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Ritorno al futuro
Elio Paoloni intervista Carlo Formenti
Non è di sinistra, Carlo Formenti:
“Non vogliamo “rifare” la sinistra, non solo per motivi di opportunità linguistica, visto che la maggioranza del popolo disprezza ormai questa parola, ma perché riteniamo che il binomio destra/sinistra, da quando essere di sinistra non significa più nutrire la speranza in un cambio di civiltà, rappresenti unicamente un gioco delle parti fra le caste politiche che gestiscono gli affari correnti del capitale”.
E’ socialista. Non duro e puro (perché si impongono duttilità e abbandono di vecchi schemi marxiani) ma verace. Resta difficile perciò ai suoi avversari de sinistra triturarlo come hanno fatto con Costanzo Preve, al quale Formenti dedica un capitolo del suo ultimo libro, Il socialismo è morto, viva il socialismo, testo a parer mio imprescindibile per chi vuole davvero comprendere il presente, un testo di cui raccomando in ogni occasione la lettura e la diffusione. Difficile triturarlo, dicevo, non solo per il suo passato di dirigente della sinistra del sindacato unitario dei metalmeccanici, per il decennio in cui è stato caporedattore di Alfabeta, per il suo impegno di ricercatore – nell’università e fuori – sui temi dell’uso capitalistico delle nuove tecnologie, per l’attività di blogger sulle pagine di MicroMega e per la costante, approfondita, rilettura di Gramsci.
Alla analisi acuta – ma per noi non nuovissima – della falsa sinistra, unisce una conoscenza approfondita dei fenomeni populisti (una tecnica di comunicazione, si badi bene, non un’ideologia) rivalutati come ‘grado zero’ della nuova lotta di classe e una notevole dimestichezza con la realtà cinese, indispensabile per sbaragliare i luoghi comuni sull’impossibilità di governare l’economia, la finanza, l’iniziativa privata. Quella ‘manifesta impossibilità’ che viene di continuo avanzata con coloriture tra il biblico e il parascientifico per castrare ogni velleità di ribellione.
Per un ex intellettuale dell’area dell’autonomia operaia, il richiamo ai principi fondativi dello Stato nazione può suonare strano, ma non si tratta di nostalgia del passato, bensì di ritorno al futuro.
Infine Formenti non è certo il primo a evidenziare il carattere scellerato (politicamente parlando) di certo femminismo, ma è il meno esposto a facili contestazioni in virtù della sua attenzione al pensiero femminista più accorto e consapevole, come quello di Nancy Fraser, il cui ultimo libro verrà tradotto nella collana Visioni eretiche che Formenti dirige per Meltemi.
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Sudan: inizia il processo di transizione
di Giacomo Marchetti
In Sudan è iniziato il processo di transizione, con la firma della bozza di Costituzione Transitoria del 4 agosto da parte sia del Consiglio Militare di Transizione (TMC) che ha preso le redini del Paese africano dopo il defenestramento l’11 aprile scorso di Omar Al-Bashir – che governava il Sudan dal colpo di stato del 30 giugno del 1989 – e la coalizione delle forze di opposizione del regime – le Forze della Libertà e del Cambiamento (FFC), di cui è parte integrante il raggruppamento delle varie associazioni dei settori sociali che sono stati la spina dorsale delle mobilitazioni dal dicembre scorso – la SPA.
La popolazione sudanese ha festeggiato la firma della Costituzione Provvisoria, che allontana lo spettro della “guerra civile” e pone le basi per far voltare pagina al Paese dopo quasi 30 anni di regime sanguinario, e forse chiude un periodo di grande incertezza che ha caratterizzato i mesi successivi alla deposizione del despota sudanese.
La mobilitazione popolare non è mai scemata, nemmeno dopo lo sgombero violento del presidio di fronte al QG dell’esercito della capitale il 3 giugno, e gli episodi di feroce violenza contestuali e successivi, non limitati a Khartoum, da parte con ogni probabilità di elementi delle RSF e con ilplacet di Arabia Saudita, EAU ed Egitto (insieme al Ciad), grandi sponsor della “giunta militare”.
In questi mesi si è assistito ad uno “stop and go” nelle trattative, che più volte si sono arenate, e ad un susseguirsi di conflitti interni, sia nel campo dell’esercito che dell’opposizione, con un ruolo attivo di attori internazionale, oltre quelli già menzionati, che ha visto un rinnovato protagonismo anglo-statunitense in Sudan ed un ruolo centrale dell’Unione Africana e dell’Etiopia – motore di una spinta decisiva nella ripresa delle trattative, dopo una rottura che sembrava irreversibile a causa della forzatura militare del 3 giugno e la conseguente escalation verso lo sciopero generale e la disobbedienza civile totale.
I rapporti di forza internazionali e la perseveranza delle mobilitazioni, che avevano il proprio perno su settori sociali importanti nella SPA e strumenti di organizzazione rilevanti come i “Comitati Popolari di Quartiere” ed i sindacati – che hanno retto anche dopo l’escalation militare –, hanno imposto una exit strategy diversa dalla possibile stroncatura manu militari, come quella conosciuta in Bahrein durante le cosiddette “primavere arabe”, o il putch di Al Sisi in Egitto, che ha destituito il primo presidente democraticamente eletto, Morsi, e sancito la fine della breve esperienza di governo della “Fratellanza Mussulmana”, riportata nell’illegalità.
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Come dare la colpa agli hacker nordcoreani
di Francesco Galofaro*
Perché è sempre colpa della Corea del Nord? O degli hacker russi? La risposta può venire, forse, dalla narratologia. Come sappiamo, non c’è giallo senza colpevole: se, giunto all’ultima pagina, il lettore viene lasciato in preda ai suoi dubbi, il romanzo cambia genere e diventa letteratura colta. Lo stesso dicasi per le inchieste giornalistiche sui crimini informatici: i colpi più efferati degli ultimi decenni devono avere un autore; dietro le maschere anonime di pseudonimi come Shadow Brokers, Lazarus, Guccifer 2.0 deve esserci un volto. Nell’impossibilità di individuare i reali responsabili, che probabilmente godono dei frutti delle proprie rapine in qualche isola tropicale, un vero e proprio sistema, composto da superpotenze, media e agenzie investigative, cerca di manipolare l’opinione pubblica e di accusare il nemico geopolitico.
In questi casi, la mossa più semplice è attribuire la responsabilità ai comunisti (Corea del Nord, Cina) o all’impero del male (Russia), proprio come accadeva durante la guerra fredda. In questo articolo vorrei mostrare come nasce questo genere di false notizie, che diventano presto verità incontestabili, note a tutti, impossibili da mettere in dubbio.
Finanziare i missili nucleari coi videogiochi
Spesso il punto di vista adottato sui conflitti tra Stati che coinvolgono la rete è improntato a un sensazionalismo acritico (ideologico, a pensar male). Ad esempio, nel 2018 l’agenzia Bloomberg pubblica un’intervista a un hacker coreano ‘dissidente’ [1]. Un giovane di talento, selezionato negli anni ‘90 per studiare in Cina, e in seguito destinato a piccole operazioni di hackeraggio e di violazione dei diritti d’autore, per conto di una sezione segreta del Partito dei lavoratori chiamata ‘Office 91’. Tra gli altri aneddoti, racconta di aver passato molto tempo giocando a giochi di ruolo fantasy on line: Lineage e Diablo. Una volta costruiti personaggi molto potenti, li rivendeva ad altri giocatori.
Una bella storia, che periodicamente torna ad affacciarsi nei media. L’8 agosto del 2011, la rivista PC gamer pubblicava la notizia dell’arresto di 30 hacker nordcoreani [2].
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L’Unione bancaria europea e i problemi delle banche italiane
di Vladimiro Giacché*
Pubblichiamo la traduzione dell’articolo di Vladimiro Giacché sulla crisi bancaria italiana uscito sul sito dell’Institute for New Economic Thinking, con delle modifiche non sostanziali da parte dell’Autore, che ha anche aggiunto alcune note sul tema delle Banche di Credito Cooperativo
L’obiettivo con cui l’Unione bancaria europea è nata era quello di ridurre la balcanizzazione finanziaria dell’Eurozona. La balcanizzazione – la frattura del sistema bancario transfrontaliero che avviene quando creditori nervosi si ritirano verso i sicuri porti nazionali – è stata percepita a ragione come uno dei maggiori pericoli per la stabilità e la sussistenza stessa della moneta unica.
Infatti, all’indomani della crisi finanziaria, gran parte delle ricerche disponibili evidenziavano come il sistema – che sino al 2008/2009 si presentava così interconnesso da essere apparentemente inestricabile – si era andato ridisegnando secondo linee “nazionali”. I prestiti transfrontalieri nell’eurozona erano crollati all’incirca alla metà dei valori pre-crisi, e ingenti capitali erano stati rimpatriati da molte banche e investitori nei paesi core (Germania e Francia). I prestiti nei paesi cosiddetti periferici (Grecia, Irlanda, Spagna, Italia e Portogallo) nel frattempo tornavano ad essere sostanzialmente nazionali. Questo, politicamente, era imbarazzante, ma anche pericoloso, poiché rendeva tecnicamente possibile la fine della moneta unica.
Peggio ancora, questa situazione creava un problema ulteriore non meno grave: un circolo vizioso potenzialmente distruttivo tra rischio di credito e rischio sovrano – cioè il rischio che una nazione potesse essere spinta alla bancarotta.
Un obiettivo, tre pilastri
L’idea originale era che un’unione bancaria avrebbe ristabilito un mercato bancario e finanziario integrato attraverso tre pilastri: 1) un sistema unico di vigilanza bancaria 2) procedure di risoluzione che limitassero il rischio di contagio in caso di crisi, e 3) una garanzia europea sui depositi tale da spezzare il nesso tra rischio Paese e rischio bancario.
Questa la teoria. Nella pratica, l’unione bancaria ha generato enormi asimmetrie e condizioni competitive inique in tutta l’Eurozona. Queste asimmetrie hanno colpito in particolare il sistema bancario italiano, in un modo che contribuisce a spiegare gli avvenimenti degli ultimi anni.
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Hong Kong: tra narrazione dominante e contraddizioni reali
di Nicola Casale, Raffaele Sciortino
Quella di Hong Kong è platealmente una “rivoluzione colorata”. Ma, come ogni rivoluzione colorata, poggia su effettive basi materiali.
Il primo aspetto è palese. Lo evidenziano l’appoggio esplicito dei politici statunitensi -da Trump alla Clinton- e inglesi, la foto di alcuni leader della rivolta assieme a una funzionaria del consolato sicuramente in organico Cia (v. foto accanto da https://www.zerohedge.com/news/2019-08-08/evidence-cia-meeting-hk-protest-leaders-china-summons-us-diplomats-over-viral-photo: “consultazione” che gli interessati non hanno potuto smentire), le bandiere a stelle e strisce sventolate nei cortei e quella di HK colonia britannica issata in occasione dell’irruzione al parlamento locale mentre nell’assalto del ventun luglio all’ufficio diplomatico di Pechino l’emblema cinese è stato distrutto (vedi foto da: https://www.scmp.com/news/hong-kong/politics/article/3023817/are-hong-kong-protesters-pro-american-or-british-when-they e foto da: https://www.workers.org/2019/08/16/whats-behind-hong-kong-protests/), le continue provocazioni violente chiaramente finalizzate a suscitare una risposta dura della polizia (comparirà anche qualche cecchino Cia-diretto che come a Maidan spara contro rivoltosi e poliziotti?), l’appoggio dei media occidentali - basta confrontare con il tipo di copertura mediatica sui gilets gialli o, per venire ai pennivendoli nostrani, sulle “ingiustificate violenze” dei NoTav - contro l’“autoritarismo di Pechino”, il supporto di Facebook, Twitter, ecc. e ovviamente l’azione neanche tanto nascosta delle Ong - lautamente sovvenzionate, ancor più che in occasione della protesta degli ombrelli dell’autunno 2014, dal National Endowment of Democracy, organo principale del soft power del Pentagono (https://www.strategic-culture.org/news/2019/08/17/the-anglo-american-origins-of-color-revolutions-ned/). Insomma, la Coalizione dei diritti civili non manca di appoggi di un certo peso…
Si potrebbe continuare. Ma, si diceva, come ogni rivoluzione colorata anche questa non è una pura costruzione mediatica o delle Ong, bensì poggia anche su basi materiali, con il presente incernierato in un pesante passato storico.
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Il Sistema contro le anomalie. Le anomalie contro il sistema
di Fulvio Grimaldi
Terza parte
Bilderberg - Prodi: Crisi e M5S dalla padella alla brace. Argentina: El pueblo unido
Ridicolo andare a votare a ottobre, ma come si può fare un accordo insieme ai Democratici, cioè il partito più a destra d’Italia?” (Alessandro Di Battista)
I laboratori della Cupola: Italia
Anticipando lo sconquasso civile, culturale, politico e sociale che il salviniano Russiagate – che resta lo strumento strategico della Cupola per volgere a suo favore turbolenze e anomalie - sta gestendo, a controllo della crisi, c’è solo da ribadire con Trapattoni “non dire gatto se non l’hai nel sacco”. Perché, finchè le Ong globaliste, collise-colluse con Salvini, operano in maniera talmente smaccata, da deportatori, pirati, provocatori, sequestratori di deportati, contro esclusivamente il nostro paese, è ancora il panzone da Pieni Poteri nel Papeete a tenere in mano la carta moschicida su cui far appiccicare consensi. Se la Cupola gli permette di andare a elezioni. Ma anche no. Un Salvini mandato all’opposizione dall’ircocervo PD-5Stelle (coalizione che osano chiamare giallo-rossa, mentre non arriva neanche al giallo-rosé), sai come si diverte a vedere sminuzzare la maggioranza degli opposti e contrari in vista della Finanziaria, dell’Iva e dell’arrivo della recessione che già lumeggia dagli Stati Uniti!.
Per il resto, lo spettacolo in Chigi, Senato, Camera, è da Antellane di Plauto. Ne ricordate i personaggi? Maccus (mangione sciocco), Pappus (vecchio stupido), Bucco (il fanfarone e parlatore petulante) e Dossennus (gobbo astuto). Ne riconoscete gli interpreti attuali?
Per sommi capi, ecco gli schieramenti l’un contro l’altro armato: di qua rosari, sangue di San Gennaro, santini di Padre Pio, di là il papa. Nel segno delle più inoppugnabili delle superstizioni. Stato laico! E poi i borborigmi nelle Camere: una congerie parlamentare che non ci si fa capaci di come possa essere arrivata su quegli scranni. Gente che urla quattro belinate e poi viene abbracciata come fosse Cicerone; una corporazione di cicisbei, toy-boy, pupazzi che scattano ai fili di capibanda e, pestando da settimane acqua marcia nel mortaio dei talkshow e tg, si fa passare per giornalisti.
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Art. 4 Cost., fra passato, presente e futuro (?)
post di Arturo
1. In occasione del settantenario della Costituzione, Carocci ha preso la commendevole iniziativa di pubblicare unaserie di commenti dei primi 12 articoli, i principi generali, della Costituzione.
Apprezzabile sia per la lunghezza non eccessiva (circa 150 pagine ciascuno), sia per l’impostazione non troppo tecnica dei volumi, che li rende utilmente avvicinabili anche da chi avrebbe difficoltà a reperire e maneggiare i classici commentari. L’elevata, spesso elevatissima, qualità degli autori costituisce un’ulteriore garanzia.
Curatori della collana sono infatti uno dei massimi storici italiani del diritto pubblico,Pietro Costa, autore della monumentale e magistrale storia della cittadinanza in Europa intitolata Civitas, in quattro volumi, pubblicata presso Laterza, e una fine contemporaneista come Mariuccia Salvati.
Io ne ho letti quattro (commenti agli artt. 1, 3, 4 e 11) e posso confermarvi che la ricostruzione storica è ottima, ricca di dettagli spesso poco noti (particolarmente apprezzabile, nel volume sull’art. 3, l’ampio spazio giustamente dedicato alla figura di Basso: coautrice è in effetti Chiara Giorgi, che ha anche scritto la prima parte di una bella biografia del leader socialista), chiara e condivisibile nei giudizi (lo vedremo subito); insoddisfacente è però l’analisi del presente.
Se, come dicono i curatori nell’introduzione all’opera,
“richiamare l’attenzione sui principi e sui diritti fondamentali ha il significato di sottolineare la loro decisiva importanza e attualità: solo prendendoli sul serio evitiamo il rischio (quanto mai concreto) che una loro declamatoria esaltazione si accompagni al loro effettivo svuotamento e alla conseguente trasformazione della democrazia costituzionale in uno stanco rituale o in una vuota facciata”,
ebbene, quelle serietà dovrebbe implicare la necessità di confrontarsi con le cause che rendono quel rischio “quanto mai concreto” e che non sono in verità particolarmente difficili da accertare. Ma su questo ennesimo triste episodio di “eurostrabismo” tornerò alla fine.
2. Qui voglio parlarvi del libro dedicato all’art. 4, scritto dalla stessa Salvati.
2.1. Era stato Costa a individuare con mano sicura i tratti essenziali delle costituzioni sociali del dopoguerra:
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Dalla crisi di governo al conflitto sociale
di Redazione
Il governo più egemonizzato dalla destra radicale dal dopoguerra a oggi è in crisi, i fratelli nemici del capitale litigano, le larghe intese di nuovo all’orizzonte o un governo giallo-verde bis? È tempo di reagire
Avevamo chiuso l’editoriale della scorsa settimana prendendo atto dell’assordante silenzio della sinistra radicale di classe sulla dirompente crisi di governo. Poco dopo abbiamo potuto leggere una presa di posizione dei massimi dirigenti del Prc (Acerbo e Ferrero), che hanno attaccato i leader del Pd e del M5s perché non hanno impedito una certa vittoria elettorale della destra radicale costruendo subito insieme un nuovo governo. Dopo aver giustamente criticato tanto il Pd quanto i M5s per essere stati corresponsabili della crescita esponenziale della destra radicale, gli hanno intimato di non venire più a chiedere voti utili per impedire un governo pericolosamente spostato a destra, se ora che potevano farlo non lo hanno fermato proponendo un governo alternativo.
Dinanzi all’assurda posizione di Zingaretti che, pur di cercare di sostituire deputati a lui fedeli ai renziani, ha spinto per andare subito al voto, consegnando il paese alla destra radicale (con la segreta speranza di reimporre il bipolarismo) dinanzi a un prossimo governo apertamente di destra, spererebbe, pur non proponendo un programma realmente alternativo dal punto di vista economico e sociale, di presentarsi agli elettori come l’unico candidato in grado di bloccare la destra radicale, sul modello di Chirac o Macron in Francia.
Nel frattempo, i renziani e Calenda hanno continuato una assurda guerra intestina mirando, per altro, allo stesso obiettivo, ossia quello di realizzare anche in Italia un equivalente del modello centrista realizzato in Francia di En marche, in grado di divenire il principale punto di riferimento politico per i poteri forti nazionali e internazionali. All’infuori delle teatrali esternazioni di Di Battista che nostalgicamente non riesce a superare l’infatuazione per la Lega, additando Salvini quale traditore e sostenendo che ci siano personaggi “più affidabili” nel Carroccio, Di Maio, l’unica voce autorevole a pronunciarsi del M5S, non va al di là della proposta-kamikaze di votare la drastica riduzione dei parlamentari e andare subito al voto, rafforzando in tal modo il netto successo della destra radicale.
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Verstand e Vernunft nei Grundrisse
di Salvatore Bravo
L’introduzione nei Grundrisse di Marx (in tedesco: Grundrisse der Kritik der politischen Ökonomie 1857 1858) è un esempio vivo della pratica filosofica. Nell’introduzione Marx delinea il campo di ricerca ponendo tra parentesi certezze, valori e “metodologie ideologiche”, il cui scopo è eternizzare lo stato presente. La filosofia non può rinunziare alla ragione (Vernunft), in quanto è la pratica della stessa, essa coglie il complesso per definire il percorso argomentativo e logico che deve condurre alla verità. La Filosofia non è gnoseologia, teoria del rispecchiamento che legittima le scienze e l’economia analizzando limiti e possibilità della conoscenza scientifica, non è servile a nessun sapere, perché utilizza la ragione dialogica per rimettere in discussione dogmi, postulati e saperi cristallizzati in formule socialmente prospettiche. La filosofia non usa l’intelletto astratto (Verstand), il quale, invece, è delle scienze che devono separare per analizzare. Con l’intelletto l’essere umano cade nella ingenua rappresentazione dell’oggetto (Object), con la ragione il soggetto umano è consapevole che il sistema è la rappresentazione prodotta da una comunità (Gegenstand), per cui è trasformabile, ci si apre all’orizzonte della prassi.
Le robinsonate
La prima certezza da scardinare è che l’essere umano è un individuo, un atomo che si relaziona solo in funzione dei valori di scambio. Non solo, ma l’economia classica e l’empirismo inglese insegnano che esiste l’individuo quale postulato da cui ogni analisi economica e sociale deve partire. Postulato ideologico, poiché si parte dall’individuo competitivo ed acquisitivo per giustificare la naturalità del modo di produzione capitalista. il dio mondano è l’individuo che genera e distrugge, si occulta con l’astratto che l’individuo non è un miracolo della natura che è posto da se stesso in modo autotetico, ma è poligenetico, è interno al modo di produzione, vive, agisce e reagisce in esso. L’individuo astratto giustifica meriti e demeriti riferendoli unicamente a stesso, è isolato e narcisista, in questa maniera si vuole celare che non esiste l’individuo, ma egli è parte integrante di una comunità, è intenzionalità relazionale senza la quale il soggetto non esisterebbe:1
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In ricordo di Giorgio Nebbia. Tra passato e futuro
di Sergio Messina
L’amore per la conoscenza, la condivisione della stessa attraverso una comunicazione genuina e diretta, l’instancabile spinta nel servirsi della ‘memoria storica’ avanzando al contempo ‘messaggi di verità’ sempre ‘attuali’ e coraggiosi, sono solo alcune tra le tante caratteristiche inerenti sia lo stile, sia la stessa personalità, versatile e insieme coerente, di uno studioso del calibro di Giorgio Nebbia.
L’’emerito’, il movimentista e il ‘cronista’ lascia in eredità oltre al ricordo di un’umanità senza pari, uno straordinario patrimonio di idee, racconti, lezioni e stimoli per le generazioni future di studenti, studiosi, attivisti, politici ed educatori affinché gli stessi possano evitare di rimanere sprovvisti di adeguati strumenti per poter affrontare tempi sempre più complessi e privi di punti di riferimento. Ed eventualmente continuare (con la stessa chiarezza, determinazione e passione) un enorme lavoro di ‘divulgazione’[1] che necessiterebbe (così come lo stesso autore aveva auspicato in alcuni dei suoi numerosi scritti) di essere completato e/o ulteriormente approfondito.
Come è a molti noto Nebbia riassume in sé diverse ‘personalità’ (Professore universitario, politico, attivista, giornalista, saggista ecc.) che non consentono di incasellarlo in nessuna delle ‘categorie’ che lo stesso ha rappresentato nel corso della sua lunga e intensa ‘carriera’ (termine alquanto riduttivo se si vuole fedelmente descrivere le sfaccettature della sua attività tanto scientifica, quanto ‘divulgativa’) [2]. Ciò che per i più salta subito all’occhio è giustamente l’associazione con i ‘padri’ dell’ambientalismo italiano, relegando però in questo modo (magari inconsapevolmente) il contributo dello stesso a un ‘passato glorioso’ che non tornerà mai più e che ci indurrebbe a fare i conti con una realtà (come quella attuale) spesso povera di contenuti attraverso la consolatoria nostalgia dei ‘bei tempi andati’. Nulla di tutto questo.
Nella presente nota si cercherà di evidenziare (attraverso una breve ricognizione delle varie fasi del suo pensiero e delle principali vicende biografiche) il contributo del Professor Nebbia non solo alla ‘memoria storica’ inerente l’ecologia e la ‘contestazione ecologica’ ma anche all’ambientalismo contemporaneo oggi rappresentato in larga parte dai movimenti transnazionali sulla ‘giustizia ambientale’ e sui ‘beni comuni’.
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"Segui i soldi" dietro le proteste di Hong Kong
di Sara Flounders*
Le manifestazioni a Hong Kong, divenute un aperto confronto con la Repubblica popolare cinese, hanno un impatto globale. Quali sono le forze dietro a questo movimento? Come vengono reperiti i fondi e chi ne beneficia?
Le manifestazioni sempre più violente a Hong Kong sono accolte e sostenute con entusiasmo dai media statunitensi e da tutti i partiti politici imperialisti negli Stati Uniti e in Gran Bretagna. Questo dovrebbe essere un segnale di pericolo per tutti coloro che lottano per il cambiamento e per il progresso sociale. L'imperialismo americano non è mai disinteressato o neutrale.
Le azioni dirompenti coinvolgono manifestanti con maschere ed elmetti che usano bombe molotov, mattoni ardenti, barre d'acciaio, appiccano incendi, attaccano gli autobus e chiudono l'aeroporto e i trasporti di massa. Tra gli atti più provocatori c'è stata un'irruzione organizzata alla legislatura di Hong Kong, dove gli "attivisti" hanno vandalizzato l'edificio e appeso la bandiera britannica.
Le bandiere coloniali di Stati Uniti, Gran Bretagna e Hong Kong sono prominenti in questi scontri, insieme alle bandiere e altri simboli deturpati della Cina popolare.
Il New York Times ha descritto la chiusura dell'aeroporto: "Le proteste all'aeroporto sono state profondamente tattiche, in quanto il movimento, in gran parte senza leader, colpisce un'arteria economica vitale. L'aeroporto internazionale di Hong Kong inaugurato nel 1998, l'anno dopo che la Cina ha recuperato il territorio dalla Gran Bretagna, funge da porta d'accesso al resto dell'Asia. Elegante e ben gestito, l'aeroporto ospita quasi 75 milioni di passeggeri all'anno e gestisce più di 5,1 milioni di tonnellate di merci". (14 agosto)
I media statunitensi hanno costantemente etichettato queste azioni violente come "pro-democrazia". Ma lo sono?
Anche se i leader di queste azioni reazionarie decidessero di ritirarsi dall'orlo del baratro e ricalibrare le loro tattiche, sulla base dei forti avvertimenti del governo cinese, è ugualmente importante capire un movimento che ha un sostegno così forte dagli Stati Uniti.
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Cupola, i fronti delle milizie arcobalenghe: Mosca-Hong Kong-Lampedusa
Controcanto in Argentina
di Fulvio Grimaldi
Parte seconda
“Io sono convinto che è dovere di uno Stato proteggere i confini, espellere chi è irregolare e porre un freno all’immigrazione clandestina che puzza tanto di deportazione di massa a vantaggio del grande capitale” (Alessandro Di Battista, “Politicamente scorretto”, Paper First)
Media italiani? In geopolitica stiamo dove dobbiamo stare
La parte prima di questo dittico si chiudeva con il doveroso accenno al ruolo della nostra stampa: Sappiamo tutti, quei 13 gatti spelacchiati che leggono il manifesto, ora che è diventato enigmistico e offre fumetti agli analfabeti, che nel quotidiano comunista c’è chi è deputato dall’alto a picchiare la Russia e Putin, chi a spernacchiare la Resistenza afghana, chi a scatenare la foia razzista contro Gheddafi e Assad e chi a fare della Cina il Regno di Mordor. Offrono a costoro ampi spazi di empietà giornalistica le manifestazioni di questi giorni a Mosca e a Hong Kong, epicentri della guerra globalista contro le due nazioni che viaggiano in direzione ostinata e contraria sui binari del diritto internazionale e, quanto a bottino di devastazioni e morti inflitti, stanno a chi li avversa come i blob della Solfatara stanno all’eruzione del Vesuvio nel 79 dC. Ma tant’è, su Mosca e Hong Kong dove torme di violenti armati vengono contenuti con mezzi che rispetto a quelli di Macron sui Gilet Gialli sono da esercitazione di boyscout, con pochissimi feriti (molti di più tra gli agenti) e nessun morto, ci si stracciano le vesti. Sugli oltre 300 inermi o lanciatori di sassi fucilati e gli oltre 7000 mutilati e feriti di Gaza ci si straccia la coscienza.
Il fronte nostrano: etero-schiavismo per agevolare l’auto-schiavismo
Non ci volevano i tonitruanti proclami a vuoto dell’energumeno dei “pieni poteri”, finalizzati unicamente alla rabdomanzia dell’Italia liquida dei voti, perché gli italiani capissero, più o meno lucidamente, che cosa si nascondesse dietro a questa Grande Armada che invade l’Italia con bombe umane, fornitegli da altri cooperanti all’ultima fase del colonialismo a fini di globalizzazione militar-neoliberista.
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Carlo Cafiero, il figlio del sole
di Salvatore Bravo
Carlo Cafiero (Barletta, 1º settembre 1846– Nocera inferiore 1892) ha vissuto con pienezza lo spirito di scissione, non è mai stato parte di nessun movimento in toto, ha sempre mantenuto distanza critica rispetto ad ogni appartenenza, si sentiva legato piuttosto all’umanità, ha messo la sua cultura, il suo impegno al servizio degli esseri umani. E’ la testimonianza viva, su cui si dovrebbe riflettere, che l’essere umano non è l’effetto del modo di produzione, ma vi è un’eccedenza, una resistenza al potere ed ai condizionamenti che permette la libertà critica.
Di famiglia agiata, i Cafiero erano una delle famiglie più rilevanti di Barletta e di Puglia, già avviato alla carriera diplomatica, ha il coraggio della scissione, abbandona le certezze e le agiatezze per impegnarsi politicamente a favore degli ultimi, di coloro che non hanno le parole per testimoniare e denunciare la violenza dello sfruttamento. La sua vita è stata tragica, termina i suoi giorni in manicomio, ciò malgrado la sua breve parabola vitale dimostra che la natura umana è capace di vivere l’universale fino alle estreme conseguenze. In un pianeta che è ormai un immenso mercato, in cui le istituzioni formano il consumatore e non la persona, Cafiero è un esempio vivo che vi sono possibilità imprevedibili nell’essere umano. Conobbe direttamente, forse Marx, sicuramente Engels con cui partecipò all’organizzazione dell’internazionale, ma il potere, in qualsiasi forma era per Cafiero il male del mondo, per cui si schierò con gli anarchici avvicinandoci a Bakunin conosciuto nel 1872. Lo divise dall’Internazionale e da Engels il modello di organizzazione che secondo Cafiero non doveva essere accentrato, ma libertario. Al collettivismo comunista, allo stato erogatore dei servizi predilesse il federalismo di società produttive: la libertà prima di tutto.
Nel 1877 a San Lupo nel Matese organizza un moto anarchico che non ha successo, ma sperimenta la propaganda del fatto, ovvero non si incoraggia l’insurrezione con verbosi proclami, ma con azioni effettive: gli archivi comunali furono bruciati, in quanto in essi vi erano documenti e dati che permettevano l’ingiusta tassazione. In carcere legge il Capitale di Marx, ne fa un compendio pubblicato da La Plebe, compendio che ha avuto una ventina di edizioni.
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Roma, Mosca, Hong Kong: in campo i colorati (arcobalenghi)
Controcanto argentino, dove le Ong del cortile di casa non bastano più
di Fulvio Grimaldi
Parte prima
Le mani sul bottino
Un breve giro sul carnevale estivo nostrano, in cui tutti paiono subire gli effetti fantasmagorici della canicola regalataci dei poteri politici ed economici del Sovramondo (con l’aiuto del famoso “mondo di mezzo” di Carminati, Buzzi e Al Capone). Un brano in coda sull’armageddon 5 Stelle dal solito pezzo analitico decisivo di Mario Monforte. E fari accesi, nella seconda parte, su un’America Latina, Argentina e Venezuela, dove la controffensiva imperialista si va arenando e su Hong Kong, dove la si prova con l’ennesima Maidan nazi-colonialista, alimentata dai soliti mezzi messi in campo da Cia, NED e, immancabile, il re dei regime change, delle deportazioni Ong dei popoli da disperdere e delle speculazioni ammazza popoli, George Soros.
Essi – i media – vivono (Carpenter)
Quel gioiello di stampa libera, coraggiosa e sdegnata negatrice di condizionamenti esterni o interni, che sono i nostri media, risplende di luce riflessa dall’alto su tutti i fronti. Da quelli in mano a imprenditori, finanzieri, bancarottieri, cementificatori, nulla ci aspettavamo e nulla di diverso dal solito coro unanime degli scherani del sistema abbiamo visto. Dai “sinistri” neppure nulla ci aspettavamo, ma fa impressione il Fatto Quotidiano per il ciarpame degli “esteri” rispetto allo spesso discutibile, ma dignitoso “interni” di Travaglio, Scanzi, Lillo, Caporale, Daniela Ranieri, Marco Palombi, l’eterodosso taliban Massimo Fini…
Un’invenzione Dada, alla Duchamp, è sempre più “il manifesto” con la sua testatina “comunista” su un organo della Cupola, ma il dadaismo è fuori moda da cent’anni e così la bacheca Usa in Italia si è messa a rimpinzare il magro seguito, accalappiando enigmisti da Terza elementare e fumettari semi-analfabeti dell’horror.
Il Manifesto: fumetti e cruciverba per chi non sopporta più gli articoli?
Sarò arrogantemente intellettualoide, ma ai miei tempi i ragazzetti, superati i libri di fiabe alla Pinocchio (mai superabile) dove, alla mano delle figure, si imparava a leggere e a ripensare, leggevano Topolino, Tex Viller, Bracciodiferro, fino ai 10 anni.
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La scommessa estiva di “capitan” Salvini
di Norberto Fragiacomo
Stavolta il grande comunicatore in bermuda ha (forse) toppato, arenandosi come un cetaceo sulla spiaggia, o ha più banalmente palesato scarsa conoscenza di diritto e prassi costituzionali unita ad un pressapochismo tronfio che gli ha dettato una tantum i tempi sbagliati. Ebbrezza da presunta infallibilità? Di certo mancavano i pretesti per scatenare una crisi agostana, e il nostro se li è dovuti inventare, con effetti fra il comico e il surreale: ci vuole una bella faccia di bronzo per tacciare di ostruzionismo chi ti ha appena concesso la fiducia in Parlamento sulla conversione in legge dell’osceno Decreto Sicurezza bis, e la rottura con i 5Stelle per un’innocua e annunciatissima mozione di bandiera sul TAV puzza di sfrontato opportunismo persino al più sbronzo tra i frequentatori del Papeete beach. “Governo dei no”: ma quando mai? A Matteo II gli ingenui grillini sono stati leali perinde ac cadaver, votandogli letteralmente tutto, immunità extra large compresa, e per questo – pur mantenendo buona parte delle promesse fatte – hanno pagato un conto salatissimo in termini elettorali; è stato semmai l’affabulatore leghista a non produrre quasi nulla in quattordici mesi di governo per pugnalare infine alle spalle un compagno di strada sfiancato dal peso di laboriosi compromessi e lodevoli – seppure spesso dilettanteschi – tentativi di combinare qualcosa a beneficio degli italiani.
Perché allora questa maldestra mossa a sorpresa, tanto controproducente nell’immediato da costringere Salvini a riesumare Berlusconi, mettere in forse l’ulteriore crescita nei consensi di una Lega finora col vento in poppa e rilanciare addirittura le ambizioni dell’omonimo Renzi, un camaleonte non meno cinico di lui?
L’ipotesi delirio di onnipotenza è spiegazione parziale e insufficiente, perché ad onta di una certa grossolanità – peraltro orgogliosamente esibita fra piazze e litorali – Salvini è un politico astuto e intelligente[1], se non preparato. Il suo problema è che (misure repressive a parte) egli non crede fino in fondo al proprio programma, o perlomeno non sa come realizzarlo. L’unica delle misure “sociali” andata in porto è Quota 90, condivisa dal M5S: l’azzardo crisi gli garantisce comunque la possibilità di evitare nel breve termine – e con ridotte forze parlamentari (corrispondenti al 17% conquistato nel 2018) – la prova di ostacoli che non sarebbe in grado di valicare.
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Nadia Urbinati, “Utopia Europa”
di Alessandro Visalli
Un altro libro di occasione, nel quale un’intellettuale di fama si presta alla difesa di ufficio della causa europea in vista delle elezioni. Non servirà a fermare la Lega, ma forse questo alzare gli stendardi compatta l’esercito un poco attempato e certamente molto demoralizzato della sinistra.
A questo fine il testo ripercorre nella prima parte, la più interessante, la storia della lunga costruzione europea, mettendo in evidenza la fonte inaspettata (per una sinistra che ormai ha dimenticato tutto) delle sue radici, ma nella seconda si mette la cotta di maglia e va alla guerra.
Come capita a chi fa il suo mestiere, professoressa di teoria politica alla Columbia University, tutta la ricostruzione si muove sulle nuvole del pensiero, non tocca il volgare terreno degli interessi, tanto meno geopolitici. Quindi può dire, entro le regole della sua disciplina, che l’Europa è il prodotto delle idee degli “illuministi” e dei “cattolici” e che queste si muovono attraverso il protagonismo dei paesi sconfitti (e dunque, necessariamente, con l’autorizzazione dei vincitori, che sarebbe altrimenti curioso il progetto più ambizioso della storia europea nasca da chi ha meno potere e meno sovranità). Sono due i piani che propone: la creazione di una polis pacifica e democratica, e il rispetto delle sfere di influenza. Ma l’ordine è palesemente invertito, il fatto rilevante del primo dopoguerra è evidentemente la divisione dell’Europa sconfitta e ridimensionata in due sfere di influenza nette, quella americana e quella sovietica. Il progetto di una “polis” pacifica (ovvero disarmata e subalterna) è l’ideologia di copertura e insieme la necessità pratica del progetto della parte americana[1], ovvero parte della tradizionale politica dell’indirect rule anglosassone e strumento della riduzione dello sforzo e del costo di protezione e di controllo. Lo dice, del resto, anche la nostra politologa: “il progetto nacque anche in funzione antisovietica” (solo che “anche” è di troppo).
Certo non è del tutto infondato che l’idea di un’unificazione europea fosse più antica, e radicata in utopie settecentesche, poi rialzata negli anni venti (anche se non solo da intellettuali antifascisti), e poi tanti altri, l’elenco è lungo. E, se ci si sposta agli anni trenta, coinvolge anche gli stessi nazisti (ma questo è politicamente scorretto e meglio non insistervi).
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Tutte le Fake News di Marattin sull'Europa
di Thomas Fazi
Benvenuti alla terza puntata di “Le fake news economiche di Luigi Marattin”, la rassegna in cui analizziamo le “video lezioni di economia” che da qualche settimana a questa parte il consigliere economico del PD sta pubblicando sul suo profilo. Qui trovate le prime due puntate, dedicate rispettivamente al debito pubblico e al finanziamento monetario della spesa pubblica:
https://www.facebook.com/thomasfazi/videos/2341908382568953/
e
https://www.facebook.com/thomasfazi/posts/2351892221570569
Nel suo ultimo video (https://www.facebook.com/LuigiMarattinPD/videos/740118099768418/) Marattin si propone di spiegare nientedimeno che gli enormi benefici che l’Italia avrebbe tratto dall’ingresso nel mercato unico (UE) prima e nell’euro poi e perché, dunque, «non è vero che se uscissimo dall’Europa e dall’euro ci libereremmo di tutte le nostre catene». Come al suo solito, Marattin ricorre ad un classico argomento fantoccio, in cui si confuta un argomento proponendone una rappresentazione volutamente distorta e macchiettistica: nessuna persona ragionevole, infatti, ha mai posto la questione in questi termini. Ma passiamo oltre.
Secondo Marattin, «il vantaggio principale che abbiamo dal partecipare all’Unione europea, al mercato unico europeo, è quello di poter vendere le nostre merci [in Europa] senza pagare dazi doganali e senza restrizioni commerciali e quindi di poter creare occupazione e investimenti in Italia». «Basta chiederlo a ogni imprenditore che esporta», aggiunge, col tono di chi la sa lunga. Questa affermazione è problematica per numerosi motivi. Tanto per cominciare, dalle parole di Marattin ci si aspetterebbe che l’ingresso dell’Italia nel mercato unico abbia fornito un forte stimolo alle nostre esportazioni rispetto al periodo antecedente (e, di conseguenza, che un’uscita dall’UE e/o dall’euro sarebbe una rovina per l’export italiano).
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Ma cos’è questa crisi
di Michele Castaldo
Rodolfo De Angelis cantava negli anni ’30: “Ma cos’è questa crisi: […] L'esercente poveretto non sa più che cosa far e contempla quel cassetto che riempiva di danar […]”. Se è vero che la storia non si ripete mai uguale a sé stessa, e quando si ripete ha i connotati della farsa, va detto che questa crisi non è una farsa.
Si, è una crisi seria, molto seria e ad essere preoccupati sono innanzitutto lor signori, cioè categorie sociali e personaggi di un potere che vedono scuotere un intero sistema che sembrava incrollabile fino a qualche decennio fa. Cerchiamo di raccapezzarci qualcosa nelguazzabuglio nazionale all’interno di un caotico quadro mondiale.
Il problema è Salvini? Mettiamo subito in chiaro una cosa: Salvini è l’effetto e non la causa dello spettacolo che sta vivendo l’Italia in questa fase. Il problema vero – dunque la causa – è quel 37/38% di elettori (stando ai sondaggi) che lo vorrebbero presidente del consiglio, e perché no? presidente della Repubblica, visto che è così deciso, incisivo, chiaro, schietto, insomma così popolare? Un uomo del fare, un uomo dei sì, un uomo del produttivismo, un uomo che mette l’Italia e gli interessi degli italiani al di sopra di tutti gli altri.
Manovre internazionali? Certo, quelle non mancano mai, ma non inganniamo noi stessi: le manovre prendono piede lì dove c’è il terreno favorevole, tanto è vero che Steve Bannon può ben vantarsi di aver favorito la nascita di un governo come quello giallo verde, ma non potrebbe ascrivere a proprio merito il salto elettorale della lega prima del marzo 2018 ein meno di un anno il travaso di alcuni milioni di voti dal M5S alla Lega di Salvini, in modo particolare al sud. Insomma la storia non la fanno i personaggi che studiano a tavolino come muovere milioni di persone in un senso piuttosto che in un altro. I complottisti si inseriscono in tendenze oggettive cercando di favorire quella che più va incontro ai propri interessi. Il Complotto in assoluto non esiste: l’Urss implose perché le leggi del mercato la fagocitarono. La Jugoslavia implose per le stesse ragioni.
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La parola allo Zio Ho a proposito di “Patriottismo e Internazionalismo”
di Michele Franco
Negli ultimi mesi la discussione sul concetto di “sovranità” è stata egemonizzata da concezioni teoriche e culturali reazionarie. Spesso qualsiasi allusione a questo tipo di categoria è stata bollata come una concessione al nazionalismo borghese o a presunte derive da “piccole patrie”.
Costantemente, specie da parte degli epigoni della “sinistra” tale ragionamento viene catalogato come una variante del leghismo e associato all’altro grande ossimoro di questa bizzarra stagione politica: il sovranismo.
Eppure il marxismo, particolarmente nei punti alti dell’esperienza del movimento comunista internazionale, ha sempre affrontato e trattato la “questione nazionale” non disdegnando – sulla base del fondamentale metodo “analisi concreta della situazione concreta” – di misurarsi, senza complessi di inferiorità teorica o di subordinazione politica, con lo stesso concetto di “patria”.
Questo cimento politico/pratico è avvenuto non solo nell’ambito delle lotte di liberazione nazionale dal vecchio ordine colonialista e/o imperialista, nei paesi del Sud del mondo, ma si è concretamente palesato anche nelle battaglie politiche che i comunisti hanno affrontato, a vario titolo, nel cuore dell’Occidente capitalista durante il Novecento.
Da tale punto di vista le resistenze antifasciste durante e subito dopo il secondo conflitto mondiale (quella Jugoslava e Greca in primis, ma – per molti aspetti – anche quella Italiana) sono state paradigmatiche di come i comunisti declinarono il tema della “patria” nei vari contesti in cui agivano. Probabilmente, al giorno d’oggi, si può discutere e problematizzare gli esiti avveratisi, ma non possiamo non riconoscere la positiva e matura attitudine che i partiti comunisti riuscirono a mettere in campo quando furono chiamati ad intervenire dentro giganteschi sommovimenti sociali e politici.
Ma relegare al Novecento questa battaglia teorica e politica sarebbe una omissione storica ed un grave errore politico nei confronti dell’attuale corso generale della crisi capitalistica.
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La moneta mondiale privata
di Riccardo Petrella*
L’annuncio della creazione di una moneta mondiale digitale privata il Libra, da parte di Facebook e 27 altre maggiori imprese multinazionali (statunitensi) (1) non ha fatto bomba. Nel comunicato ufficiale della Facebook si legge «Tramite Calibra, si permetterà di rispamiare, inviare e pagare con Libra. (…) Calibra permetterà di trasferire dei Libra a qualunque persona dotata di uno smartphone in maniera altrettanto facile e istantanea che inviare un sms , a basso costo, gratuitamente. Nei tempi consentiti, speriamo offrire dei servizi supplementari ai particolari e alle imprese, come pagare delle fatture premendo solo su un bottone, comprare un caffé o utilizzare i trasporti pubblici senza denaro e senza biglietto».
Non ha suscitato nessun scalpore, nè reazione di massa, né dibattiti nazionali e internazionali al di fuori dei circoli degli addetti al lavoro. Le reazioni non sono mancate, ma è come se si fosse trattato di un fatto di cronaca. L’assenza di sorpresa da parte della gente non meraviglia. Le reazioni delle autorità pubbliche e monetarie sollevano molti interrogativi.
Un fatto normale ?
A proposito di « moneta mondiale » è evidente che dopo più di quarantanni di bombardamento mediatico e politico sulla nuova grande era della globalizzazione dell’economia , del commercio, dei trasporti, dell’informazione e comunicazione, delle imprese e della finanza, la crezione di una moneta mondiale (per il momento, mezzo di pagamento e di trasferimento di denaro) non costituisce una novità, ma è percepita come la concretizzazione di una necessità, di un’evoluzione naturale dell’economia di mercato globalizzata. Le economie nazionali hanno dato la nascita alle monete nazionali, l’economia mondiale crea la moneta mondiale.(2)
La stessa osservazione di « normalità » vale per la « moneta digitale ». Tutto sta diventando digitalizzato, specie nel mondo dell’informazione e della comunicazione, in tutti i campi della realtà , beninteso virtuale compresa. Da anni, la moneta metallica ed ora quella cartacea è in via di abbandono.
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Vento d’estate
di Giacomo Gabbuti
Mentre il tormentone della crisi di governo prefigura una musica ancora peggiore, inediti scioperi estivi nei trasporti portano un po’ di fresco, indicando da dove può sorgere l’opposizione alla Lega
Il 5 agosto, introducendo un incontro con le parti sociali, l’attuale traballante Primo ministro del fu Governo del Cambiamento ha affermato l’urgenza di «affrontare l’emergenza salariale». Il monito di Giuseppe Conte era forse un ultimo tentativo di bilanciare la maggioranza, tra la proposta del M5S di introdurre un salario minimo legale e le resistenze della Lega, strenuo difensore di imprese e profitti. Ma al di là dell’equilibrismo di Conte, l’ovvia realtà per qualsiasi persona si sia trovata a campare di salario nell’Italia degli ultimi trent’anni è diventata così evidente da vincere persino le ultime difficoltà statistiche.
Nonostante la stagnazione delle retribuzioni imposta dagli accordi del 1992-1993, dall’esplosione di contratti che definire precari è oramai eufemistico, dalle esternalizzazioni, dall’aumento della disoccupazione, e via discorrendo, l’Italia viveva infatti il paradosso di rappresentare una grande eccezione nel crollo della quota salario. Questa misura, elemento tradizionale dell’analisi marxista della distribuzione economica, altro non è che la parte di reddito nazionale di cui si appropriano i lavoratori, contrapposta a quella spettante al capitale. Dopo essere cresciuta nei cosiddetti “trenta gloriosi” anni del compromesso keynesiano, nei decenni successivi alla svolta neoliberale avviata da Thatcher e Reagan, la quota salario è andata riducendosi in tutte le economie avanzate – con parziale eccezione, appunto, dell’Italia.
Certo, anche da noi la “fetta” dei lavoratori si era ridotta sin dai primi anni Ottanta con l’avvio delle “riforme” che – silenziosamente come nel caso del divorzio tra Tesoro e Banca d’Italia o più platealmente come nel caso della scala mobile e del Patto sui salari del 1992 – smantellarono quelle politiche che avevano permesso la riduzione delle disuguaglianze e una distribuzione più equa (in termini di classe ma anche geografici) dei frutti del Miracolo economico. L’estate stava finendo, e le conquiste dei lavoratori se ne andavano. Secondo le stime più autorevoli (che ho riassunto qui), il risultato fu portare questa misura a livelli addirittura inferiori a quelli degli anni Cinquanta. Tale declino sembrava essersi però fermato all’alba del nuovo millennio: soprattutto dalla crisi del 2008, la quota salario italiana addirittura aumentava, e non solo per le normali fluttuazioni tipiche delle recessioni (in cui, almeno finché esisteranno forme di tutela dei lavoratori, i profitti crollano prima dei salari).
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La politica del dilemma. A proposito del recente congresso dei Democratic Socialists of America
di Felice Mometti
Se fare una convention negli Stati Uniti è più o meno come fare un congresso in Europa, lo stesso non si può dire per le modalità di svolgimento della discussione politica e dei criteri per prendere delle decisioni. Nel primo weekend di agosto si è tenuta ad Atlanta la convention dei Democratic Socialists of America (DSA). Per due motivi, si è trattato di un appuntamento importante non solo per i DSA – la più grande organizzazione della sinistra americana da molti decenni a questa parte ‒ ma anche per gran parte di coloro che si collocano alla sinistra del partito Democratico. Il primo motivo era una verifica della tenuta politica di una formazione che in tre anni ha avuto una crescita esponenziale, passando da 5 mila a 56 mila iscritti. Il secondo riguardava la scelta di una forma organizzativa e le conseguenti modifiche dello Statuto. Fino a ora i DSA hanno funzionato in modo decentrato con un’ampia autonomia delle singole città e dei quartieri nelle grandi metropoli come New York, Los Angeles e Chicago. Il Comitato politico nazionale e le varie commissioni tematiche nazionali, nei fatti, erano riconosciuti più come ambiti di coordinamento che come organismi politici decisionali.
Raccogliere e contenere
La crescita dei DSA è avvenuta, da una parte, intercettando il processo di politicizzazione soprattutto di un settore giovanile, bianco e con un elevato grado di istruzione che aveva fatto la prima esperienza politica durante le scorse primarie sostenendo Bernie Sanders. Dall’altra parte, i DSA hanno raccolto le istanze di molti collettivi locali e gli attivisti di una serie di piccole organizzazioni della sinistra radicale che non avevano più reali prospettive di radicamento sociale. E, caso emblematico, nell’organizzazione si sono anche riversati molti e molte aderenti dell’International Socialist Organization, la principale formazione politica di matrice trotskista, dopo il crollo e l’autoscioglimento della stessa innescato dalle denunce di stupro e di molestie sessuali subite da alcune attiviste a opera di dirigenti nazionali.
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L’insegnamento scientifico e politico di Gramsci sulla costruzione del partito comunista
di Eros Barone
1. La direzione gramsciana del Partito Comunista d’Italia (1923-1926) e la lotta contro le opposizioni di sinistra
La lettura dei documenti raccolti nel quinto volume delle opere di Gramsci1 presenta, nell’attuale congiuntura ideologico-culturale, un interesse che, se difficilmente si può sopravvalutare, sicuramente arricchisce il significato dell’80° anniversario della morte del grande rivoluzionario e pensatore sardo. Questo elemento va sottolineato non tanto per i nessi che collegano la situazione di quella fase alla situazione del 1944-1945 e alla situazione odierna (nessi che pure vi sono) quanto per l’insegnamento scientifico e politico che si ricava da questa serie degli scritti di Gramsci precedenti il carcere: l’ultimo articolo contenuto in questo volume è infatti del 22 ottobre 1926 e la prima lettera datata dal carcere è del 20 novembre. L’arresto era avvenuto la sera dell’8 novembre a Roma. Si tratta perciò di un volume che abbraccia un arco di tempo (autunno 1923 – autunno 1926), che coincide con un periodo di intensa attività nella vita militante di Gramsci: periodo che ha riscontro solo nelle lotte operaie del “biennio rosso” 1919-1920, la cui eco si avverte, nitida e costante, in molte di queste pagine.
Il primo aspetto che occorre rilevare è che contro la direzione gramsciana del Partito Comunista d’Italia (d’ora in avanti PCd’I), costituita con un atto di forza della Terza Internazionale nella seconda metà del 1923 ed imposta ad una schiacciante maggioranza di bordighiani, convergevano, da un lato, la repressione fascista e, dall’altro, l’attacco della socialdemocrazia turatiana e nenniana contro i cosiddetti “fascisti rossi”: repressione ed attacco che trovavano spazio nell’assenteismo politico del vecchio gruppo raccolto attorno a Bordiga. Allora, esattamente come accade oggi con il tentativo di ricostruire un partito comunista nel nostro paese, la sinistra italiana contrapponeva al PCd’I la tesi secondo cui per battere il fascismo era necessario che la borghesia si staccasse dal fascismo; il corollario di questa tesi era la necessità di un ‘partito di sinistra’ (antifascista), ma non di un partito comunista (anticapitalista). Sennonché, si domanda Gramsci, dopo l’assassinio Matteotti (10 giugno 1924) che cosa è la ‘sinistra italiana’? chi sono gli antifascisti italiani? qual è, nella seconda metà del ’24, il significato della parola d’ordine ‘di massa’ del ‘cartello delle sinistre’?
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Onofrio Romano, “La libertà verticale”
di Alessandro Visalli
Onofrio Romano è un sociologo che insegna all’università di Bari ed ha scritto questo impegnativo libro nel 2019. Si tratta di un’ampia ricostruzione della logica della regolazione sociale lungo la storia del capitalismo interpretata con un modello binario di fondo: malgrado tutte le differenze e le specificità, si sono succeduti nel tempo due canoni: quello “orizzontale” e quello “verticale”. Il primo caratterizza profondamente la modernità capitalista, ma a lungo termine quando si presenta in forma pura risulta ogni volta insostenibile per la società, dissolta dal suo corrosivo acido. Il secondo ha dominato nella fase precapitalista, ma dopo il ‘disincanto’ del mondo seguito al processo di secolarizzazione e modernizzazione non riesce ad esse sopportato a lungo, entrando in contrasto con il desiderio di libertà individuale e l’autocomprensione dell’occidente.
Lo scontro tra i due ‘fratelli’ viene letto nel libro prevalentemente con gli strumenti della sociologia e con ampie ricostruzioni dei principali autori dell’ultimo secolo, a partire da quello in qualche modo centrale e dal quale il modello esplicativo viene ripreso: Karl Polanyi[1].
Al termine del lungo percorso emergerà una proposta che, in qualche modo, è perfettamente complementare con quella del libro di Carlo Formenti “Il socialismo è morto. Viva il socialismo!” che abbiamo appena finito di leggere: mentre quello cercava di identificare le condizioni oggi possibili di una “transizione alla transizione” verso il socialismo, Romano si impegna in un compito altrettanto arduo, fornire un abbozzo del possibile socialismo realizzato. Ovvero immaginare in che modo la giostra tra “orizzontalismo” e “verticalismo” può essere interrotta. Per dirla meglio: cosa bisogna mettere a tema per interromperla.
Per arrivarvi Romano disegna un percorso di esplorazione che potrebbe ricordare la “critica immanente” di Honneth e Jaeggi[2]: nella Prima Parte, riassume la storia della regolazione sociale nella modernità, poi, nella Seconda Partericostruisce l’evoluzione della sociologia in relazione alle fasi individuate e, infine, nella Terza Parte prova a tratteggiare la soluzione, ovvero la “libertà verticale”.
La Prima Parte è a sua volta divisa in tre fasi storiche: il “canone orizzontale”, nel periodo di ascesa del mercato auto-regolantesi descritto da Polanyi, fino al crollo del golden standard e la disgregazione che portò alla guerra mondiale; il “canone verticale” del novecento dal New Deal alla crisi degli anni settanta; il ritorno al “neo-orizzontalismo” a partire dagli anni ottanta (si potrebbe dire, con linguaggio più tradizionale, “liberismo”, “welfarismo”, “neo-liberismo”).
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Il populismo in generale e quello di Salvini
di Moreno Pasquinelli
Da alcuni anni, anzitutto dopo la sorprendente ascesa al trono di Trump, non c'è giorno in cui i media globali, anzitutto liberali e di rito politicamente corretto, non discettino sul "populismo".
Abbiamo così visto il fior fiore dell'intellighènzia di regime cimentarsi sul tema, chiedersi cosa il populismo sia e dove vada a parare. La categoria di populismo è diventata così onnicomprensiva, unpassepartout per aprire porte ad ogni latitudine: populisti Trump e Sanders, Le Pen e Maduro, Orban e Corbyn, Putin e Erdogan, Mélenchon e Farage, Grillo e Salvini, Podemos e l'AFD tedesca, la Kirchner peronista e Bolsonaro. Fiumi di inchiostro, tanta fuffa, univoco il risultato: scomunica del populismo come fenomeno funesto, illiberale e totalitario.
Le sinistre transgeniche d'ogni razza e latitudine hanno accettato questa narrazione. Chi a sinistra era stato colpito dall'anatema del populismo (Mélenchon, Corbyn o Iglesias) ha ben presto compiuto il rito dell'abiura rientrando nei ranghi del politicamente corretto.
La maledizione di Laclau
Minoritarie propaggini colte di questa sinistra hanno invece tentato di affrontare il fenomeno populista, andando alla sua genesi, alla sua polimorfica natura, alla sua fenomenologia.
Di qui la riscoperta delle riflessioni teoriche di Enesto Laclau e Chantal Mouffe. Qui avveniva tuttavia un fatto deprecabile: il più radicale congedo dalla tradizione teorica marxiana era direttamente proporzionale al vacuo funambolismo teorico.
Laclau, soprattutto quello della "seconda fase", porta una responsabilità enorme per questo smarrimento intellettualistico. Modo e rapporti di produzione relegati a "costrutti soggettivi"; le leggi antagonistiche del sistema capitalistico rifiutate come ipostasi metafisiche; il rifiuto di ogni teleologia e filosofia della storia sostituito dal "tutto contingente"; il determinismo sostituito dal più deciso indeterminismo; l'autonomia del Politico trasformata nella secessione del Politico dall'economico-sociale; il discorso di Gramsci sulla filosofia della praxis e sull'egemonia recuperato scaltramente per giustificare il più radicale empirismo.
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