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Due punti di vista sulla nuova fase del capitalismo
di Salvatore Biasco
La prospettiva analitica
I libri di Streeck e di Dardot-Laval[1] sono tra i più importanti e ambiziosi tra quelli che hanno volto la loro analisi a capire come l’egemonia neo liberale sia venuta in essere e si sia man mano consolidata ed estesa. Per lo meno, questo è il terreno più rilevante su cui sviluppano la loro analisi e sul quale li seguirò, colmando anche una parte che nel mio libro Ripensando il Capitalismo, dedicato alle conseguenze di quell’egemonia, non avevo ritenuto di sviluppare[2].
Scelgono fuochi diversi. L’uno (Dardot-Laval, da ora in poi D-L) concentra l’attenzione principale sulle trasformazioni soggettive, e quindi sociali, introdotte dal neo liberismo, come riflesso di logiche istituzionali e normative che fissano e condizionano comportamenti e culture. L’altro la concentra sui connotati via via diversi che il capitalismo prende a partire dagli anni ’70, a seguito del conflitto distributivo e di potere ingaggiato dai “capitalisti” per sfuggire alle strettoie di regolamentazioni e rapporti di forza che ne imbrigliavano l’azione e schiacciavano pericolosamente i profitti.
La “nuova ragione del mondo” è la razionalità del neo capitalismo estesa all’intera esistenza. Quella nuova ragione è tanto nella pervasività dei comportamenti concorrenziali, ormai introiettati da persone e istituzioni, quanto in un ordinamento globale che tende a imporli ai vari livelli e ad agire come fonte disciplinare. D-L sottolineano da subito che il neo liberismo non ha nulla a che vedere con il laissez faire tradizionale, vale a dire con quella visione che postula la libertà di mercato e per la quale la sfera statale è una sovrastruttura, ed è parte separata da quella economica, che segue le sue regole e, se non disturbata, determina gli esiti ottimali. Il neo liberismo, invece, nasce da subito come tendenza a una nuova organizzazione di uno Stato compenetrato all’economia (tutt’altro che “leggero”). Uno Stato che tende a organizzare il mercato e fissarne la logica in norme giuridiche e comportamentali e in organizzazione burocratica e tecnocratica, che nel loro insieme estendono la competizione come principio oltre le frontiere tradizionali del mercato. A quelle regole di competizione viene assoggettato lo stesso Stato all’interno delle sue articolazioni.
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Euro sì, euro no. Economisti a confronto
di Dario Guarascio
Uscire dall'Unione monetaria è davvero l'unica strategia possibile per i paesi della periferia dell'Unione per ritrovare un sentiero di crescita? Una sintesi del dibattito ospitato da Etica ed Economia
La crisi greca e la drammaticità delle sue fasi finali hanno contribuito al ravvivarsi del dibattito politico ed accademico circa l’opportunità, da parte dei paesi periferici dell’eurozona, di procedere all’abbandono dell’area valutaria quale unica strategia possibile per ritrovare un sentiero di crescita. Con questo contributo si
intende fornire una sintesi del dibattito ospitato dal Menabò di Etica ed Economia a cui hanno preso parte gli economisti Giorgio Rodano, Salvatore Biasco e Massimiliano Tancioni.
Il primo ad intervenire sulle pagine del Menabò è stato Rodano, con un articolo apparso ad inizio luglio di quest’anno. Il giudizio sulla moneta unica espresso da Rodano è netto: l’euro non è stato una buona idea, è nato come un compromesso politico tra Francia e Germania ed è figlio di una visione particolarista. La significativa eterogeneità delle economie europee, spiega Rodano, rende irrealizzabile quella che tecnicamente viene definita un’area valutaria ottimale. Mancando i requisiti qualificanti un’area di questo tipo, le economie più fragili della zona euro sono costrette a ‘rientrare’ dalle crisi comprimendo il costo dei fattori produttivi e, in particolare, il costo del lavoro. L’austerità, e le connesse sofferenze sociali che segnano il quotidiano dell’economie periferiche nell’eurozona, sono, dunque, un inevitabile portato della loro permanenza nell’Unione Monetaria.
Quale risposta, dunque, alla fatidica domanda ‘Uscire dall’euro allora?’. Utilizzando il tipico modus operandi dell’economista Rodano pone a confronto benefici e costi delle alternative a disposizione. Nel caso di un eventuale abbandono dell’Unione Monetaria.
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Per farla finita con il carcere
di Sandro Moiso
Liberare tutti i dannati della terra, prima edizione Lotta Continua 1972, ristampa 2015 reperibile presso le librerie di movimento, pp. 256, € 5,00
C’è stata una stagione fortunata in cui, parafrasando un romanzo americano di qualche anno fa, “ogni cosa era illuminata”.1 La coscienza di classe formatasi direttamente nell’esperienza delle lotte rendeva tutto più chiaro e non vi potevano essere fraintendimenti. Oggi, a quarant’anni di distanza, ricordarlo non è un’operazione di carattere nostalgico, ma un dovere. Un dovere militante, per ricordare alle generazioni più giovani che il diritto al sogno è strettamente intrecciato con le lotte che intendono abolire l’orrendo stato presente delle cose.
Questo libro, ristampato nel formato originale e con l’aggiunta di pochissime e brevi note introduttive da un gruppo di compagni che ancora si occupano di questioni carcerarie, è un frutto importante di quegli anni. Non per la sigla politica che allora lo accompagnò, ma perché costituiva il frutto di un lavoro diretto e politico sul carcere e nel carcere. Una raccolta di testimonianze dirette dall’interno dell’istituzione concentrazionaria per eccellenza. Come affermano i curatori: “non «un’inchiesta sul carcere» ma un rendiconto di un lavoro politico iniziatosi in modo sistematico nella primavera del ‘71”.
Nelle carceri italiane, tra la fine degli anni ’60 e l’inizio dei ’70, si erano andati incontrando i figli del proletariato e del sottoproletariato con i giovani studenti politicizzati che la repressione statale aveva accomunato. Molti dei secondi appartenevano alle file di Lotta Continua e, sotto un altro punto di vista, non importa se molti di loro, da lì a qualche anno, avrebbero radicalmente modificato la propria traiettoria politica. In quelle carceri erano però entrati nel frattempo lo spirito di rivolta e gli scioperi (inimmaginabili prima)che agitavano già le piazze, le fabbriche e le scuole.
Quell’esperienza contribuì a dar vita ad una Commissione carceri che, soprattutto a Napoli, avrebbe visto intersecarsi l’azione politica sul territorio e nei quartieri con quella sulle problematiche inerenti alla carcerazione e alle condizioni di vita dei detenuti. Spesso i soggetti coinvolti (proletari disoccupati, contrabbandieri di piccolo cabotaggio, sottoproletari che si mantenevano con i mille artifici che andavano dal mercato nero alla spaccata) transitavano con facilità da una condizione di libertà relativa a quella di detenuti.
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Il conflitto siriano è una guerra per procura tra USA e Russia
I Media americani mainstream infine lo ammettono
Zero Hedge
Zero Hedge riporta come la strategia USA per destabilizzare la Siria – utilizzando cinicamente l’ISIS che si finge di combattere – va avanti da decenni come parte della guerra per metter fine al monopolio della Russia sulle forniture di gas all’Europa, ed è ampiamente documentata nelle comunicazioni diplomatiche riservate che sono trapelate. Ora forse anche i media americani cominciano a mettere in dubbio l’autenticità delle motivazioni alla guerra. Nel frattempo tanti paesi sono distrutti e milioni di rifugiati si riversano in Europa
17 Ottobre 2015 – La guerra civile infuria in Siria, in un conflitto che va avanti ormai da 5 anni, con ben 11 milioni di profughi e quasi 300 mila persone uccise. La Siria, alleato di lunga data della Russia, riceve sostegno dal gigante orientale già dal 1940. Come anti-Media ha riferito il mese scorso:
“Il sostegno russo alla Siria risale al 1946, quando la Russia ha contribuito a consolidare l’indipendenza della Siria. I due paesi sono giunti a un accordo diplomatico e militare, sotto forma di un patto di non aggressione, firmato il 20 aprile 1950. In questo patto la Russia ha promesso sostegno alla Siria appena costituita, contribuendo a sviluppare il suo esercito e a fornire supporto tattico. In sostanza, Russia e Siria hanno collaborato per decenni sia militarmente che economicamente, e la Russia ha mantenuto una base navale sul Mediterraneo siriano”.
Ma anche gli Stati Uniti hanno dei piani sulla regione. Nel 2013, il presidente Obama, insieme a John Kerry, ha tentato di ottenere il consenso della pubblica opinione per un cambio di regime in Siria, toccando le corde dell’amore per la diffusione della democrazia e della libertà così vive nel cuore del pubblico americano. Gli americani hanno risposto con il massiccio movimento di protesta #NoWarWithSyria, cosicché questo tentativo di rovesciamento del governo siriano non è riuscito. Tuttavia, la spinta per un cambio di regime non si è fermata per il semplice fatto che il governo ha smesso di parlarne. La CIA ha continuato ad armare praticamente qualsiasi gruppo disposto a combattere contro il governo di Assad. Il Pentagono ha anche cercato (ma non ci è riuscito) di metter su un esercito alleato dell’America di cosiddetti ribelli siriani moderati, al costo di $ 500 milioni – che, sulla carta, dovrebbe opporsi all’ISIS, ma in realtà lavora per cacciare Assad.
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Prigionieri in un triangolo delle competenze
Jacques Bidet
L’egemonia del neoliberismo nella società. Anticipiamo la relazione che il filosofo francese terrà in un convegno* ad Alessandria organizzato da «Critica marxista» e Fondazione Luigi Longo
I grandi dibattiti sulla società hanno sempre posto al centro la relazione tra mercato e organizzazione, fra questi due modi di coordinazione razionale dell’azione sociale. Marx indaga il capitalismo in termini di struttura, come strumentalizzazione del mercato, della razionalità mercantile, avvenuta attraverso la mercificazione della forza-lavoro. Ma è in termini di tendenza storica di questa struttura concorrenziale che egli giunge all’organizzazione, trattata a partire dallo sviluppo della grande impresa. Egli interpreta l’organizzazione come un altro tipo di razionalità, oggi nelle mani dei capitalisti, ma che finirà per sfuggire loro e che fornirà, quando la proprietà privata e il mercato saranno aboliti, il tessuto stesso del socialismo. È questo il nucleo duro del grande mito emancipatore del XX secolo.
Oggi ne misuriamo i limiti. La riflessione critica ha del resto preso molteplici forme. Per parte mia, io propongo di riprendere, di correggere e di allargare il procedimento di Marx a partire dal suo «cominciamento». La società moderna si caratterizza per il suo riferimento alla ragione. Ma questa non è che la sua metastruttura, che non è posta, come pretesa presuntamente condivisa di libertà-eguaglianza-razionalità, che nelle condizioni della struttura di classe, che a sua volta la presuppone.
Appropriazioni privilegiate
La società moderna è analizzabile dunque nei termini di una strumentalizzazione della nostra ragione sociale. Questa si declina secondo le due mediazioni primarie che sono il mercato e l’organizzazione. Le quali, in effetti, sono due modi della microrelazione interindividuale posti al di là dell’immediatezza discorsiva. La loro strumentalizzazione li trasforma in fattori di classe co-costitutivi dei macro-rapporti di classe moderni.
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Pensare la Cina. Ripensare il post-capitalismo
di Domenico Losurdo*
Relazione presentata al convegno tenutosi a Roma il 2 ottobre 2015 ” La Cina dopo la grande crisi finanziaria del 2007-2008″
Ai giorni nostri è un luogo comune parlare di restaurazione del capitalismo a proposito della Cina scaturita dalle riforme di Deng Xiaoping. Ma su che cosa si fonda tale giudizio? C’è una visione più o meno coerente di socialismo che si possa contrapporre alla realtà dei rapporti economico-sociali vigenti nella Cina odierna? Diamo un rapido sguardo alla storia dei tentativi di costruzione di una società postcapitalistica. Se analizziamo i primi 15 anni di vita della Russia sovietica, vediamo susseguirsi rapidamente il comunismo di guerra, la NEP e la collettivizzazione integrale dell’economia (compresa l’agricoltura). Ecco tre esperimenti tra loro ben diversi, ma tutti e tre caratterizzati dal tentativo di costruire una società post-capitalista! Perché mai dovremmo scandalizzarci per il fatto che, nel corso degli oltre ottanta anni che hanno fatto seguito a tali esperimenti, ne siano emersi altri, ad esempio il socialismo di mercato e dalle caratteristiche cinesi?
Concentriamoci per ora sulla Russia sovietica: quale dei tre esperimenti appena visti si avvicina di più al socialismo teorizzato da Marx ed Engels? Il comunismo di guerra viene così salutato da un fervente cattolico francese, Pierre Pascal, in quel momento a Mosca: «Spettacolo unico e inebriante […] I ricchi non ci sono più: solo poveri e poverissimi […] Alti e bassi salari s’accostano. Il diritto di proprietà è ridotto agli effetti personali». Questo populismo, che individua nella miseria o nella penuria il luogo dell’eccellenza morale e condanna la ricchezza come peccato, è criticato con grande precisione dal Manifesto del partito comunista: non c’è «nulla di più facile che dare all’ascetismo cristiano una mano di vernice socialista»; i «primi moti del proletariato» sono spesso caratterizzati da rivendicazioni all’insegna di «un ascetismo universale e un rozzo egualitarismo» (MEW, 4; 484 e 489).
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Lo stato innovatore di Mariana Mazzucato
Francesco Scacciati
Penso che la prima cosa che si debba dire in una recensione di un libro è se è bello o brutto. Questo è bello e interessante. Ha un unico difetto, del quale dirò subito, per poi concentrarmi sui molti pregi. Per ammissione della stessa autrice, si tratta di una versione allungata di un rapporto scritto per un think tank a servizio del governo britannico nel 2011… e si vede. Alcuni argomenti sono ripetuti più e più volte (al limite dell’ossessività, tanto da far pensare che l’autrice ritenga i suoi lettori un po’ duri di comprendonio), altri, pur interessanti, c’entrano relativamente poco con la tesi del libro. Sì, perché è un libro a tesi, ma questo non è un difetto, se la tesi è valida e ben argomentata.
La tesi che Mariana Mazzucato vuole dimostrare è che lo Stato può, e deve, assumere il ruolo di guida nell’innovazione tecnica e conoscitiva, assumendo di conseguenza un analogo ruolo per la crescita economica, nel quadro della teoria distruttiva-creativa di Schumpeter. “Può” perché lo ha fatto molto spesso nel recente passato. “Deve” perché il mercato, le imprese private e i venture capitals non sono in grado per la loro stessa natura di farlo. Corollario di tale tesi è che lo Stato avrebbe tutto il diritto di appropriarsi di parte dei profitti che questo suo ruolo genera, per finanziare nuove ricerche e per coprire i costi di ricerche che non hanno portato a risultati positivi. Ma ciò non avviene, in quanto i capitali privati (soprattutto i venture capitals) si appropriano dei risultati della ricerca di base[1] i cui rischi di fallimento sono già stati socializzati tramite la spesa pubblica per ricerca e sviluppo (R&S), privatizzandone i profitti. Si tratta di un vero e proprio free-riding: da un lato l’orizzonte temporale dei venture capitals raramente supera i 5 anni (ma di solito è tra i 3 e i 5), dopodiché c’è il realizzo, tramite cessioni o fusioni; dall’altro le imprese più grosse, che hanno avuto successo grazie all’applicazione delle tecnologie frutto delle ricerche pubbliche, spesso riacquistano le proprie azioni rafforzando il valore del titolo, a tutto beneficio di manager e alti dirigenti, che godono di stock-options. E’ un meccanismo che non crea valore aggiunto ma rende più facile “spremere” il valore aggiunto creato dalla ricerca finanziata dal settore pubblico.
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L’età del caos
Recensione al libro di F. Rampini
di Pierluigi Fagan
Rampini è un reporter sul fronte del presente con un occhio alle avanguardie che si proiettano verso il futuro. La sua cronaca del presente è passata dalla New economy, alla Cina, a Cindia (Cina + India), all’India, alla banco-finanza con un occhio sempre attento alla rete, per poi tornare ogni tanto all’America, all’Occidente, all’Europa e sempre meno, all’Italia. Fa il giornalista e non gli si può chiedere di far di più. Oggi si occupa di caos, la cifra della contemporaneità che tende al futuro.
Il suo libro è quindi un report in nove capitoli più intro e conclusioni, sullo stato caotico della contemporaneità. Rampini non spiega e non giudica, racconta a modo suo, scegliendo esempi, casi, fenomeni che non angoscino troppo ma diano il senso di quanto potente sia un cambiamento che si annuncia permanente, ad un pubblico che si trova al confine tra la cultura e l’informazione.
Di tutti i casi che racconta due mi sembrano emblematici per inquadrare il suo punto di vista. Uno è sparpagliato nelle narrazioni e ci dice che il genovese, migrante a Bruxelles all’età di due anni e poi globetrotter prima per il Sole, poi per Repubblica, ha ottenuto la doppia cittadinanza ed è quindi italiano ma anche statunitense. Il suo punto di vista occidentale è quindi per nulla italiano, molto poco europeo ed ormai abbastanza interno alla mentalità “colta” americana ovviamente di sinistra e progressista tipo Rifkin, Stiglitz, Sachs, Mason, Reich . L’altro è il racconto della scelta di Andrew Sullivan, uno dei primi blogger di successo e pioniere del giornalismo on line indipendente che ha improvvisamente chiuso la sua attività sulla rete dopo quindici anni (Daily Dish).
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Pubblica istruzione, tra capitale umano e capitale sociale
Andrea Zhok
Derek Bok (Harvard University)
1. Abbiate fiducia!
È divenuto costume ricorrente dei Presidenti del Consiglio italiani invocare una maggiore ‘fiducia’ come chiave di crescita e sviluppo. Dagli inviti berlusconiani all’ottimismo, da tradursi in spesa liberale al ristorante, al refrain renziano della fiducia nel paese contro i ‘gufi’ che remano contro, è tutto un prodigarsi a rafforzare l’autostima italica nel nome dei poteri taumaturgici della ‘fiducia’. Questi appelli alla ‘fiducia’ sono tuttavia, probabilmente, dovuti ad un’impropria comprensione del nesso tra ‘fiducia’ e progresso economico.
In una certa accezione la fiducia è realmente uno dei fattori cruciali nella crescita economica e nello sviluppo sociale di un paese, tuttavia questa fiducia non è un tratto psicologico soggettivo, come se bastasse una pillola di antidepressivo, ma un tratto cognitivo e una funzione sociale. La fiducia di impatto economico dipende dalla capacità cognitiva di affrontare la realtà circostante (capitale umano) e dal buon funzionamento delle relazioni sociali (capitale sociale).
In sociologia prende il nome di capitale sociale, la capacità di instaurare relazioni sociali costruttive e di lungo periodo. Ridotti tassi di corruzione ed elevato rispetto delle regole sono corollari tipici di un alto livello di capitale sociale. La distruzione del capitale sociale è da sola in grado di annichilire un’economia ed una società. Un esempio di Joseph Stiglitz può aiutare a comprendere la natura del capitale sociale: all’indomani del crollo dell’Unione Sovietica, il potere coercitivo centrale in Uzbekistan venne meno, mentre il paese si trovava in una condizione di elevata disgregazione sociale.
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Sette anni di crisi: un bilancio
di Thomas Fazi
In Europa la crisi è stata utilizzata dalle élite politico-finanziarie per sferrare il più violento attacco mai visto, dal dopoguerra ad oggi, nei confronti della democrazia, del mondo del lavoro e del welfare
All’indomani della crisi finanziaria del 2008, quando il sistema fu salvato per il rotto della cuffia solo grazie a massicci interventi di spesa in deficit da parte dei governi di tutti i paesi avanzati (dimostrando la validità dell’assioma keynesiano secondo cui l’unico strumento in grado di risollevare un’economia in recessione è la politica fiscale) furono in molti a sinistra – tra cui il sottoscritto – a credere che il neoliberismo avesse i giorni contati. Cos’era la crisi, in fondo, se non la conclamazione del suo fallimento? Come ha scritto Paul Heideman, «l’impressione al tempo era che l’era della mercatizzazione assoluta stessa volgendo alla fine, e che la crisi dei mercati avrebbe condotto inevitabilmente al ritorno di una qualche forma di nuovo keynesismo».
Come sappiamo, è accaduto l’esatto opposto. Non solo il regime neoliberale continua a godere di perfetta salute in tutti i paesi avanzati (sì, qualche tabù è stato infranto – si vedano le politiche di quantitative easing – ma solo nella misura necessaria per garantire la sopravvivenza del sistema stesso); in Europa la crisi è stata utilizzata dalle élite politico-finanziarie per sferrare il più violento attacco mai visto, dal dopoguerra ad oggi, nei confronti della democrazia, del mondo del lavoro e del welfare; e più in generale, per ristrutturare le economie e le società europee in una chiave ancor più radicalmente neoliberista di quella esistente. «Una distruzione creatrice – ha scritto Alberto Burgio – finalizzata alla sostituzione del modello sociale postbellico (il capitalismo democratico incentrato sul welfare pubblico e sulla riduzione delle sperequazioni in un’ottica inclusiva) con un modello oligarchico (postdemocratico) affidato alla “giustizia dei mercati globali” e caratterizzato dal binomio povertà pubblica-ricchezza privata».
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Legge di stabilità 2016: liberismo in salsa berlusconiana
di Leonardo Mazzei
Una finanziaria berlusconiana e di classe. Tutto per il consenso, nulla per uscire dalla crisi
Chiariamo subito una cosa: la manovra reale contenuta nella Legge di Stabilità varata dal governo nei giorni scorsi non è di 27, bensì di circa 10 miliardi (mld). Per l'esattezza 9,8 sul lato delle uscite ed 11,9 su quello delle entrate (ma di questi, 2 miliardi e mezzo sono solo entrate una tantum). Quello di gonfiare i numeri per gonfiarsi il petto è un antico vizietto del prestigiatore di Palazzo Chigi. Fece così anche lo scorso anno, parlando di una manovra da 36 mld, quando invece i numeri reali si fermavano a 16 (leggi QUI). Considerata dal punto di vista macro-economico, quella del duo Renzi-Padoan è in definitiva una manovricchia. Ma naturalmente anche 10 mld sono una cifretta di tutto rispetto. Ed il posizionamento delle varie voci in entrata ed in uscita illustra assai bene la natura della seconda Legge di Stabilità di questo governo: una finanziaria berlusconiana e di classe, con molte misure tese alla costruzione del consenso e nulla di concreto per uscire dalla crisi.
Ma, ormai da anni, la finanziaria non si scrive solo a Roma ma anche a Bruxelles. Bisogna dunque chiedersi come la manovra appena varata nella capitale italiana vada ad incastrarsi nelle compatibilità stabilite dagli eurocrati residenti in quella belga. Questione non burocratica, bensì tutta politica, dato che riguarda da vicino le stesse prospettive dell'Unione Europea.
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L’apartheid globale che vuole il T-tip
Bruno Amoroso
Il T-tip – Partenariato Transtlantico tra Usa e Ue per un mercato comune sul commercio e gli investimenti – è ormai in fase conclusiva e sarà sottoposto nei prosimi mesi alla approvazione dei 28 paesi membri dell’Ue. I contenuti di questo accordo non sono noti all’opinione pubblica perchè, secondo la tradizione “democratica” dell’Occidente, le cose serie si discutono in famiglia e solo dopo aver deciso sono sottoposte all’attenzione dei cittadini che, ovviamente, devono approvarle se non vogliono passare per guastafeste e irriducibili ignoranti sul modo come funziona oggi l’economia mondiale. Arriva dopo circa sette anni di elaborazione e trattative per recuperare il filo spezzato nel 1998 dall’opposzione popolare al progetto dell’Organizzazione Mondiale del Commercio. Il T-tip è la terza gamba del tavolo della Globalizzazione, cioè del nuovo potere affermatosi dagli anni Settanta, insieme a quella della finanza e dell’industria militare.
Il progetto viene presentato come una grande iniziativa di liberalizzazione e apertura dei mercati che introduce nella vasta area transatlantica regole comuni, uguali standard e controllo di qualità, e forme più omogenee di prezzi di mercato.
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Teorie economiche alternative
Implicazioni per la politica economica
di Fabio Petri
Ripubblichiamo, con il permesso dell'autore, un vecchio saggio di Fabio Petri del 26.1.1995 che ci sembra tuttavia ancora utile come introduzione all'importanza che una solida base di analisi economica ha per trarre valide conclusioni di politica economica [Sergio Cesaratto]
Premessa
C'è da chiedersi innanzitutto se problemi come la disoccupazione siano da considerare come mali inevitabili, da addebitare ai lavoratori che si ostinano a pretendere salari troppo alti, o se invece si tratti di qualcosa di curabile attraverso interventi governativi che non rendano necessaria una diminuzione dei salari. Questo è un primo gruppo di questioni per le quali aderire ad una scuola teorica o ad un'altra fa una grande differenza. Mi soffermerò su questa differenza e poi parlerò del problema del debito pubblico che è la questione di cui si più si parla in Italia. Come vedremo, anche in questo caso ci si chiederà: il debito pubblico nel nostro Paese va o no azzerato in tempi brevi, mediante un attivo del bilancio dello Stato -cioè tramite entrate dello Stato superiori alle spese?
Il punto da cogliere è che gli economisti non sono d'accordo su quale sia la migliore descrizione di come funziona un'economia di mercato, e proprio per questo non sono neppure d'accordo su quale siano le risposte - in termini di scelte di politica economica - da dare alle domande che ci siamo posti.
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Gli anni trenta prossimi venturi
di Annibale C. Raineri
Su il manifesto di mercoledì 30 settembre 2015 è uscito un intervento di Franco Bifo Berardi che consiglio. Pur non condividendone le conclusioni, penso che l’articolo di Bifo eviti di alimentare la nebbia con cui gli “intellettuali ed i politici di ciò che ancora si chiama sinistra” coprono l’evidenza. Ne riprendo alcuni elementi, riscrivendoli nel mio universo concettuale, sapendo di operare delle forzature.
1. La morte della sinistra era già stata certificata da Luigi Pintor nel suo testamento politico (l’ultimo editoriale su il manifesto, Senza confini, del 17 maggio 2003, che consiglio di imparare a memoria). È la premessa per cominciare a ragionare. Non si tratta di rinnegare una storia ricchissima di grandiose tensioni etiche, né di cancellare una ricchezza enorme di riflessioni teoriche (concetti e analisi storiche). Si tratta semplicemente di prendere atto di una fine. Punto. (Altra cosa è la lucida, ma difficilissima, analisi sul perché questa fine si è prodotta).
2. La prima operazione (preliminare) che Bifo consiglia è quella di una radicale pulizia linguistica. Elementare atto di verità, senza il quale è impossibile vedere il mondo, ché il vedere passa sempre per l’insieme dei significanti con cui le immagini vengono strutturate.
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La società "post-sindacale"
di Lelio Demichelis
Se sono morte le grandi narrazioni del passato, oggi trionfano le narrazioni d’impresa e di brand, lo storytelling d’impresa e di rete. Alienazione, mascherata da comunità e da collaborazione
Che il sindacato fosse in crisi lo sapevamo da tempo. Ma pensare di essere già entrati nella società post-sindacale, questo ancora non lo avevamo immaginato, né lo ritenevamo possibile. Eppure, se ha ragione Dario Di Vico (Più tutele in cambio di produttività. Benvenuti nella società post-sindacale, nel Corriere della sera del 27 settembre) questo è quanto si starebbe verificando e questo è negli obiettivi (o nei sogni) degli industriali – ma un incubo per la società e per la democrazia, perché se viene meno uno dei soggetti forti della rappresentanza del lavoro, se si scioglie anche il sindacato insieme alla società civile, se il sistema non ha più corpi intermedi, se viene meno il bilanciamento del potere dell’impresa, allora entriamo non solo in una società post-sindacale ma, e peggio in una società (non tanto post-democratica quanto) non-più-democratica. E allora vediamo di capire cosa sia o cosa potrebbe essere questa società post-sindacale e soprattutto se sia una rottura/cesura col passato o non sia invece, e piuttosto l’ultimo pericolosissimo stadio di un processo di incessante divisione/scomposizione del lavoro per la sua successiva totalizzazione/integrazione in un apparato d’impresa, di rete, di consumo. Un processo iniziato con la prima rivoluzione industriale (la fabbrica di spilli di Adam Smith, per semplificare), transitato per fordismo e taylorismo e organizzazione scientifica del lavoro, arrivato al toyotismo e ora alla rete.
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Intervista a Massimo Cacciari
a cura di Giacomo Bottos e Lorenzo Mesini
Massimo Cacciari è uno dei protagonisti della vita culturale italiana. Con questa intervista ci siamo però concentrati su una stagione precedente del suo impegno politico-filosofico, quella che va dagli anni dagli anni Sessanta agli anni Ottanta. Le ragioni di questo interesse stanno nella straordinaria importanza che quella fase assume, sia come periodo di transizione e di crisi che contribuisce a determinare un assetto del mondo i cui effetti si dispiegano tuttora, sia per la compenetrazione tra riflessione teorica e impegno politico che era prerogativa di quella stagione e che ora pare scomparsa. Le domande mirano dunque all’approfondimento di questa vicenda storico-teorica e al ruolo che Cacciari gioca in essa
Lei ha iniziato il suo percorso intellettuale e politico insieme ai principali esponenti dell’operaismo italiano (Mario Tronti, Antonio Negri, Alberto Asor Rosa). Quali sono i motivi per cui a suo parere quella stagione ha assunto un rilievo filosofico oltre che politico?
Credo che si tratti di questo: si è trattato dell’ultima stagione in cui è comparso un marxismo creativo. Non ci si trovava cioè di fronte ad una scolastica marxista ma ad un pensiero che riprendeva i temi filosofici di Marx. Questo era evidente in autori come Negri, che provenivano da un percorso di studi sulla tradizione del pensiero politico, sulla filosofia tedesca tra Otto e Novecento, sullo storicismo di Dilthey ed altri temi consimili. E questo vale anche per Tronti, che era stato uno degli ultimi allievi di Ugo Spirito e aveva iniziato a leggere Marx attraverso quella prospettiva, da un punto di vista molto lontano da quello gramsciano -per non dire ovviamente crociano- che andava allora per la maggiore. Si trattava quindi di una scuola di politica e di filosofia che credo fosse abbastanza innovativa nel quadro non solo italiano, ma anche europeo. Non a caso questo filone di studi ebbe poi grande diffusione anche fuori d’Italia.
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Marx e la critica del liberalismo
Stefano Petrucciani
Dal 22 al 24 ottobre prossimi si svolgerà nei pressi di Alessandria un convegno, organizzato dalla Fondazione Longo e dalla rivista “Critica Marxista”, dedicato alla riflessione sullo stato attuale della ricerca intorno al pensatore di Treviri. Qui anticipiamo, per gentile concessione dell'autore, una parte della relazione che vi terrà Stefano Petrucciani
Nell’epoca caratterizzata dall’egemonia ideologica del neoliberismo e dalla crisi delle teorie politiche ad esso alternative, di ispirazione socialista o radicale, può essere utile rileggere alcuni aspetti della critica marxiana del liberalismo, per capire se essa può avere ancora oggi una sua validità e, soprattutto, per comprendere quali sono i suoi punti di forza e quali quelli di debolezza.
1.C’è un Marx liberale
Ma prima di affrontare questo aspetto del discorso, è necessaria innanzitutto una precisazione: sarebbe del tutto errato considerare Marx semplicemente come un nemico del liberalismo; anzi, bisogna ricordare che la presenza di temi schiettamente liberali è una costante che attraversa tutto il suo pensiero, anche se nelle diverse fasi assume modalità estremamente differenti. L’esperienza politica di Marx, com’è noto, comincia proprio nel segno del liberalismo: negli articoli che pubblica sulla Gazzetta renana, tra il maggio del 1842 e il marzo del 1843, il giovane filosofo è impegnato in battaglie tipicamente liberali come quelle in difesa della libertà di stampa, contro la censura, per l’autonomia dello Stato e la laicità rispetto alle confessioni religiose. La libertà, scrive Marx intervenendo nel dibattito sulla censura, si identifica completamente con l’essenza dell’uomo[1]. Non solo, difendendo la libertà di stampa, Marx sottolinea (dimostrandosi così, nonostante la sua giovane età, un ottimo maestro di liberalismo) che “ogni forma di libertà presuppone le altre, come ogni membro del corpo presuppone gli altri. Ogniqualvolta vien posta in discussione una determinata libertà, è la libertà stessa che viene posta in discussione”[2] .
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Riforma costituzionale
I problemi che il referendum non può affrontare
di Quarantotto
1. L'approvazione, in dirittura d'arrivo, delle riforma costituzionale pone il problema (come vedremo, quasi solo "teorico") di rammentare l'intera gamma di problemi di violazione dei principi fondamentali della Costituzione che ne risultano coinvolti.
Non è a questo punto pensabile che il referendum si svolga nella piena consapevolezza di questi stessi problemi: se ciò fosse anche lontanamente ipotizzabile, la maggior parte di quelli sostanziali fra essi (cioè quelli relativi alla compromissione irrimediabile dei principi non revisionabili della stessa Costituzione), sarebbe stata già evidenziata (e risolta) in sede di ratifica del Trattato di Maastricht e, a maggior ragione, in sede di revisione dell'art.81 Cost.
2. Ma le condizioni, - culturali, mediatiche e politiche-, che avrebbero consentito tale possibilità di "resistenza" della legalità costituzionale sono, evidentemente, da tempo venute meno.
Basti dire che la motivazione e i presupposti politici di questa riforma sono stati definiti, e mediaticamente supportati in modo totalitario, su queste basi: "se facciamo le riforme che gli italiani chiedono da 20 anni, anche i populisti indietreggiano".
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Lettera a Slavoj Žižek sull'opera di Mao Tse-Tung
di Alain Badiou
Caro Slavoj,
La tua introduzione ai testi filosofi co-politici di Mao pubblicata da Verso è, come sempre, di grande interesse. Per cominciare direi, come è mia abitudine e di contro alla tua reputazione – frutto di una falsificazione del tutto francese – di uomo di spettacolo e di buffone del concetto (hanno detto altrettanto del nostro maestro Lacan, sentiamoci rassicurati!) che questa tua introduzione è leale, profonda e coraggiosa. È leale perché, lungi da ogni finzione e da ogni traballante retorica, esprime con esattezza il tuo rapporto ambivalente con la fi gura di Mao. Riconosci la novità e l’ampiezza della sua visione, ma la giudichi falsa e pericolosa da numerosi punti di vista. È profonda perché tagli corto, vai dritto a una questione cruciale e difficile, quella del pensiero dialettico contemporaneo nei suoi legami con la politica. Le tue considerazioni sulla negazione della negazione sono notevoli. Senza alcun dubbio, tu fai luce per la prima volta sulla ragione profonda del rifiuto di questa “legge” dialettica, avanzato da Stalin e da Mao, sapendo che attraverso tale rifiuto essi hanno frainteso il vero senso hegeliano: ogni negazione immanente è, nella sua essenza, negazione della negazione che essa è. Infine, il tuo è un testo coraggioso perché, come spesso fai, qui ti esponi alle critiche provenienti da ambo le parti. I discendenti controrivoluzionari dei nostri “nuovi filosofi ” grideranno, come già fanno, che tu e Badiou siete una coppia di partigiani attempati, e comunque pericolosi, di un comunismo sepolcrale.
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Che fine ha fatto il Mediterraneo?*
di Spartaco A. Puttini
Il Mediterraneo, come ricorda lo stesso nome, è sempre stato un “mare tra le terre”, un luogo di intersezione e incontro tra culture, popoli, storie diversi. Nel corso dei secoli l’incontro è stato, ovviamente, spesso scontro, ma anche in questi frangenti il ruolo cardinale di ponte tra popoli e culture, tipico del Mediterraneo, non è mai venuto meno. Centro privilegiato di scambi di merci e di idee fin dalle epoche più remote della storia umana, è stato fino ad oggi, attraverso varie peripezie, un luogo su cui si affacciavano diversità fortemente imparentate tra loro a causa della geografia, del clima, dei suoni e dei colori del suo “sistema”, della sua storia. Questo suo particolare carattere unitario e plurale permette di parlare dello spazio geopolitico mediterraneo come di un continente liquido.
Il punto più alto di integrazione del bacino mediterraneo fu trovato con l’unità, anche politica, dovuta alle conquiste di Roma antica. Ma la rottura di quella unità non è ascrivibile, contrariamente a quanto a prima vista si sarebbe indotti a pensare sulla scia di martellanti vulgate, all’espansione islamica del VII secolo d.c., con buona pace di Pirenne[1].
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La parola superflua di Erri De Luca
di Marco Gaetani
La vicenda dello scrittore Erri De Luca, processato per aver sostenuto in un’intervista che la linea ferroviaria per treni ad alta velocità in costruzione in Val di Susa debba essere a ogni costo «sabotata», è abbastanza nota per esimere dal richiamarla qui nel dettaglio. Ricostruzione precisa cui del resto procede lo stesso autore napoletano nella sezione intitolata «Cronaca» di un libretto pubblicato dall’editore principale di De Luca (Feltrinelli) proprio nei giorni del processo. Alle pagine di La parola contraria si può fare riferimento per alcune considerazioni che, a partire dall’episodio in questione (davvero «minuscolo» in rapporto a ciò che accade in Val di Susa, come scrive De Luca?), si tentano con il proposito di uscire dalla cronaca spicciola, di sfuggire al chiacchiericcio proliferante nell’immancabile (quanto falso) dibattito mediatico.
I fatti sono talmente incredibili, nella loro conclamata scandalosa evidenza, da risultare quasi imbarazzanti e non lasciare dubbi su chi abbia ragione e chi torto. Che si possa essere sottoposti a un’azione penale per aver esercitato il proprio diritto di parola dà la misura esatta del degrado dell’Italia contemporanea. Che in questo paese possano agire nel nome del popolo italiano magistrati come quelli che hanno incriminato De Luca fa comprendere dolorosamente lo sfacelo civile, morale e anche giuridico di un’intera comunità nazionale (istituzioni e società civile). Lo scrittore ha dunque facile gioco nel difendersi col suo scritto ad hoc, ricorrendo a una retorica tutto sommato controllata – ma qualche volta contrattaccando, ribaltando cioè l’autodifesa in orgoglioso «j’accuse» («L’accusa contro di me sabota il mio diritto costituzionale di parola contraria»; «Sto subendo un abuso di potere da parte della pubblica accusa che vuole impedire, dunque sabotare, il mio diritto di manifestazione verbale», ecc.).
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La sovversione dell’infelicità: analisi, prospettive, possibilità
di Cristina Morini e Andrea Fumagalli
Quando, qualche mese fa, dopo la firma del governo greco al memorandum, abbiamo cominciato a pensare alla necessità di organizzare una discussione franca su quello che ritenevamo essere il naufragio attuale di un’Europa sempre più determinata a generalizzare la povertà e a erigere muri, non sapevamo bene dove saremmo approdati. Franco Berardi ha azzardato che, sgravati dall’ansia di dover per forza dare “la linea”, avremmo potuto osservare alcuni lati nascosti del problema, oppure scoprire elementi che in altre occasioni ci erano sfuggiti. Il nostro cruccio a non era quello di riparare a qualche eccesso di ingenuità di cui eravamo stati vittime, per quanto avessimo oggettivamente considerato l’Oxi greco e la possibile rottura della trattativa tra Tsipras e la troika come essenziali per il fronte dell’opposizione al direttorio tedesco e ai suoi lacché – e lo rivendichiamo. Il punto era riuscire a mettere a fuoco, con l’aiuto di coloro che sarebbero intervenuti nel dibattito, una mappa per uscire da una condizione di stallo, evidente nella difficoltà di talune categorie teorico-pratiche, nella prova degli anni, riattivando una relazione con il nostro stesso contesto di azione e possibilmente fuori da esso. In tutto questo, forse non c’era una vera e propria regia, tuttavia sapevamo dove andare a cercare e soprattutto avevamo la disponibilità a metterci in ascolto.
Evidentemente, Effimera muove da una radice operaista che rende determinante il porre attenzione alle soggettività del/nel lavoro, dunque muove oggi dalla consapevolezza delle immense questioni teorico-pratiche aperte dai nuovi paradigmi produttivi e da processi di valorizzazione che interessano anche sessualità e corpi, sensibilità e inclinazioni emotive.
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Elogio della distanza
Informazione, potere, neoliberalismo
Federica Buongiorno intervista Byung-Chul Han
Byung-Chul Han insegna Kulturwissenschaft presso la Universität der Künste di Berlino, in Germania, ed è uno scrittore e teorico della cultura di origine coreane (è nato, infatti, a Seoul nel 1959). Dopo gli studi iniziali di metallurgia in Corea del Sud, ha conseguito il dottorato in Filosofia (1994) all’Università di Friburgo in Brisgovia con una tesi su Martin Heidegger e ha insegnato dapprima a Basilea e, fino al 2012, a Karlsruhe – dove è stato collega di un altro influente pensatore contemporaneo, Peter Sloterdijk. Sin dall’inizio la produzione di Han si connota per l’incrocio di più discipline e categorie interpretative, provenienti in massima parte dall’etica, dalla filosofia sociale e fenomenologica, dalla teoria culturale e dei media, ma anche dal pensiero religioso e dall’estetica. I suoi primi lavori, dal taglio accademico ma già eclettico, sono dedicati al pensiero di Heidegger (Heideggers Herz. Zur Begriff der Stimmung bei Martin Heidegger, Fink, Paderborn 1999); di Hegel (Hegel und die Macht. Ein Versuch über die Freundlichkeit, Fink, Paderborn 2005); e al concetto scientifico-culturale della morte (Todesarten. Philosophische Untersuchungen zum Tod, Fink, Paderborn 1999 e Tod und Alterität, Fink, Paderborn 2002).
A partire dagli anni 2000, con La società della stanchezza (tr. it. di F. Buongiorno, nottetempo, Roma 2012), Han costruisce un percorso intellettuale di critica dell’odierna società capitalistica e neo-liberale, rielaborando criticamente categorie e motivi della filosofia foucaultiana e post-foucaultiana, con particolare riferimento al pensiero di Giorgio Agamben, utilizzati per rileggere originalmente la filosofia classica di Hegel, Marx e Heidegger.
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Separazioni, divorzi e scissioni mancate
La riforma del Senato è servita
di Giorgio Salerno
La riforma del Senato è fatta. “Il sacrificio della patria nostra è consumato” direbbe oggi l’eroe foscoliano Jacopo Ortis. La legge costituzionale è passata con 179 voti favorevoli, 17 no (SEL e Fittiani), 7 astenuti e mezzo Senato assente. Una maggioranza ampia che supera di 18 voti i 161 necessari corrispondenti alla metà più uno dei componenti della seconda Camera.
Sono stati determinanti i 13 voti del gruppo di Verdini, i 2 della coppia Bondi-Repetti, i 3 del gruppo GAL ed i 2 in dissenso di Forza Italia. La minoranza Dem, fino a ieri forte di 29/30 dissidenti, è stata silente, allineata e dissolta. Hanno resistito votando no o astenendosi solo Mineo, Tocci, Casson e la senatrice Amato assente. Assistendo al dibattito, meritoriamente trasmesso in diretta dalla RAI e guardando le facce, i sorrisi, le strette di mano – singolare quella tra Verdini e Napolitano – mentre si faceva scempio della Carta costituzionale, tornavano a mente le accorate parole di Ugo Foscolo. Tuttavia si spera, diversamente da Jacopo Ortis, che non tutto sia perduto e che il referendum ribalterà questo vergognoso risultato.
E’ stato detto ed illustrato efficacemente che il combinato disposto tra Italicum e Senato prefigura una drastica diminuzione della democrazia, uno schiacciante prevalere dell’esecutivo sul parlamento ed un potere assoluto del Presidente del Consiglio sempre più dominus, uomo solo al comando.
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"Common decency" o corporativismo
Osservazioni sull'opera di Jean-Claude Michéa
di Anselm Jappe
Secondo alcuni, il capitalismo, chiamato anche economia di mercato più democrazia, vive, malgrado le sue crisi, una fase storica di grande espansione. Secondo altri, questi trionfi non sono altro che una fuga in avanti la quale maschera la sua situazione ogni giorno sempre più precaria. Ad ogni modo, si può dire che viviamo in un'epoca che non somiglia a nessun'altra. Questo appare del tutto evidente - salvo a quelli che hanno fatto della critica al capitalismo il loro mestiere. Si sarebbe potuto sperare che la fine definitiva del "socialismo di Stato", nel 1989, avesse anche messo fine a quel genere di marxismo legato, in un modo o nell'altro, alla modernizzazione "di recupero" che aveva avuto luogo negli "Stati operai". Il campo sembrava ormai sgombro per l'elaborazione di una nuova critica sociale, all'altezza del capitalismo postmoderno e capace di riprendere le questioni di base. Ma il rapido impoverimento delle classi medie, un'evoluzione che pressoché nessuno aveva previsto, ha ridato un vigore inaspettato a delle recriminazioni che rimproverano al sistema capitalista soltanto le ingiustizie della distribuzione, e i danni collaterali che producono, senza mettere mai seriamente in discussione la sua stessa esistenza ed il tipo di vita che impone. E' appoggiandosi spesso ai concetti più obsoleti del marxismo tradizionale, che troskisti elettorali, negriani ed altri cittadinisti espongono la loro richiesta di una diversa gestione della società industriale capitalista. Qui, la critica sociale si riduce essenzialmente al dualismo fra sfruttatori e sfruttati, dominanti e dominati, conservatori e progressisti, destra e sinistra, cattivi e buoni. Quindi, niente di nuovo sotto il sole. I fronti sono sempre gli stessi. Ed è un Karl Marx ridotto a cacciatore di "profitti immorali" che esercita nuovamente un diritto di presenza nei grandi media. La crisi finanziaria della fine del 2008, ha fatto tuttavia guadagnare dei punti a questa spiegazione del mondo.
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