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Microfisica della bêtise
Come distruggere l’università e vivere felici
di Federico Bertoni
Non amo affatto Michel Houellebecq, mi irrita da morire. Segno forse che è un vero scrittore, perché lo scopo primario della sua scrittura sembra proprio quello di irritare il lettore (e ancor più la lettrice). Ma c’è un dettaglio che mi ha colpito molto in Sottomissione, a parte gli astuti e tendenziosi richiami alla situazione che sta sgretolando il nostro (?) mondo. Qualunque cosa accada, nota a più riprese Houellebecq, l’Amministrazione non ti lascia in pace: ti bracca, ti raggiunge ovunque. Può esserci il panico, la rivoluzione, la guerra civile o lo stato di emergenza, ma a un certo punto torni a casa e trovi una bolletta delle tasse o una multa non pagata. Mi viene anche in mente, su un registro molto diverso, un capitolo esilarante del Pensatore solitario di Ermanno Cavazzoni, in cui si descrivono le peripezie di un ipotetico eremita dei nostri giorni, che prima di potersi dare a una vita di sacrosanta solitudine e ascetiche meditazioni nel deserto dovrebbe fare i conti con Equitalia, il commercialista, la tassa dei rifiuti, l’avvocato dell’ex-moglie e via dicendo.
Figurarsi uno come me, che non pensa (più) a fare il rivoluzionario o l’eremita ma ha un posto ben integrato nel sistema universitario del nostro Paese, e che vorrebbe solo studiare e insegnare in santa pace, pretese ormai velleitarie e antisociali in un mondo che regolamenta anche il dissenso e che pretende di misurare tutto,
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Magari fosse truffa
Qualche punto fermo sulla crisi del sistema bancario italiano
nique la police
Non ci vuole molto a capire che questo paese è stato rovinato da Tangentopoli. Ma in un preciso senso: l’impatto mediatico delle inchieste della magistratura milanese dell’epoca ha fatto credere che i problemi italiani fossero risolvibili insistendo sulla sfera morale. Da allora si sono susseguiti, e continuano a farlo, movimenti di moralizzazione della vita pubblica anche molto diversi tra loro. Legati più o meno dallo stesso mito: l’idea che la moralizzazione fattasi regime, e processi con tanto di condanna, avrebbe riportato il paese in equilibrio. E si parla di movimenti spesso legati tra loro, ovviamente, dalla stessa modalità di fallimento non di rado risoltasi in parodia (la Lega di Bossi tra gioielli e titoli della Tanzania; il Prc di Bertinotti, genere moralizzazione di sinistra, col leader imprigionato nei pigiama party dell’alta società; l’Idv di Di Pietro affondata in pochi giorni dopo l’inchiesta di una trasmissione televisiva). Per entrare nelle criticità reali della società italiana molto più di Marco Travaglio, la politica di questo paese avrebbe dovuto affrontare Marc Abèles. Autore che ci spiega le complesse modalità a rete della dissipazione delle risorse comuni come avvengono dagli stati africani alla governance europea (mentre i movimenti di moralizzazione sono fermi all’idea generica della “casta”, a quella che non spiega niente delle “mafie” o, peggio, alla categoria banale dei “corrotti con i complici”). Già perchè il sovrapporsi di crisi sistemiche della società italiana, che ne vive diverse dalla caduta del muro di Berlino, genera complesse e aggressive reti di appropriazione di beni pubblici assai voraci, che si giocano la propria sopravvivenza, e capaci di infiltrarsi ampiamente dei movimenti legati ai processi di moralizzazione.
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La fase superiore dell’imperialismo
Dalla fase multinazionale a quella transnazionale
di Maurizio Brignoli
Le mutazioni strutturali che caratterizzano il passaggio dalla fase multinazionale a quella transnazionale dell’imperialismo, insieme all’ultima crisi di sovrapproduzione, hanno comportato una modificazione dei processi produttivi volta a scardinare la resistenza di classe, la trasformazione dello stato nazionale e la sua subordinazione agli organi sovranazionali del capitale transnazionale e un riacutizzarsi dello scontro interimperialistico
Il passaggio all’attuale fase transnazionale dell’imperialismo, che incomincia
agli inizi degli anni ‘70 con l’esplosione dell’ultima crisi di sovrapproduzione, è caratterizzata da importanti trasformazioni strutturali rispetto a quella precedente. La fase multinazionale (1945-1971) si distingue per la realizzazione di forme di
integrazione sovranazionale del capitale monopolistico finanziario (Fmi, Bm, Gatt), capaci di garantire stabilità nella lotta fra i concorrenti e di subordinare le istituzionali nazionali rendendo il capitale finanziario autonomo dalle economie nazionali.
Direzione e proprietà del capitale multinazionale sono in una nazione, ma gli investimenti sono fatti in molti paesi differenti. Il capitale statunitense impone la sua forza sul mercato mondiale grazie agli investimenti diretti all’estero (ide) delle
sue multinazionali e domina, attraverso i suddetti organismi sovranazionali, la comunità finanziaria internazionale, mentre la ricostruzione post-bellica gli garantisce un’egemonia sul mercato mondiale.
La forma multinazionale permette al capitale produttivo, attraverso anche un controllo finanziario centralizzato, di superare i limiti del mercato nazionale tramite un’integrazione delle fasi produttive, di circolazione e di realizzazione del plusvalore; è così possibile una localizzazione più adeguata degli impianti e il superamento della frammentazione della produzione mondiale. La ristrutturazione del sistema capitalistico basata su un’integrazione del mercato mondiale, determina il grande sviluppo dell’economia mondiale (fra il 1948 e il 1971 la produzione annua mondiale mantiene una crescita media del 5,6%), siamo in quella che Eric Hobsbawm chiama “età dell’oro” del capitalismo. Grazie a questa fase espansiva di accumulazione del capitale è possibile realizzare, tramite i sistemi di welfare state, una strategia che punta a integrare il proletariato cercando di favorire un compromesso fra le classi.
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Investimenti e Frugalità
Il Paese al bivio tra sviluppo e declino
di Gustavo Piga
Dei dati Istat recentemente pubblicati due cose da ricordare: 1) la crisi nazionale crescente, dimostrata dal fatto che il PIL dell’area euro cresce del doppio del nostro, 1,6% contro lo 0,8%, e 2) la più forte delle determinanti di questo nostro ritardo: gli investimenti delle nostre imprese, cha calano ancora, dello 0,4%.
***
Perché le nostre imprese non investono più, è evidente, è una combinazione perversa dei due mali che ci affliggono: il pessimismo endemico dovuto alla carenza di domanda interna nel Paese, causato dall’austerità europea imposta all’Italia, e la mancanza di riforme nella Pubblica Amministrazione. Il primo porta le imprese a non sostenere scommesse di investimento visto che sono costi certi da sostenere oggi a fronte di ricavi futuri altamente incerti per carenza di clienti potenziali; la seconda rende costosissimo operare in Italia e fa prediligere la stasi in attesa di tempi migliori o la delocalizzazione.
A questa carenza di investimenti privati ovviamente si aggiunge quella di investimenti pubblici. Anch’essa causata dall’austerità europea, ovviamente, con le sue restrizioni a perseverare nei tagli di spesa pubblica. Ma anche dalla carenza di riforme nella P.A., che porta l’Europa a non credere che eventuali investimenti pubblici in Italia genererebbero vera produzione, ma piuttosto fantomatiche cattedrali nel deserto.
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Una teoria che non fa scuola
Stefano Petrucciani
Dopo anni di ricerca ai margini dell’industria culturale e in piena egemonia neoliberale, «Una storia del marxismo» è l’importante iniziativa editoriale in tre volumi della Carocci. Pubblichiamo un brano dell’introduzione del curatore
L’impatto che Karl Marx ha avuto sulla storia del XIX e del XX secolo è stato così forte da non poter essere paragonato a quello di nessun altro pensatore. Solo i fondatori delle grandi religioni hanno lasciato alla storia del mondo una eredità più grande, influente e persistente di quella che si deve al pensatore di Treviri. Ma per capire che tipo di influenza ha avuto la figura di Marx sulla storia del suo tempo e di quello successivo, bisogna mettere a fuoco un aspetto che concorre con altri a determinarne la singolarità: l’attività di Marx si è caratterizzata per il fatto che Marx è stato al tempo stesso un pensatore e un organizzatore/leader politico, e di statura straordinaria in entrambi i campi. Notevolissima è stata la ricaduta che le sue teorie hanno avuto sul pensiero sociale, filosofico e storico, ma ancor più grande, anche se non immediato, è stato l’impatto che la sua attività di dirigente politico (dalla stesura del Manifesto del Partito Comunista alla fondazione della Prima Internazionale) ha lasciato alla storia successiva.
Certo, una duplice dimensione di questo tipo non appartiene solo a Marx: la si può anche ritrovare in grandi leader che furono suoi antagonisti, da Proudhon a Mazzini a Bakunin. Ma in Marx entrambe le dimensioni, quella della costruzione teorica e quella della visione politica, attingono una potenza che manca a questi suoi pur importanti antagonisti. Sul piano della organizzazione politica dall’attività di Marx sono infatti derivati, nel tempo e attraverso complesse mediazioni, i partiti socialdemocratici e poi quelli comunisti che hanno inciso così largamente nella storia del Novecento. Sul piano teorico, invece, Marx ha influenzato, e continua a segnare ancora oggi, una parte non trascurabile della cultura che dopo di lui si è sviluppata.
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Il primo turno. Il misterioso caso "italico" di Marine Le Pen
di Quarantotto
1. Tutti coloro che sono in grado di ragionare su una minima conoscenza dei fatti, rimangono sconcertati della "spiegazione" che, specialmente nelle estenuanti e sussiegose cronache televisive, è stata data relativamente alla forte affermazione del Front National alle ultime elezioni regionali in Francia.
Al primo impatto, infatti, ci è stato ossessivamente detto che l'ondata terroristica avrebbe favorito un partito xenofobo e che coltiva i più bassi istinti anti-immigrati (musulmani e non), oltreche pericoloso, per la democrazia, perchè di "estrema destra". Con punte di incomprensione che risultano logicamente paradossali e ostinatamente irreali.
E' pur vero che, poi, dai più alti vertici si è poi aggiustato il tiro, mettendo l'accento sulle politiche imposte dall'UE come principale alleato della Le Pen; ma questo aggiustamento è stato fatto rivendicando le riforme effettuate in Italia come "giuste" e contrapponibili alla linea dettata dalle istituzioni europee.
Il che appare obiettivamente contraddittorio, visto che sono state proprio queste riforme a giustificare la "flessibilità" concessa in sede di applicazione del fiscal compact all'Italia e, dunque, in quanto sono state ritenute particolarmente conformi alle linee di politica economica e del lavoro propugnate dal paradigma dell'eurozona (in cui, appunto, le politiche economico-fiscali sono rigidamente dettate dall'obiettivo del pareggio di bilancio e dalle relative eccezioni discrezionalmente ravvisate dalla Commissione).
2. Il che ci porta a dire che se probabilmente è vero che, rispetto al fenomeno MLP-Front National, in Italia, non si possono nutrire equivalenti "preoccupazioni", ciò, certamente, non è dovuto al fatto che qui da noi non si seguano le politiche rese inevitabili dalla volontà di conservare la moneta unica (in Francia, peraltro, le si è seguite molto meno); ma a ben altre ragioni.
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Sulla ricezione italiana di Günther Anders
di Devis Colombo
Gli stimoli, le critiche e le riflessioni filosofiche di Günther Anders1 (1902-1992) sulla natura contingente dell’uomo, sulla perdita dell’esperienza, sulla società tecnologica e consumistica contemporanea, espresse in un insolito stile a metà tra la riflessione teoretica e la rappresentazione letteraria, hanno avuto una discreta ricezione del nostro paese, seppure in modo parziale, in fasi alterne e da punti di vista e approcci differenti.
La prima fase è quella degli anni ’60, quando con le due opere tradotte in italiano da Renato Solmi per l’editore Einaudi, Essere o non essere nel 1961 – il diario di viaggio in un Giappone devastato dalla guerra atomica –, e La coscienza al bando nel 1962 – ossia il carteggio con il pilota Claude Eatherly corresponsabile dello sgancio della bomba atomica su Hiroshima –, Anders si afferma in Italia2 e a livello internazionale come icona teorica del movimento pacifista e antinucleare3.
Poco dopo la sua pubblicazione, Essere o non essere viene recensito sulla rivista Tempo presente da Nicola Chiaromonte, il quale, oltre a delle «pagine efficaci»4, ne rileva alcune in cui Anders verrebbe meno all’impegno – da lui stesso professato –, di voler ubbidire al precetto «non ti farai nessuna immagine»5, ossia di voler lottare «contro tutti gli “assoluti” fabbricati dall’uomo». Infatti nel tentativo di contrastare la possibilità che da un momento all’altro il mondo intero si trasformarmi in una seconda Hiroshima, per Chiaromonte è evidente il ricorso di Anders ad alcune «immagini concettuali», sulla cui efficacia si dimostra dubbioso: «si vorrebbe chiedere a Günther Anders se è proprio sicuro che fare appello a immagini come la bomba atomica, l’annientamento dell’umanità, la distruzione della Terra […], non sia invitare i contemporanei a distrarsi con immagini sensazionali piuttosto che fare attenzione e a riflettere»6, ossia se «predicare» l’Apocalisse non significhi nient’altro che eccitare l’uomo medio contemporaneo attraverso il «sensazionale», dunque «invitarlo a guardare se stesso al cinematografo anziché in realtà»7.
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Salvate le banche di famiglia (con i soldi della Bce)
di Andrea Fumagalli
Due fatti rilevanti hanno caratterizzato le ultime due settimane. Due fatti apparentemente distanti e decisamente di diverso spessore, ma accomunati, nella loro diversità, dalla stessa logica di potere e di dominio.
Nel CdM del 22 novembre, il governo del premier Renzi e della ministra Boschi ha dato il via libera al decreto, denominato “Disposizioni urgenti per il settore creditizio”, con l’unico scopo di salverà quattro istituti di credito già posti in amministrazione straordinaria: Cassa di risparmio di Ferrara, Banca popolare dell’Etruria e del Lazio (il cui direttore era il padre della ministra Boschi), Banca delle Marche e Cassa di Risparmio della provincia di Chieti (cd. Decreto “Salvabanche”).
CariFerrara era stata la prima a essere commissariata, nel maggio 2013, dopo aver perso poco meno di 105 milioni di euro. Poi è stato il turno di Banca Marche, il cui commissariamento è arrivato ad agosto dello stesso anno, dopo due bilanci che hanno registrato perdite per 232 e 526 milioni di euro. Ma è con il fallimento di Banca Etruria e CariChieti (commissariate nel 2015 per “gravi perdite di patrimonio”) che si decide di intervenire a salvaguardia degli interessi del credito (e della famiglia Boschi?). Secondo gli analisti, il costo dell’operazione è pari a circa 730 milioni di euro e sarà a carico degli azionisti e dei possessori di obbligazioni subordinate delle quattro banche, cioè dei risparmiatori: coloro che avevano incautamente acquistato i titoli emessi dall’ente creditizio, consapevoli o meno che a fronte di rendimenti maggiori non avrebbero avuto alcuna tutela in caso di fallimento dell’istituto, essendone il rimborso subordinato a quello dei creditori ordinari (da qui la dizione di “obbligazioni subordinate”, a maggior intensità di rischio).
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Punk Islam
Dopo gli attentati di Parigi del 13 novembre
Il lato cattivo
«Homo sum, humani nihil a me alienum puto»1
Il «minimo sindacale» e... il resto
Difficile, in queste ore, sfuggire alle banalità e alle petizioni di principio. Molte cose, dal giorno degli attentati di Parigi del 13 novembre, sono state dette e scritte. Per fortuna non sono mancati coloro che, con parole forti, sisono sollevati contro l'asfissiante cantilena del clash of civilisations. E non solo fra i «radicali». Con buona pace tanto di Hollande che di Al-Baghdādī, nessuno scontro fra civiltà eterogenee e irriducibili l'una all'altra è in corso, ma nient'altro che uno scontro intestino, che mostra una volta di più la plasticità di un modo di produzione – quello capitalistico – che sebbene trovi nella democrazia parlamentare la sua traduzione politica più adeguata, è capace di adagiarsi, almeno in via contingente, su quasi tutte le forme di governo, di organizzazione politica e di ideologia, masticando, digerendo e rimettendo in circolazione ogni tipo di materiale o sedimentazione storico-sociali. La brutalità dello Stato Islamico (Daesh) è il segreto il Pulcinella di tutte le avanguardie della nostra «grandiosa, non commestibile civiltà» (Bordiga), di cui esso mette in spettacolo un buon compendio fatto di scheletri nell'armadio: fa cadere le teste sulla pubblica piazza come il Terrore giacobino del 1794; distrugge monumenti storico-artistici come la Gran Bretagna, nel febbraio 1945, devastò Dresda2, capitale del barocco mitteleuropeo; cerca di piegare nemici e detrattori colpendo sul loro suolo patrio la popolazione civile (gli esempi analoghi sarebbero infiniti, ma per farne uno poco citato, si pensi ai numerosi attentati realizzati dall'Irgun Zvai Leumi3).
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Dentro e contro la normalità della guerra
Antonio Alia e Anna Curcio intervistano Christian Marazzi
Un anno fa prevedevi l’apertura di uno scenario di guerra. Ora la guerra sembra una realtà, per quanto dai confini incerti e sfuggenti, in cui anche la metropoli diventa fronte bellico. Come si riconfigura o si sta riconfigurando la guerra, anche rispetto alle analisi sull’impero degli ultimi 15 anni?
Vorrei innanzitutto dire che, a mio modo di vedere, assistiamo oggi alla dissoluzione di quello che è l’impero, così come era stato descritto nel 2000 da Michael Hardt e Toni Negri, come superamento dell’imperialismo legato a una modalità di accumulazione di capitale che (nel corso degli ultimi trent’anni) aveva oltrepassato la dialettica tra centro e periferia. Aveva esteso le periferie al centro e il centro alle periferie, sotto un comando articolato e gerarchizzato che faceva perno sui mercati finanziari e gli interessi delle grandi multinazionali su scala planetaria. A me sembra di aver intravisto negli ultimi mesi alcuni primi segnali di superamento di questa forma-impero, come esito del completamento della crisi economico finanziaria iniziata negli Stati Uniti nel 2007/2008, della una sua estensione ai paesi emergenti. Parlo in particolare della Cina ma anche dei Brics, con riferimento agli smottamenti borsistici valutari nel corso del mese di agosto scorso. Quindi, un primo ipotetico tentativo di rispondere alla domanda sul come si sta riconfigurando la guerra, deve tener presente uno scenario di dissoluzione dell’impero.
Già da tempo abbiamo compreso, all’interno del pensiero critico e militante, quanto sia importante l’analisi geopolitica dei fenomeni sui quali cerchiamo di far leva per definire le nostre forme di lotta, di mobilitazione e di soggettività.
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Vacche Magris. Alcune note su guerra, terrorismo, intellettuali
Gabriele Fichera
Mi imbatto, sul «Corriere della Sera» del 15 novembre 2015, in un articolo firmato da tal Claudio Magris, da non confondere, immagino, con l’omonimo noto scrittore e saggista, padre nobel delle nostre lettere – in spasmodica attesa di un’imminente benedizione planetaria.
L’articolo fa il punto della situazione dopo le stragi terroristiche di Parigi, e ci indica la strada da seguire. Nel leggerlo si prova la vertiginosa sensazione di trovarsi di fronte all’ennesima testimonianza di una triste parabola: quella dell’odierno sedicente “intellettuale” che ha deciso di abdicare completamente a se stesso, inglobando in modo furbescamente ingenuo il punto di vista del cosiddetto “uomo della strada”. Uomo della strada che a sua volta crede di possedere un proprio personale punto di vista, senza neanche sospettare che le sue idee sono invece in gran parte sapientemente manipolate e indotte dall’incessante propaganda mediatica cui è sottoposto. Il risultato di questa duplice mistificazione è che l’intellettuale si trasforma in cassa di risonanza di frasi fatte e pseudo-concetti cari a chi guida le nostre società. Ecco che allora pigrizia intellettuale, accettazione dell’esistente, tendenza alla banalizzazione – laddove invece ci sarebbe da affinare al massimo gli strumenti di analisi – e semplificazione capziosa vanno a formare la deprimente rosa dei venti di quella che un brillante saggista del primo Ottocento ebbe a definire «ignoranza delle persone colte».
Ma torniamo all’articolo dell’omonimo di Magris. L’idolo polemico sembrerebbe il fanatismo islamico dell’Isis, ma a ben guardare c’è dell’altro. Lo si capisce dalla confezione giornalistica del pezzo. Il titolo recita infatti: «Quel complesso di colpa che ispira l’equivoco buonista».
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Tredici novembre: allarmato affresco distopico
di Antonio Tricomi
Romanzo celebre anche perché Mira Nair ne ha tratto un film che ha riscosso un discreto successo, Il fondamentalista riluttante di Mohsin Hamid (Einaudi, Torino 2007) rievoca in flashback, e per bocca del protagonista, la vicenda di un giovane pakistano di buona ma ormai impoverita famiglia che, laureatosi a Princeton, diventa un valido analista finanziario presso un’influente società di consulenza newyorkese, per poi cambiare totalmente vita dopo l’Undici Settembre 2001. In particolare, dopo l’incontro, in Cile, con un uomo che gli parla degli antichi giannizzeri, descrivendoglieli non solo come ragazzi o bambini di fede cristiana «catturati dagli ottomani e addestrati per essere soldati in un esercito musulmano, a quel tempo il più potente esercito del mondo», ma anche al pari di individui che, appena divenuti adulti, si rivelano «feroci ed estremamente leali», giacché essi «avevano lottato per cancellare dentro di sé la propria cultura, perciò non avevano più nient’altro a cui rivolgersi».
Così – mentre gli Stati Uniti, pretendendo in tal maniera di combattere il terrorismo internazionale di matrice islamica, entrano con le armi in Afghanistan e alimentano la tensione tra India e Pakistan, che quindi vengono d’un tratto a trovarsi sull’orlo del conflitto atomico –, il protagonista del libro di Hamid giunge infine a confessare a se stesso la verità d’improvviso scoperta: «ero un moderno giannizzero, un servitore dell’impero americano in un momento in cui stava invadendo un Paese consanguineo al mio, e forse stava addirittura complottando perché anche il mio si trovasse di fronte alla minaccia della guerra».
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Che cos'è la critica del valore
la Rivista Marburg-Virus intervista Robert Kurz ed Ernst Lohoff
Domanda: Una caratteristica centrale del Gruppo Krisis, è il suo approccio della critica del valore. Potreste descrivermi succintamente che cosa significa per voi la critica del valore, e in che cosa consiste la differenza decisiva di quest'approccio rispetto alle altre teorie tradizionali della sinistra? La "critica della società della merce" è, come recita il sottotitolo della rivista Krisis, la stessa cosa che è la critica dell'economia politica? Cosa significa "valore" e "socializzazione per mezzo del valore?
Risposta: Che cos'è il valore, la sinistra lo sa per mezzo di mille corsi di formazione su "Il Capitale" - e tuttavia ancora non lo sa. Vale perciò la pena ricordare alcuni concetti fondamentali al fine di rendere intellegibile la nuova lettura della critica del valore. E' necessario tornare alle basi logiche della forma-merce. Dal momento che i membri di un sistema produttore di merci sono socializzati soltanto in forma indiretta (attraverso il mercato), essi non si relazionano attraverso una comprensione cosciente dell'utilizzo delle loro risorse comuni, ma soltanto attraverso il dispendio isolato di quantità di forza lavoro umana - che, socialmente allucinato, diventa "lavoro coagulato" (valore), e quindi viene trasformato in merci. Nella misura in cui le quantità di lavoro passato, fittiziamente contenute in queste merci, vengono messe in una determinata relazione di grandezza, esse appaiono come valori di scambio, la cui misura interviene solo a posteriori, attraverso la mediazione del mercato.
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Pecunia nervus belli: il tramonto del’ISIS senza più petrolio
di Federico Dezzani
“Il denaro è il nervo della guerra” diceva Cicerone, aforisma da accompagnare con “la guerre nourrit la guerre”: le risorse conquistate nella campagna militare alimentano la macchina bellica che si autofinanzia costantemente. È ormai chiaro che fosse questa la strategia alla base del Califfato: i proventi del petrolio immesso illegalmente sul mercato internazionale erano reinvestiti nella “jihad” dell’ISIS, coll’obbiettivo di destabilizzare Siria ed Iraq. I bombardamenti russi, fermando il contrabbando di greggio, minano l’intero progetto: ne segue la corsa di Washington ed alleati in Medio Oriente prima che il conflitto si chiuda con una strategica vittoria russo-iraniana. Il rilancio è pressoché sicuro.
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Negare sempre e comunque
La reazione americana alle prove sui traffici di petrolio tra Turchia e Califfato ricorda quella del marito colto in flagrante con un’avvenente amante: negare sempre e comunque, anche l’evidenza. L’ingrato compito di smentire l’inconfutabile 1 è toccato al colonnello Steve Warren, portavoce a Baghdad dell’operazione Inherent Resolve formalmente impegnata nei bombardamenti contro l’ISIS:
“Let me be very clear that we flatly reject any notion that the Turks are somehow working with ISIL. That is preposterous and kind of ridiculous. We absolutely, flatly reject that notion.The Turks have been great partner to us in the fight against ISIL. They are hosting our aircraft, they are conducting strikes, they are supporting the moderate Syrian opposition. They’ve been good partners here. Any thought that the Turks, that the Turkish government is somehow working with ISIL is just preposterous and completely untrue.”
Assurda e ridicola: così il portavoce statunitense definisce l’accusa che i Turchi contrabbandassero petrolio con l’ISIS, lucrando sulle sventure dei vicini e alimentando la destabilizzazione della regione.
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Lo Sciame Digitale, i Big Data e la Psicopolitica
di Domenico Talia
La nuova folla senza animo e spirito è lo sciame digitale. Così la pensa Byung-Chul Han, il filosofo nato a Seul che insegna filosofia e teoria dei media a Berlino. Negli ultimi anni Han ha pubblicato alcuni saggi sulla globalizzazione e sugli effetti delle nuove tecnologie sugli esseri umani e sulle loro società. Nello sciame. Visioni del digitale (ed. Nottetempo) è l’ultimo suo breve libro pubblicato in Italia. Le riflessioni di Han stavolta sono dedicate al nuovo popolo che vive nel mondo dei media digitali e che lui ha definito, appunto, “sciame digitale”. Una comunità composta da individui anonimi che solo apparentemente condividono pensieri e azioni, ma che spesso si perdono nella conta dei “mi piace” e dei preferiti e non riescono a trovare modalità efficaci per esprimere le loro energie collettive.
Una caratteristica della manifestazione dello stato di eccitazione dello sciame digitale è rappresentata dalle forme di scrittura più emotiva e informale che la comunicazione digitale favorisce: “La comunicazione digitale rende possibile un istantaneo manifestarsi dello stato di eccitazione.” Sono comunicazioni rapide e imperfette, vicine al parlato anche se sono scritte. Quella digitale, a differenza di quella del potere (La comunicazione del potere non è dialogica;) e di gran parte dei mezzi di comunicazione tradizionali (stampa, radio, televisione), è una comunicazione dialogica. Eppure la simmetria comunicativa potenziale non implica necessariamente una simmetria fattuale. Infatti, la comunicazione digitale può modificare i rapporti tra persone, gruppi e organizzazioni, renderli diretti e bypassare i ruoli e le gerarchie, ma spesso questa disintermediazione si realizza soltanto in apparenza, perché i rapporti di potere e di relazione consolidati non si fanno cortocircuitare facilmente dall’informalità e dalla velocità della comunicazione digitale.
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Con e oltre Carl Schmitt: la guerra al tempo dell’assolutismo morale
di Franco Milanesi
Il novum della guerra tardo novecentesca deve essere pensato sondandone la densità storica, cioè il carattere di rottura e contiguità che intrattiene con il passato. A tal fine la strumentazione concettuale offerta dall’opera di Carl Schmitt risulta preziosa. Non si tratta, evidentemente, di essere più o meno d’accordo con un giurista paranazista e razzista che a fronte di una straordinaria profondità di sguardo ha ricondotto il conflitto di classe a un semplice fattore di regressione premoderna del politico. Si tratta piuttosto di maneggiare la sua articolazione teorica come dispositivo di ripulitura della mescola di interessi, leggi morali eterne, valori, religione e appelli alle coscienze che il liberal-capitalismo ha utilizzato per opacizzare il reale e confondere lo sguardo critico. Se coniughiamo questa azione di rischiaramento dentro una comprensione tutta “di parte”, se utilizziamo la sua opera non ingessandola nella filologia ma mettendola incessantemente alla prova di uno sguardo in grado di assumere o scartare suggestioni e motivi allora, forse, rendiamo un servizio al pensiero (anche a quello di Schmitt) e qualche nebbia del presente possiamo tentare di diradare.
Il lungo corso del paradigma vestfaliano e del jus publicum Europaeum, cioè del concreto principio d’ordine internazionale fondato sull’entità-Stato che seguì i conflitti religiosi cinquecenteschi e la guerra dei trent’anni (1618-1648), affonda le sue radici tanto nell’architettura politico-istituzionale quanto nella vicenda dell’ordo capitalistico borghese sostanziale a quell’impianto. Lo Stato dunque – operiamo già un netto scarto dall’assolutizzazione schmittiana – nonè l’unico attore sulla scena della modernità ma divide e intreccia il suo primato con il capitale, come è evidenziato dall’estesa applicazione di una razionalità calcolante che connette l’economia politica borghese all’architettura istituzionale e allo sviluppo tecnico- scientifico.
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Terrorismo, guerra psicologica, manipolazione dell’informazione e costruzione del consenso
di Fiorenzo Angoscini
I recenti avvenimenti francesi (Parigi, 13 novembre) ripropongono all’attenzione generale la funzione del cosiddetto quinto potere: il rapporto tra alcune agenzie di stampa, certuni operatori dell’informazione, testate giornalistiche e gruppi editoriali. In un miscuglio di agenti atlantici, giornalisti-militanti (prevalentemente fascisti) arruolati come consulenti e pennivendoli, vertici militari e dei servizi più o meno segreti, manovali del tritolo, servi senza dignità (politica) e provocatori a tempo pieno. Soprattutto, in riferimento anche ad un recente passato, si può constatare come alcune questioni, per determinati gruppi di pressione, non siano mai superate o passate di moda, ma mantengano piuttosto una loro freschezza e siano sempre d’attualità così che, teorizzazioni di cinquant’anni fa, possono sembrare enunciate in questi giorni.
In particolare modo è stupefacente la capacità e volontà di amplificare, distorcere, piegare alle necessità politiche, sociali ed economiche, fatti ed avvenimenti apparentemente diversi da quello che sono, manipolando e trasfigurando la realtà. Spiegando che, in nome della lotta al terrorismo mondiale, si possono sacrificare libertà minime, acquisite e consolidate. Cercando di convincere la pubblica opinione che, per sconfiggere il terrore, si deve e si può rinunciare a una quota minima(?) di libertà personali; si può sottostare ad un maggiore controllo poliziesco, accettare l’aumento della produttività (è risaputo che un maggiore impegno lavorativo aiuta a sconfiggere le forze del male) e, infine, assecondare gli immancabili necessari sacrifici, sempre conditi con altre rinunce e privazioni. Una guerra psicologica neppur troppo sottile.
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Ciao pensione ciao. Sul versante legislativo del lavoro
di Maurizio Fontana
Come si è compreso qualche tempo dopo la morte di Luigi Tenco, l’ispirazione originaria dell’autore di Ciao amore ciao discendeva dal travolgente sbalzo vissuto dai giovani uomini e donne che, dall’entroterra ligure, entravano nelle fabbriche genovesi negli anni ’60. A Tenco, morto il 27 gennaio 1967, non fu dato conoscere come, sul finire del decennio, in Liguria come nel resto dell’Italia industriale quella generazione operaia si fosse ripresa dallo smarrimento iniziale di un secolo in un giorno solo per andare verso il più intenso ed esteso ciclo di lotte conosciuto nel nostro paese, attraverso l’espansione di una conflittualità fondata sulla conquista di una dimensione collettiva imperniata sulla figura dell’operaio massa. Di quella lunga stagione in questa occasione ci interessa richiamare due provvedimenti legislativi di assoluto spessore, che sedimentarono il potere operaio sull’assetto sociale complessivo e sono oggi sotto schiaffo dell’attuale governo: la riforma delle pensioni dell’aprile 1969, preceduta da uno sciopero nazionale della sola Cgil del 7 marzo 1968 e da due scioperi generali unitari, nel novembre dello stesso anno il primo e nel febbraio del 1969 il secondo, e lo statuto dei lavoratori del maggio 1970.
Quest’ultimo all’epoca non fu considerato una strepitosa conquista, ma un’accettabile mediazione che si auspicava potesse essere migliorata nell’immediato futuro, sull’onda di un’offensiva operaia che proseguiva dentro e fuori le fabbriche conquistando potere sui posti di lavoro, aumenti salariali e pensionistici, un’estesa socializzazione dei costi di riproduzione della classe. Già dal decennio successivo, invece, si è conosciuto in Italia un costante regresso della legislazione sul lavoro, mentre le sedimentazioni organizzative e istituzionali di quella ormai lontana stagione sono andate progressivamente sgretolandosi e buona parte di quelle che sembrano aver resistito si sono spesso convertite a un altro paradigma in un contesto sociale profondamente mutato.
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La matematica è un pensiero
di Alain Badiou
Quest’enunciato non è di per sé evidente. Che la matematica sia un pensiero, è stato più volte sostenuto, innanzitutto da Platone, che però avanza in proposito numerose riserve, e più volte negato, in particolare da Wittgenstein. Si tratta di un enunciato indubbiamente sottratto alla dimostrazione. Forse è il punto di impasse della stessa matematizzazione, e dunque il reale della matematica. Ma il reale, più che essere conosciuto, viene dichiarato. L’oscurità di quest’enunciato risulta da quanto sembra imporsi come una concezione intenzionale del pensiero: in questa concezione, ogni pensiero è pensiero d’un oggetto, che ne determina l’essenza e lo stile. La matematica può allora essere considerata un pensiero proprio nella misura in cui esistono degli oggetti matematici, e l’indagine filosofica concerne la natura e l’origine di questi oggetti. Ora, è chiaro che una tale supposizione è problematica: in quale senso le idealità matematiche possono essere dichiarate esistenti? Ed esistenti nella forma generica dell’oggetto? Tale difficoltà è presa in esame nel libro M della Metafisica di Aristotele, a proposito di ciò che egli chiama le matematikà, le cose matematiche, o correlati supposti della scienza matematica. Se si abborda la questione della matematica come pensiero che concerne l’oggetto o l’oggettività, la soluzione di Aristotele è mio avviso definitiva.
Tale soluzione si inscrive tra due limiti.
1. Da una parte si deve escludere di poter accordare l’essere o l’esistenza agli oggetti matematici, intendendolo come un essere separato, che costituirebbe un campo preesistente ed autonomo della donazione oggettiva.
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L’impossibile economia pubblica
Il paradosso ideologico dell’articolo 81 della Costituzione di fronte al nuovo ciclo di privatizzazioni
Militant
L’approvazione del nuovo articolo 81 della Costituzione, avvenuta con il consenso di tutto l’arco parlamentare nel maggio 2012, è all’origine del nuovo paradossale ciclo di privatizzazioni dei restanti lembi di economia pubblica italiana. Nel giro di pochi mesi sono state privatizzate Poste e Ferrovie (quest’ultime ancora in corso di privatizzazione), gli ultimi due colossi economici ancora di proprietà statale, senza che nessuno abbia avuto da ridire e anzi con il benestare di tutte le forze politiche. Le stesse che da anni spingono per la definitiva privatizzazione di tutta l’economia “municipalizzata”, quella cioè legata ai servizi pubblici comunali. E questo per l’ormai dichiarato motivo per cui se tra ceti politici c’è una lotta allo spodestamento del gruppo concorrente, socialmente tutti i “rappresentanti” politici in parlamento condividono lo stesso modello economico, il liberismo, nelle sue vesti corporative (centrodestra) o transnazionali (centrosinistra). Se però nel precedente ciclo di privatizzazioni, tra la metà degli anni Novanta e i primi Duemila (sempre inequivocabilmente a trazione centrosinistra, tanto per non confondere i protagonisti in campo), le giustificazioni erano sostanzialmente di due tipi: da una parte “fare cassa” con la vendita di determinati beni pubblici; dall’altra migliorare l’efficienza delle imprese sottratte al controllo statale, oggi è intervenuta una nuova e più sottile opera di convincimento: la privatizzazione è la soluzione al problema degli investimenti produttivi, investimenti impossibilitati allo Stato per via del “debito pubblico” o dei “vincoli europei” (qui, quo e qua per rendersi conto di cosa parliamo, ma ancora qui). Ci troviamo di fronte però ad un paradosso zenoniano, stranamente poco rilevato da chi vorrebbe opporsi al governo Renzi. Secondo tutti gli analisti economici, l’unico modo per far ripartire la domanda e dunque l’occupazione è quello di far ripartire gli investimenti.
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Lo Stato Islamico e la globalizzazione neoliberista
di Alessio Aringoli
Lo scopo di questo articolo è principalmente quello di mettere in discussione alcuni luoghi comuni concettuali, molto presenti nel dibattito sullo Stato Islamico (che, d’ora in poi, nomineremo Isis – Islamic State of Iraq and Syria, perché con questo sigla è più conosciuto, sebbene la stessa sigla inglese più corretta, da più di un anno, sarebbe semplicemente Is – Islamic State) in particolare in riferimento al rapporto tra l’Isis e l’Islam e a una corretta valutazione della natura storica e della forza geopolitica dell’Isis.
1. L’Islam non è l’Isis. Questa affermazione non si fonda solo sulla, pur rilevante, constatazione empirica che solo una minoranza degli islamici aderisce alla versione wahabita-salafita dell’Islam e una ancora più minuscola minoranza degli islamici riconosce Al Baghdadi quale legittimo Califfo. Ci sono almeno tre fondamenti rilevanti e che non possono essere ignorati:
A) La corrente wahabita-salafita è molto recente nella storia islamica. Il wahabismo-salafismo si propone quale ipotesi di “riforma” dell’Islam nel senso di una sua “purificazione”, in primo luogo dagli influssi occidentali, ma in generale da tutte le strutture ermeneutiche che pure hanno una lunga tradizione nella civiltà islamica. Il punto più rilevante della teologia wahabita-salafita è la centralità della concezione (presente anche in molte altri correnti dell’Islam) secondo cui il Corano sarebbe “increato”, ovvero non sarebbe stato creato da Allah, ma sarebbe co-originario ad Allah stesso. Assegnare a questa concezione una assoluta e radicale centralità ha condotto e conduce a condannare qualsiasi attività ermeneutico-interpretativa. Naturalmente l’operazione ha una valenza ideologica, poiché nei fatti i wahabiti-salafiti propongono una precisa interpretazione del Corano e della tradizione islamica, che tuttavia presentano come non questionabile, in virtù della suddetta non interpretabilità del Corano.
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Dal congresso di Vienna ai BRICS
Storia e prospettive della neutralità svizzera
Damiano Bardelli
Quest’anno corre il bicentenario del congresso di Vienna, in occasione del quale le grandi potenze europee riconobbero la neutralità perpetua della Svizzera. Occorre approfondire gli avvenimenti che hanno marcato la neutralità elvetica non solo per capire cosa essa sia – contrastando l’utilizzo strumentale della storia nazionale messo in atto dai partiti conservatori – ma anche per riflettere sulle sue prospettive future. Nel contesto attuale di cambiamento negli equilibri geopolitici internazionali, la Svizzera potrebbe infatti approfittare del suo status di paese neutrale per giocare un ruolo centrale nello sviluppo di rapporti paritari tra l’Occidente e le potenze emergenti
Le origini della neutralità: il mito di Marignano e il congresso di Vienna
I partiti conservatori – e in particolare l’UDC – ricorrono regolarmente al mito del Sonderfall elvetico1 per ottenere consensi tra la popolazione e per giustificare le loro proposte in materia di politica interna ed estera. Per contrastare questa tendenza e per smascherare la debolezza degli argomenti della destra, è fondamentale che i partiti di sinistra cambino la loro attitudine nei confronti della storia nazionale e comincino ad approfondirla. Diversi esempi concreti posso essere presi in considerazione, tra cui quello della neutralità.
Questa primavera, la pubblicazione di un’opera dello storico Thomas Maissen, nella quale vengono smantellati i principali miti della storia svizzera2, ha dato luogo ad un acceso dibattito tra politici conservatori – incluso Christoph Blocher – ed esperti del tema. Questa discussione ha permesso di mettere in evidenza la fragilità della posizioni dell’UDC sulla storia nazionale3. In particolare, ci si è scontrati sulla questione delle origini della neutralità elvetica, che i miti popolari fanno rimontare alla battaglia di Marignano del 15154 ma che, concretamente, diviene realtà solo con la pace di Parigi, stipulata nel 1815 nel quadro del congresso di Vienna5.
Dalla fine del XIX secolo e per quasi un secolo, gli storici hanno applicato una lettura a posteriori della neutralità svizzera, facendo risalire la tradizione della neutralità alla battaglia di Marignano per giustificare la politica di forte isolamento promossa dalle autorità elvetiche.
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La guerra in casa
Toccherà anche a noi, se non ci opponiamo al militarismo
Michele G. Basso
Un monarca prussiano del 18° secolo disse, ed era una cosa molto intelligente: “Se i nostri soldati capissero perché ci battiamo, non si potrebbe più fare una sola guerra.”
(Lenin, “Successi e difficoltà del potere sovietico”)
Quando, nel 1991, l’Italia prese parte alla guerra del Golfo, sotto la guida di Bush padre, scendemmo in piazza, a protestare davanti alle prefetture, infischiandoci dei permessi, ridendo dei pochi minuti di sciopero proclamati dalla CGIL. Ufficialmente, anche il PCI –PDS (Cambiava nome in quei giorni) si disse contrario, con l’eccezione della corrente migliorista – in cui spiccava il “comunista” preferito da Kissinger, Giorgio Napolitano – ma si guardò bene dallo sviluppare un’agitazione di massa. Un cacciabombardiere italiano fu abbattuto, i due militari, Bellini e Cocciolone, furono catturati. Cocciolone fu mostrato in TV, piuttosto malconcio. Qualche giorno dopo, in molti muri delle nostre città, fu affisso il suo ritratto, con la scritta: “ Mamma, ho perso l’aereo”.
Oggi non c’è una vera reazione visibile al militarismo, a parte gruppi relativamente ristretti. Questo anche perché le operazioni militari spesso vengono nascoste dai media. Giornali e TV, quando parlano della guerra in Libia del 2011, dicono che fu un errore, e accusano Francia e Gran Bretagna, come se Italia e Stati Uniti non vi avessero partecipato. Questo è possibile perché vi fu una pesante cortina di omertà sui bombardamenti italiani, presentati al pubblico tv dal ministro La Russa come operazioni di ricognizione. L’Italia fu mostrata come una verginella, che non vedeva l’ora di sostituire al bruto Gheddafi dei sinceri democratici.
Rarissime le notizie sull’attività del contingente italiano in Afghanistan, ancor meno sui nostri istruttori in Iraq.
Come capire il presente, nonostante la crescente mistificazione? C’è un’immensa esperienza del passato sulle guerre. Molti, persino nell’estrema sinistra, non ne tengono conto, perché -pensano – le nuove tecniche militari avrebbero cambiato la natura della guerra.
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Migranti, Turchia e UE: il Bataclan è già lontano…
Infoaut
Nei giorni scorsi si è svolto l’atteso Summit europeo sulla questione migrazioni, con la Turchia di Erdogan invitato speciale a poche ore dall’assassinio di Tahir Elci, presidente del Foro di Diyarbakir (capitale di fatto del Kurdistan turco), per le strade del quartiere di Sur e dell’abbattimento di un Jet russo durante un’operazione militare avviata nel quadro della nuova “alleanza” sul terreno tra Russia e Francia. Il Bataclan è già lontano. Al Summit i primi ministri dei paesi UE, Valls in testa, hanno accolto con affettatissimo imbarazzo un partner prezioso e necessario per fermare il flusso migratorio che interessa l’Europa con nuova intensità a partire da quest’estate, in particolare attraverso la rotta che dall’Iraq e dalla Siria, colpite dalle violenze dello Stato Islamico e dei rispettivi governi, passa per la Turchia, la Grecia e quindi i Balcani, fino a puntare su Germania, Scandinavia e Inghilterra.
Mentre si bombarda Raqqa per “vendicare” le vittime di Parigi, si chiede alla Turchia di impedire alle vittime degli islamisti a Raqqa (o a Mosul, o a Singal) di mettersi in salvo dalle persecuzioni dello stesso Is (o da eventuali “danni collaterali” dei bombardamenti…). Le vittime europee vanno vendicate, sia pur con operazioni aeree che molto sanno di propaganda, mentre quelle orientali vanno chiuse entro i confini dei propri massacri o della propria oppressione. Già, perché l’eventuale “chiusura dei rubinetti” delle migrazioni, da parte della Turchia, non coinciderà certo con la disponibilità turca a tenere milioni di profughi entro i suoi confini, ma sarà la probabile premessa per un giro di vite anche rispetto agli ingressi in Turchia (dove la popolazione, come in Europa, non fa certo i salti di gioia rispetto all’arrivo di milioni di richiedenti asilo).
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Eurozona, l’80% del surplus commerciale è tedesco
di Luigi Pandolfi
In Europa, sul fronte macroeconomico, la notizia di questi giorni è che le esportazioni vanno a gonfie vele. In effetti, gli ultimi dati forniti dalla Bce non lasciano spazio ad alcun dubbio: nel secondo trimestre di quest’anno, il saldo delle partite correnti nell’eurozona si è chiuso in attivo per 67,1 miliardi di euro, doppiando, quasi, la cifra registrata nei primi 3 mesi del 2015 (35,9 miliardi di euro). Bene, verrebbe da dire. E invece no, niente applausi. Intanto perché a questi numeri non corrisponde un miglioramento sostanziale della situazione sociale nei Paesi membri e, complessivamente, nell’intera area, né, per stare agli obiettivi della politica monetaria di Eurotower, un aumento apprezzabile dell’inflazione e, quindi, della domanda interna.
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