Le radici profonde della crisi della sinistra
di Geminello Preterossi
Siamo stati travolti dal neoliberismo: questo è il mantra che, finalmente, da un po’ di tempo (in particolare dopo la crisi economica del 2008, che ha svelato il fallimento della globalizzazione finanziaria), si sente ripetere a sinistra. Ad esempio D’Alema, che non difetta di lucidità quando non si limita a difendere il proprio operato, lo ha ribadito anche di recente. Ma la vera domanda è: perché? A questo interrogativo una vera risposta neppure la si tenta. Com’è stato possibile che quel travolgimento sia avvenuto repentinamente, e senza quasi trovare ostacoli? Tranne qualche voce robusta e critica, come fu ad esempio quella di Claudio Napoleoni, quando nella fase finale della sua riflessione denunciava lucidamente il cedimento culturale in atto verso le politiche neoconservatrici e l’incapacità di pensare alla radice le ragioni di una crisi d’identità che affondava le sue radici in cause non contingenti: ad esempio nella fascinazione per il capitale (mentre stava venendo meno la teologia politica inconsapevole legata alla Rivoluzione d’ottobre), dovuta anche a un certa tendenza al determinismo economicistico, mai del tutto superata, che si saldava a pulsioni scientiste e tecnocratiche. Quel certo riduzionismo materialistico non ha consentito di cogliere che, come disse la Thatcher, la posta in gioco del neoliberismo erano le anime. Tale sordità era dovuta a limiti interni alla cultura marxista media, al suo senso comune. Ad esempio, l’incapacità di cogliere la vera natura dell’alienazione, che oltre a essere economica e sociale è anche esistenziale e spirituale, e quindi il carattere strutturale della dimensione antropologica.
La crisi della sinistra – e della stessa democrazia – è oggi in ultima analisi antropologica. Tale cecità da ossessione per la modernizzazione non ha consentito alla cultura marxista (persino a quella gramsciana, la più eretica perché consapevole del carattere strutturale dei “fatti di soprastruttura”) di cogliere appieno la centralità del tema dei “residui”, come fonti di possibile resistenza e soprattutto di energia alternativa, di una nuova eccedenza possibile rispetto all’inferno dell’immanenza. Sradicamento, fluidificazione, abbattimento di ogni limite e confine, svalutazione e demolizione di ogni identità (nozione da demonizzare in quanto tale, anche se intesa in senso plurale e dinamico) non hanno nulla di progressivo. Tale pacchetto di luoghi comuni implica censurare sovranità popolare, statualità, senso di appartenenza, l’idea stessa di una base di massa degli ordinamenti, per sostituirla con i ceti medi presuntamente riflessivi. Non si vede come, e perché, dovrebbe rimanere in piedi l’idea di un primato della politica e un senso del collettivo. Recepire in modo subalterno un’idea unidimensionale e riduzionista di libertà (concetto centrale anche per una prospettiva realmente emancipativa e solidaristica) significa consegnarla (e consegnarsi con essa) alla destra economica. Se c’è solo immanenza, non c’è possibilità di trascendere il dato del mondo amministrato. Se poi si rivela falsa, quale effettivamente è, l’idea che solo sul terreno del capitale inteso come “la Cosa” in senso metafisico-materialistico, fagocitante e intrascendibile, perché unico vettore che determina il nostro essere al mondo, unificandoci, si genera l’unica forma di trasformazione possibile, ci si ritrova inevitabilmente disarmati rispetto alla triade neoliberale “spoliticizzazione, destoricizzazione, naturalizzazione”: non solo privi di strumenti politici e istituzionali, ma neoliberali dentro. Pretendere di mettere in scena una reazione quando i buoi sono tutti usciti dalla stalla, mantenendosi all’interno di un orizzonte post-politico globalista, non scalda i cuori, anzi produce rifiuto o indifferenza: ciò che in definitiva è accaduto nei recenti referendum sul lavoro, giusti in sé, ma probabilmente percepiti come non credibili per l’incoerenza dei loro promotori, anche perché uniti a un quesito su un tema complesso, e di natura diversa, come quello sulla cittadinanza. È per un grave limite di cultura politica che il globalismo non è mai stato criticato alla radice, a sinistra, anzi sostanzialmente essa vi ha aderito, pensando ancora una volta illusoriamente che la globalizzazione potesse essere cambiata di segno accompagnandola con un mero atto velleitario di buona volontà; un mutamento possibile, anzi garantito, perché in definitiva dall’interno si sarebbero prodotte delle spinte oggettive, spontanee alla sua “transustanziazione” in un mondo irenico, in una “società regalata” in quanto pacificata dalle forze unificatrici dell’umanità, che sarebbero quelle della tecnoscienza e della finanza globale, condite con un po’ di moralismo giuridico e di radicalismo delle micro-identità. Ovviamente non solo non c’è stato alcun passaggio spontaneo verso il superamento del “politico”, verso la civitas maxima della moltitudine, ma si è realizzato anzi il suo contrario: un’anomia globale gestibile solo con la logica delle emergenze permanenti e della forza (ultima risorsa di un Occidente mostruosamente incarnato da Netanyahu).
Ma, si dice, la crisi riguarda tutto l’Occidente, non solo l’Italia e la sinistra italiana. È vero. Ma questo non può essere un alibi. Anche perché c’è un problema specifico che riguarda il nostro Paese, che va al di là della sinistra, e concerne la doppia crisi che abbiamo subito: quella che proviene dall’esterno, dagli effetti del globalismo, e che condividiamo con gli altri (più o meno toccati da essa); ma anche quella, del tutto peculiare, che ci ha deprivato del nostro vincolo interno, del nostro patto con noi stessi, a partire dal ‘92/’93. Un passaggio che ci ha destrutturato come comunità nazionale-popolare.
Poi certo oggi il mondo si è rimesso talmente in moto, che bisogna guardare avanti. Ma non lo potremo mai fare come Paese se non facendo un discorso di verità sulla nostra storia recente, cioè una genealogia del fallimento dell’Italia del vincolo esterno assolutizzato. Pensare di uscirne aggrappandosi ancora sull’Europa, senza vederne la realtà, cioè la natura strutturalmente inemendabile della tecnocrazia UE, sarebbe l’ennesimo autoinganno. Una via di fuga comoda, falsa e inefficace.
E poi bisogna uscire dal mito del “canone occidentale”, dell’Occidente democratico buono, minato dalle destre populiste. Perché di tratta di una narrazione infondata e fuorviante, come ad esempio il recente, disvelante discorso di Jeffrey Sachs al Parlamento europeo, ma già da tempo altri interventi e analisi (come quelle di Wolfgang Streeck, o in Italia di Luciano Gallino), hanno ben chiarito. Insistere in una narrazione rassicurante, ripetendo lo schema dei liberal (di fatto neocon in politica estera) non ci consente di capire le ragioni di fondo, che sono ben precedenti a Trump, della crisi dell’Occidente. Invece occorre uscire dagli alibi. E poi c’è un problema ideologico: un certo “progressismo”, che travia il meglio dell’eredità politica e culturale della modernità. Questa è la ragione profonda per cui è in atto una scomposizione del campo politico, che vede emergere un nuovo “conservatorismo” che si lega a istanze sociali e popolari. Non è semplicemente il ritorno della rivoluzione conservatrice. È qualcosa di più, e di diverso. Forse sarà anche in atto una nuova rivoluzione conservatrice, ma questa impone innanzitutto una ridefinizione anche a sinistra, come ha tentato di fare, con molte difficoltà e ostacoli, il movimento di Sahra Wagenknecht. L’ostilità viscerale a chi pone tali questioni non è la via per affrontare i nodi di fondo, ma porta solo a quella che a me pare una mera resilienza dei simulacri, ovvero a un accomodamento interno, che lascia intatti i problemi della sinistra (se ancora ce ne può essere una). Anzi, contribuisce a replicarli. Come mostrano i fallimenti politici di tutti gli appelli passatisti al cordone sanitario e al fronte antifascista. Non solo non ci aiutano a capire e a posizionarci rispetto alle questioni reali, ai rapporti di forza concreti e non immaginari, ma sono forieri di ulteriori sconfitte e di una separazione definitiva dai ceti popolari, da tutti quelli che ormai hanno defezionato non solo dalla sinistra, ma dalla politica in quanto tale.
Comments
Oggi che quel moto mostra falle da tutte le parti perché le sue stesse leggi lo stanno mandando in crisi, non sappiamo cosa dire e ci deprimiamo.
Eppure se ci diamo uno sguardo intorno e ci scrolliamo di dosso l'ideologismo notiamo che le nuove generazioni si stanno allarmando e cominciano a ragionare in modo diverso dalle nostre certezze democratiche e liberali.
Un po' di umiltà in più e un poco di presunzione in meno, per guardare avanti.
Michele Castaldo