filosofo democratico, che riflette con grande lucidità sul significato della parola del filosofo in questo tipo di circostanze e ‒ spunto gramsciano ‒ sul carattere “democratico” di essa3.
Per parte nostra, abbiamo pensato di proporre un approccio che riflette uno degli assi portanti di questa rivista: il pensiero di Gramsci sull’egemonia e i suoi “apparati”, vale a dire le forme di organizzazione in cui la società penetra, ramificandosi, dentro lo Stato e viceversa, lo Stato entra con forza nelle più varie sfere sociali, cioè private.
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Il fondamentale contributo di Piero Sraffa al riscatto del pensiero economico classico
di Federico Fioranelli
Piero Sraffa è un economista che ha lasciato un segno profondo nella storia dell’economia politica. Con i suoi lavori, è riuscito infatti a portare a termine due progetti estremamente ambiziosi: mettere in luce i punti deboli dell’approccio neoclassico all’economia e rafforzare le fondamenta della scuola classica di pensiero economico risolvendo l’unica questione lasciata irrisolta da David Ricardo e Karl Marx.
Nato a Torino il 5 agosto 1898 in una famiglia ebraica benestante, si laurea in giurisprudenza nel novembre 1920 con una tesi su “L’inflazione monetaria in Italia durante e dopo la guerra” con Luigi Einaudi come relatore.
All’Università di Torino stringe un rapporto di amicizia con Antonio Gramsci. Quando quest’ultimo fonda “L’Ordine nuovo”, Sraffa collabora con degli articoli e con alcune traduzioni dal tedesco. In seguito, dopo l’arresto di Gramsci nel 1926, Sraffa si impegna a fare arrivare libri e riviste all’amico in carcere, a ricercare le strade per fargli ottenere la libertà (senza con questo cedere al fascismo, ad esempio con una domanda di grazia) e a tenere i collegamenti con i dirigenti comunisti in esilio.
Nel novembre 1923 viene nominato docente di economia politica e di scienza delle finanze presso l’Università di Perugia.
Nel 1925 Sraffa pubblica “Sulle relazioni fra costo e quantità prodotta”, il suo primo contributo importante di critica distruttiva della scuola neoclassica di Jevons, Menger, Walras e Marshall. In particolare, con questo articolo, vuole mettere in evidenza gli aspetti che mancano di coerenza logica all’interno della teoria marshalliana dell’equilibrio parziale dell’impresa.
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La “nuova Europa” passa anche per gli arresti di Parigi
di Dante Barontini
Davvero qualcuno crede che pretendere l’estradizione e la morte in carcere per dei settantenni (in media), che hanno combattuto contro lo Stato tra i 50 e i 40 anni fa, sia qualcosa di diverso dalla pura vendetta?
L’assurdo è tale che non è possibile considerarlo un assurdo. Non possiamo “immaginarci” il Potere – la classe dirigente di questo disgraziato paese – come un gruppo di ottusi semplicemente ossessionato dal fatto che alcuni (percentualmente pochi) dei suoi nemici d’allora siano sfuggiti al carcere.
Dopo 40 anni, e “due repubbliche” dopo (siamo alla Terza, giusto?), anche la peggiore ossessione dovrebbe essere spenta sotto l’urgenza di problemi ben più presenti.
Dunque la ragione profonda degli arresti di Parigi non può essere quella ufficialmente raccontata. Non per “complottismo”, ma perché riteniamo che almeno una parte di questa classe dirigente sia capace di fare un mestiere da macellaio, ma con una certa “creatività” e una buona dose di furbizia, se non proprio di intelligenza.
Perciò, se ci danno una spiegazione stupida, non possiamo crederci.
Per questi arresti si sono mossi personalmente Mario Draghi e Marta Cartabia, non due buzzurri a metà strada tra la Lega e Fratelli d’Italia. Sono riusciti là dove Salvini e Bonafede avevano fallito, pur gestendo esattamente lo stesso dossier.
E se Macron ha cambiato linea rispetto a due anni fa, è evidente che stia maturando un diverso rapporto tra i vari paesi membri dell’Unione Europea.
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C’è Rousseau e Rousseau. Moltitudine e classe al tempo del tecno-populismo
intervista ad Augusto Illuminati*
Oggi il nome di Rousseau è associato, almeno in Italia, a un’idea peculiare di democrazia diretta da contrapporre positivamente alle storture della rappresentanza politica. Eppure, il concetto di “volontà generale” per come lo intendeva Rousseau ha ben poco a che fare con i ristretti referendum condotti su piattaforme proprietarie. Si tratta solo di un’operazione di marketing politico, di verniciatura intellettuale ai limiti dell’appropriazione indebita, o c’è qualcosa di più? Perché Rousseau, rispetto a tanti altri suoi illustri contemporanei, continua a esercitare un richiamo così forte a quasi 250 anni dalla sua morte?
Il richiamo a Rousseau dell’omonima piattaforma è ovviamente fasullo e oggi tristemente fallimentare, non è volonté générale di una comunità unanime istantaneamente informata e neppure volonté de tous, maggioritaria per coalizione di gruppi divisi, ma il luogo di una consultazione su quesiti manipolatori votati da una minoranza della minoranza degli elettori del M5S cui erano stati sottoposti. Quindi al massimo è testimonianza del persistente riferimento a qualcosa di più che un nome nei libri di testo scolastici. Rousseau è una memoria ricorsiva in momenti di uso radicale della sovranità popolare (per esempio durante la dittatura democratica giacobina o nella breve stagione della Commune) oppure di crisi della democrazia rappresentativa, quando si mette in discussione il principio stesso della rappresentanza e delle delega.
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Il ritorno del Leviatano?
di Matteo Bortolon
In piena seconda ondata di Covid-19 cosa possiamo capire di come sarà il nostro futuro? Lo scenario è molto mobile, alcune provvisorie conclusioni possono essere tirate. In questa serie di articoli l’autore cerca di gettare uno sguardo sulle dinamiche economiche che sono già fra noi per cercare di capire le sfide future. Dopo aver indagato sui fattori di continuità in un articolo precedente, vediamo adesso cosa comporti il rinnovato ruolo dello Stato. Cercando le basi per una comprensione della congiuntura attuale, con poche certezze, salvo una: allacciamo le cinture, sarà una fase movimentata.
* * * *
Il confinamento o lockdown è una delle questioni più scottanti e dirimenti nel panorama della crisi Covid.
Essa si inscrive non solo nella dialettica fra protezione e libertà, ma impatta significativamente sul piano dell’economia; si pensi alle proteste di piazza di varie categorie penalizzate (ristorazione, palestre, e simili).
Questo apre due possibili piste di riflessione: il disagio che le misure di confinamento acutizzano per una parte della società da una parte e il nuovo (o supposto tale) ruolo dello Stato come indiscusso fulcro della vita economica dall’altra.
L’una questione si lega all’altra e tenerle assieme è necessario per capire in che direzione le nostre democrazie stanno andando.
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La potenza dell’anticipazione
di Matteo Montaguti
Guido Bianchini è stato una figura decisiva nella vicenda teorico-organizzativa dell’operaismo politico italiano, in particolare della sua matrice veneto-emiliana. Centrale è stato il suo apporto alle elaborazioni collettive e alla formazione di una generazione militante, benché la sua scarsa produzione letteraria, elemento controcorrente rispetto a un ambiente intellettuale in certi aspetti fin troppo prolifico, lo ha reso apparentemente clandestino alla dimensione cartacea, soprattutto se firmata. È stata quindi una figura fino a oggi colpevolmente trascurata dalla ricerca degli storici e dei militanti, cui finalmente, grazie al volume della collana Input di DeriveApprodi a cura di Giovanni Giovannelli e Gianni Sbrogiò, Guido Bianchini. Ritratto di un maestro dell’operaismo, e allo Scavi pubblicato su «Machina», Socrate a Porto Marghera. Inchiesta, anticipazioni e metodo militante di Guido Bianchini, si comincia a dare giustizia. Partendo da questi materiali Matteo Montaguti mostra le basi di un metodo calato nella prassi, per trasformare la potenza dell’anticipazione in forza organizzata, materiale e collettiva. Come probabilmente avrebbe pensato Guido, moltissimo c’è ancora da fare: moltissimo è possibile fare.
* * *
«Non potevamo rimanere a rimorchio dei fatti»
Guido Bianchini
Sgombriamo subito il campo. Guido Bianchini è stata una figura decisiva, baricentrale, nella vicenda teorico-organizzativa dell’operaismo politico degli anni Sessanta, in particolare della sua matrice veneto-emiliana: un nodo importante nel filo che si dipana dal laboratorio delle riviste «Quaderni rossi» e «Classe operaia» e che arriva alla sperimentazione di Potere operaio – veneto-emiliano prima, gruppo nazionale poi – nei primi anni Settanta; un filo le cui fibre avrebbero continuato a intrecciarsi, volenti o nolenti, con le varie forme di conflittualità sociale organizzata – tra cui le esperienze dell’Autonomia – fino al termine (e oltre) del decennio.
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Ancora su L’affare Covid. Una controreplica
di Un amico di Wiston Smith
La controreplica che segue risponde a un testo pubblicato su roundrobin.info. Siccome ritorna su alcune questioni dell’Affare Covid e finisce per toccare anche nodi che vanno oltre la risposta a quell’articolo, mi sembra il caso di pubblicarla anche qui (un amico di Winston Smith)
Sono Un amico di Winston Smith, ovvero l’autore materiale di L’Affare Covid.. Ho letto le Due obiezionial mio lavoro pubblicate su roundrobin.info. Credo che necessitino di una risposta, non solo per le posizioni dell’autore (che peraltro dice esplicitamente di non volerle argomentare), ma per i numerosi fraintendimenti e errori di lettura su quanto ho scritto. Se condizione di ogni dibattito è (sforzarsi di) capire cosa sta dicendo l’interlocutore, al di là di quanto si possa o meno essere d’accordo, è importante rettificare certe distorsioni. Non tanto per intavolare un dibattito a due (che di fronte a un approccio così poco “argomentativo”, oltre che scomposto, è impossibile), ma per evitare che qualcuno vi abbocchi e le prenda per buone, liberandosi così della fatica di confrontarsi col testo originario. Un dibattito attorno a domande così urgenti (cos’è questa maledetta “pandemia”, quanti dei suoi effetti nefasti siano imputabili al virus in sé e quanti alla sua gestione statal-capitalistica, quali spinte economiche, statali, tecnologiche stiano dando forma agli eventi mondiali – per dirne solo alcune) non può e non deve essere inquinato. Di confusione, in giro e nelle teste, ce n’è già abbastanza.
Nel cercare di afferrare in queste obiezioni un filo che forse non c’è, vado per punti.
Primo. L’autore crede di leggere nel mio scritto «una divisione tra destra e sinistra sull’approccio al covid», che nella sua testa riguarderebbe addirittura i governi (visto che cita le politiche opposte di alcuni esecutivi di destra sulla questione-Covid, oltre all’iniziale “cambio in corsa” del conservatore Boris Johnson sul lockdown), un po’ come se io polarizzassi il mondo tra sinistre e governi di sinistra che cercano di chiuderci in casa con ogni mezzo necessario, e destre e governi di destra che sarebbero per il “liberi tutti”.
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Amnistia, altro che estradizione dalla Francia
di Frank Cimini* - Valerio Renzi** - Il Faro di Roma***
Non tutta la stampa italiana ha seguito l’ordine di scuderia dei grandi gruppi editoriali stretti intorno a Mario Draghi, Confindustria e il “partito della vendetta” (oltre che del pil). Non si tratta di molti articoli, ma è comunque giusto segnalarli.
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«C’è anche in programma una visita di Stato in Francia del presidente Sergio Mattarella e dovrebbe essere firmato il Trattato Quirinale per rafforzare i rapporti bilaterali. In questo contesto Macron potrebbe dare il via libera alle estradizioni chieste alla Francia dalla ministra Marta Cartabia nell’ultima riunione con il suo omologo francese».
Intervistato da Repubblica lo scrittore francese Marc Lazar risponde alla domanda su un possibile cambiamento di linea del governo d’Oltralpe sulla presenza a Parigi di persone condannate in Italia per fatti di lotta armata. Lazar polemizza con gli intellettuali francesi che avevano nei giorni scorsi firmato un appello a favore della dottrina Mitterand «perché sul tema c’è ancora troppa ignoranza».
Eppure a proposito di cambiamenti di linea va registrato che Lazar dieci anni fa intervistato da Paolo Persichetti sul quotidiano Liberazione aveva detto: «Dopo la dietrologia e le commissioni parlamentari di inchiesta ora è il tempo degli storici».
Quindi ora non sarebbe più il caso di storicizzare ma di consegnare all’Italia una dozzina di protagonisti di una stagione politica lontanissima e di portarli in carcere adesso che hanno tutti un’età più vicina agli 80 che ai 70.
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Ignoranza della storia e assenza di futuro
di Armando Lancellotti
Adriano Prosperi, Un tempo senza storia. La distruzione del passato, Einaudi, Torino, 2021, pp. 128, € 13.00
L’ultimo libro di Adriano Prosperi – professore emerito presso la Scuola Normale Superiore di Pisa – è la lezione magistrale di uno storico di grande spessore che, in un intreccio di riferimenti che spaziano dalla storiografia alla filosofia, dalla sociologia all’antropologia e all’analisi economico-politica, affronta, in poco più di cento pagine, una materia oltremodo complessa e magmatica, quella delle intricate relazioni tra tempo, memoria, storia, realtà presente e prospettive future. Si parla di memoria, quindi, che innanzi tutto è una funzione psichica umana, incerta e fragile per la sua limitatezza soggettiva, ma è anche la memoria collettiva, fatta di ricordi ed esperienze comuni, di un canone da tramandare alle generazioni successive e poi, ancora, è la memoria del testimone, materia preziosa su cui lo storico è chiamato ad esercitare il proprio accorto lavoro di comprensione e conoscenza, così come sulla memoria intesa come immenso accumulo di dati e documenti che le istituzioni preposte selezionano, archiviano e conservano, salvandolo dagli abissi dell’oblio. Perché il ricordare è sempre necessariamente connesso al dimenticare ed è proprio nell’equilibrata e corretta interazione tra memoria ed oblio che si costruisce un buon rapporto col passato e con la storia. Quella storia – spiega Prosperi – che per lo storico è innanzi tutto historia rerum gestarum, storiografia, ossia narrazione delle vicende umane, che è altra cosa dalla storia intesa come l’insieme di quelle stesse concrete vicende umane, che a loro volta si distinguono dalla realtà naturale del mondo in cui sono sempre collocate, nonostante gli uomini, soprattutto i contemporanei, tendano a dimenticarlo e a trascurarne l’importanza, con conseguenze che la pandemia che stiamo vivendo dimostra al di là di ogni dubbio.
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Losurdo e la sfida di un materialismo storico per il XXI secolo
di Sabato Danzilli
La raccolta di saggi contenuta in Domenico Losurdo tra filosofia, storia e politica, pubblicata da La scuola di Pitagora, a cura di Stefano Giuseppe Azzarà, Paolo Ercolani ed Emanuela Susca, offre una panoramica completa dei principali interessi della ricerca di Domenico Losurdo, con interventi da parte dei suoi collaboratori più stretti e di alcuni colleghi. Il filosofo pugliese, scomparso quasi tre anni fa, è stato tra i più importanti pensatori della sinistra italiana degli ultimi decenni, e la sua influenza si estende sempre più sul piano internazionale.
La sua analisi unisce infatti una grande profondità storica a un forte carattere militante. L’indagine storica dei sistemi filosofici presi in considerazione nelle sue opere, compiuta con rigore, non rimane mai confinata in un ambito strettamente teoretico, ma è sempre sottoposta a un esame attraverso una verifica della declinazione nella pratica politica concreta del pensiero dell’autore considerato. In Losurdo è infatti centrale il ruolo del “giudizio politico” nella comprensione del proprio tempo, che è il compito specifico della filosofia.
Il libro si articola in tre sezioni: “Filosofia classica tedesca, universalismo e liberalismo”, “Crisi del marxismo e ricostruzione del materialismo storico” e “Tradizione conservatrice e ideologie della guerra”.
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I keynesiani mainstream e la MMT
di Marco Cattaneo
Ho letto con molto interesse questo articolo di Thomas Palley, pubblicato pochi mesi fa (fine 2020). Come indica il titolo, “What’s wrong with Modern Money Theory: macro and political restraints on deficit-financed fiscal policy”, si tratta di una disamina critica della MMT.
L’autore è un economista di impostazione keynesiana e di orientamento politico progressista. Pur condividendo le finalità generali di quanto gli economisti MMT propongono, Palley ritiene però sostanzialmente errata la base teorica della MMT.
L’articolo è interessante in quanto costituisce una sintesi, molto articolata, delle critiche alla MMT così come espresse da commentatori che non sono sospettabili di pregiudizi ideologici negativi nei confronti della MMT stessa (o più precisamente nei confronti delle sue finalità). Critiche, quindi, di natura essenzialmente tecnica e concettuale.
Come ho detto in altre sedi, mi riconosco al 95% nel pensiero MMT. Confutare le critiche di Palley mi pare un esercizio utile in quanto si tratta, in sostanza, delle medesime argomentazioni che spingono i governi e le istituzioni sovranazionali ad adottare un approccio ancora decisamente troppo timido nel contrastare i problemi dell’economia anche (ma non solo) in seguito alla crisi pandemica. Troppo timido, purtroppo per noi, soprattutto nel caso dell’Eurozona e in particolare dell’Italia.
Qui di seguito, i punti salienti (a mio avviso) dell’articolo di Palley, e le mie controdeduzioni.
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Panzieri e Krahl
di Andrea Cengia
Prospettive di lettura della produzione ad alta intensità tecnologica
L’ipotesi che guida questo testo è che si possano individuare alcune linee di continuità tra il pensiero di Raniero Panzieri e quello di Hans-Jürgen Krahl. La riflessione teorico-politica più significativa di entrambi gli autori ruota attorno alla problematicità del capitalismo a forte base tecnologica, nell’arco di tempo che attraversa gli anni Sessanta del Novecento. Nel caso di Panzieri, (e del primo operaismo italiano che ha nella rivista Quaderni rossi il suo punto di riferimento) la riflessione teorica parte dall’osservazione delle imponenti ristrutturazioni del capitalismo italiano dei primi anni Sessanta. Krahl invece constaterà, alla fine del medesimo decennio, la maturazione di questo processo di trasformazione tecnologica (sia dal lato del capitale che dal lato della soggettività antagonista) e potrà quindi mettere in luce gli effetti e le modificazioni subite dalla società nello stato della sua maturata trasformazione macchinica. Panzieri e Krahl, quindi, sono due interpreti del capitalismo e dei suoi esiti a noi più vicini, primo su tutti la trasformazione della composizione organica del capitale.
Da un punto di vista teorico, i punti comuni ai due autori vanno rintracciati nel costante riferimento, esplicito o implicito, all’eredità della scuola di Francoforte e del suo universo culturale di cui Panzieri infatti è stato considerato, uno degli “ambasciatori”1in Italia. Nel riferirsi a Pollock e alla scuola di Francoforte il fondatore dei Quaderni rossi ha saputo unire quella riflessione con le originali istanze dell’operaismo italiano.
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Lo Stato, il Pubblico, il Comune: tre concetti alla prova della crisi sanitaria
di Etienne Balibar (University of California, Irvine)
Pubblicato su “Materialismo Storico. Rivista di filosofia, storia e scienze umane", n° 2/2020, a cura di Stefano G. Azzarà, licenza Creative Commons BY-NC-ND 4.0
Lo scopo di questo breve scritto è abbozzare alcune riflessioni congiunturali, relative all’articolazione di tre concetti che occupano un posto centrale nel dibattito pubblico. Riflessioni che, lungi dal distoglierci dalla situazione di crisi in cui siamo entrati, dovrebbero anzi permetterci di comprendere meglio le scelte che la crisi sta imponendo. È tuttavia necessaria qualche osservazione preliminare, affinché la discussione non assuma un carattere eccessivamente accademico.
1. Apprendere nella crisi
Innanzi tutto, voglio sottolineare l’incertezza dei tempi. Sto scrivendo alla metà di maggio (2020), per una pubblicazione che sarà disponibile a luglio… È molto presto per sviluppare una riflessione compiuta sul tema, e questo perché vi è l’intenzione di mettere in circolazione una pluralità di proposte nel momento stesso in cui queste si rendono necessarie a causa dell’intensità della crisi. Eppure, sarà forse già troppo tardi… Non abbiamo alcuna certezza che ciò che pensiamo oggi potrà essere ancora sostenibile tra due mesi. Non sappiamo se e quando “finiranno” la pandemia e la crisi sanitaria che questa provoca. Non sappiamo quale sarà l’entità e quali gli effetti della crisi economica che ne consegue. Non sappiamo quali saranno le ripercussioni, in termini di sofferenza e distruzione, ma anche di proteste, rivolte, di movimenti sociali e politici. E tuttavia, è da questo insieme di cose che dipende il referente di realtà delle parole di cui ci serviamo e, conseguentemente, il loro senso.
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Metamorfosi del taylorismo
Le insidie della "umanizzazione" del lavoro
di Carlo Formenti
L’atteggiamento dei movimenti operai di ispirazione marxista nei confronti della tecnologia è sempre stato determinato dalla convinzione che lo sviluppo delle forze produttive è di per sé -a prescindere dal suo essere prodotto del processo di accumulazione capitalistica - un fattore progressivo, nella misura in cui crea le condizioni per la transizione a una forma più avanzata di civiltà. Per questo motivo, la rivolta luddista contro l’introduzione dei telai meccanici nell’Inghilterra dell’Ottocento - benché gli storici ne riconoscano il ruolo nella genesi di una embrionale coscienza di classe (1) – è stata generalmente classificata come una vana resistenza – eroica, ma oggettivamente conservatrice – al processo di industrializzazione, dal momento che questo avrebbe favorito la crescita numerica degli “affossatori” del modo di produzione capitalistico. Per la stessa ragione Marx, tanto nel Manifesto quanto nel Capitale, esalta la funzione “rivoluzionaria” del capitale che, nella sua irresistibile avanzata, spazza via tutte le forme economiche e sociali “arretrate” (arrivando a celebrare la missione “civilizzatrice” dell’imperialismo britannico in India (2) – pur riconoscendone i crimini). Per lo stesso motivo, infine, tanto Lenin che Gramsci diedero un giudizio positivo sulle “scoperte” di Taylor, ritenendo che i principi dell’organizzazione “scientifica” del lavoro rappresentassero un’importante innovazione di cui la classe operaia avrebbe dovuto impadronirsi, per sviluppare la produzione e avanzare più rapidamente verso il socialismo.
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