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L’ecologia di Marx (alla luce della Mega-2)
di Alain Bihr
Il libro di K. Saito, La nature contre le capital. L’écologie de Marx dans sa critique inachevée du capital (La natura contro il capitale. L’ecologia di Marx nella sua critica incompiuta del capitale), appena uscito per le edizioni Syllepse e Page Deux (in traduzione dall’originale in lingua tedesca delle Edizioni Campus Verlag, 2016), è un libro importante. Perché consente di fare piena luce su quello che fino ad una ventina d’anni fa era considerato un ossimoro: appunto l’ecologia di Marx. Non si contano, infatti, le critiche rivolte al Moro per avere assorbito dal pensiero borghese un vero e proprio “feticismo delle forze produttive” e del loro sviluppo, per aver dato prova di un “prometeismo antropocentrico” contenente uno sguardo strumentale e un’attitudine dominatrice nei confronti della natura. Accuse che non sono del tutto prive di fondamento se riferite a singoli aspetti o momenti dell’indagine di Marx, ma risultano alla fine contraddette e smentite in modo decisivo dal filo rosso che Saito (dopo Burkett, Foster ed altri) ricostruisce con grande rigore, a partire dai Manoscritti economico-filosofici del 1844 per arrivare all’enorme massa dei “cahiers de lecture de Marx consacrés aux sciences de la nature” (biologia, chimica, botanica, geologia, mineralogia, etc.) redatti in buona parte negli ultimi dieci-quindici anni della sua vita e resi finalmente pubblici grazie alla nuova edizione delle opere complete di Marx ed Engels in corso (la cd. MEGA-2). Ne viene fuori la dimostrazione che la critica ecologica di Marx, progressivamente affinata sulla base dei contributi di Liebig, Fraas e di altri studiosi della natura, in quanto comporta l’analisi delle correlazioni tra le forme economico-sociali e il mondo materiale concreto, è parte integrante della sua critica dell’economia politica e del modo di produzione capitalistico. E che tale critica mette capo alla convinzione che la natura nel suo insieme, come mondo fisico-materiale, oppone resistenza al capitale, alla immodificabile pretesa del capitale di accumulare indefinitamente profitti saccheggiando al tempo stesso il lavoro vivo e la natura non umana.
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Fascismo in America?
di Giancarlo Scarpari
Robert Kagan, uno dei “falchi” della destra repubblicana, nel 2004 aveva spiegato all’Europa, poco convinta della scelta fatta dal suo paese di promuovere una nuova guerra contro l’Iraq, che l’America aveva invece tutto il diritto di farla, perché era stata minacciata dal terrorismo internazionale e perché Saddam Hussein aveva tentato di dotarsi di armi di distruzione di massa.
Sorvolando sulle premesse, Kagan aveva illustrato nel suo libro (Il diritto di fare la guerra, Milano, Mondadori, 2004) i fondamenti della dottrina Bush sulla legittimità della guerra preventiva, dottrina che lui stesso aveva elaborato nella primavera del 2000, un anno prima dell’attacco alle Torri gemelle, in un saggio scritto in collaborazione con William Kristol (Present Danger). In quel libro, l’autore aveva ricordato, a chi sosteneva che il diritto internazionale vietava questo tipo di guerra, che nel nuovo disordine mondiale il sistema vestfaliano non aveva più alcuna ragione di esistere («la proliferazione di armi di distruzione di massa ha reso troppo rischioso il temporeggiare»); e aveva, anzi, manifestato il proprio stupore per le reazioni che quella dottrina aveva suscitato nel «paradiso geopolitico europeo», visto che quell’idea non era affatto nuova: già Kennedy, al tempo della “crisi dei missili”, aveva minacciato un attacco preventivo contro lo Stato cubano e, negli anni ottanta, dopo l’attentato di Beirut nei confronti di una caserma di marines, il segretario di Stato Schultz aveva invocato, questa volta pubblicamente, la necessità di promuovere un’azione preventiva contro il terrorismo internazionale; e nessuno in Europa, in quelle occasioni, aveva avuto nulla da ridire.
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Un trionfo triste
di Il Pedante
Apprendo che in Alto Adige, dove già la primavera scorsa si sperimentava un «Corona pass» in anteprima nazionale, da oggi si applicheranno regole molto più stringenti alle famiglie che scelgono formare i propri figli secondo i principi dell'istruzione «parentale». Cittadino anch'io dell'epoca che giura di non muover dito senza i conforti delle «evidenze» scientifiche, ho cercato nella ragguardevole letteratura sul tema a quali gravi tare culturali, affettive e sociali andrebbero incontro i piccoli homeschooler. Ma non ho trovato nulla del genere, anzi. In compenso ho letto negli stessi giorni una raffica di titoli-fotocopia sulle scuole «clandestine» in cui troverebbero rifugio «soprattutto famiglie no mask» e che starebbero proliferando in tutto il Paese, con in testa l'ex provincia asburgica.
Quanti sono i pargoli così barbaramente «tolti dalla nostra società»? A occhio e croce, meno degli articoli in cui se ne parla. Nella provincia autonoma dove il fenomeno è più diffuso si tratterebbe di 544 (cinquecentoquarantaquattro) bambini: lo 0,7% della popolazione scolastica. Ma la deputata bolzanina e totiana Michaela Biancofiore non ha dubbi: è un «boom» a cui «stiamo assistendo inermi», un proliferare di azioni «che minano la cultura, la coesione sociale, l’ordine pubblico (sic) e la salute». Su che basi lancia queste accuse, quali le fonti, le testimonianze? Non lo dice. L'«involuzione culturale» degli scolari «sottratti alla socializzazione» è «evidente» a lei - e tanto ci basti.
In un'altra era geologica del nostro sentire avremmo apprezzato l'ironia di multare chi definisce «clandestini» le persone che si introducono illegalmente nel nostro Paese e di accettare invece che lo si dica di chi esercita un'attività prevista dalla legge, nel rispetto della legge. Ma oggi sembra tutto normale. Sarebbe legale anche occupare le piazze per manifestare il proprio dissenso, ma da quando lo fanno anche i «no green pass» sono diventate «sempre più tossiche per la nostra democrazia», spiega un senatore orgogliosamente antifascista.
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Il Problema
Breve compendio critico dell'ideologia neoliberale
di Enrico Gatto, 30 dicembre 2018
Tenerli sotto controllo non era difficile. Perfino quando in mezzo a loro serpeggiava il malcontento (il che, talvolta, pure accadeva), questo scontento non aveva sbocchi perché privi com’erano di una visione generale dei fatti, finivano per convogliarlo su rivendicazioni assolutamente secondarie. Non riuscivano mai ad avere consapevolezza dei problemi più grandi.
George Orwell, 1984 (1949)
Il neoliberismo, che è la base economica del moderno capitalismo assoluto (speculativo- finanziario), va necessariamente compreso per inquadrare le attuali dinamiche socio-politico- economiche – soprattutto occidentali ma che si ripercuotono ovunque – e poiché è la scaturigine del cosiddetto Pensiero Unico (che sostiene, precipuamente, il primato dell'economia sulla politica).
In parole povere si tratta della dottrina economica (cui corrisponde, ovviamente, un'inscindibile ideologia politica: il neoliberalismo) all'origine di tutti i nostri problemi. Semplificando, altro non è che la coronazione di un progetto di restaurazione del potere da parte della "classe dominante" (una rivoluzione passiva detta con Gramsci) risalente già agli anni venti del novecento (fondamentale fu, successivamente, il colloquio Walter Lippmann) ma iniziato ad attuarsi negli anni settanta (dal memorandum di Powell); è la reazione delle élite alla minaccia bolscevica e alla perdita di potere e ricchezza subita nell'età contemporanea e soprattutto nei trenta gloriosi quando le Costituzioni "socialiste" – apertamente avversate nel 2013 da JP Morgan – associate alle politiche economiche keynesiane avevano portato benessere ai popoli e forza alle democrazie (tanto che nello studio Crisi della Democrazia del 1975 commissionato dalla Trilaterale – della quale fecero poi parte Draghi, Prodi, Monti, Letta – si parlava della necessità di apatia e spoliticizzazione delle masse e di indebolimento del sindacato a causa di un pericoloso "eccesso di democrazia" da risolvere anche con l'introduzione di tecnocrazie).
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L’opera aperta di Marx: un pensiero della totalità che non si fa sistema
di Fabio Ciabatti
Paolo Favilli, A proposito de “Il Capitale”. Il lungo presente e i miei studenti. Corso di storia contemporanea, Franco Angeli, Milano 2021, Edizione Kindle, pp. 535, € 35,99
Marx non può essere considerato un classico. Sono troppe le passioni che ancora suscita la lettura dei suoi scritti per la radicalità della loro critica al sistema capitalistico. Ma c’è di più. Marx rimane un nostro contemporaneo per il carattere aperto della sua opera che, ancora oggi, ci consente di dipanare il filo dei suoi ragionamenti in molteplici direzioni utili per indagare le radici del nostro presente, anche al di là degli originari programmi di ricerca del rivoluzionario tedesco. Per comprendere questo carattere di apertura, sostiene Paolo Favilli nel suo ultimo libro A proposito de “Il capitale”, bisogna prendere in considerazione il rapporto tra la teoria marxiana e la storia, in un duplice senso. Da una parte bisogna comprendere fino in fondo la “fusione chimica” tra due dimensioni teoriche, quella economica e quella storica, che si intrecciano profondamente nella sua opera e in particolare ne Il capitale; dall’altra occorre capire come le vicende storiche concrete, e in particolare quelle del movimento operaio, abbiano inciso sulla ricezione, l’interpretazione e l’utilizzo del testo marxiano.
Per quanto riguarda il primo punto, bisogna partire dal fatto che per Marx dietro a ogni categoria, anche la più astratta, c’è sempre una realtà concreta storicamente determinata, mai una realtà universale e eterna. La ricerca della logica specifica dell’oggetto specifico non può prescindere da un’incessante messa a punto degli strumenti concettuali che, per essere adeguati, devono con continuità consumare produttivamente una grande quantità di dati empirici.
D’altra parte Marx non è certo un empirista. Il capitale è, senza dubbio, un lavoro pensato attraverso la categoria di totalità anche se, ed è questo il punto su cui insiste l’autore, non si chiude mai nella costruzione di un sistema. L’opera del rivoluzionario tedesco è un “non finito” che combina Prometeo e Sisifo.
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Vaccini anticovid in bambini e adolescenti
La doverosa analisi dei benefici, paragonati ai rischi
di Panagis Polykretis*
Per vaccinarsi contro il covid-19 i cittadini devono firmare un modulo di consenso informato. Tuttavia mi chiedo quanto il consenso sia veramente informato, quando i mass media continuano a mostrare solamente un lato della medaglia. Uno degli aspetti che mi ha inquietato maggiormente durante questa pandemia, è stato proprio il potere mediatico di persuasione delle masse. Da questa influenza non sono sfuggite neanche molte persone appartenenti all’ambiente scientifico, che considerano i mass media come un’entità superiore e inconfutabile, una specie di “bocca della verità” capace di fargli dimenticare quello che hanno imparato sui testi. Questo può diventare estremamente pericoloso, perché come diceva Platone: “Chi racconta le storie, governa la società”.
Mi è capitato di ascoltare alla radio un famoso giornalista italiano, co-conduttore di una trasmissione che conta milioni di ascoltatori. Egli continuava a ripetere che i vaccini contro il covid-19 hanno meno effetti collaterali dell’aspirina e canzonava con fare disgustoso tutti coloro che esitano a vaccinarsi. L’opinione di questa persona (senza alcuna formazione nel campo medico-scientifico), come di tante altre come lui, può influenzare una grandissima quantità di cittadini. Lo scopo di questo articolo dunque, è quello di presentare dati provenienti da studi scientifici che i mass media non riporterebbero facilmente, affinché il consenso del soggetto che si sottopone a vaccinazione sia pienamente informato. Invito i lettori a documentarsi il più possibile da fonti attendibili e verificare qualsiasi notizia essi ricevano, perché solo quando si ha una visione completa e non unilaterale, si riesce a valutare con criterio.
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Gli strange days di Trieste contro il green pass, terza e ultima puntata
Come il potere ha reagito a una lotta sbalorditiva
di Andrea Olivieri*
La prima puntata è qui; la seconda qui
Ed eccoci all’ultima puntata del reportage di Andrea Olivieri, dove il racconto della lotta si protende fino all’oggi. Qui Olivieri descrive tre diversi cospirazionismi – uno solo potenziale, gli altri due pienamente operativi e in apparenza opposti ma complementari – e intanto racconta la reazione delle autorità a una lotta che le ha colte alla sprovvista, la controffensiva ideologica a difesa della narrazione dominante sulla pandemia, e soprattutto la campagna diffamatoria – martellante e violenta – secondo cui sarebbe stata la mobilitazione contro il green pass a far risalire la curva dei contagi.
Questa campagna non era fondata su evidenze scientifiche bensì su pesanti omissioni, ed è servita a giustificare provvedimenti che hanno limitato drasticamente il diritto di manifestare. Già. Tutto accade talmente in fretta da rendere necessario fare memoria storica dopo poche settimane. È partita da Trieste – dalla controinsurrezione preventiva di cui Andrea ci racconta – la reazione a catena che ha portato prima a vietare i cortei, poi al «supergreenpass» e ai nuovi obblighi e restrizioni di questi giorni. Ma la terza puntata non si limita a mostrare questo: prima di congedarsi da lettrici e lettori, Olivieri mette insieme importanti spunti su quel che la lotta triestina dice riguardo alle tendenze in atto e, plausibilmente, ai conflitti futuri. Infine, complici i gruppi Nicoletta Bourbaki e Alpinismo Molotov, dalla città si sale in Carso, per sentieri che ricordano lotte più antiche, tanto “spurie” al proprio inizio quanto ispiranti nei loro sviluppi e fondative nei loro esiti. Buona lettura [WM].
* * * *
17. Golpe
I complotti esistono, e io ci credo. Come ci credono tutti.
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Hic Rhodus hic salta, il bivio dell’imperialismo europeo
di Mauro Casadio - Rete dei Comunisti
Il Forum della RdC che si è tenuto a Bologna il 20 e 21 Novembre ha cercato di focalizzare l’evoluzione che sta avendo L’Unione Europea, da quello che abbiamo definito a suo tempo un “polo” imperialista, cioè una forma inedita di relazioni in Europa che si basava sostanzialmente su un’area economico finanziaria, che oggi sta mutando la propria funzione.
Abbiamo detto da “Polo a Superstato” proprio per delineare un percorso che non è definibile a priori e che, rispettando obiettivi e funzioni di un’effettiva area imperialistica moderna, sta dandosi una strutturazione storicamente originale in rapporto a quelli che sono gli Stati europei affermatisi tra l’800 ed il ‘900 in modo esplicitamente imperialista.
Il percorso e l’analisi a cui abbiamo fatto riferimento nelle nostre elaborazioni non è quello che si manifesta periodicamente in momenti di conflitto o di omogeneità tra gli Stati della UE, a causa delle loro differenze di storia, dimensione e di peso politico, ma le tappe che nell’andare del tempo si sono consolidate e che sono oggi alla base degli ulteriori possibili balzi in avanti che questa inedita costruzione istituzionale può fare.
L’accordo di Maastricht nel ‘92, la nascita dell’Euro ai primi anni del 2000, il superamento della crisi finanziaria del 2007/2008, l’uscita dell’Inghilterra come “longa manus” degli USA in Europa, il ruolo attivo della BCE di Draghi con i Quantitative Easing, l’attuale Recovery Fund come ristrutturazione industriale continentale sono i pilastri di una costruzione sui quali è difficile pensare che si possa tornare indietro nonostante le difficoltà, comunque sempre contingenti, data anche la nuova condizione nelle relazioni internazionali.
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La riforma fiscale del Governo Draghi: cambiare poco per cambiare male
di coniarerivolta
Da mesi ormai si parla con toni da grande attesa dell’imminente riforma fiscale studiata dal governo Draghi. Nel suo discorso programmatico in Senato del 17 febbraio scorso, Mario Draghi spese parole enfatiche, ma assai vaghe nei contenuti, per annunciare le intenzioni di intervenire in modo energico sul fisco: “in questa prospettiva” affermava Draghi, “va studiata una revisione profonda dell’Irpef con il duplice obiettivo di semplificare e razionalizzare la struttura del prelievo, riducendo gradualmente il carico fiscale e preservando la progressività”.
Delle intenzioni trasformatrici espresse durante il discorso di insediamento cosa troviamo nell’attuale legge finanziaria in via di approvazione? Sostanzialmente nulla e sicuramente nulla di buono. La proposta, più o meno definita nei contenuti generali, è quella di andare a limare lievissimamente uno o due aliquote Irpef ed andare a ridurre l’Irap per le imprese, per un costo complessivo di circa 8 miliardi di euro. Per capire la direzione degli interventi proposti occorre fare un passo indietro e capire da dove veniamo.
Anni e anni di riforme involutive dagli anni ’80 ad oggi hanno portato ad una diminuzione continua del carico fiscale sui redditi da capitale e in generale sul reddito dei più ricchi. Una tendenza che si è articolata lungo due direzioni: da un lato la riduzione delle tipologie di reddito incluse nella base imponibile Irpef (Imposta sul reddito delle persone fisiche), con la previsione di regimi separati e agevolati per una parte cospicua dei redditi da capitale (reddito delle società di capitali, rendite finanziarie, rendite immobiliari); dall’altra una drastica riduzione della progressività in seno all’Irpef. Quest’ultima imposta, che ormai colpisce quasi esclusivamente redditi da lavoro e da pensione e solo in piccola parte i redditi da capitale (profitti della piccola e talvolta media impresa), è passata dai 32 scaglioni del lontano 1974 ai 5 attuali, con un differenziale ridottissimo tra prima e ultima aliquota e tra primo scaglione e ultimo scaglione di reddito ad esse associati.
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György Lukács, Dialettica e irrazionalismo
Recensione di Sabato Danzilli
György Lukács, Dialettica e irrazionalismo. Saggi 1932-1970, a cura di A. Infranca, Edizioni Punto Rosso, Milano pp. 200, € 18, ISBN 9788883512537
Questa raccolta di saggi di György Lukács curata da Antonino Infranca ha il merito di riunire testi poco noti e finora difficilmente reperibili dedicati a uno dei temi fondamentali del pensiero lukacsiano: la contrapposizione tra pensiero dialettico e filosofia irrazionalistica. Com’è noto, Lukács dedica nel 1954 all’argomento un’opera quale La distruzione della ragione. Qui il filosofo ungherese combatte le tendenze della filosofia borghese post-hegeliana che fanno del movimento storico oggettivo una categoria secondaria e subordinata rispetto alla coscienza soggettiva. Si tratta di una descrizione necessariamente generica, che racchiude però il moto di pensiero che sta alla base dell’opera e della stessa categoria di «irrazionalismo» nelle sue declinazioni storiche.
Il testo curato da Infranca è composto da nove saggi, tutti precedenti l’ampio volume del 1954, con l’eccezione dell’ultimo. Il motivo di questa collocazione cronologica non è casuale ed è spiegato bene dalla prefazione del curatore: se nel periodo giovanile di Lukács l’affermazione del carattere progressivo della dialettica, contrapposta, come in Storia e coscienza di classe, alle «antinomie del pensiero borghese», riguarda essenzialmente il problema dell’attualità della rivoluzione, gli scritti degli anni ’30-’40 sono inseriti nel contesto completamente mutato della resistenza all’avanzata nazifascista. Infranca pone l’accento sul carattere politico ed etico di questa lotta, che viene intesa come una vera e propria battaglia per il futuro dell’umanità. La rivendicazione del carattere progressivo della filosofia dialettica assume il significato di una difesa di tutte le conquiste sociali e culturali del movimento che si richiama a questa grande tradizione.
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Pluriverso
di Sergio Messina
Ecologie della trasformazione, rubrica a cura di Emanuele Leonardi
Una delle sfide più importanti dell’umanità contemporanea è quella di sapersi orientare in un mondo a crescente complessità. Ancor più difficoltoso risulta definire linee di azione e di trasformazione comuni che facciano capo a differenti contesti geografici ed esistenziali, i quali tuttavia condividono o possono condividere orizzonti di ricerca-azione trasversali.
Uno degli strumenti basilari che consente di porre in essere tale impegnativo percorso (che investe tanto il piano individuale, quanto quello collettivo) è l’individuazione di parole-chiave sia per il presente, sia per l’avvenire. Parole-chiave che sono state spesso dispiegate attraverso la costruzione di un dizionario, il quale si differenza dalle enciclopedie perché mentre queste ultime assumono una funzione teorica e conoscitiva per una determinata branca del sapere o dello stesso sapere universalmente inteso, il primo costituisce una cassetta degli attrezzi immediatamente operativa.
Ciò che di primo acchito balza agli occhi è che Pluriverso (Orthotes Editrice) è un dizionario elaborato sulla falsariga di precedenti lavori (ad esempio il Dizionario dello sviluppo, curato da Wolfgang Sachs, Staying Alive: Women, Ecology and Development di Vandana Shiva, sulla decrescita progettato da Giacomo D’Alisa, Federico Demaria e Giorgio Kallis, ecc.) ma con la differenza che esso rappresenta ancor più marcatamente un quadro non solo di concetti in senso lato ma anche di realtà viventi, di azioni e strategie collettive, di risorse valoriali e politiche che si pongono in alternativa allo spazio-tempo liscio e atonale del neoliberismo.
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Tre anni dopo cosa resta dei “gilet gialli”
di Joseph Confavreux e Fabien Escalona
Francia, perché l’impennata dei prezzi non porta a un’esplosione sociale? Non c’è un legame meccanico tra un contesto e una mobilitazione. Inchiesta di Mediapart
La primavera sarà calda, l’autunno sarà turbolento, l’inverno sarà incessante… Così come la retorica militante ha spesso cercato di mobilitare le sue truppe annunciando in anticipo movimenti che non sempre si sono verificati, sembra difficile spiegare l’assenza di mobilitazione quando il contesto sembra prestarsi ad essa.
La coincidenza tra i prezzi della benzina più alti che mai e il terzo anniversario della rivolta dei “gilet gialli” solleva domande sulle ragioni dell’attuale apatia sociale: la prospettiva delle elezioni presidenziali e il confronto elettorale? Specificità della mobilitazione delle rotonde troppo inedite? La portata della repressione è stata realizzata? Assenza strutturale di correlazione tra mobilitazioni sociali e condizioni socio-economiche? Effetti di coda lunga dell’epidemia di coronavirus?
Quando, il 17 novembre 2018, il movimento dei Gilet Gialli è emerso, ha colto di sorpresa gli osservatori e le autorità. Questi ultimi riuscirono a spegnerlo solo dopo molti mesi, ricorrendo contemporaneamente a un’intensa repressione e a varie procedure pseudo-deliberative. All’epoca, l’annuncio di un aumento della tassazione sul carburante ha fornito la scintilla per la mobilitazione, che è stata originale nella sua forma, nella sua sociologia e nei suoi metodi di azione. Più in generale, la questione dei vincoli di spesa è stata al centro della conversazione nazionale.
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Prefazione al volume I delle opere di Costanzo Preve
di Carlo Formenti
Costanzo Preve: Opere di Costanzo Preve. Vol. 1: Il nemico principale, Inschibboleth , 2021
In questa Prefazione mi occuperò del primo dei testi riuniti in questo volume, (Finalmente! L’atteso ritorno del nemico principale. Considerazioni politiche e filosofiche). Nella parte iniziale di tale testo leggiamo la seguente citazione: “Il nemico principale è sempre quello che è insieme più nocivo e più potente. Oggi è il capitalismo e la società di mercato sul piano economico, il liberalismo sul piano politico, l’individualismo sul piano filosofico, la borghesia sul piano sociale, e gli Stati Uniti d’America sul piano geopolitico”. Il brano è tratto da un articolo del filosofo francese di destra Alain de Benoist. Una scelta che appartiene al repertorio di gesti provocatori che ha caratterizzato l’ultima stagione produttiva di Costanzo Preve.
Non ho mai avuto modo di conoscere Preve di persona, né di parlargli. L’unico rapporto che ho avuto con lui è stato nelle vesti di caporedattore del mensile “Alfabeta”(ruolo che ho svolto negli anni Ottanta), quando Preve ci venne proposto come collaboratore da Francesco Leonetti. Non sono quindi in grado di stabilire se le provocazioni in questione nascessero dall’irritazione e dal disgusto nei confronti di una sinistra in avanzata fase di decomposizione sul piano politico, ideologico e filosofico (per cui Preve gioiva malignamente nell’evidenziare che, per leggere certe verità, si era ormai costretti a rivolgersi altrove), oppure se – almeno nel caso in questione – il fatto di potersi rispecchiare in una serie di affermazioni che riteneva condivisibili prevalesse sull’appartenenza ideologica del loro autore.
Sciogliere questo dubbio mi sembra francamente secondario rispetto a un dato di fatto: i detrattori di Preve si sono concentrati esclusivamente sulla fonte della citazione, ignorandone completamente il contenuto (per tacere del modo in cui Preve lo interpreta e approfondisce).
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Il senso della scienza per il dominio di classe
di Sebastiano Isaia
Joachim Sauer, marito della Cancelliera tedesca Angela Merkel e chimico quantistico di fama internazionale, si dice «dispiaciuto di quella parte di popolazione tedesca che semplicemente ignora la realtà per ragioni illogiche, come chi non crede nei vaccini», e non riesce a capire perché così tante persone «non vogliono dare retta alla razionalità scientifica, non trovano l’ingresso nel mondo razionale» (La Stampa). Ma non è che è proprio la realtà della società capitalistica (mondiale, non solo tedesca o europea) a essere palesemente e grandemente illogica e irrazionale, nonostante il larghissimo uso che essa fa della scienza e della tecnica? Non è che siamo in presenza di una scienza e di una tecnologia al servizio, fondamentalmente, del Capitale e non dell’Umanità? E ancora, chi ci assicura che lo “zoccolo duro” di chi continua a non fidarsi della scienza, nonostante «lo sviluppo dei vaccini rappresenti», sempre secondo il nostro chimico quantistico, «una grande vittoria della scienza», non sia in realtà l’espressione, una delle tante e certamente oggi quella più eclatante e difficile da accettare per la massa dell’opinione pubblica, di una sfiducia assai più diffusa nei confronti della Civiltà capitalistica? Una sfiducia, beninteso, istintiva, “a pelle”, ossia non elaborata concettualmente e non compresa nelle sue reali cause.
Queste domande interrogano, io credo, soprattutto l’anticapitalista, il quale oggi si trova nella tristissima condizione, che peraltro ha radici storiche e sociali tutt’altro che misteriose e incomprensibili (vedi la catastrofe stalinista e le continue rivoluzioni economico-sociali capitalistiche), di non avere alcun tipo di influenza nemmeno sulla parte più disagiata e offesa dell’umanità, quella che da una rivoluzione sociale avrebbe tutto da guadagnare e nulla o pochissimo da perdere.
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Che cos’è il «Rifiuto del Lavoro»? Mario Tronti
di Leo Essen
Nel 1962, sul numero 2 dei Quaderni Rossi, Tronti scrive un saggio destinato a fare epoca: La fabbrica e la società. In esso sono generalizzate alcune indicazioni contenute nei capitoli 13 e seguenti del primo libro del Capitale.
Nel capitolo sulle Macchine, Marx dice che la rivoluzione nel modo di produzione di una sfera dell’industria porta con sé la rivoluzione del modo di produzione nelle altre sfere. Questo vale in primo luogo per quelle branche dell’industria che sono sì isolate a causa della divisione sociale del lavoro, cosicché ognuna di esse produce una merce indipendente, ma tuttavia s’intrecciano l’una con l’altra come fasi d’un processo complessivo. Così la filatura meccanica rese necessaria la tessitura meccanica, e l’una e l’altra insieme resero necessaria la rivoluzione chimico-meccanica della candeggiatura, della tintura e della stampatura dei tessuti. Così d’altra parte la rivoluzione nella filatura del cotone rese necessaria l’invenzione del gin per la separazione delle fibre del cotone dal seme, con il che divenne possibile finalmente la produzione su larga scala com’è ora richiesta. La rivoluzione nel modo di produzione dell’industria e dell’agricoltura rese necessaria, in ispecie, anche una rivoluzione nelle condizione generali del processo sociale di produzione, cioè nei mezzi di comunicazione e di trasporto. Come i mezzi di comunicazione e di trasporto di una società il cui pivot erano la piccola agricoltura con la sua industria domestica ausiliaria e l’artigianato urbano, non potevamo più soddisfare affatto le necessità produttive del periodo manifatturiero con la sua divisione allargata del lavoro sociale, la sua concentrazione di mezzi di lavoro e operai, e i suoi mercati coloniali, e quindi vennero di fatto rovesciati; così i mezzi di comunicazione e di trasporto tramandati dal periodo della manifattura si trasformarono presto in impacci insopportabili per la grande industria, con la sua febbrile velocità di produzione, con la sua produzione su vastissima scala, con il costante lancio di grandi masse di capitale e di operai da una sfera all’altra della produzione e con i nuovi nessi da essa creati sul mercato mondiale.
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Probabilità e dogmatismo aggressivo
di Andrea Zhok
Nell'intento di mantenere forme di confronto civile in una situazione che sta travalicando da tempo civiltà e decenza, propongo di riflettere sull’attuale vicenda della strategia pandemica a partire dal problema generale dell’idea di probabilità.
È possibile, almeno in parte, descrivere le attuali divergenze tra chi accondiscende all’inoculazione, per sé e/o per i propri figli, e chi non lo fa, in termini di diversità nella valutazione di probabilità.
In una valutazione costi-benefici relativi ad una certa azione noi siamo chiamati a giudicare alcuni scenari possibili, attribuendovi un valore, e poi a considerare la probabilità che questo scenario si presenti.
La questione che dobbiamo affrontare innanzitutto è: esiste un modo in cui possiamo fissare queste probabilità in modo definito ed obiettivo?
Per fissare le idee è utile rimandare alle tre principali concezioni esistenti della probabilità (versione un po’ semplificata, non me ne vogliano matematici e statistici).
In primo luogo abbiamo la concezione classica o logicista della probabilità, definita come rapporto tra casi positivi (realizzazioni) e casi possibili. Questa definizione è perfettamente chiara e idealmente predittiva: di principio un dado ideale a sei facce ha una probabilità di 1/6 che ciascuna faccia appaia verso l’alto in ciascuno lancio.
Il problema di questa concezione è che funziona in modo rigoroso solo nei limiti in cui abbiamo a che fare con entità ideali, con enti matematici, ma nel mondo reale non fornisce nessuna garanzia. Nessun dado reale è davvero perfettamente uniforme dal punto di vista dell’omogeneità del peso, dei materiali, degli attriti, e per verificare se davvero un certo dado materiale sia all’altezza del dado ideale l’unica cosa da fare è svolgere un gran numero di lanci, controllando se la distribuzione delle occorrenze delle diverse facce sia equilibrata.
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Una sporca manovra euroccidentale
di Michele Castaldo
Che succede con i migranti al confine tra la Polonia e la Bielorussia, una delle tante tragedie in un mondo sempre più caotico come quello attuale? Riuscire a capire cosa si muove veramente dietro i fatti che ci vengono sbattuti in faccia è sempre più complicato. Insomma quali sono le necessità che sprigionano la forza che produce tante infamie come quelle di migliaia di persone che vengono respinte da due confini e lasciate soffrire e per alcune addirittura morire?
Romano Prodi, che si è battuto per l’Unione europea e la globalizzazione come un vero alfiere, ha il pregio della sintesi oltre che della chiarezza: « I migranti usati per il duello sull’energia. ». Cerchiamo perciò di capire perché c’è un duello per l’energia e in che modo questo viene fatto vivere sulla pelle dei migranti.
Cominciamo col dire, per amore della verità, che i migranti che sostano al confine tra la Bielorussia e le barriere di Polonia e Lituania non sono come quelli che arrivano con i gommoni sulle nostre coste e molti muoiono annegati nel Mediterraneo senza mai riuscire a sbarcare. Si tratta di ceti sociali per lo più piccolo borghesi che dalla Siria, dall’Afghanistan, dal Sudan, soprattutto dal Kurdistan iracheno, arrivano in Bielorussia con visti turistici per poi transitare in Europa attraverso la porta di confine della Polonia. Di che meravigliarsi? Gli affari sono affari e le strade si trovano sempre. La storia economica degli ultimi cinquecento anni almeno è una storia ricca di contrabbando di ogni tipo, per ogni merce, perché dovrebbe meravigliare che si contrabbandi anche della merce umana da parte di ambasciate e agenzie viaggi? Le leggi sono fatte per essere aggirate.
Ma perché a un certo punto quello che filava liscio come l’olio diviene un fatto eclatante saltando alla ribalta e ponendo una serie di interrogativi ai quali è tanto difficile rispondere?
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L’Europa dopo Angela Merkel
di Alfonso Gianni
Le elezioni tedesche del 26 settembre sono probabilmente destinate a cambiare le cose più in Europa che non in Germania. Un acuto osservatore della situazione internazionale, come Lucio Caracciolo, intervenendo in un webinar il giorno dopo, le ha persino definite come le più importanti elezioni italiane degli ultimi tempi.
Naturalmente questo non significa che nel grande paese tedesco tutto possa rimanere come prima. Sarebbe impossibile in ogni caso. Per quanto Olaf Scholz, il candidato socialdemocratico uscito vincitore dalla tenzone elettorale fosse da tempo “volato sul nido del cuculo”, ossia avesse moderato le proprie posizioni da non renderle così diverse dalla politica incarnata da Angela Merkel, con sempre maggiore evidenza man mano che si avvicinava le urne. Malgrado che sotto i suoi manifesti di propaganda affissi in tutto il paese vi fosse il singolare – ma fortunato – slogan “Sa fare la Cancelliera”. Malgrado che la sua postura, perfino la posizione delle mani durante i dibattiti televisivi fossero stati studiati appositamente per richiamare la figura della Merkel, fino a dar vita al neologismo “merkelare” riferito all’insieme delle sue parole e dei suoi comportamenti. Malgrado tutto ciò, i sedici anni nei quali Angela Merkel ha ricoperto il ruolo di Cancelliera sono per chiunque irripetibili e neppure imitabili se non nel tragitto di una pur lunga campagna elettorale. Che tale è stata se non si considerano i tempi formalmente e strettamente destinati ad essa, ma quelli del lungo addio all’alta carica da parte della Merkel.
Il suo cancellierato ha aperto e probabilmente concluso un’epoca. Nel 2005 la Germania era considerata dai mass media internazionali più autorevoli come il grande malato d’Europa, sia per i costi della riunificazione tedesca che, e soprattutto, per la recessione nel quale il paese entrò nel 2003.
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COP26 e i militari a Glasgow
di Elena Camino
La guerra incrementa l’effetto serra
Molti gruppi di attivisti e associazioni impegnate nella difesa dell’ambiente, della pace e dei diritti umani avevano alimentato le aspettative pubbliche su un tema centrale – ma complesso e sottostimato – della ‘lotta’ al cambiamento climatico: il ruolo e le responsabilità degli apparati militari nelle trasformazioni in atto sul nostro pianeta. I profughi fuggono dai teatri di guerra per non essere feriti o uccisi. Ma non solo. È chiaro che la guerra fa male direttamente anche ai sistemi naturali, che sono la principale fonte di sostentamento per tutti i viventi – compresi gli umani. Bombardare, minare, inquinare terreni agricoli, mari, falde, boschi riduce la produttività agricola, produce carestie e fame; obbliga intere popolazioni ad abbandonare i luoghi in cui vivevano e a migrare in cerca di luoghi in cui continuare a sopravvivere. Dunque, la violenza diretta contro le persone e la distruzione delle fonti di sussistenza sono gli aspetti più evidenti degli effetti negativi della guerra sull’ambiente e sulle comunità. L’uso delle armi contribuisce all’effetto serra sia nel ridurre la produzione di ossigeno di aree coltivate e boschi, sia nell’aumentare le emissioni di CO2 prodotte da incendi, bombardamenti, distruzioni di impianti industriali ecc. Inoltre ogni guerra scatena nuovi conflitti e provoca migrazioni, in una spirale perversa.
Anche preparare la guerra produce CO2
Un secondo aspetto, meno ovvio e – soprattutto – a lungo censurato, è l’insieme dei danni socio-ambientali che il sistema militare in generale causa (indipendentemente dalle azioni di guerra) con tutte le sue strutture e funzioni: dalla produzione di armamenti agli aspetti logistici (costruzione di strade, caserme, mezzi di trasporto), dai centri di formazione e addestramento alle strutture di ricerca, alla costruzione e mantenimento di basi militari e poligoni di esercitazioni. È un mondo nel mondo, con milioni di persone su tutto il pianeta impegnate al servizio della distruzione e della morte.
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Le trame e l’ordito della repubblica
di Sandro Moiso
Elio Catania, Confindustria nella repubblica (1946-1975). Storia politica degli industriali italiani dal dopoguerra alla strategia della tensione, Mimesis Edizioni, Milano-Udine 2021, pp. 360, 24,00 euro
Come afferma Aldo Giannullli nella sua prefazione al testo di Elio Catania, recentemente edito da Mimesis: «Nella storia della Prima Repubblica, c’è una lacuna piuttosto vistosa che riguarda uno dei soggetti più importanti: la storia della Confindustria». Ma se è vero che anche altre associazioni come Confcommercio, Confagricoltura, Abi o Confapi, solo per citarne alcune, non sono state oggetto di una attenta ricerca e ricostruzione storica, è anche vero che il ruolo politico ed economico giocato dalla prima all’interno della storia italiana del ‘900 è indiscutibilmente assai più rilevante. Soprattutto, a detta dello stesso Giannulli, per la forte influenza costantemente esercitata «sulle scelte politiche di governo e non solo in materia di politica economica e sindacale, ma anche in politica estera e più in generale sull’indirizzo politico complessivo del governo – soprattutto negli anni Cinquanta e Sessanta».
La ricerca di Catania, pur ripercorrendo a grandi linee la storia dell’associazione degli industriali dalle sue origini fino al Fascismo e alla Repubblica, si sofferma, in particolare, proprio sul ruolo svolto dalla stessa nella fase in cui era al massimo del suo potere. Potere di cui si servì innanzitutto per ostacolare in ogni modo l’ascesa economica, politica e sociale della grande massa dei lavoratori.
E per fare ciò, sia come singoli gruppi imprenditoriali sia come associazione, minacciò più volte, oppure rasentò, lo sbocco del colpo di Stato, finanziando o incoraggiando, indirettamente o direttamente, la destra eversiva di stampo dichiaratamente fascista.
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La lunga marcia verso il socialismo
di Carlo Formenti
Una guida per ragionare sullla rivoluzione cinese senza pregiudizi eurocentrici
Nota introduttiva
A dare la misura dell’incomprensione occidentale nei confronti della realtà cinese è un curioso paradosso: mentre gli intellettuali liberali si arrovellano sui motivi per cui la crescita economica non si sia portata dietro – come speravano e ritenevano inevitabile – la caduta dei comunisti e la transizione a un regime liberal democratico, ragion per cui considerano la Cina come la più grave minaccia alla sopravvivenza del capitalismo, gli intellettuali marxisti (o sedicenti tali) danno per scontato che in Cina non esista più – se mai è esistito – un regime socialista, ritengono che quel Paese rappresenti oggi la seconda potenza capitalistica mondiale e pensano che il dissidio ideologico con l’Occidente mascheri un conflitto interimperialistico. Questa cecità simmetrica replica il doppio abbaglio sulla caduta del regime sovietico: Fukuyama e soci vi scorgevano la conferma della superiorità del capitalismo sull’utopia social comunista, le “nuove sinistre” replicavano che in Russia il socialismo non esisteva più da decenni (per alcuni dalla morte di Lenin per altri da quella di Stalin).
Nel campo del marxismo occidentale le voci fuori dal coro, libere da dogmatismi dottrinari e pregiudizi eurocentrici, sono rare. Penso, per citarne alcune, a economisti come Samir Amin, Giovanni Arrighi e Vladimiro Giacché (1), a filosofi come Domenico Losurdo (2), a storici come Rita di Leo (3) o, a un livello più militante e limitandomi al contesto italiano, a formazioni politiche e associazioni culturali come il Partito Comunista di Marco Rizzo e le riviste Marx21 e Cumpanis. In precedenti lavori ho cercato di dare una serie di indicazioni bibliografiche (4) utili per fare piazza pulita della selva di luoghi comuni che ingombrano la discussione sul tema.
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Conversazione/intervista con Paolo Bartolini e Lelio Demichelis, autori di Vita lucida
di Fulvio Fagiani
Paolo Bartolini e Lelio Demichelis, autori del libro ‘La vita lucida’, si confrontano su potere e tecno-capitalismo, rassegnazione e istantaneità, pessimismo dell’intelligenza e vie d’uscita, divario tra consapevolezza e azione e crisi del paradigma occidentale, ’68 e dialogo tra culture.
Nel seguito D) segnala una mia domanda o commento, RB) la risposta di Paolo Bartolini, RD) la risposta di Lelio Demichelis.
* * * *
D) Mi ha molto interessato il secondo capitolo del vostro libro ‘La vita lucida’1 dedicato al potere ‘nella sua forma/norma tecno-capitalista’. Vi chiedo di riassumere il vostro modo di vedere il potere, con attenzione particolare alla ‘sottomissione di sé al potere’ di cui parla Lelio e alla ‘strategia senza strateghi’ secondo Miguel Benasayag (che ha scritto la Postfazione al libro), che mi pare abbia fondamento anche se in contraddizione con un quadro globale segnato da una grande concentrazione di potere sia politico che economico, cha farebbe pensare ad una ‘strategia con strateghi’.
RB) Qualche mese dopo aver scritto le mie parti del dialogo con Lelio, mi sono stupito nel leggere il libro di Carlo Sini ‘Del viver bene’2 per la prima volta, riscontrando una sorprendente prossimità con quanto avevo provato ad esprimere avvalendomi di altri riferimenti. Dalla mia prospettiva di analista biografico a orientamento filosofico, mi interrogo sulla questione del potere in chiave soprattutto antropologica e psicologica, perché mi interessa domandarmi come il potere riesca a conquistare le anime delle persone. Il sortilegio del potere è la capacità non solo di sottometterle, ma di metterle al lavoro per il tornaconto del sistema.
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Il prezzo della crisi: cosa fare contro il carovita?
di coniarerivolta
C’è una domanda che continuiamo a porci, incessantemente, da qualche mese: la crisi è davvero alle spalle? Certo, nel 2021 le cose stanno andando un po’ meglio, poiché l’epidemia, grazie soprattutto alla campagna vaccinale, si attesta su numeri molto più bassi rispetto a quelli dello scorso anno. Di conseguenza, il mancato ricorso a misure draconiane per contenere i contagi, quali i famigerati lockdown, ha fatto sì che l’economia abbia tirato qualche boccata d’ossigeno. Tuttavia, a ben guardare gli ultimi dati sulla disoccupazione, la povertà, la disuguaglianza e lo sfruttamento, dovremmo dare, oltre ogni ragionevole dubbio, una risposta negativa alla domanda di apertura: la crisi è tutt’altro che finita, e le politiche messe in campo da Governi e Unione europea si sono rivelate largamente insufficienti a fronteggiare un anno e mezzo di emergenza sanitaria, economica e sociale.
Nonostante ciò, dalle pagine de La Stampa ha recentemente fatto capolino un contributo di Carlo Cottarelli, personaggio che è spesso apparso sulle pagine di questo blog, purtroppo non per prendersi i nostri applausi. C’è un aspetto dell’attuale situazione economica che preoccupa il nostro: un aumento troppo sostenuto dei prezzi. Il tema non può che essere caro, e altrettanto preoccupante, anche per il nostro universo di riferimento. Sono molte le categorie che hanno ben ragione di preoccuparsi del carovita: lavoratori (precari e non) con salari da fame, pensionati che percepiscono mensilità indecorose, disoccupati che non sanno come sbarcare il lunario perché non hanno un reddito, e più in generale tutti coloro che si trovano in una condizione economica non agiata, sono tutti soggetti che vedono nell’aumento dei prezzi una dolorosa perdita di potere d’acquisto – e quindi di consumo e di benessere.
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Il fallimento dell’ecologia politica
di Gilles Dauvé
IV episodio della serie: Pommes de terre contre gratte-ciel, apparso su ddt21.noblogs.org, gennaio 2021
Sebbene sotto molti aspetti confliggano, ecologisti di governo, ecologisti dei «piccoli passi», ecosocialisti ed ecologisti radicali hanno un punto in comune. Che ambiscano a un incarico ministeriale, fondino una cooperativa di consumo bio, scrivano il programma per una futura «vera sinistra» o tentino di fare dell’ecologia la leva di un sovvertimento della società, tutti mettono la «questione ecologica» al centro del mondo attuale, come se oggi essa costringesse a ridefinire ciò che il capitalismo è, e in cosa consista la sua necessaria e possibile trasformazione. Tutti si vogliono allo stesso modo realisti, e si vantano di agire senza accontentarsi delle sole parole.
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1. Il liberismo in bicicletta
A partire dagli anni ‘60 del secolo scorso, negli Stati Uniti, si è fatto avanti un ecologismo composito, incoraggiato dal bestseller di Rachel Carson, Primavera silenziosa (1962), che denunciava la strage di uccelli provocata dai pesticidi. Nel 1970 fu organizzata la prima «Giornata della Terra», più una celebrazione ufficiale che un’azione militante. Successivamente, in nome della difesa dei consumatori, Ralph Nader1 si candiderà quattro volte alla presidenza degli Stati Uniti.
In Francia, il primo partecipante ambientalista alle elezioni presidenziali del 1974, René Dumont, insisteva soprattutto sull’incapacità del capitalismo di sopprimere la fame, la sovrapproduzione e l'eccessivo consumo di energia. Secondo costui, la linea di frattura sociale non opponeva borghesi e proletari, bensì consumatori dei paesi ricchi e masse diseredate del Terzo Mondo, nelle quali si incarnavano i veri proletari moderni.
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Kant col green pass?
di Paolo Becchi
L’Europa si prepara a fronteggiare la quarta ondata della pandemia. In tale preoccupante contesto il “Diario della crisi” rimane aperto alla discussione, ospitando testi che esprimono una pluralità di posizioni, anche molto problematiche, con il rinnovato invito ad ampliare e allargare le prospettive della riflessione
Da un punto di vista schiettamente giusfilosofico e argomentando in senso kantiano - ci sono certo altri approcci - si potrebbe dire che il singolo individuo non può mai essere ridotto a mero mezzo, neppure per raggiungere uno scopo benefico come la difesa della salute pubblica. L’”imperativo categorico” non lascia dubbi.
Sotto questo profilo, dunque, non è legittimo il diritto di imporre una generalizzata vaccinazione coatta, vale a dire senza un consenso libero e informato degli interessati. Con una eccezione, che anche Kant sarebbe disposto a sottoscrivere. Se il pericolo di contagio fosse infatti talmente grande da mettere in pericolo l’esistenza di una intera comunità, allora, in questo specifico caso, lo “stato di necessità” giustificherebbe l’obbligatorietà della vaccinazione e persino l’uso della forza per imporla. Ma è questa l’attuale situazione?
Insomma, l’obbligo vaccinale di cui si parla oggi è proporzionato al pericolo reale?
Nonostante i decessi che ci sono stati, non ci sembra questo il caso. E quindi dovrebbe valere l’imperativo categorico kantiano.
Si potrebbe avanzare una obiezione con riferimento ad alcune professioni per le quali in linea di principio non andrebbe escluso un obbligo vaccinale. Penso al personale ospedaliero e sanitario in genere. La missione del medico è quella di curare e se possibile di guarire, non di rischiare di diffondere malattie. Anzi semmai è proprio lui che nell’ esercizio della professione dovrebbe essere disposto ad assumersi personalmente dei rischi. Nessuno è obbligato a fare il medico ma se lo fa ha un’etica professionale che deve rispettare.
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