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Il gesto dell’intellettuale, da Zola a oggi
di Pierluigi Pellini
Esce in questi giorni per il Saggiatore E. Zola, J’Accuse…!, a cura di Pierluigi Pellini, con un saggio di Daniele Giglioli. Il volume offre una traduzione finalmente attendibile della celebre lettera di Zola (e della Dichiarazione alla Corte pronunciata dallo scrittore alla fine del processo che lo ha visto imputato per diffamazione); e comprende due saggi: uno di Pellini, che precisa la specificità storica del gesto di Zola nella longue durée (da Voltaire a oggi) dei rapporti fra uomini di cultura e potere; e uno di Daniele Giglioli, che prende spunto da un romanzo di Philip Roth, La macchia umana, per impostare una genealogia e una critica dell’accusa nella nostra contemporaneità. Per gentile concessione dell’editore e dell’autore, pubblichiamo qui un estratto dei paragrafi centrali dello scritto di Pierluigi Pellini.
* * * *
L’intellettuale moderno denuncia e accusa in nome di un gruppo (gli altri intellettuali, i repubblicani) e soprattutto in nome di valori universali condivisi: giustizia, verità, diritti dell’uomo. In questo senso, l’intellettuale moderno non parla mai in nome dell’io: come invece fanno, oggi, quasi tutti i fabbricanti seriali di j’accuse più o meno interessati o pretestuosi.
La realtà storica sfugge quasi sempre alle semplificazioni: anche a quelle di segno opposto, tentate da intellettuali importanti come Alain Badiou. S’è visto, ed è innegabile, che l’affaire Dreyfus è anche “guerra civile”: lo è in figura e a tratti rischia di diventarlo anche realmente. Altrettanto innegabile è che la polarizzazione fra progresso e reazione, fra democrazia repubblicana e nazionalismo del sangue e della terra, rimarrà attiva, sottotraccia, nella società francese, e tornerà a manifestarsi con furibonde recrudescenze.
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Opposizione fittizia e nuovo soggetto politico in Italia
La lezione francese
di Emanuele Montagna e Franco Soldani
Conoscere è distinguere.
(H. von Foerster)
Il caso francese
La recente rielezione politica di Emmanuel Macron a presidente della Francia (con un 28% circa di astenuti tra gli aventi diritto al voto), se da un lato ci dimostra l’enorme e incontrastato (finora) potere dei media, nel manipolare l’opinione pubblica a favore dell’élite al governo (cosa resa possibile dal loro monopolio dell’informazione e della disinformazione, quest’ultima particolarmente grave in Italia), dall’altro porta nuovamente alla ribalta anche un fenomeno relativamente recente, che conviene prendere in considerazione.
Mai come oggi, infatti, l’opposizione fittizia (d’ora in poi: OFI) ha fatto così tanti danni come la, e anzi più della, grandine. Milioni di persone per mesi e mesi nelle strade e nelle piazze di Francia e nessuna formazione, spontanea o organizzata, di un nuovo soggetto politico: un partito, un movimento di massa, una coalizione, un fronte unito ecc. Come è stato possibile? Un recente articolo di Claude Janvier ci aiuta a capire meglio la realtà[1].
A dispetto del fatto che la politica economico-sociale di Macron sia stata, nei passati 5 anni della sua presidenza, dice Janvier, «una catastrofe» per i suoi effetti sulla popolazione civile (aumento della disoccupazione, diminuzione del PIL, aumento dell’inflazione, crisi degli alloggi ecc.), una parte consistente dell’elettorato ha votato per lui. Come si spiega questo fatto?
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Genuflessa agli Usa e senza identità: l'Ue è un destino storicamente inevitabile?
di Fosco Giannini*
Il progetto scientifico di mitizzazione dell'Unione europea, in Italia e negli altri Paesi Ue, si è avvalso sia di uno spazio temporale lunghissmo che di mezzi propagandistici e volti all'organizzazione del consenso di massa di inedita e spregiudicata potenza. Dalle liturgie parlamentari ed istituzionali ai testi scolastici, dalla letteratura al cinema, dalla pubblicità all'arte, dalla politica ai media, ogni cassa di risonanza con capacità di propagazione di massa è stata accesa e resa funzionale alla costruzione della mitologia dell'Europa unita, alla trasformazione di un progetto unitario tanto artificioso e avulso dalla dialettica storica quanto feroce e antioperaio nella concreta proposta sociale, un progetto uscito come un coniglio dal cilindro del grande capitale e venduto sul mercato politico come spinta storica destinale e irreversibile, una pulsione (positivista) inarginabile.
Per gli interessi del movimento operaio complessivo europeo vi è sempre stata l'estrema necessità di smontare il Moloch ideologico vetero capitalista e pan liberista dell'Ue. Ora che l'Ue è servilmente allineata con gli Usa e con la NATO nella guerra contro la Russia tale necessità si fa ancor più stringente ed importante.
Abbiamo un estremo bisogno di decodificare i moti, tanto artificiali quanto malsani, che sovraintendono la costruzione dell'Ue, sia nell'intento di consegnare una coscienza di classe alla vasta area sociale che "dubita" della bontà dell' "operazione Ue", che nell'intento di costruire una vasta resistenza di massa al titanico tentativo che porta avanti il potere capitalistico sovranazionale europeo diretto a "razionalizzare" la costruzione dell'Ue, rendendo tale processo un "dato di natura" immodificabile, al quale ci si possa genuflettere come i primi esemplari del genere Homo si genuflettevano al fuoco.
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Il tradimento. L’ America e noi
di Galliano Rotelli
Di questa tragedia che sta attraversando l’Europa ciò che più mi affligge è la frustrazione dovuta al tradimento, si il tradimento!!! Ma come??? Da tutta una vita sono un suddito fedele dell’impero americano, ho consumato tutto quello che dovevo: coca cola, chewing gum, blue jeans, rock and roll, pop art, cowboy, John Ford, Hemingway, Bob Dylan, Marlon Brando,Kennedy, Luther King, Ginsberg, P.C., Internet… e sì lo ammetto ho anche pianto quando John Kennedy è stato assassinato, e viaggiando parecchio, mi sono convinto che alla fine l’impero del bene era il migliore dei mondi possibili. Unica pecca nel mio, peraltro, immacolato curriculum, in gioventù ho portato l’eskimo sopra i jeans ma si tratta di poca cosa, qualche manifestazione “yankee go home” e robetta così tutto poi riscattato con una vita da capitalista convinto.
Ora quasi alla fine del mio percorso gli “amici” americani, prima mi mandano “a fare in culo” via Victoria Nuland, poi oggi mi danno due possibilità per finire i miei giorni: 1) arrostito da un missile russo a media gittata; 2) annichilito da una crisi economica, di portata epocale, in cui potrebbe sprofondare tutto quello che abbiamo costruito negli ultimi 50 anni.
Ebbene, triste dirlo, ma quello che sta succedendo oggi in Europa era purtroppo prevedibile, forse persino inevitabile.
Le cause che stanno dietro a questo avvitamento americano nei confronti dell’Europa e la conseguente guerra in Ucraina sono parecchie, in questo articolo ne accennerò alcune di cui in questi giorni si parla poco.
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La campagna vaccinale anti-covid-19 in Italia ha evitato milioni di eventi sanitari negativi?
di Marco Mamone Capria
Introduzione
Lo scopo di questo articolo è cercare di dare, con l’esame di un caso particolare, una risposta al problema: come si può reinterpretare il disastroso fallimento di una politica sanitaria come se fosse stato uno straordinario successo?
Non entro in dettaglio nelle motivazioni per tentare una tale reinterpretazione – anche perché in sostanza sono ovvie: a nessuno piacerebbe essere identificato come responsabile, o corresponsabile, di un disastro, e il costo di circuire, corrompere, comprare chi dovrebbe identificare, accusare, perseguire i responsabili è tanto inferiore a quello di sopportare le conseguenze della pubblica colpevolezza, quanto maggiore è stato il disastro e più alta la posizione dei colpevoli.
Non ripeterò nemmeno quanto ormai riconosciuto da sempre più commentatori, e cioè l’importanza cruciale dell’asservimento dei principali media, in particolare, al governo italiano, cosa indubbiamente facilitata dalla convergenza tra le politiche di questo e gli interessi degli oligarchi che controllano o addirittura possiedono i principali media.
Intendo invece soffermarmi sulle tecniche utilizzate per “ristrutturare” i dati attestanti il fallimento in modo che questo appaia come un successo. Per farlo, un buon punto di partenza è offerto dal rapporto dell’Istituto Superiore di Sanità (ISS) e del Ministero della Salute (MS) intitolato: Infezioni da SARS-CoV-2, ricoveri e decessi associati a COVID-19 direttamente evitati dalla vaccinazione - Italia, 27 dicembre 2020-31 gennaio 2022 - NOTA TECNICA e apparso nella settimana di Pasqua, il 13 aprile 2022 (d’ora in poi: Rapporto).
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L’economia di guerra nello stato d’emergenza
di Visconte Grisi
1. Capitalismo, pandemia, controllo sociale
In un libro uscito subito dopo il primo lockdown pandemico del 2020, dal titolo Lo spillover del profitto, denunciavamo “il linguaggio da tempo di guerra diventato subito virale nei mass media di regime (…) insieme al ritorno di una retorica patriottarda fuori tempo”, prendendo poi in considerazione alcuni fenomeni che potevano far ritornare alla mente situazioni tipiche di una economia di guerra. Citavamo, ad esempio, “la riconversione industriale in alcune fabbriche per la produzione di merci non più reperibili sul mercato nazionale, come le mascherine o i respiratori (…) la limitazione, certo notevole anche se limitata nel tempo, dei consumi interni, fatta eccezione per il settore alimentare e farmaceutico (…) l’aumento del risparmio privato, che diviene perciò obiettivo privilegiato sia dei fondi di investimento che delle emissioni dei titoli di stato”.[1] A tutto ciò si sarebbe aggiunto, poco tempo dopo, la speculazione sui prezzi dei generi di prima necessità, il coprifuoco di fatto, abbellito con il termine esotico di lockdown e l’introduzione di un lasciapassare per accedere a quasi tutte le attività, compresa quella lavorativa, anche qui camuffato con un termine falsamente ecologico, cioè il green pass.
L’origine della pandemia è da ricercarsi nel modello di sviluppo capitalistico, che comporta deforestazioni, grandi monoculture, allevamenti intensivi e distruzione dell’ambiente naturale e che ha così provocato lo “spillover”, cioè il salto di specie del virus. Il capitalismo quindi non può rimuovere le cause di questa pandemia o di altre che seguiranno. L’arrivo di questa pandemia era, inoltre, largamente prevedibile in anticipo solo osservando la catena di epidemie che si sono succedute dall’inizio del secolo, dalla SARS1 del 2003 alle influenze suina, aviaria, Mers ecc.
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La via fantastica al comunismo
di Luca Cangianti
Valerio Evangelisti, scomparso a settant'anni, era convinto della necessità di un immaginario alternativo per contrastare le forze della reazione
In un piccolo cimitero nascosto nelle vallate dell’Appennino emiliano affluiscono un centinaio di persone di tutte le età. La pioggia incessante inzuppa quattro bandiere rosse prive di simboli. Un uomo visibilmente commosso dispone amorevolmente una quinta bandiera sul feretro: è quella rossa e nera della Cnt, il sindacato anarchico che tra il 1936 e il 1939 animò la resistenza repubblicana al franchismo. Da sotto gli ombrelli si alza il canto dell’Internazionale, poi qualcuno seleziona un brano da Spotify e mette il volume dello smarthphone al massimo. Mi sembra di riconoscere i Sepultura, un gruppo death-metal brasiliano.
Lo scorso 18 aprile si è spento all’età di settant’anni Valerio Evangelisti, autore di oltre trenta romanzi tradotti in più di venti paesi, oltre che di un’infinità di racconti, saggi, articoli e prefazioni. Nella stessa giornata del funerale i sindacati di base avevano indetto a Roma una manifestazione con la parola d’ordine: «Abbassate le armi, alzate i salari». Su uno striscione portato da decine di lavoratori e lavoratrici si legge: «Dalle fabbriche ai porti, noi saremo tutto! Ciao Valerio!». Lo slogan «Noi saremo tutto» appartiene agli Industrial Worker of the World e dà il titolo a uno dei romanzi che lo scrittore bolognese ha dedicato all’eroica lotta di questo sindacato rivoluzionario negli Stati uniti.
Non è la prima volta che i movimenti sociali si appropriano dei libri di Evangelisti: una decina d’anni fa gli studenti del Book Bloc scesero in piazza con dei grandi scudi a forma di libro per difendersi dalle cariche della polizia.
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Alla festa degli oppressi e degli sfruttati
di Gigi Roggero
Recensione a Rivoluzione. 1789-1989: un'altra storia, di Enzo Traverso
Il recente libro di Enzo Traverso Rivoluzione. 1789-1989: un’altra storia, si candida a diventare punto di riferimento del dibattito sul tema. In questo articolo Gigi Roggero discute in modo approfondito un volume che si assume un compito politico e non solo teorico. Non è vero, infatti, che di rivoluzione non se ne parla più, come uno di quei celebri spettri che la classe dominante è terrorizzata anche solo a evocare. All’opposto, ed è assai peggio, di rivoluzione se ne parla in continuazione. A partire dagli anni Ottanta, nell’epoca della controrivoluzione capitalistica, rivoluzione è diventato uno dei vocaboli più utilizzati per indicare qualsiasi gattopardesco cambiamento fatto con l’obiettivo che nulla cambi. L’innovazione si è mangiata la rivoluzione, o come scritto altrove: il contrario di innovazione non è conservazione, ma appunto rivoluzione.
* * * *
Nel 1543 viene pubblicato per la prima volta De revolutionibus orbium coelestium di Niccolò Copernico, destinato a mandare gambe all’aria il sistema tolemaico e a crearne uno nuovo. Nel 2011 muore Steve Jobs, trasversalmente assurto a icona globale della cosiddetta «rivoluzione» informatica. In questo lasso di tempo si svolge la storia della rivoluzione. Un concetto che nell’età moderna è stato radicalmente trasformato dai processi e dagli eventi di sovversione politica e sociale: non più, in senso astronomico, il moto di un corpo intorno a un altro; non ancora l’innovazione delle forme di produzione, affinché restino immutati il modo di produzione e i rapporti di sfruttamento. Ci riferiamo, invece, al concetto politico di rivoluzione, come rottura dell’ordine costituito, «interruzione improvvisa – e quasi sempre violenta – del continuum storico».
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Il Nome del Padre: da primo(-rdiale) finisce coll’arrivare sempre per ultimo
di Roberto Finelli
1. Leggenda o inizio reale della storia?
Rileggere Psicologia delle masse e analisi dell’Io, il testo di cui si celebra quest’anno il centenario, insieme agli altri tre grandi saggi freudiani di psicologia sociale, quali Totem e Tabù (1912-13), Il disagio della civiltà (1929), L’uomo Mosè e la religione monoteistica (1934-38), non può non significare rilevare il motivo di fondo del “nome del padre” che li attraversa tutti e in qualche modo li unifica. E sollecitarci alla domanda se la continuità della costellazione edipica, come motivo dominante della teoria della cultura e della società, non rischi di compromettere la teoria psicoanalitica di Freud, nel suo transito dalla psicologia individuale alla psicologia collettiva, curvandola da psicologia scientifica della storia in una filosofia della storia, gravata da troppo facili e semplicistiche presupposizioni, otrechè dal loro troppo lineare e persistente operare.
A tutti è ben noto quale accadimento reale Freud abbia posto in Totem e Tabù a fondamento della storia umana e del passaggio da natura a cultura. La condizione primordiale della vita associata, ancora in una condizione di natura, sarebbe stata quella di un’orda primordiale in cui un maschio padre, prepotente e geloso, aveva il monopolio di tutte le femmine, escludendo dal loro possesso, tutti i figli maschi. Con la conseguenza che, come scrive Freud in quel testo: «Un certo giorno i fratelli scacciati si riunirono, abbatterono il padre e lo divorarono, ponendo fine così all’orda paterna. […] Ciò che prima egli aveva impedito con la sua esistenza, i figli se lo proibirono ora spontaneamente nella situazione psichica dell’’obbedienza posteriore’, che conosciamo così bene attraverso la psicoanalisi. Revocarono il loro atto dichiarando proibita l’uccisione del sostituto paterno, il totem, e rinunciarono ai suoi frutti, interdicendosi le donne che erano diventate disponibili»1.
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La parabola dell’economia politica dalla scienza all’ideologia
Marx, il salario e l'accumulazione
di Ascanio Bernardeschi
Il salario appare come il compenso per il lavoro ma è la forma fenomenica con cui si manifesta il valore della forza-lavoro. Il capitale e la sua accumulazione poggiano interamente sullo sfruttamento del lavoro. La legge fondamentale dell'accumulazione capitalistica prevede la presenza di un esercito industriale di riserva. L'accumulazione originaria è basata sulla rapina. Qui la prima parte
La funzione della teoria del valore in Marx
La teoria del valore, nell’analisi di Marx, è uno strumento per indagare i rapporti sociali e le caratteristiche specifiche delle società contemporanee e le sue “leggi di movimento”.
Nelle comunità primitive, così come avviene all'interno di una famiglia, gli uomini organizzavano il lavoro e lo ripartivano fra i vari obiettivi (per la produzione dei beni di consumo ritenuti maggiormente utili, per realizzare degli strumenti di lavoro, per la cura della prole ecc.) in base a una pianificazione, sia pur elementare, così come nella futura società comunista il lavoro verrà distribuito in base a un piano consapevole dei “produttori associati”. Nella società capitalistica, invece, l’allocazione del lavoro e la sua ripartizione fra i vari rami produttivi avviene in base alla legge del valore e al criterio di massimizzazione dei risultati individuali da parte dei singoli capitalisti. Il risultato complessivo è dato dalla somma di queste azioni non coordinate a priori e la smithiana “mano invisibile del mercato” non sempre funziona al meglio.
Caratteristica di questo modo di produzione, in cui predomina l’accumulazione di valore astratto, è che il processo lavorativo con cui si producono oggetti utili non è altro che il mezzo per tale accumulazione, mentre il fine è il processo di valorizzazione del capitale. La produzione, la realizzazione e l'accumulazione di plusvalore divengono fine a sé stessi. Vengono prodotti beni utili solo in quanto ciò è un mezzo per valorizzare il capitale. Il lavoro interessa solo come produttore di plusvalore, sorgente unica della valorizzazione del capitale, e la sua attitudine a produrre determinati beni utili, di valori d’uso, è solo una necessità per raggiungere lo scopo della valorizzazione del capitale.
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Big-tech e guerra
di Pier Paolo Caserta
Bisogna a questo punto mettere in luce un nesso fondamentale: che la concentrazione di ricchezza senza precedenti nella storia fatta registrare dal capitalismo digitale (Big-tech), unitamente al suo modello imprenditoriale completamente parassitario (capitalismo della sorveglianza) sfocia in modo deterministico: 1) in un sistema informativo apparentemente pluralistico ma in realtà orwelliano e 2) nell’ipertrofia espansionistica anche sul piano militare.
Una delle premesse del ragionamento che vado ad articolare è la vicinanza del capitalismo digitale statunitense al Partito democratico, diversamente dalle connessioni di Trump, legato al “vecchio” capitalismo solido. Ovviamente un aspetto rilevante della questione è lo scontro in corso tra il capitalismo “fordista” e quello digitale. La nota rivalità Bezos / Trump vale ad esemplificare sinteticamente l’assunto.
La caratteristica principale dell’odierno “capitalismo della sorveglianza”, o se si preferisce delle piattaforme, è di realizzare, grazie alle inserzioni pubblicitarie, utili stratosferici a partire dalla semplice presenza online degli utenti, catturando continuamente la loro attenzione attraverso la costante profilazione della loro identità digitale e la conseguente proposta di contenuti sempre più adatti all’utente, avvalendosi di algoritmi sofisticati. L’intero processo è sempre più sottratto alla componente umana e delegato a intelligenze artificiali complesse e capaci di apprendere (capitalismo magico), mentre gli essere umani si comportano sempre più come macchine (transumanesimo). Secondo la sintesi offerta da S. Zuboff, autrice del saggio “Capitalismo della sorveglianza” (2019):
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Ucraina, le colpe di Zelensky, le ragioni di Putin
Pino Nicotri intervista Enrico Vigna
Intervista anti Nato: un Paese sempre più povero, con troppi nazisti, una tragedia che dura da 8 anni, parla Enrico Vigna. Sulla Ucraina e i suoi tragici lunghi conflitti Enrico Vigna ha scritto tre libri. Giornalista e saggista, nella vita di tutti i giorni lavora in una cooperativa di distribuzione e consegne libri.
Ma la sua passione sono la testimonianza e documentazione dei fatti e misfatti delle guerre dei nostri tempi non solo in Europa.
Guerre sulle quali ha scritto molti libri e dossier. Sulla ex Jugoslavia, Palestina, Tibet, Libia, Siria, Priednestrovie, Abkhazia, Krajina, Ucraina, Scozia, NovoRossya, Chavez, Mandela, Siria, Saharawi, NagornoKarabakh.
Che lo hanno portato ad essere l’attivissimo Coordinatore dei Progetti di Solidarietà Concreta di SOS Yugoslavia-SOS Kosovo Metohija, di SOS Donbass–Ucraina Resistente, di SOS Siria, di SOS Afghanistan e di SOS Palestina.
Nel 2012 per l’attività umanitaria in Serbia/Kosovo ha ricevuto il Premio Novosti di Belgrado assieme al regista Emir Kusturica e al sacerdote Padre Irinei.
I suoi libri sull’Ucraina si intitolano
– Ucraina, tra golpe e neonazismo;
– Ucraina, Donbass – I crimini di guerra della Giunta di Kiev;
– Noi sotto le bombe in Donbass, scritto assieme a N. Popova e V. Shilova.
L’intervista che segue è la sintesi di un testo lungo quasi il doppio. La ritengo molto interessante perché, nel quadro delle informazioni e opinioni disponibili, essa riporta un importante complemento sulla realtà ucraina. Visto da Mosca, si potrebbe dire, ma un importante complemento di verità.
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“La logica del capitale. Ripartire da Marx”
intervista a Roberto Fineschi
Roberto Fineschi: La logica del capitale. Ripartire da Marx, Istituto Italiano per gli Studi Filosofici Press, 2021
Prof. Roberto Fineschi, Lei è autore del libro La logica del capitale. Ripartire da Marx edito dall’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici: quali condizioni consentono oggi una nuova lettura dell’opera di Karl Marx?
Le condizioni sostanziali sono due. La prima è di carattere scientifico: la nuova edizione storico-critica delle opere di Marx ed Engels (la seconda Marx-Engels-Gesamtausgabe, MEGA2) sta mettendo a disposizione per la prima volta nella storia della ricezione marxiana una serie di testi fondamentali prima inaccessibili. Essi hanno cambiato la faccia di alcune delle opere fondamentali di Marx come i cosiddetti Manoscritti economico-filosofici del ‘44, L’ideologia tedesca e, soprattutto, Il capitale. Il Marx che possiamo leggere oggi non è quello che è stato letto fino ad oggi.
La seconda è di carattere storico-politico. Senza esprimere sommari giudizi sulla storia novecentesca, è un dato di fatto che qualunque movimento politico organizzato ha bisogno di una dottrina certa e immutabile su cui basare la propria azione. Il marxismo inevitabilmente aveva ingessato il pensiero di Marx. L’ortodossia sovietica aveva poi finito per influenzare anche le posizioni anti-sovietiche o eclettiche. Al di là della valutazione che si voglia dare di queste esperienze (e sarebbe insensato liquidarle con sufficienza), è evidente che il venir meno di questo contesto nel suo complesso ha senz’altro permesso un più libero approccio al testo di Marx.
Quali nuove interpretazioni un’analisi filologicamente rigorosa della teoria marxiana?
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La guerra imperialista permanente infuria in ogni angolo del mondo e si configura ormai come una vera e propria guerra mondiale
di Giorgio Paolucci
La narrazione corrente tende a rappresentare tutte le guerre in corso come ognuna a sé stante e ognuna figlia di specifici contenziosi (religiosi, territoriali, etnici ecc. ecc.) in realtà, poiché la posta in palio è il sistema dei pagamenti internazionali, ognuna di esse si configura in tutto e per tutto come uno dei tanti capitoli della più generale, e ormai mondiale, guerra imperialista permanente
La guerra che verrà non è la prima.
Prima ci sono state altre guerre.
Alla fine dell’ultima
C’erano vincitori e vinti.
Fra i vinti la povera gente, Faceva la fame.
Fra i vincitori Faceva la fame la povera gente,
egualmente.
Bertolt Brecht
Ovunque c’è anche una sola traccia di petrolio, di gas o di qualche altra materia prima strategica infuria la guerra.
Anche il conflitto fra Israele e Hamas - il cui ultimo round si è appena concluso - seppure sullo sfondo di un’annosa e irrisolta questione territoriale, si è ulteriormente acuito da quando sono stati scoperti importanti giacimenti di gas nei fondali di Gaza Marine.[1] Si sarebbe, dunque, tentati di concludere che non c’è nulla di nuovo in questa ultima ondata di conflitti che, estendendosi dall’Ucraina, all’Iraq; dalla Striscia di Gaza alla Libia e, di fatto, all’intera Africa, non risparmia ormai nessun continente e vede coinvolte tutte le maggiori potenze imperialistiche. Ma non è così o, quanto meno, lo è solo in parte, nel senso che alle cause di sempre se ne sono aggiunte almeno altre due specifiche di questa fase della crisi strutturale in cui da qualche decennio si dimena il modo di produzione capitalistico: il fallimento delle politiche monetarie attuate dalle maggiori banche centrali, in funzione anticiclica e l’ormai conclamata tendenza alla depressione permanente.[2]
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Black Flag, speranza e distopia. Ricordando la meraviglia del primo incontro con Valerio Evangelisti
di Fabio Ciabatti
Quando il mio ricordo va a Valerio Evangelisti la prima immagine che mi viene in mente è quella di un grande narratore, di una persona capace di raccontare storie meravigliose. Storie che non avevano una conclusione definitiva, ma che potevano ricominciare sempre, continuare all’infinito perché avevano un carattere aperto e multilineare. Storie pensate per costituire una sorta di memoria collettiva degli oppressi e degli sfruttati e per consentire loro di riappropriarsi delle proprie passate gesta, cancellate dalla storia scritta dai vincitori. Insomma, nel mio ricordo Valerio più che apparire come uno scrittore in senso stretto assomiglia un po’ al narratore di cui ci parla Walter Benjamin.
Sono ben consapevole che questo paragone ha dei limiti. A cominciare dal fatto che raramente i suoi romanzi hanno per protagonista l’uomo giusto e semplice di cui ci parla il filosofo berlinese. È più frequente che il motore della narrazione proceda dal “lato cattivo della storia”. Basti pensare al suo personaggio più famoso, l’inquisitore Nicolas Eymerich. I suoi racconti, in questo modo, sono in grado di dissezionare i fondamenti antropologici, ideologici, psicologici del potere, mettendosi dalla parte del potere stesso. È poi ovvio che il suo mezzo espressivo principale era il racconto scritto e non quello orale, per quanto sia anche vero che, sentendolo parlare con il suo tono di voce basso e leggermente cantilenante, non si poteva non rimanere affascinati dalla sua capacità affabulatoria e dalla sua sottile ironia.
Rimane il fatto che Valerio non si accontentava di cristallizzare in forma letteraria l’insanabile scissione tra significato e vita, come accade al romanziere tipo benjaminiano.
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Il danno scolastico di Paola Mastrocola e Luca Ricolfi
recensione di Fausto Di Biase e Paolo Di Remigio
Paola Mastrocola, già autrice di uno dei libri più lucidi e tempestivi sulla deriva dell’istruzione in Italia[1], e Luca Ricolfi hanno pubblicato qualche mese fa uno studio, Il danno scolastico, in cui rilevano che i frequenti cambiamenti per rendere democratica e ugualitaria la scuola, nell’umiliarla sul piano culturale, l’hanno trasformata in un danno per i ceti inferiori: omettendo di istruirli, essa li priva di un mezzo efficace di ascesa sociale, e indirettamente avvantaggia chi proviene dai ceti elevati, a cui è rafforzato il consueto monopolio delle posizioni più ambite. In una parola, la scuola ugualitaria non solo fa mancare le condizioni necessarie al riprodursi della civiltà, ma realizza il contrario di quello che vuole instaurare, esaspera cioè la disuguaglianza sociale.
Aver tematizzato l’uguaglianza ha consentito agli autori di chiamare in causa il ruolo che i suoi fautori svolgono nella crisi della scuola. Benché ispirate da istituzioni sovranazionali orientate al neoliberalismo, le riforme dell’istruzione hanno acquisito il loro furore palingenetico perché sono state implementate da una burocrazia ministeriale erede dell’ideale ugualitario e legata alla prassi della rivoluzione dall’alto. Mastrocola e Ricolfi individuano con precisione il mezzo con cui essa ha scatenato la rivoluzione pedagogica: le sue innovazioni si sono spinte oltre il diritto allo studio, fino ad affermare un nuovo, inaudito, diritto al successo formativo.
Difficile non avvertire la loro differenza: diritto allo studio è la forma preliminare del diritto al lavoro, è il diritto alle condizioni iniziali necessarie a padroneggiare i mezzi con cui la libertà provvede a sé rendendosi utile agli altri; diritto al successo formativo è invece il dono del fine senza la fatica del mezzo, senza la durezza della disciplina.
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Dietro la guerra tra Ucraina e Russia. Il Giano bifronte dell’ordine internazionale liberale in crisi
di Gaspare Nevola
È guerra tra Russia e Ucraina. Il conflitto, da oltre due mesi, ha spodestato la pandemia, e i suoi enigmatici annessi e connessi, dal trono mediatico. Lo scontro armato che tanto fa discutere e indigna si inscrive in una lunga vicenda di crisi e di tensioni nell’area di confine tra i due Paesi, e coinvolge aree contese tra i due Stati confinanti. Lungo questo confine si è ispessita, però, anche una nuova “cortina di ferro”: una linea di demarcazione ipersensibile tra Europa occidentale e americanofila, da una parte, ed Europa russofila o post pansovietica, dall’altra; e non solo. Siamo di fronte a un contenzioso che risale al “dopo 1989-1992”, ai tempi del disfacimento della Federazione Sovietica: tra rivendicazioni territoriali e sovranità nazionali, tra micro-etnonazionalismi, secessionismi e irredentismi, tra interessi geopolitici e geoeconomici. Si tratta di conteziosi non solo mal accomodati tra gli Stati-nazioni confinanti (Russia e Ucraina), ma che sono anche fonte di contrasto tra le pretese di stampo imperiale di Stati Uniti e di Russia (e della Cina, per ora sulla riva del fiume). Porre la questione in termini di “buoni” contro “cattivi” ha una sua efficacia nella cultura politica e nella narrazione dominanti, un’efficacia che si fa forte della distinzione tra l’aggressore e l’aggredito. Tuttavia, questa lettura in termini morali finisce per semplificare e schematizzare troppo un conflitto innescato da una molteplicità di fattori, e da una visione contrapposta degli “interessi vitali” delle varie parti in gioco. In questo conflitto nessuno ha le “mani pulite” o la patente di innocenza, le responsabilità variano a seconda del variare del punto di riferimento storico e politico, del casus belli o dello snodo critico dal quale si considera la vicenda.
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La fabbrica della “russofobia” in Occidente
di Sergio Cararo
Il nostro paese e l’Occidente sono in preda ad una evidente sindrome di russofobia. Potrebbe apparire tale ma non è una novità. Non lo è sicuramente per le leadership e le società europee e, di conseguenza, neanche per quelle statunitensi.
Colpisce il fatto che la Russia possa essere zarista o socialista, capitalista o nazionalista, ma alla fine in Europa scatta comunque il demone russofobico. Da dove nasce questo pregiudizio che troppo spesso è diventato contrapposizione frontale o guerra?
Prima di arrivare all’isteria a cui stiamo assistendo in queste settimane c’è una lunga storia da conoscere, ragione per cui prendetevi il tempo necessario per conoscerla.
Le radici della russofobia in Europa
C’è un interessante libro di Guy Mettan edito dalla Teti “Russofobia. Mille anni di diffidenza”, che aiuta a capire molte cose.
Per molti aspetti la russofobia ha qualcosa in comune con l’antiebraismo ossia un antico “documento” – ritenuti quasi unanimemente dei falsi storici – che ne dimostrerebbe la intrinseca natura aggressiva e dominatrice. Nel caso delle comunità ebraiche sarebbe il “Protocollo dei Savi di Sion” (tra l’altro si dice elaborato proprio nella Russia zarista). Nel caso della Russia sarebbe addirittura il “Testamento di Pietro il Grande”, fatto arrivare in Europa, e poi pubblicato e utilizzato in Francia durante l’invasione napoleonica della Russia.
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La cancellazione del nemico
di Giancarlo Ghigi
Le campagne russofobe non hanno nulla a che fare con l'anticolonialismo. Perché nessuno potrà rimuovere il passato delle storie intrecciate di Russia e Ucraina senza smarrire sé stesso. E scoprirsi vinto
Autocrate maligno!
Te, il tuo trono disprezzo,[…]
Sulla fronte tua si legge
della condanna del popolo il sigillo.
Tu, orrore del mondo, della natura
vergogna, d’esser Dio in terra è l’accusa.
Libertà – Aleksandr Seergevič Puškin,1817
«Zio Vasya» sembra quasi uno scemo di guerra seduto lì a terra, così. Pare intontito davanti a quel piccolo fuoco improvvisato tra gli scheletri di metallo arrugginiti. Il suo sguardo si è perso, è stato rapito dalle piccole fiamme che avvolgono le bruciature nerastre che appannano il fondo d’una caffettiera di rame. Indossa un vecchio colbacco con la stella rossa, ha come arma solo un vecchio e pesante fucile di cinquant’anni fa. Zio Vasya assedia con gli altri miliziani della Repubblica Popolare di Doneck le rinomate officine dell’Azovstal che sono ancora occupate dagli ultimi soldati e paramilitari di Kiev, laggiù, tra le rovine dei sobborghi di Mariupol. Chiede al corrispondente occidentale che gli passa accanto se vuole bere della vodka con lui, ma il giornalista resta interdetto, sa che gli alcolici sono severamente proibiti nelle zone di combattimento. «Zio Vasya può bere», gli confermano gli altri. Quell’anziano di Kostantinovka infatti ha saputo solo ieri che suo figlio, il figlio che non vede da sette anni, è lì dentro, sta con quelli di Azov, sta proprio con i nemici che lui e gli altri stanno assediando ai cancelli della fabbrica. Così quel padre non ci capisce più niente. Sta da solo, seduto su una cassa di munizioni, fissa inebetito il fondo bruciato d’una caffettiera, niente sarà mai più come prima.
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Trasformare le differenze in opposizione
Anna Curcio intervista Maurizio Lazzarato
Con il discorso della guerra sullo sfondo, in questa intervista a partire dal suo nuovo libro L’intollerabile presente, l’urgenza della rivoluzione. Classi e minoranze (ombre corte 2022), Maurizio Lazzarato affronta alcuni dei nodi irrisolti dell’agire politico rivoluzionario. In particolare, discute la necessità di ripensare il concetto di classe in relazione alla questione della razza e del genere. Attinge da un archivio teorico-politico eterogeneo, eterodosso rispetto alla sua formazione, e mette a critica le micro-politiche della relazione e la (connessa) spoliticizzazione delle differenze per interrogare il pensiero strategico capace trasformare le differenze in opposizione.
L’intervista, che si sviluppa seguendo gli snodi tematici proposti dal titolo del libro, si apre discutendo del presente. Cos’è che rende intollerabile il nostro presente?
* * * *
Guerre e rivoluzione
In una serie di articoli recenti pubblicati su questa rivista, hai discusso della guerra: un tema che nel libro fa da proscenio alla «catastrofe che si annuncia»; l’enunciato di questo presente intollerabile. Quale rapporto esiste (oltre le evidenze della situazione in Ucraina) tra la guerra e il presente?
Nel 2016, insieme a Eric Alliez, abbiamo pubblicato Wars and Capital per ricordare e ricordarci quello che negli ultimi cinquant’anni anni sembravamo aver dimenticato: che non c’è Capitale senza lo Stato e senza la guerra tra stati e senza le guerre di classe, razza e sesso. Con la prima guerra mondiale, le guerre si modificano radicalmente perché sono strettamente intrecciate con il capitale.
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Geopolitics is back: no endgame!
di Piotr
Finalmente cadono le maschere dei “valori” e riprende il proscenio la cruda realtà degli “interessi”, motore autosufficiente della geopolitica e di tutte le sue guerre (e chi muore per gli ideali R. I. P.).
Il quadro ora è chiaro e anche un cieco lo può vedere.
Il 26 aprile scorso gli USA hanno chiamato a rapporto nella base militare di Ramstein (che è in Germania ma è territorio statunitense) 40 Paesi alleati in tutto il mondo per ordinargli di aiutare l'Ucraina in quella che prevedono sarà una “lunga guerra” (ci saranno consultazioni mensili). Il segretario alla Difesa, Austin, ha detto papale papale che se i Russi vincono nel Donbass «l'ordine internazionale finisce». E ha avvertito che «la posta in gioco va oltre l'Ucraina e persino oltre l'Europa» (“the stakes extend beyond Ukraine – and even beyond Europe”).
Traduzione in Italiano corrente: «Se l'Ucraina non vince militarmente, non riusciremo a indebolire la Russia, e men che meno a balcanizzarla, e quindi poi non riusciremo a sconfiggere la Cina». E l'Europa risponde da Bruxelles: «Vogliamo che l'Ucraina vinca questa guerra» (Ursula von der Leyen al Parlamento Europeo). Perché altrimenti salta la tabella di marcia statunitense.
Una tabella di marcia che preoccupa una “bibbia” statunitense di politica estera, Foreign Affairs, che esprime le sue preoccupazioni addirittura per bocca di Pechino: «[Il governo cinese] vede ora Washington come voler deliberatamente inasprire la guerra per perpetuarla, e così indebolire sia la Russia che la Cina» (“[The Chinese government] now sees Washington as deliberately escalating the war in order to perpetuate it, thereby weakening both Russia and China»”)[1].
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Michael Brenner, “American dissent on Ukraine is dying in darkness”, ovvero “tempi da canaglia”
di Alessandro Visalli
Nel blog “Scheerpost”, un sito collettivo da tenere d’occhio, è riportata un’intervista[1] di Robert Scheer[2] all’anziano professor Michael J. Brenner[3], illustre professore emerito di Affari internazionali presso la Università di Pittsbourgh, e prima della John Hopkins e Direttore del Programma Studi Globali e Relazioni Internazionali dell’Università del Texas, poi insegnante a Stanford, al Mit, ad Harvard.
L’ottantenne professore avvia la conversazione raccontando un’esperienza personale: come usa a molti da anni diffondeva analisi politiche sulla situazione mondiale ad una selezionata mailing list di corrispondenti. Avendo condiviso analisi sulla crisi ucraina non corrispondenti alla linea ufficiale ha ricevuto un tale violento tenore di risposte da essere costretto a concluderne che la società americana “non è in grado di condurre un onesto, logico, ragionevolmente informato discorso sulla questione”. In altre parole, non esiste su questi temi una reale sfera pubblica, sostituita da fantasia, falsificazioni, fabbricazioni di informazioni, faziosità e aggressione. Il crollo dell’infrastruttura della democrazia liberale arriva al punto che uscire dalla linea, anche parlando con corrispondenti storici legati da vincoli di rispetto e amicizia, comporta immediati attacchi personali.
Questo lo vediamo benissimo anche in Italia, sono “tempi da canaglia”, come ebbe a dire Lillian Helman[4] durante il McCartismo.
Bisogna notare che quel che Brenner ha fatto, nel suo post incriminato, non è niente altro di quel che ogni buon accademico dovrebbe fare normalmente: porre domande. Ovvero, come dice il conduttore, “quel che ha fatto tutta la vita”.
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La spettacolarizzazione della guerra e la fabbrica del falso
Alba Vastano intervista Angelo D’Orsi
Un biennio di pandemia. Una guerra ad un nemico invisibile quanto letale. Ne usciamo, forse, da questa guerra che ha mietuto vittime in tutto il Pianeta. Ed è di nuovo guerra, ma questa volta il nemico, i nemici, sono fin troppo visibili e belligeranti. ‘ Non ci si ferma, finchè l’obiettivo non è raggiunto’. E’ un mantra radicato nei neuroni deformati di chi ha sete di potere . Ed è braccio di ferro fra i due leader contendenti la vittoria. In mano a questi uomini assetati di potere personale la pace che può scaturire dai negoziati non è fondamentale, tanto quanto portare la palma della vittoria a casa. Intanto sui luoghi di guerra si bombarda e si spara, si muore, si fugge, si vive in bunker senza acqua e cibo. Muoiono civili, muoiono giovani combattenti di entrambe la nazionalità. Si muore a 18 anni, per una guerra che giovanissimi, a volte ancora imberbi, buttati sul campo per fare il gioco crudele della guerra, probabilmente non capiscono e non condividono.
Intanto dalle lussuose stanze dei bottoni dei palazzi del potere i lorsignori della guerra non si fermano, anzi si accaniscono maggiormente nello spietato gioco mortale a chi ha più potere e armi più letali, tanto da rischiare una escalation senza ritorno. La guerra si trasforma in derby con tifoseria mondiale. E vi si affianca un’altra guerra a latere, ma altrettanto micidiale. E’ la guerra alla verità. E’ la perversa e tossica fabbrica delle notizie contraffatte, delle fake news che ci propinano i media h.24, per suscitare morbosità e scatenare le tifoserie mondiali contro il nemico, decretato da diversi capi di Stato aderenti alla Nato il number one dei malvagi, l’invasore, il folle, il criminale. Intorno a questa guerra alla verità si affolla e spunta, come funghi parassiti, un popolo di informatori, di tuttologi, di esperti disfunzionali e di parte, di conduttori di talk show che accendono i microfoni a lungo all’opinionista che fa gioco al sior paron. Chi contesta viene silenziato e, a volte, anche dileggiato.
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È il turno della Francia
di Giulio Palermo
Lunedì sera, il Presidente Macron ha aggiornato i francesi sul nuovo giro di vite sui loro diritti. Lo ha fatto, come è ormai costume, con un annuncio a reti unificate per radio e televisione.
Dal 21 luglio per accedere ai luoghi di svago e di cultura, tutte le persone non vaccinate di più di 12 anni dovranno produrre un test PCR negativo di meno di 48 ore. A inizio agosto, queste misure si estenderanno a bar, ristoranti, centri commerciali, ospedali (!), treni e aerei. Il 15 settembre scatterà l’obbligo di vaccinarsi per il personale infermieristico e non medico di ospedali, cliniche, case di riposo, istituti per disabili e per tutti i professionisti e i volontari in contatto con gli anziani e le altre categorie a rischio. A settembre, sarà anche predisposta una campagna di richiamo per permettere a quelli che si sono vaccinati per primi, che “vedranno presto diminuire il loro livello di anticorpi, di beneficiare di una nuova iniezione” (sì è proprio così: mentre ci dicono che il vaccino è la soluzione finale, danno per scontato che il suo effetto protettivo dura solo pochi mesi!). Nelle scuole saranno lanciate specifiche campagne di vaccinazione all'inizio dell'anno scolastico. I test PCR, finora gratuiti, “saranno resi a pagamento, al fine di incoraggiare la vaccinazione”. Già da oggi, sono inoltre rinforzati i controlli alle frontiere. Infine, cercando di prendere la faccia della maestrina buona, Macron ammonisce con chiarezza: “dovremo senza dubbio porci la questione della vaccinazione obbligatoria per tutti i francesi, ma per ora io scelgo di essere fiducioso”.
Questo per quanto riguarda repressione e sanità. Ma Monsieur le President sa benissimo che tutte queste misure socio-sanitarie da sole non risolvono la crisi economica se non si traducono in un inasprimento dello sfruttamento dei lavoratori. Nella seconda parte del suo discorso, Macron ha dunque affrontato qualche tema economico non esattamente secondario.
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Che cos’è il Metaverso?
di Jacopo Anderlini
Il termine “Metaverse” deriva da “Snow Crash”, un racconto cyberpunk di Neil Sephenson del 1992, in cui questo spazio ha tratti distopici. Quello che ha presentato Mark Zuckerberg il 28 ottobre 2021, quando ha comunicato il cambiamento del nome della società da lui fondata da Facebook, Inc. a Meta Platform Inc. – secondo molti osservatori e osservatrici non riuscendoci tanto bene – è invece una sorta di utopia tecnoentusiasta di un futuro dove saremo costantemente connessi. Uno spazio e un tempo dove non ci sarà quasi la necessità di fare logout e dove in buona sostanza il nostro avatar virtuale coinciderà con la nostra identità “reale”. Il confine, anzi, tra reale e virtuale, come già avviene adesso, andrà sempre più ad assottigliarsi.
In realtà questa non è un’idea nuova. Facebook sin dall’inizio propugna a livello “ideologico” – che si innerva e viene incarnato dal design della piattaforma e delle applicazioni a essa collegate – l’idea della trasparenza radicale. Non c’è nulla da nascondere – questa è la narrazione – quindi gli utenti devono mettere su Facebook e su tutte le altre piattaforme la propria vera identità, il proprio nome e cognome, i propri veri interessi: creare insomma una sorta di copia virtuale, di riproduzione delle loro interazioni. Seguendo questa idea di trasparenza radicale, Zuckerberg e i suoi collaboratori intendono dare forma a quello che loro chiamano Metaverso, cioè una proiezione, un’estensione del mondo “reale” fatta di app e servizi vari. Ovviamente, a uno sguardo critico, l’etichetta Metaverso risulta essere uno specchio per le allodole, una buzzword, un significante il cui significato rimane indeterminato.
Innanzittuto, potremmo dire che Internet – o meglio, parti di esso – per come adesso lo conosciamo sia una sorta di metaverso. Siamo in una fase storica dove molti servizi digitali sono già connessi tra loro.
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