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E' ora disponibile la seconda parte del GEAB Report n. 39.
Se avete perso la prima parte con il report gratuito, potete leggerla qui: GEAB 39 parte I
GEAB 39 - Crisi sistemica globale - II parte
La fine del consumatore come lo abbiamo conosciuto negli ultimi 30 anni
Il consumatore americano, incarnazione del Sogno Americano dai tempi di Ford, è deceduto.
Ma anche il consumatore occidentale (fuori dagli USA) come lo conosciamo negli ultimi 30 anni si sta consumando.
Oltre a questo, LEAP / E2020 ritiene che sarebbe sbagliato pensare che gli asiatici e i latinoamericani rimpiazzeranno queste "macchine da consumo".
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La vera dimensione della crisi occupazionale
Francesco Pirone*
L’impatto della recessione economica internazionale sul mercato del lavoro italiano è sempre più evidente com’è dimostrato dall’emergere di sempre nuove e più gravi crisi aziendali e occupazionali, dall’inasprirsi del conflitto sindacale – che rispetto ai mesi passati sta trovando un po’ più di spazio in quotidiani e telegiornali – e dal diffondersi di condizioni, spesso drammatiche, di disagio sociale. La situazione non migliorerà nei prossimi mesi, anzi le proiezioni economiche diffuse dall’OECD nelle scorse settimane segnalano che nel prossimo anno la disoccupazione per l’Italia continuerà ad aumentare, pur in un contesto di lieve ripresa economica[1].
Le statistiche sul tasso di disoccupazione, però, non colgono che una parte dell’attuale crisi occupazionale, sia per distorsioni tecniche nella misurazione della disoccupazione, come si avrà modo di chiarire, sia perché il disagio materiale dei lavoratori è anche legato alla precarizzazione dell’occupazione che s’intreccia all’assenza di lavoro.
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L’EREDITÀ DEL PCI
Guido Liguori
I recenti libri di Giuseppe Chiarante e Lucio Magri sulla storia e sulla fine del Partito comunista italiano. Un lascito che non è stato raccolto e portato avanti da alcuna forza politica, ma senza vivificare il quale sarà difficile per i comunisti e per la sinistra italiani tornare a esercitare un ruolo di primo piano.
Sono giunti in libreria quasi contemporaneamente, a metà settembre, due libri importanti sulla storia del Pci e sulla sua fine. Sono stati scritti da Giuseppe Chiarante (La fine del Pci. Dall’alternativa democratica all’ultimo Congresso 1979-1991, Roma, Carocci, pp. 211) e da Lucio Magri (Il sarto di Ulm. Una possibile storia del Pci (Milano, il Saggiatore, pp. 453).
Entrambi dirigenti comunisti, due vite a tratti intrecciate, sul piano degli ideali e su quello della militanza politica: in comune, oltre a un’amicizia lunga decenni, la provenienza dal movimento giovanile democristiano e la scelta di entrare nel Partito comunista italiano, alla fine degli anni ’50, controcorrente; e la vicinanza con la sinistra comunista negli anni ’60.
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L’Italia cieca
di Nicola Lagioia
La prima volta che sono andato in crisi riflettendo sul fascismo è stato davanti alle pagine di Piero Gobetti. Mi ero appena iscritto a giurisprudenza, galvanizzato come tanti altri studenti dal vento euforico di Mani Pulite, e fino a quel momento (complice la mia ignoranza e la retorica di una sinistra la cui crisi identitaria non era ancora così tanto conclamata) avevo considerato il Ventennio come qualcosa che – storicamente, eticamente, antropologicamente – riguardava sempre gli altri.
Ma quando lessi per la prima volta il famoso Elogio della ghigliottina, in cui il fascismo veniva definito da Gobetti come “autobiografia della nazione” ne fui spiazzato. E quando tre o quattro settimane più tardi mi sorpresi inattivo, e dunque complice, davanti a uno dei tanti abusi di potere che si consumavano quotidianamente in seno alla facoltà di legge di Bari (un professore aveva interrotto un esame per andare a ricevere un cliente importante nel suo studio d’avvocato), le parole di Gobetti mi tornarono in mente rivelando tutta la potenza del loro significato, e poi mi si piantarono davanti agli occhi come il peggiore e il più giusto dei rimproveri che avessi mai ricevuto. Il che, tra l’altro, la dice lunga sul valore dei maestri in carne e ossa che mi era capitato di incontrare nei miei primi diciannove anni di vita.
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Regole e deregulation, risposta a Guido Rossi
di Alberto Burgio
L'intervento di Guido Rossi (il manifesto 26/11) mette con forza l'accento sulla gravità della recessione mondiale, non esitando a compararne gli effetti con quelli di possibili «rischi apocalittici», dalla guerra atomica al collasso ambientale, alle pandemie prodotte dall'uso sconsiderato delle biotecnologie. Sono paragoni scioccanti, ma qualche volta è meglio esagerare - sempre che di eccessi si tratti - che sottovalutare.
Il discorso è importante, considerata la portata delle conseguenze sociali della crisi, anche sul versante delle contromisure. Rossi indica con chiarezza una strada: l'imposizione, da parte dei Paesi più influenti sulle dinamiche di sviluppo (a cominciare dall'Ue), di norme e sanzioni ispirate a principi giuridici globali (global legal standards) rispettosi dei diritti umani. L'idea è che una nuova disciplina giuridica globale sia necessaria per arrestare la dinamica in atto e per impedire l'esplosione di nuove crisi sistemiche.
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La paura che nega il diritto
Guido Rossi
La concorrenza ha sconfitto democrazia e sicurezza che, con la paura e i diritti è diventata oggetto di inquietanti antinomie: si calpestano i diritti per garantire la sicurezza ma con quelle violazioni si creano paure e torna la violenza del Leviatano
Negli ultimi vent'anni la globalizzazione ha cambiato radicalmente la vita economica, politica e sociale dei popoli e degli individui, senza che il diritto ne abbia seguito e disciplinato l'evolversi.
Jacques Derrida nei suoi seminari su «La Bestia e il Sovrano» (Jaca Book, 2009, p.61) ha fatto un esempio illuminante, chiedendosi quale sarebbe stata la reazione allo sventramento delle Torri Gemelle del World Trade Center dell'11 settembre 2001, se l'immagine non fosse stata registrata, filmata, indefinitamente riproducibile e compulsivamente trasmessa in tutti i Paesi del mondo. Il ritorno a Hobbes, dove lo Stato, il Leviatano, altro non è che una macchina per far paura e la paura è l'unica cosa che motiva l'obbedienza alla legge, induce a concludere che «siccome non c'è legge senza sovranità (...) questa chiama, suppone, provoca la paura».
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Dubai ci avverte: anche gli stati falliscono
Joseph Halevi
Ci avevano detto che - sebbene fosse prematuro rallentare le politiche di stimolo (leggi: erogazione di soldi gratis alle banche, perchè di questo si tratta) - si era entrati in una fase di ripresa. «E' vero», si aggiungeva, «vi sono ancora dei rischi di instabilità finanziaria», ma veniva detto per scaramanzia. Quindi grande stupore di fronte all'annuncio dell'insolvenza di Dubai World, la società finanziaria e immobiliare dell'omonimo emirato, che investe in isole artificiali e grattacieli alti molte centinaia di metri.
C'è invece da stupirsi del contrario. Perchè non c'è stata un'uscita programmata da Dubai nel corso di quest'anno? Perchè invece le banche internazionali hanno continuato a prestare forsennatamente al fatuo emirato che non produce assolutamente nulla ed è privo di petrolio? Tra queste c'è anche Royal Bank of Scotland - già colpita dalle cartacce tossiche senza valore provenienti dalla catena di impacchettamenti di titoli dei mutui subprime e beneficiaria del più grande salvataggio mai effettuato da uno stato in favore di una società privata. Una grossa parte del debito di Dubai era stato sottoscritto proprio dalla fallimentare banca scozzese le cui azioni sono oggi detenute dal governo di Londra.
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I dati parlano chiaro: la ripresa non è reale
Prendendo tasso disoccupazione, tasso insolvenza più altri parametri, lo scenario appare quanto mai chiaro. Come è possibile negare l’evidenza?
In questi giorni sto riprendendo in mano la questione “solvibilità del sistema finanziario” e sto cercando di vedere un pochino come stanno realmente le cose.
Cliccando su “ leva finanziaria “ potrete ritrovare i vari post sull’argomento inerenta appunto alla leva finanziaria delle banche americane, italiane ed europee. E già lì, capirete che non tutto il sistema si è mosso nella stessa direzione. O per lo meno, facendo due calcoli capirete che il sistema bancario europeo è ancora in alto mare in merito alla sua ipotetica ristrutturazione.
Ma per quale motivo continuo a battere il chiodo sulle banche e sul sistema finanziario? Perché continuo a pensare che la crisi dipenderà dalla sostenibilità e dal risanamento del settore bancario. Un iter che non deve essere interrotto, quello del risanamento, in quanto è indispensabile il sostegno delle banche in una ripresa economica REALE e non solo virtuale.
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Troppa flessibilità fa male ai muscoli
Carlo Clericetti
Di che cosa si parla quando si discute di posto fisso? I discorsi degli imprenditori e di molti economisti sottintendono una realtà inesistente, ossia che l'impresa non abbia possibilità di dosare il fattore lavoro secondo le esigenze produttive. Sarebbe invece più utile, guardando alla storia del XX secolo e degli ultimi 30 anni in particolare, chiedersi se la flessibilità non sia nociva per l'economia in generale e anche per il funzionamento delle imprese
Il dibattito sul “posto fisso” innescato dalla recente dichiarazione di Giulio Tremonti assume certamente, come è stato sottolineato da alcuni esponenti del centrosinistra, aspetti piuttosto paradossali in un periodo di forte crescita della disoccupazione, che peraltro cancella prima di tutto tutta la gamma dei posti a vario titolo “flessibili”. Eppure sarebbe un errore concentrarsi su quest’ultimo aspetto ed evitare quindi una discussione nel merito. Perché è proprio questo tipo di discussione che stanno invece portando avanti tutti i sostenitori della flessibilità, per riaffermare concetti che negli ultimi due decenni hanno contribuito a quel corpo di teorie diventato tanto dominante da meritare di essere chiamato “pensiero unico”.
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Critica al “Programma di Cernobbio”
di Joaquin Arriola [1] e Luciano Vasapollo [2]
La crisi sistemica del capitalismo deve essere una opportunità tutta politica per forzare l’orizzonte verso i percorsi di transizione al socialismo. Due economisti marxisti spiegano perché il neokeynesismo non può essere l’alternativa alla crisi del capitale confermata dal forum “ufficiale” dell’establishment capitalista a Cernobbio
Nei primi giorni di settembre 2009, a fronte della Cernobbio che conta per la società del capitale, si è realizzato il Controforum dove anche quest’anno associazioni, sindacalisti ed economisti discutono della Campagna Sbilanciamoci contro le politiche di Tremonti e per esaminare le possibilità alternative alla crisi, o meglio per dare indicazione di come uscire a sinistra dalla crisi.
In molti scritti abbiamo sostenuto anche in tempi non sospetti che bisogna parlare di “normalità” della crisi perché già Marx parlò chiaramente della modalità ciclica del sistema capitalista, che ha quindi come sue fasi le crisi economiche, così come l’espansione e i picchi di crescita; ed è proprio attraverso la crisi che il sistema ripristina il suo stato di equilibrio distruggendo forze produttive, lavoro e capitale in sovrabbondanza rispetto ai processi di valorizzazione voluti;
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Il mondo ostaggio dei rentiers
Intervista di Cosma Orsi a Giorgio Lunghini
La crisi economica, questa nostra sconosciuta. Viene presentata così l'attuale recessione, alternando la previsione di una uscita ravvicinata da essa a una lettura che indica nella lunga durata la sua dimensione temporale. Allo stesso tempo l'oscillazione tra le speranze, da parte della teoria economica mainstream, di uscirne fuori in continuità con il passato e la convinzione che «niente sarà come prima» segna la discussione pubblica. Con l'intervista a Giorgio Lunghini inizia una ricognizione su come autorevoli economisti italiani affrontono la natura della crisi attuale. Studioso noto ai lettori de «il manifesto», Lunghini propone di leggere la crisi sia in una prospettiva storica che di analisi critica del capitalismo.
Le domande fondamentali a cui gli economisti cercano una risposta possono essere riassunte così: qual è la natura di questa crisi; è una crisi finanziaria o reale, ciclica o sistemica? Ha senso un confronto con la crisi del '29?
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Honduras, la farsa elettorale
di Fabrizio Casari
La farsa elettorale in Honduras è andata regolarmente in onda. Presenti i candidati, gli osservatori internazionali, i paesi amici e le urne, hanno declinato l’appuntamento solo il 65-70% degli elettori. E’ l’astensione più alta nella storia del Paese. Cosa volete che sia? Non si può avere tutto. E’ stato eletto Porfirio Lobo, con più del 56% dei voti quando lo scrutinio era già concluso nella metà dei seggi. Lobo avrebbe sconfitto Elvin Santos, candidato liberale. Le differenze tra i due? Solo nome e cognome, non si perda tempo nel carcare altri elementi quali idee o programmi. Il fantoccio Micheletti ha assicurato che cederà il potere “senza nessun condizionamento”. Ci mancherebbe altro: non di cessione di potere si tratta, nel caso di specie, ma esclusivamente di subentro di compare.
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Nei pollai degli immigrati che hanno costruito Dubai
Angelo Mincuzzi
DUBAI - Rajendra fa segno di togliersi le scarpe, infila la mano in una finestra e apre la serratura bloccata dall'interno. La porta si spalanca su uno sgabuzzino di tre metri per tre. Lungo le pareti sei letti a castello di metallo nero. E nient'altro. Nessun armadio, nessuna sedia, nessun tavolo. Ci siamo tolti le scarpe, ma non c'è pavimento da calpestare. A Sunafur, estrema periferia di Dubai, poco dopo l'aeroporto e al confine con l'emirato di Sharjah, 200mila persone come Rajendra vivono in un buco come questo. Sunafur è il villaggio degli invisibili, il luogo delle non-persone, dove la sera migliaia di pullmini della Tata e della Daewoo scaricano le mani che hanno costruito Dubai.
«Sono arrivato qui dal Nepal, tre anni fa – racconta Rajendra –. Sono aiuto elettricista e guadagno 900 dhiram al mese, circa 180 euro. Faccio undici ore di lavoro al giorno, sei giorni su sette, trenta giorni di ferie ogni anno, e a fine mese riesco a mandare 500 dhiram alla mia famiglia in Nepal».
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Dubai, la torre di babele dell’iperconsumo
Umberto Mazzantini
"Bancarotta a Dubai" gridano oggi gli stessi giornali che solo ieri, accompagnando negli Emirati Arabi Uniti la visita di Silvio Berlusconi, magnificavano, con la complicità estasiata dei nostri ministri di turno, il bengodi arabo, le isole cementizie che si sporgono in fogge floreali nell'instabile Golfo persico (od arabo che dir si voglia), i grattacieli record, i pomodori coltivati nel deserto per le tavole di emiri che lasciano una scia di petrodollari, lo shopping mondiale in luccicanti ed esclusivi grandi magazzini planetari che hanno trasformato la Costa dei Pirati di antica memoria, i Trucial Staes occupati dagli inglesi, nel nuovo paese dei balocchi del lusso planetario che tanto vorremmo riprodurre nelle zone franche e nei casinò a cui bramano schiere di comuni e regioni italiani.
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Il “ritorno dello Stato” come amministratore della crisi
Norbert Trenkle
1.
Gran parte della sinistra riconduce l’attuale crisi economica mondiale a cause politiche. Secondo questa sinistra, il neo-liberalismo, che ha totalmente deregolamentato il mercato e in modo particolare scatenato i mercati finanziari, ha fallito. Adesso ci aspetterebbe una nuova era di regolamentazione e controllo statale, su cui diventerebbe perciò essenziale incidere. Punti centrali sarebbero il ridimensionamento del capitale finanziario e il rafforzamento dell’economia reale, la quale da parte sua dovrebbe essere riformata in senso ecologico e sociale. La riuscita di questo progetto dipenderebbe soprattutto dai rapporti di forza e dalla mobilitazione politica.
2.
Questa analisi trascura però l’origine di fondo della crisi globale. Anche se essa è stata innescata da un crack dei mercati finanziari, le sue cause vanno cercate in tutt’altro luogo. L’enorme rigonfiamento dei mercati finanziari degli ultimi 30 anni non dipende da decisioni politiche arbitrarie o sbagliate, ma è espressione di una crisi strutturale della valorizzazione del capitale, crisi che è emersa con la fine del boom fordista del dopoguerra.
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Lettera a chi vuole controllare la rivoluzione colorata viola
di Pino Cabras
Ehi, dico a te,
Oh sì, vedrai, il 5 dicembre anche io sarò in piazza per dire che il Caimandrillo farebbe bene a preparare le valige. Non se ne può più di lui, davvero. E anche tu – che sai tirare tanti fili - non ne puoi più di lui, l’ho capito. Vedrò tutti da vicino, avvolti dal viola di questa rivoluzione colorata, il pigmento unico che già oggi omologa un’intera collezione autunno-inverno con un'uniformità mai vista prima. Andiamo verso i disordini e la dissoluzione della Repubblica, ma ben vestiti, e ben pettinati. Alla moda. Viola.
E tu provi a colorare la crisi italiana proprio mentre si muove dentro una crisi più vasta. La fai viola, proprio ora che siamo al verde, e i conti in rosso. In gioco c’è qualcosa di più della sorte di un governo azzurro, nero e verde-padano. La Seconda Repubblica si trasformerà ancora, e la sfera pubblica sarà modificata da tanti protagonisti che lasceranno un’impronta costituzionale nuova. Il popolo sarà coinvolto, ma il derby vero si giocherà nell’élite. Chi sono i giocatori? Chi sono gli allenatori? Intanto, tu vuoi scegliere il coach più di tutti, come sempre.
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Le meravigliose bolle di sapone Carry Trade
di Nouriel Roubini *
Da marzo i prezzi delle attività rischiose di ogni genere (azioni, petrolio, energia, materie prime) hanno ripreso a correre, gli spread creditizi tra titoli ad alto rendimento e di alta qualità hanno cominciato a ridursi, e le attività dei paesi emergenti (azioni, obbligazioni, valute) sono risalite ancora di più. Contemporaneamente, il dollaro si è fortemente indebolito, mentre i rendimenti dei titoli di stato sono leggermente saliti, ma sono rimasti bassi e stabili.
Questa ripresa degli asset rischiosi è trainata in parte dal miglioramento dei fondamentali dell'economia. Abbiamo evitato una quasi depressione e il tracollo del sistema finanziario grazie a un imponente piano di stimoli monetari e di bilancio e agli interventi di salvataggio delle banche in difficoltà. Sia che la ripresa segua una curva a V, come ritiene la maggior parte dei commentatori, o un'anemica curva a U, come ritengo io, i prezzi delle attività dovrebbero gradualmente crescere.
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Miccia corta
di Sergio Segio
Uno stralcio della Prefazione alla nuova edizione di Miccia corta
Oltre quattro anni fa, licenziando questo libro, ho provato una sensazione liberatoria: quella di aver portato a termine ciò che si ritiene un proprio dovere, un impegno morale. Non tanto riguardo me stesso: ho fatto da tempo i conti con la mia coscienza, e anche con l’orgoglio; conti talvolta più dolorosi di quelli giudiziari. Non ho nulla da difendere se non, appunto, l’impegno di verità e memoria verso una storia collettiva negata, rimossa o mistificata. Sempre più spesso anche da chi l’ha vissuta in prima persona.
Quando, nel 2006, il regista Renato De Maria mi contattò per propormi di costruire un film a partire da questo libro il sentimento prevalente fu quello della preoccupazione: mi rendevo conto benissimo di quanti attacchi personali e polemiche astiose ciò avrebbe provocato.
D’altro canto, il «ritmo» cinematografico è quello che – da molti punti di vista – ritenevo e ritengo maggiormente adatto a raccontare la vicenda che sta al centro di Miccia corta e, più in generale, la storia degli anni Settanta, bruciati veloci. Come una miccia corta, appunto. In questo senso, l’assalto al carcere di Rovigo, che costituisce il cuore narrativo di queste pagine, non ha solo il sapore crepuscolare di una storia che volge consapevolmente al termine: ha anche la valenza paradigmatica dello scialo di vita, della gioventù e dei sogni che consumano rapidi, senza risparmio e senza cautele.
Dunque il progetto filmico mi apparve come un’occasione, rischiosa ma preziosa, di portare un nuovo contributo alla riflessione pubblica su quegli anni e quelle vicende, che a tutt’oggi costituiscono un passato che non passa, una ferita slabbrata e infetta.
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I terro-buonisti
Aldo Giannuli
Nella scorsa settimana è giunto alla redazione bolognese dell’Unità un documento di 4 cartelle a firma “Nuclei di azione territoriale (Luca ed Annamaria Mantini)” che contiene una analisi della situazione e la proposta di una ripresa della lotta armata.
Il testo è certamente opera di “professionisti” e va preso sul serio, ma chi sono i veri autori e che intenzioni hanno?
Il documento è molto ripetitivo e sembra scritto da persona di qualche cultura sociologica prossima alla sinistra alternativa (scrive “migranti” al posto di “Immigrati”), e mostra con qualche incertezza lessicale (scrive “succube” al posto di “succubo”; Succube è il nome tardo latino di un demone in forma di donna). Non ci sono particolari pregi di originalità e si riprendono molti argomenti della polemica degli ultimi mesi.
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Crisi sistemica globale - Gli stati di fronte alle tre opzioni brutali del 2010: Inflazione, forte pressione fiscale o insolvenza
GEAB N°39 (15 novembre 2009)
Così come anticipato da LEAP/E2020 nel febbraio scorso, in mancanza di una rifusione generale del sistema monetario internazionale, il mondo è prossimo ad entrare nella fase di smembramento geopolitico mondiale della crisi sistemica globale. Per l'anno 2010, sulla base della depressione economica e sociale, e dell’aumento del protezionismo, quest'evoluzione condannerà un grande numero di Stati a scegliere tra tre opzioni brutali, cioè: l' inflazione, il forte aumento della pressione fiscale o insolvenza. Un numero crescente di paesi (USA, Regno Unito, Eurolandia (1), Giappone, Cina (2),…), avendo sparato tutte le cartucce di bilancio e monetarie nella crisi finanziaria del 2008/2009, non può infatti più offrire altra alternativa. Tuttavia, per riflesso ideologico e per tentare di evitare con tutti i mezzi di assumere scelte così dolorose, tenteranno di lanciare nuovi piani d'incentivazione economica (spesso sotto altre denominazioni) allorché è diventato ovvio che gli ardui sforzi pubblici di quest'ultimi mesi miranti a rilanciare la crescita non saranno sostituiti dal settore privato. Infatti, il consumatore così come lo si conosce da più decenni è bello che morto, senza speranza di resuscitarlo (3).
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Deflazione: bolla delle mie brame, qual è la più grossa del reame?
Andrea Mazzalai
Oltre un anno fa scrissi un pezzo nel quale evidenziai come Bernanke mise in piedi una sorta di Bubble Team, composto da tre economisti, Hang, Xiong e Brunnermeier, provenienti rispettivamente dal Vietnam, dalla Cina e dalla Germania, nella "sua" università, quella di Princeton, per cercare di comprendere come sia possibile sgonfiare una bolla senza spegnere la naturale effervescenza di un ciclo che corre il rischio di essere scambiata con una pericolosa irrazionale euforia.
Al di la delle considerazioni uscite da questo studio, nel quale l'ottimismo formula la crescita e l'espansione della bolla per essere sostituito all'improvviso da un cambiamento delle condizioni economiche che spinge i partecipanti a precipitarsi in massa verso le uscite di emergenza, sarebbe bastato leggere le teorie di Minsky e Fisher. Ma forse era chiedere troppo a colui che ha sposato l'ideologia della razionalità dei mercati, chiedere troppo a colui che sostiene che la razionalità dei mercati può essere travolta solo da un evento esogeno.
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Una sinistra senza Rete
Benedetto Vecchi
«Lo spettro del capitale», un saggio di Marcello Cini e Sergio Bellucci sull'economia della conoscenza
Pagine sostenute da un'urgenza politica: perché il movimento operaio è incapace di proporre una visione alternativa a quella dominante? È attorno a questa domanda che il saggio di Marcello Cini e Sergio Bellucci Lo spettro del capitale (Codice edizione) si sviluppa, evidenziando come, anche chi esercita il potere, non dorme sonni molto tranquilli. Lo testimonia la crisi economica, che da un biennio sta ridisegnando i rapporti sociali e le relazioni tra Stati a livello mondiale in una direzione che, più che costituire una soluzione, rappresenta un problema aggiuntivo rispetto la possibilità di uscire dalla crisi, perché le dinamiche e i conflitti sociali e geopolitici del capitalismo contemporaneo non contemplano un esito riformista, come è stato il New Deal e il welfare state dopo la crisi del '29 e la seconda guerra mondiale. Dunque, un saggio ambizioso che concede ben poco allo stile espositivo e molto, invece, alla radicalità dei problemi che la sinistra, meglio quello che ne rimane, si trova di fronte.
La tesi dei due autori è presto riassunta. Negli ultimi lustri, il capitalismo ha conosciuto un mutamento radicale che ha portato al centro della scena la conoscenza, divenuta fonte primaria nei processi lavorativi nonché settore trainante della produzione della ricchezza. Una conoscenza intesa nella sua forma generica, ma tuttavia pervasiva dell'attività economica. Non solo dunque il sapere tecnico-scientifico, ma anche l'informazione, l'intrattenimento, l'immaginario collettivo sono diventati il cuore del capitalismo.
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I tortuosi sentieri del capitale
David Harvey intervista Giovanni Arrighi
Giovanni Arrighi, dall’inizio degli anni Sessanta fino al giorno della sua scomparsa, il 18 giugno scorso, è stato qualcuno che ha creduto, con tenacia illuministica, nella possibilità di penetrare nel fatum capitalistico. Per questo suo sforzo è considerato, a livello mondiale, uno dei massimi studiosi del capitalismo in un’ottica storico-comparativa. Avendo lasciato l’Italia per gli Stati Uniti, nel 1979, il nostro paese lo ha ricambiato prestando poco interesse alla sua opera. Non credo che questo sia mai stato per lui un dispiacere. Gli era perfettamente chiaro che gli strumenti intellettuali che aveva elaborato sarebbero stati usati da generazioni di intellettuali asiatici, africani o americani piuttosto che europei. Un bel ricordo di Arrighi da parte di Piero Pagliani qui. A. I.
[Presentiamo alcuni brani dall’ultima intervista di Arrighi, rilasciata a David Harvey e apparsa sul numero 56 (mar.-apr. 2009) della New Left Review. Ringrazio David Harvey, Beverly Silver, Kheya Bag per la disponibilità, Nicola Montagna per i pareri sulla traduzione e la Fondazione Istituto Gramsci Emilia-Romagna per le indicazione bibliografiche. Gh. B.]
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USA, è vera decadenza?
di Domenico Moro
Alla vigilia del viaggio del presidente Obama in Estremo Oriente, il Sole24ore ha pubblicato un fondo di John Plender. La tesi del rinomato editorialista del Financial Times è semplice: la decadenza degli Usa è meno forte di quanto si creda e la loro egemonia non è realmente in discussione. Secondo il columnist gli Usa non sono condannati a ricalcare le orme della Spagna nel XVII secolo e della Gran Bretagna nel XX secolo, costrette al collasso dall’eccessivo allargamento dei loro imperi.
Soprattutto Plender, pur riconoscendo la pericolosità dell’enorme debito Usa (delle famiglie, statale e del commercio estero) nei confronti dei paesi creditori (in primis la Cina) ritiene che: “Se la classe politica statunitense dimostrerà di essere all’altezza della sfida fiscale e se gli americani impareranno a risparmiare di più ci sono buone possibilità che questo paese riesca a sottrarsi a un significativo declino e resti la potenza economica e militare più importante al mondo ancora per molto tempo.”
Il punto è che c’è qualche “se” di troppo nel ragionamento di Plender. Invertire la tendenza all’indebitamento è non solo molto difficile, ma contrasta direttamente con i rapporti economici dominanti sia all’interno degli Usa sia tra gli Usa ed il resto del mondo. Se i lavoratori americani si indebitano non è per capriccio ma perché non vi sono altri modi per conservare i loro standard di consumo, che sono condizione necessaria agli alti tassi di profitto delle imprese Usa.
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A chi non si rassegna
di Vladimiro Giacché
Alberto Burgio, Senza democrazia. Un’analisi della crisi, DeriveApprodi, Roma, 2009, pp. 286, euro 15.
Sulla gravità della crisi economica mondiale in corso sussistono ormai ben pochi dubbi. Gli stessi confronti con la depressione iniziata nel 1929 mostrano un declino dei principali indicatori economici addirittura peggiore di allora. Commisurata con l’eccezionalità della situazione che stiamo vivendo, la qualità media delle opere dedicate alla crisi è a dir poco deludente. Abbiamo avuto una vera e propria panoplia di libri e libretti sulla casta dei banchieri privati e sulle loro colpe, sugli errori dei banchieri centrali, delle società di rating, e così via. Si direbbe che la stessa letteratura “scientifica” abbia scelto di seguire la strada imboccata da quella giornalistica: ossia di offrirci ricostruzioni degli eventi a carattere scandalistico e moralistico – quindi parziali ed elusive. Data questa diagnosi della malattia, non può stupire che le terapie proposte oscillino tra un vago keynesismo pre-reaganiano, il richiamo al rafforzamento delle autorità di sorveglianza dei mercati finanziari e l’asserita necessità di eliminare le mele marce che avrebbero guastato il buon funzionamento dei mercati. Siamo ben lontani, insomma, dal ricchissimo dibattito sul capitalismo che si aprì dopo la crisi del 1929.
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