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Il coraggio della disperazione
di Slavoj Žižek
Alla Grecia non viene chiesto di ingoiare molte pillole amare in cambio di un piano realistico di ripresa economica, ai greci viene chiesto di soffrire affinché altri, nell’Unione Europea, possano continuare indisturbati a sognare i propri sogni
Il filosofo italiano Giorgio Agamben ha detto in un’intervista che “il pensiero è il coraggio della disperazione” — un’intuizione pertinente in modo particolare al nostro momento storico, quando di solito anche la diagnosi più pessimista tende a finire con un cenno ottimista a qualche versione della proverbiale luce alla fine del tunnel. Il vero coraggio non sta nell’immaginare un’alternativa, ma nell’accettare le conseguenze del fatto che un’alternativa chiaramente discernibile non c’è: il sogno di un’alternativa indica codardia teorica, funziona come un feticcio, che ci evita di pensare fino in fondo l’impasse delle nostre situazioni di difficoltà. In breve, il vero coraggio consiste nell’ammettere che la luce alla fine del tunnel è molto probabilmente il faro di un altro treno che ci si avvicina dalla direzione opposta. Del bisogno di un tale coraggio non c’è migliore esempio della Grecia, oggi.
La doppia inversione a U imboccata dalla crisi greca nel luglio 2015 non può che apparire come un passo, non solo dalla tragedia alla farsa, ma, come ha notato Stathis Kouvelakis sulla rivista Jacobin, da una tragedia piena di ribaltamenti comici direttamente a un teatro dell’assurdo — c’è forse un altro modo di caratterizzare questo straordinario ribaltamento di un estremo nel suo opposto, che potrebbe abbacinare perfino il più speculativo tra i filosofi hegeliani?
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I pericoli del Piano Schaeuble e gli errori di Tsipras
di Enrico Grazzini
L'europeista Schaeuble ha elaborato un piano per il governo unificato dell'Eurozona finalizzato a consolidare il dominio tedesco sull'economia europea. In questo contesto va letto il suo progetto di espellere la Grecia (e forse l'Italia?) dalla zona euro. Il piano dell'arcigno ministro tedesco delle finanze, alfiere delle più dure politiche di austerità, del pareggio di bilancio e del Fiscal Compact, prevede la nomina di un ministro dell'Economia dell'Eurozona il quale avrebbe diritto di veto sui bilanci e sulle leggi finanziarie decise dai Parlamenti dei 19 paesi aderenti all'euro.
Insomma il nuovo ministro europeo dell'economia diventerebbe il guardiano anti-democratico dei bilanci pubblici della zona euro. Inoltre Schaeuble propone di costituire un parlamentino ristretto dell'Eurozona, composto dai parlamentari delle nazioni aderenti, e quindi diverso dal Parlamento europeo, per dare un crisma di democraticità al suo Piano di integrazione della zona euro[1]. L'Eurozona si doterebbe anche di un fondo particolare – sostenuto dai singoli Paesi o da una tassa specifica per i cittadini dell'Eurozona – per affrontare le crisi ed eventualmente concedere sussidi di disoccupazione in caso di necessità. Insieme al bastone anche la carota.
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Traverso e gli intellettuali
di Piergiorgio Giacchè
“Enzo Traverso è uno storico italiano, da anni attivo in Francia”, ci dice la voce di Wikipedia, il dizionario-oracolo dei nostri tempi e mondi. Poi aggiunge che è stato in Germania e infine che da due anni insegna anche in America, a Ithaca… paradossale approdo di un forse definitivo “non ritorno”. Se Traverso fosse un chimico o un fisico o al limite un medico si parlerebbe di “fuga dei cervelli”, ma questa dizione non si applica agli studiosi di storia e di scienze politiche e sociali: certo per sventurata sottovalutazione di chi studia con profitto scienze senza profitto, ma anche per la fortunata licenza di fuggire e viaggiare che è concessa ai ricercatori di scienze umane, sempre visti come privilegiati perdigiorno, insomma come “intellettuali”. Eppure da qualche intellettuale come Enzo Traverso arrivano ancora di tanto in tanto preziose “rimesse degli emigranti”, di quelle che una volta nutrivano regioni intere e che invece oggi alimentano piccole case editrici dai nomi che tradiscono tutta la minorità delle minoranze attive. “Ombre corte” si chiama la casa editrice di un breve libro che ha per titolo Che fine hanno fatto gli intellettuali?, un saggio di Enzo Traverso intervistato da Régis Meyran che ha il doppio torto o il doppio pregio di essere il commento di un intellettuale al tema della sua stessa fine. Non sarà certo un best-seller né lo può diventare dopo questa segnalazione su una rivista come “Lo straniero”, ma non ne parliamo per solidarietà con i minori o con i migranti, ma perché colpiti dall’offerta di un ”libretto-specchietto” dove per una volta noi intellettuali – lettori o scrittori che si sia – non ci si sente narcisi. E finalmente e fatalmente ci si riflette.
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Il Marx di Diego Fusaro
Enrico Galavotti
Indubbiamente Diego Fusaro, astro nascente dell'attuale filosofia marxista italiana, ha avuto e tuttora ha il merito di aver aiutato a riscoprire la portata eversiva delle teorie anti-capitalistiche di quel grande economista chiamato Karl Marx.
Vogliamo sottolineare la qualifica di "economista" perché è in questo ruolo che Marx ha dato il meglio di sé, checché ne pensi Fusaro, che invece lo preferisce di più nei panni del "filosofo" o in quelli del "filosofo dell'economia", rischiando così pericolosamente di darne un'interpretazione influenzata dall'hegelismo, come d'altra parte fece uno dei suoi principali maestri, Costanzo Preve.
La vera grandezza di Marx sta invece proprio in questo, nell'aver distrutto il primato della filosofia, facendo dell'economia politica una vera scienza, e non una semplice ideologia al servizio della borghesia, com'era, in particolar modo, quella elaborata in Inghilterra, in cui dominava l'idea di considerare il capitalismo un fenomeno di tipo "naturale" e non "storico", ovvero come un evento destinato a durare in eterno e non a essere superato da una società di tipo comunista. Per l'ultimo Marx, quello interessato all'antropologia, il comunismo altro non sarebbe stato che un ritorno al comunismo primitivo in forme e modi infinitamente più evoluti, in quanto scienza e tecnica avrebbero giocato un ruolo di rilievo, assolutamente più democratico di quello che svolgono in un contesto dominato dall'antagonismo tra capitale e lavoro.
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Grecia: la lotta continua se c'è il piano B
di Marco Palazzotto
Il recente articolo di Tommaso Baris sulla crisi europea (lo trovate qui), ed in particolare sui fatti della Grecia, rappresenta una buona occasione per analizzare alcune problematiche che investono il nostro paese, e il nostro continente, a partire ormai dal biennio 2007/2008. In altre occasioni nel nostro sito abbiamo affrontato il tema della crisi greca (qui l’articolo di Roberto Salerno e qui quello di Giovanni Di Benedetto), ma ci siamo limitati a pubblicare pochi contributi in attesa della conclusione di alcuni passaggi decisivi. Oggi, con la capitolazione di Tsipras dopo l’ultimo accordo di “salvataggio” della Grecia - e grazie allo stimolo del contributo di Tommaso della scorsa settimana - ritengo sia importante redigere un primo bilancio dell’esperienza di Syriza e, con l’occasione, evidenziare alcuni punti sulla situazione politica ed economica attuale, tentando di elaborare alcune soluzioni politiche.
Parto subito con i due problemi principali che trovo nell’articolo appena citato e che pare rappresentino elementi comuni alle diverse anime di quel che rimane della sinistra nostrana. I due problemi principali riguardano: 1. la dimensione geografica e sociale dell’organizzazione di una forza politica di sinistra in grado di contrastare l’attuale potere europeo; 2. le conseguenti politiche economiche da attuare per cercare di rendere più decente la vita di milioni di uomini e donne in Europa, oggi povere o al limite della povertà a causa anche dell’austerity.
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Podemos, il capitalismo e la fine del mondo
di Fabio Ciabatti
“Non capite che il problema siete voi? Che in politica non conta avere ragione, ma avere successo?” Questa frase non è stata pronunciata da Frank Underwood in una puntata della fortunata serie televisiva House of Cards, ma da Pablo Iglesias, leader di Podemos, la formazione politica spagnola erede del movimento degli Indignados. La citazione è presa da un discorso – pronunciato in un’assemblea a Valladolid (vedi qui la sintesi) – in cui si fa uno sconcertante elogio di un realismo politico a dir poco spregiudicato.
A scanso di equivoci il ritorno di un orientamento realistico, dopo anni in cui la sinistra non istituzionale si è limitata a un approccio meramente etico o a un velleitarismo estremistico, può essere un fattore positivo. Soprattutto perché significa tornare a confrontarsi con il tema del potere e della sua conquista da parte di un partito che rappresenta una delle novità di maggior rilievo nel panorama politico europeo e che ha comprensibilmente suscitato molte speranze e simpatie. Ma il potere rimane una brutta bestia: troppo spesso chi crede di averlo conquistato ne rimane invece soggiogato. Per questo occorre chiedersi se l’estremo pragmatismo professato da Iglesias sia coerente con il radicalismo esibito dal suo partito.
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Spunti di antropologia e logica
Francesco Alarico della Scala
Intorno all’annosa questione della natura umana si consuma oggi una delle battaglie culturali decisive contro l’ideologia dominante.
Varie analisi pubblicate su questo giornale mettono a fuoco l’odierno scontro fra le tendenze opposte eppur complementari del culturalismo e dell’ontologismo. La loro opposizione è facilmente intuibile: l’una afferma l’assoluta fluidità (e la conseguente infinita malleabilità) dell’uomo, l’altra prende rassegnatamente atto della sua natura immutabile. Più complessa è la loro complementarità, che non va ricercata nel campo della teoria pura bensì in quello della genesi oggettiva, storica e di classe, di tali forme ideologiche (nel senso deteriore del termine): ad essere “naturalizzata” e resa immutabile è soltanto la parte della “natura umana” che si conforma alle leggi dell’economia di mercato, cioè il suo istinto egoistico che renderebbe impossibile un sistema sociale improntato al collettivismo, alla cooperazione e alla solidarietà reciproca; fluidi e manipolabili divengono invece tutti i tratti della “natura umana” che contrastano, in atto o in potenza, con gli interessi del capitale, ossia tutte le tradizioni in blocco, i rapporti familiari, l’identità sessuale, ecc. È palese che la fonte di queste tendenze ideologiche non va ricercata nel progresso del pensiero scientifico e filosofico contemporaneo ma negli interessi di classe della borghesia e in particolar modo dell’oligarchia finanziaria, che soli ci offrono la chiave per la mediazione di queste tesi contraddittorie.
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Per una prassi istituente
Recensione a “Del Comune o della rivoluzione nel XXI secolo”
di Andrea Baldazzini
É ormai innegabile la necessità di costruire una nuova cultura politica che sappia per un verso disporre di categorie teoriche sufficientemente articolate in grado di dare conto della complessità dei rapporti reali (momento analitico), per l’altro promuovere concrete pratiche attive passibili di riconoscimento e istituzionalizzazione. Ebbene, quest’ultimo lavoro di Pierre Dardot e Christian Laval ha il grande merito di non essere la solita analisi irretita sul presente, ma avanza coraggiosamente un’interessante proposta politica costituita da un solido nucleo teorico costruito intorno al tema del Comune, nonché da una serie di dettami volti alla realizzazione di un’autentica prassi istituente. É importante tenere poi a mente che quanto viene qui presentato costituisce il proseguo, se si vuole la part construens, del lungo lavoro di studio compiuto dai due autori e raccolto nel loro penultimo libro intitolato “La nuova ragione del mondo. Critica alla razionalità neoliberista”, dove ad essere messo a tema è la logica sottostante il modello neoliberale pensato non semplicemente come fenomeno economico, ma piuttosto nei termini di una vera e propria Ragione assoluta in grado di coinvolgere la totalità degli aspetti dell’esistenza individuale. Interessante è notare che il libro appena citato termina con un accenno proprio al tema del Comune: «Il governo degli uomini può fondarsi su un governo di sé che si apra a rapporti con gli altri che non siano quelli della concorrenza tra ‘attori imprenditori di se stessi’.
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La Grecia, la sinistra e la sinistra della sinistra - Parte I
di Jacques Sapir
In un recente post del suo blog, Jacques Sapir analizza l’effetto della crisi greca sulla sinistra socialdemocratica europea e cerca di tracciare una genealogia dell’ideologia che la guida dagli anni ’80. A 30 anni dalla sbornia storica che si sono presi (gli anni di piombo in Italia, la vittoria del thatcherismo in UK, il crollo dell’Unione Sovietica e l’avvento del mondo unipolare a guida liberista), nella crisi che ha svelato il vero volto dell’Unione Europea, i partiti socialdemocratici possono ancora negare che decenni di compromessi sui propri principi hanno generato un mostro?
Il diktat estorto alla Grecia dall’Eurogruppo e dalla Commissione Europea è una tragedia per la Grecia. Questo accordo non risolverà nulla e addirittura peggiorerà la crisi che la Grecia sta attraversando. Il debito greco non era sostenibile nel 2010. Né nel 2012. E ancora non si sta attenendo a questo diktat. La solvibilità del paese non è affatto assicurata, perché non è garantita nemmeno la sopravvivenza dell’economia. Qui vi è la prova, negata dai negoziatori di Bruxelles, che un paese può rimborsare solo quello che la sua economia gli consente. In realtà, a sembrare estremamente evidente è addirittura il contrario, poiché le misure imposte dal diktat, in combinazione con le politiche della Banca Centrale Europea, andranno ad aggravare la crisi economica in Grecia. Ma le condizioni che hanno circondato questo disastro hanno conseguenze che vanno oltre la Grecia. Adesso stiamo guardando il naufragio della socialdemocrazia europea e un momento cruciale per quella che viene chiamata la «sinistra radicale».
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L’antisistema si fa governo
Benedetto Vecchi
Riflessioni su Podemos a partire dal libro di Pablo Iglesias, «Disobbedienti». Un partito qualificato come sinonimo di un «populismo 2.0» che invece consegna un nuovo appeal a una visione egualitaria del mondo
Populismo 2.0. È l’espressione che ricorre abitualmente per qualificare l’esperienza politica di Podemos, il partito spagnolo che ha terremotato il panorama politico iberico. Gli analisti, come sempre, mettono in evidenza le distanze, gli elementi di discontinuità dal pensiero politico classico, inscrivendo questa giovane formazione nell’alveo, tutto sommato tranquillizzante, del populismo di matrice latinoamericana. Una cornice tesa a demonizzare le potenzialità elettorali di Podemos, collocando la sua azione al di fuori di una dimensione costituzionale e ai margini della tradizione democratica europea. A leggere il volume di Pablo Iglesias Turrion Disobbedienti (Bompiani, pp. 300, euro 18; ne ha già scritto su questo giornale Giuseppe Caccia in occasione della sua uscita spagnola il 14 febbraio scorso, ndr) tale semplificazione va in mille pezzi. Con un’avvertenza: ciò che viene qualificato come antisistema non viene smentito, ma arricchito semmai di molti elementi che collocano Podemos nella critica della democrazia rappresentativa. Cosa che non esclude tuttavia una forma istituzionale fondata su un dinamico equilibrio tra democrazia diretta e, appunto, la sua forma rappresentativa attraverso il riconoscimento delle figure di autogoverno messe in campo dalla società civile in una successione di mutuo soccorso, cooperative sociali, sindacalismo di base che trovano il loro coordinamento dentro la Rete.
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Lotta nelle strade contro lo spettacolo?
di Anselm Jappe
Le teorie sociali nascono per spiegare gli eventi del proprio tempo, più o meno rilevanti. Con il passare degli anni, e con la società che cambia, il loro valore euristico tende a diminuire. Pertanto, il tribunale della storia conserva solamente quelle letture della realtà che hanno dimostrato di poter essere applicate a situazioni diverse rispetto a quelle da cui sono nate, in quanto hanno catturato le tendenze generali di un'epoca più ampia. Queste teorie non sono "profetiche" (categoria vuota), ma sono state in grado di comprendere l'essenza di un lungo periodo storico. Coloro che oggi si richiamano ancora all'epoca di Tocqueville, o di Marx, o di Weber, o di Pareto, affermano che essi compresero, uno o quasi due secoli fa, alcuni elementi della società moderna che ancora oggi sono presenti, seppure in maniera differente. Come contropartita, teorie più recenti che, per fare un esempio, hanno visto nell'alleanza fra gli operai delle fabbriche ed i cittadini un elemento capace di trasformare la società capitalista, ci appaiono già irrimediabilmente datate.
Le teorie elaborate negli anni 50 e 60 del secolo passato, in particolare da Guy Debord e dai situazionisti, fanno parte di quest'analisi dell'effetto prolungato? Sono in grado di aiutarci a comprendere i fenomeni che questi autori non potevano allora ancora conoscere?
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La classe dirigente americana ha un solo obiettivo: il Mondo
Michele G. Basso
Dal vagone piombato al jihadismo senza frontiere
Gli USA, sconfitte le dittature fasciste, ne hanno ereditato l’aggressività, il revisionismo bellico, il disprezzo per ogni norma internazionale. La differenza è che, mentre i fascismi si svilupparono in paesi che non avevano colonie o ne avevano di meno importanti, e lottavano per una redistribuzione dei grandi imperi coloniali di Gran Bretagna, Francia, Olanda, Belgio… gli USA sono tuttora la potenza dominante che, invece di accettare l’inevitabile decadenza relativa, cerca di impedire con la forza lo sviluppo di ogni altra grande concentrazione finanziaria, industriale, politica, militare antagonista. E, per far questo, procede a una ricolonizzazione che ha la sua espansione maggiore in Africa, ma non rinuncia, tramite golpe, governi nominati direttamente da Washington, o dalle banche e dalle multinazionali, a subordinare paesi sviluppati in Europa, Asia o America Latina.
Siti e giornali, di destra e di sinistra, vantano i successi di Putin, come valido rivale di Washington. Anche se il suo governo ha reagito abbastanza bene all’offensiva USA, si tratta di operazioni prevalentemente difensive. Pur avendo il territorio più vasto del mondo, la Russia come popolazione non può competere con gli USA, l’Indonesia, il Brasile, ma solo con Nigeria e Pakistan – per ora soltanto, perché la natalità è più bassa della mortalità.
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Tra l'Europa impossibile e la Nazione impotente
Ridefinire il progetto per i tempi a venire
Pierluigi Fagan
Dopo la seconda guerra mondiale, l’Europa ed i suoi principali stati componenti, si svegliarono in un nuovo, inedito, mondo. Per la prima volta nella storia, il mondo andava connettendosi in modo tale da presentarsi come un sistema unico. Per la prima volta nella storia degli ultimi quattro secoli, l’Europa non era più il centro del mondo, le proprie diatribe interne non diventavano la trama che si proiettava sul resto del pianeta e soprattutto, nessun attore europeo poteva ritenersi vincitore di alcunché avendo tutti perso, sia la guerra, sia la legittimità culturale a porsi come modello di riferimento. Il dopoguerra si presentò come una tenaglia che stringeva una Europa devastata e smarrita, tra la pressione americana e quella sovietica. Successivamente, la globalizzazione rese chiara la vastità del mondo e fece emergere nuove potenze. Lo stato nazione europeo, cioè di piccola-media dimensione in un ambiente eccessivamente frazionato e competitivo, nasce dentro uno scenario eurocentrico ma oggi lo scenario non solo non ha più centro in Europa ma forse non ha neanche centro in sé per sé. Da qui, la crisi del concetto stesso di stato-nazione europeo.
Questa crisi oggettiva alimentò le prime idee sul superamento dello stato-nazione europeo che si posero la domanda del “come”?
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La lotta al feticcio e l'indifferenza su Banca Centrale indipendente e Costituzione
di Quarantotto
1. In margine all'analisi critica compiuta da Alberto Bagnai su Goofynomics, relativa alla presa di posizione di Luciano Gallino, così come ai tentativi di dialogo che, con grande pazienza e disponibilità, partono da Sergio Cesaratto, vale la pena di fare alcune riflessioni ulteriori.
In termini pratici, l'azione critica di Alberto e Sergio visualizza la radiografia di una sinistra non più riconoscibile come tale (proprio se riferita alle sue tradizionali coordinate: cioè comprensione dell'assetto dei rapporti di produzione e tutela effettiva della classe lavoratrice): il massimo che si può ottenere (faticosamente e con bassa probabilità di successo) è che da sinistra non si aggredisca e non si rifiuti chi propone analisi razionali di recupero della democrazia sociale!
2. E' chiaro che chi si identifica, a livello di base, con queste ormai consolidate pulsioni e se ne sente rappresentato/a, soffre della stessa dissonanza cognitiva che abbiamo qui più volte illustrato e che risulta figlia del combinato tra antiberlusconismo inerziale come unico punto autolegittimante identitario e internazionalismo antisovranista, avulso da ogni comprensione effettiva della radice del fenomeno.
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Il “Greco Levantino” e la narrazione al tempo della crisi
di Girolamo De Michele
Circa quattro anni fa, il non-ancora-greco-levantino Yanis Varoufakis scrisse un testo (Never bailed out: Europe’s ants and grasshoppers revisited, dicembre 2011, qui) nel quale la narrazione delle cause della crisi greca si intrecciava con la sovversione della narrazione dominante, incentrata sulla contrapposizione fra le virtuose formiche (tedesche) del nord e le scellerate cicale (greche) del sud d’Europa. Questa narrazione fungeva da schermo nei confronti della reale contrapposizione fra cicale e formiche, che non è originata nelle identità nazionali o localizzata nell’asse cardinale nord-sud, ma radicata negli antagonismi di classe: le formiche greche lavoravano in settori a bassa produttività con bassi salari e tutele lavorative e un’inflazione reale superiore a quella ufficiale; quelle tedesche lavoravano in settori a grande produttività, e la differenza fra alti profitti e salari stagnanti creava un surplus che veniva investito, a causa dei bassi tassi d’interesse esistenti in Germania, all’estero; per contro, le cavallette tedesche (quegli inimitabili banchieri il cui scopo è massimizzare i guadagni col minimo sforzo) facevano fluire il capitale prodotto dal duro lavoro a basso costo delle formiche verso il meridione in cerca di alti guadagni, mentre le cavallette greche, e i loro alleati politici al governo, chiedevano alle cavallette tedesche (le banche) sempre maggiori prestiti, senza pensare al domani (per contro, le formiche greche dovevano farsi carico dei costi di questa macchina finanziaria che non portava alcun reale beneficio al popolo greco.
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Il Keynesismo in un solo paese è impossibile
di Sergio Cesaratto
Di seguito il denso e istruttivo intervento di Sergio Cesaratto al seminario promosso da Fassina e D'Attorre "Europa, sovranità democratica e interesse nazionale", svoltosi a Roma 16 luglio 2015
Cari compagni,
mi sembra che la principale vittima della capitolazione greca sia l’Europa, che definitivamente mostra la sua faccia di istituzione anti-democratica dominata da un solo paese, e con essa l’europeismo utopico di certa sinistra.[1]
La Grecia crollerà in pochi mesi
E’ chiaro che la questione greca non è finita qui. Martedì il FMI ha ribadito, e di rimbalzo la Commissione ha ammesso, quello che tutti sanno, cioè l’insostenibilità del debito greco che o va tagliato o congelato con una moratoria di tre o più decenni. “Extend and pretend”, dicono gli anglosassoni. Questo non vuol dire una vittoria della Grecia (non dico di Syriza perché ormai non possiamo più parlare di un governo Syriza). La Grecia non può pagare e quindi si fa finta che pagherà. Ma l’austerità rimane lì.
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L’impossibile politica. Note critiche sull’estasi del conflitto
di Militant
1.
Anni di accomodamento riformista e di convergenze democratiche dei movimenti hanno prodotto, per reazione, una salutare rottura epistemologica. Contro ogni ipotesi centrosinistra, è stata rimessa al centro l’alterità totale tra istanze di classe e governo liberale, tanto nella forma conservatrice quanto per quella presuntamente democratica. La pappa maleodorante della presunta analogia di interessi tra partiti liberisti e movimenti sociali ha lasciato il campo al confronto tra amico e nemico, dialettica non sintetizzabile e che produce necessariamente il conflitto quale presupposto stesso del rapporto contraddittorio messo in piedi dalla politica. E’ il conflitto sociale lo strumento attraverso cui discernere gli amici dai nemici, il campo della nemicità da quello delle alleanze; e l’unico linguaggio possibile fra i due poli della politica schmittiana, riproposta in chiave rivoluzionaria, è lo scontro immediato, non condizionato cioè dal compromesso politico. E’ importante comprendere le premesse da cui proviene questa reazione igienica all’ortodossia riformista “dirittocivilista”. La crescita del movimento no-global, pur nella sua importante capacità di aggregare consensi, portava con sé il cancro dell’accettazione di un unico pensabile sistema di produzione, su cui intervenire semmai in chiave redistributiva, piegando la politica ad arte del compromesso sociale. A cavallo degli anni Duemila, la distanza che separava istanze rivoluzionarie da questo neo-riformismo in salsa cristiana non poteva essere più grande.
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Discutendo, dopo Atene, di CLN e Costituzione…
Mimmo Porcaro
I fatti di Grecia, di cui converrà parlare meglio altrove, lasciano intatte solo le opinioni degli europeisti dogmatici, ma per il resto mutano lo scenario, accelerano la possibile crisi politica dell’Ue e fanno da spartiacque per tutti. D’ora in poi qualunque forza politica che non si proponga (e proprio come “Piano A”) l’obiettivo strategico del superamento dell’Unione e dell’euro sarà, e senza più scusanti, una forza conservatrice quando non reazionaria: in ogni caso sarà una forza irresponsabile. E d’ora in poi chiunque abbia le idee chiare sull’Unione e sull’euro e ciononostante non si ponga il problema della costruzione di una politica altrettanto chiara, mostrerà di non essere all’altezza delle proprie migliori intuizioni.
Non corre questo rischio lo scritto di Magoni, Dal Monte e Boghetta Il male della banalità: la sinistra nell’epoca del sogno europeo, che si caratterizza proprio per la chiarezza e la consequenzialità della proposta politica: di fronte al nesso inscindibile tra neoliberismo e perdita della sovranità nazionale (così funziona l’Unione europea, almeno nei confronti dei paesi meno forti) si rivendica di fatto un’ alleanza sociale e politica per il ripristino della sovranità, ovvero della democrazia e della Costituzione: un’alleanza assai ampia tra classi diverse e tra orientamenti politici abitualmente divergenti finalizzata al ripristino della democrazia e di una politica economica di piena occupazione.
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I Certificati di Credito Fiscale e John Maynard Keynes
di Biagio Bossone e Marco Cattaneo
Riceviamo da Biagio Bossone e Marco Cattaneo e volentieri pubblichiamo questo articolo sui Certificati di Credito Fiscale (CCF). In merito a tale proposta, Guido Iodice e Thomas Fazi hanno espresso alcune critiche in un articolo pubblicato da MicroMega Online che riportiamo di seguito all’articolo di Bossone e Carraneo
Keynes e l’Eurozona
In recenti contributi, risultati tra i più letti su alcuni dei maggiori blog internazionali di economia e finanza, chi scrive ha proposto l’introduzione dei Certificati di Credito Fiscale (CCF) quale strumento di rilancio della domanda in economie affette da stagnazione, scarso spazio fiscale e impossibilità di utilizzo della leva monetaria e del tasso di cambio: tipicamente le economie in crisi dell’eurozona.
Riteniamo che le caratteristiche di fondo della manovra che proponiamo ne farebbero il più grande intervento di politica economica di stampo keynesiano che sia stato immaginato dal secondo dopoguerra ad oggi. Non soltanto esso innescherebbe uno stimolo fiscale forte in contesti dominati da alta preferenza per la liquidità e da carenza ormai cronica di ‘animal spirits’, ma sarebbe capace di incidere su aspettative che, in assenza di segnali incisivi di svolta, resterebbero fatalisticamente improntate a pessimismo e impoverimento.
Anche alla luce dei commenti critici ricevuti da lettori di nostre precedenti uscite pubbliche, ci fa particolare piacere poter illustrare i contenuti della nostra proposta ai lettori di Keynes Blog, augurandoci che vorranno anche loro far sentire la loro voce (di consenso o dissenso) sull’idea che stiamo cercando di portare avanti e diffondere.
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Filosofia, scienza e pseudoscienza nella crisi della conoscenza contemporanea
di Davide Di Tullio*
È la troppa cultura che porta all’ignoranza,
perché se la cultura non è sorretta dalla fede,
a un certo punto gli uomini vedono solo
la matematica delle cose.
E l’armonia di questa matematica diventa
il suo Dio, e dimentica che Dio ha creato
questa matematica e questa armonia
Giovannino Guareschi, Filosofia spicciola
L’odierna tecnocrazia è osteggiata da un rigurgito antiscientista, fenomeno sicuramente inquietante, ma non privo di una qualche giustificazione. Non si vuole qui imbastire l’apologia delle tendenze antiscientifiche che stanno prendendo sempre più piede nelle comunità iper-informate dei paesi più avanzati; piuttosto si tenterà di tracciare il quadro di una tendenza che rischia di minare la fiducia verso il fondamento stesso dell’essere umano: la ragione. Si cercherà, dunque, di comprendere il rapporto che intercorre tra scienza e filosofia oggi; si tenterà, inoltre di inquadrare il fenomeno delle pseudoscienze e definire le cause della crisi della conoscenza
Cosa si intende per “scienza”? Nel corso della storia a questo termine sono stati attribuiti funzioni ed ambiti che la scienza moderna qualificherebbe come pre-scientifici o semplicemente non-scientifici. Sono i criteri che la scienza moderna ha assunto per autodefinirsi che consentono di compiere quell’opera di discernimento tra quanti, tra gli atti del conoscere, possono definirsi propriamente scientifici e quanti no. In questo senso, accoglieremo la formula di Lucio Russo che conferisce l’attributo di “scientifico” alle teorie a) le cui «affermazioni non riguardano oggetti concreti ma enti teorici specifici», b) hanno «una struttura rigorosamente deduttiva» e c) le cui «applicazioni al mondo reale sono basate su regole di corrispondenza tra gli enti della teoria e gli oggetti concreti» (Russo, 2014, pp. 33-34). Alla luce di tale definizione, le teorie filosofiche non possono ritenersi “scientifiche”, venendo meno i presupposti espressi nei punti a) e c).
Dicotomia tra scienza e filosofia
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Cambiare governo per affrontare la crisi
di Luciano Gallino
Il testo è stato redatto da Luciano Gallino nel giugno 2015 e lo propone al nostro dibattito
A otto anni di distanza dall’inizio della crisi economica in USA e in Europa, e a sei della sua fittizia trasformazione, per mano delle istituzioni e dei governi UE, da crisi del sistema finanziario privato a crisi del debito pubblico, l’Italia si ritrova con un governo che da un lato è allineato con le posizioni più regressive della Troika (la quale forma di fatto una quadriglia con Berlino); dall’altro non ha evidentemente la minima idea circa le cause reali della crisi, e meno che mai delle strade da provare o da costruire per uscirne.
Il gioco dei numeretti che i suoi ministri fanno circa la ripresa o l’occupazione, con la risonanza che vi danno quasi tutti i media, senza che questi tradiscano mai da parte loro un’ombra di spirito critico, appare penoso. In realtà la situazione del paese è drammatica, e l’inanità dilettantesca del governo non fa che peggiorarla. L’Italia ha bisogno urgente – diciamo, realisticamente, entro il 2016 - di un altro governo che abbia compreso le cause strutturali della crisi quale si presenta in Italia, nel quadro della crisi europea, e possegga per conto suo e sappia mobilitare nel paese le competenze per superarle. E’ una missione impossibile, è vero, ma è meglio immaginare l’impossibile che darsi alla disperazione.
La crisi ha tre facce. Proverò a delineare i loro tratti principali.
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La tragedia greca e il futuro della sinistra
di Moreno Pasquinelli
Qui sotto l'intervento di Moreno Pasquinelli al seminario promosso da Fassina e D'Attorre "Europa, sovranità democratica e interesse nazionale"
Ringrazio i promotori, Stefano in particolare, per l’invito. Com’era inevitabile chi mi ha preceduto si è soffermato sull’ultimo atto della vicenda greca. Le opinioni sono discordi. Se gli economisti che mi hanno preceduto, con argomenti inoppugnabili, hanno condannato l’accordo siglato da Tsipras come una capitolazione politica che avrà effetti recessivi disastrosi; alcuni esponenti politici hanno qui invece difeso la decisione di SYRIZA come la sola possibile per evitare il peggio, dove il "peggio", per essi, sarebbe appunto stata la “grexit”. Valdimiro Giacché ci ha invece spiegato perché Tsipras, se non fosse stato prigioniero del dogma altreuropeista, avrebbe dovuto cogliere al volo l’assist di Scheuble e uscire dalla gabbia euro tedesca.
La nostra discussione, per stare al coraggioso tema del seminario —“Europa, sovranità democratica e interesse nazionale”—, sta mostrando che si confrontano due posizioni: la prima sostiene che se si vuole davvero porre fine all’austerità antipopolare e difendere la democrazia, occorre ripristinare il dettato costituzionale riguadagnando piena sovranità nazionale, politica e monetaria; dall’altra c’è chi ritiene che malgrado l’Unione europea non sia affatto quella sognata a Ventotene, nonostante sia strutturata in maniera oligarchica e con un imprinting neoliberista, essa è e deve restare la nostra casa comune, e non importa che sia un reclusorio imperiale, si auspica anzi che ai carcerieri vengano ceduti altri pezzi di sovranità. Nessuna ritirata è ammessa, avanti tutta nella demolizione delle nazioni.
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La sinistra assente di Domenico Losurdo
Militant
Da qualche mese è in libreria un testo, l’ultimo lavoro di Losurdo, capace sin dal titolo di chiarire un concetto ed esprimere una posizione. Di fronte agli sconvolgimenti internazionali in atto dalla caduta del muro di Berlino in avanti, il multiforme campo della politica ha visto il dileguarsi della sinistra, di una sinistra capace di rappresentare un’alternativa politica contendendo all’immaginario capitalista l’orizzonte dello sviluppo. Si potrebbe obiettare che la fine dello schema bipolare partorito dal secondo dopoguerra abbia complicato il quadro dei riferimenti internazionali, lasciando analisti e opzioni politiche in mezzo ad un mare in tempesta e senza porti sicuri. Il ventennio appena trascorso smentisce però questa presunta “multiformità”, questa apparente incomprensibilità di fondo dei principali eventi internazionali. Dalla prima guerra in Iraq in avanti, lo schema dell’ingerenza Nato nelle più differenti zone calde del mondo si è ripetuto pedissequamente senza soluzione di continuità e seguendo nei più piccoli particolari sempre lo stesso canovaccio. E’ avvenuto allora un cambio soggettivo interno al campo della sinistra, non uno oggettivo rispetto alla dinamica imperialista. Non si contano più le ingerenze internazionali dell’area Nato nei diversi contesti geopolitici: Iraq, Iran, Jugoslavia, Siria, Libia, Serbia, Ucraina, Afghanistan, Venezuela, Somalia, Georgia, Honduras, Mali e molti altri eccetera.
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Nel tempo della minorità
Lelio Demichelis
La vittoria dei no al referendum in Grecia aveva dimostrato che l’uomo in rivolta di Camus esiste, che se vuole è capace di dire no e anche di dire sì. L’uomo in rivolta greco ha detto sì all’europeismo dicendo no a questa Europa dell’austerità, della colpa, dell’egoismo, dei mercati, della cancellazione scientifica dei diritti sociali, dimostrando che un agire politico è ancora possibile. Fine della rassegnazione? No, sappiamo com’è andata a finire, la rassegnazione è stata imposta a forza alla Grecia, ma quel no che era un sì rimarrà comunque nella storia. Anche se si conferma, senza se e senza ma come il capitalismo sia strutturalmente conflittuale con la democrazia.
Di più: sono morte le ideologie del Novecento, ma anche le utopie e persino le idee; la lotta di classe l’hanno vinta i ricchi e si è azzerata ogni capacità (specie a sinistra) di innovazione politica, mentre si è dominati dall’imperativo dell’innovazione tecnologica – e l’unica immaginazione al potere è oggi quella di dover diventare uomini economici la cui vocazione (beruf) deve essere quella di adattarsi al mercato e di connettersi in rete, mentre «la flessibilità deve entrare nel Dna delle persone» (Mario Draghi). Condizione esistenziale tristissima e devastante per società e democrazia.
Qui parliamo allora di tre libri, diversi ma tutti importanti per comprendere la nostra condizione (dis)umana nell’epoca del capitalismo tecnologico globalizzato. Pubblicati da Laterza nella nuova e benvenuta collana «Solaris».
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C'è una logica in questa follia
Crisi nell'UE e riassetto dell'industria mondiale
Lucia Pradella
La crisi economica mondiale scoppiata nel 2007/8 si sta abbattendo con particolare forza sull’Europa: la situazione greca ne è l’esempio più lampante. A livello europeo, la disoccupazione ha raggiunto percentuali record, i salari reali stanno diminuendo, le diseguaglianze sono alle stelle e gli attacchi alla classe lavoratrice si sono intensificati. Secondo dati Eurostat (che sottostimano ampiamente la situazione reale), nel 2013 circa novantadue milioni di persone, un quarto della popolazione dell’Europa occidentale, era a rischio di povertà e di esclusione sociale: 8 milioni e mezzo di persone in più che nel 2007. La tendenza è più allarmante nei paesi più colpiti dalla crisi come Grecia, Portogallo, Spagna e Italia, ma è in crescita anche nel Nord dell’Europa, Gran Bretagna e Germania comprese. Condizioni di povertà, precarietà e super-sfruttamento prima ritenute “tipiche” del Sud del mondo stanno diventato sempre più diffuse anche nei paesi ricchi dell’Unione Europea.
La crisi e i suoi effetti in Europa - compresa l’Europa “ricca”, occidentale - hanno suscitato ampio dibattito, tanto sulle sue cause che sulle strategie da adottare in risposta. Uno dei limiti principali di questo dibattito è che spesso si è concentrato sulla crisi in Europa senza considerare in modo organico la sua dimensione strutturale e internazionale.
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