La Cina offre un’alternativa al “tecnofeudalesimo” occidentale
di Simon S.H. Chan*
All’inizio del secolo, l’innovazione globale seguiva un copione occidentale. La Silicon Valley dominava il mondo nell’innovazione. L’Europa esportava standard e governance. L’Asia, invece, era relegata a ruolo di produttore, assemblatore e consumatore.
Ma l’ordine globale dell’innovazione sta cambiando. Secondo l’ultimo Edelman Trust Barometer, la trasformazione riguarda non solo le capacità tecniche, ma anche il sentimento pubblico. In Cina, il 72% delle persone si fida dell’intelligenza artificiale (IA), rispetto al 32% negli Stati Uniti e al 28% nel Regno Unito. Modelli simili si riscontrano in India, Indonesia, Malaysia e Thailandia, dove i mercati asiatici in via di sviluppo superano costantemente le controparti occidentali e sviluppate nella fiducia pubblica verso l’innovazione.
Questo è cruciale perché, senza fiducia, anche le tecnologie più avanzate si bloccano. Dove la fiducia è alta, l’adozione accelera, l’allineamento istituzionale si rafforza e la collaborazione pubblico-privato si approfondisce. Ciò funge da potente catalizzatore, soprattutto per un Paese come la Cina, la cui strategia di innovazione è strettamente intrecciata con gli obiettivi di sviluppo nazionale e la missione di autosufficienza. Queste dinamiche si svolgono sullo sfondo di una più ampia divergenza filosofica su come governare l’innovazione.
In generale, due modelli dominano il panorama dell’innovazione. Il primo è il modello “senza permessi”, che ha dato alla Silicon Valley la sua carica. Esso sostiene velocità, assunzione di rischi e deregolamentazione, basandosi sulla convinzione che l’innovazione debba essere libera di svilupparsi senza approvazione preventiva.
Sebbene questo approccio laissez-faire abbia prodotto alcune delle società tecnologiche più valide al mondo, negli ultimi anni queste stesse aziende hanno anche affrontato accuse di agire contro gli interessi pubblici, scatenando dibattiti sul loro influsso e ruolo sociale.
Il secondo è il modello “con permessi”, generalmente preferito in Asia, che adotta un approccio più regolamentato. Qui, l’innovazione si sviluppa in linea con le priorità nazionali, il controllo pubblico e una pianificazione deliberata. Un tempo criticato come lento e burocratico, questo modello si sta rivelando sempre più adatto allo scopo, poiché le preoccupazioni del pubblico su perdita di posti di lavoro, abuso della tecnologia e disinformazione hanno portato la fiducia nell’IA a un bivio.
Pochi Paesi hanno applicato il modello “con permessi” in modo più completo della Cina. Mentre la storia di Shenzhen è ben nota, città come Hangzhou sono diventate un corridoio nazionale dell’innovazione. Ospitando aziende come DeepSeek e Unitree Robotics, il suo ecosistema è plasmato dalla pianificazione governativa, dalla politica industriale e da sostegni mirati, a volte sotto forma di “crediti” di potenza di calcolo anziché di semplici sussidi finanziari.
Anche Chengdu è un polo emergente, investendo in IA, supercalcolo e nell’economia a bassa quota. Questi sviluppi non sono casuali. Sono il risultato di un’attenta pianificazione intersettoriale, che mostra come il modello cinese integri la politica nel design dell’innovazione, anziché reagire alle disruption dopo il fatto. Questa coerenza è il punto di forza silenzioso della Cina.
L’economista Yanis Varoufakis ha avvertito che l’Occidente sta scivolando verso il cosiddetto “tecnofeudalesimo”, un sistema in cui le grandi aziende tecnologiche estraggono rendite digitali, recintano ecosistemi e centralizzano il valore. Gli utenti diventano servi all’interno di piattaforme chiuse, mentre le aziende privilegiano gli azionisti rispetto al valore sociale.
Al contrario, credo che la Cina stia tracciando un’alternativa che chiamo “tecnomeritocrazia”. Essa si basa sui principi dell’innovazione “con permessi” ma va oltre il controllo normativo, abbracciando un sistema di valori più ampio, in cui il successo tecnologico non è misurato dalla valutazione finanziaria, ma dal fatto che si meriti un posto nella società. Questo viene guadagnato attraverso l’allineamento con obiettivi pubblici, legittimità civica e strategia nazionale. Il successo non è concentrato ma distribuito tra comunità, economia ed ecosistemi più ampi.
Questo modello è più importante che mai, poiché il mondo affronta non solo un deficit di fiducia, ma anche un deficit di coordinamento. Tecnologie come IA, calcolo quantistico e semiconduttori non possono più crescere in isolamento. Richiedono sistemi che uniscano capacità statale, leadership industriale e un mandato sociale.
L’adozione cinese dell’open source in questo contesto è un esempio di tecnomeritocrazia in azione. Rendendo accessibili al pubblico tecnologie fondamentali come i modelli linguistici di grandi dimensioni, aziende come DeepSeek e Alibaba Group Holding (proprietaria del South China Morning Post) stanno abbattendo barriere, incoraggiando la collaborazione e rafforzando l’idea che l’innovazione guadagni legittimità attraverso il valore condiviso, non il controllo privato.
Come ha detto recentemente Ren Zhengfei, fondatore di Huawei Technologies, un ambiente open source avvantaggerà il futuro a lungo termine del Paese.
In un mondo plasmato da sanzioni e protezionismo, l’open source serve indubbiamente come strumento strategico. Ma riflette anche un principio più profondo: la sovranità tecnologica non si ottiene con l’accumulo e lo sfruttamento, ma distribuendo le capacità in modo da servire obiettivi nazionali e collettivi.
In questo panorama in evoluzione, anche Hong Kong svolge un ruolo vitale. Con il suo sistema di common law, standard internazionali e talenti globali, è in una posizione unica per favorire quella che definisco “osmosi dell’innovazione”, ovvero un ambiente di collaborazione multilaterale tra innovatori cinesi continentali e globali.
Iniziative come il programma di innovazione InnoHK presso l’Hong Kong Science Park mostrano come la città possa facilitare collaborazioni di ricerca e sviluppo che altrove sarebbero troppo complesse o difficili da ospitare.
Non ci stiamo dirigendo verso un unico modello globale di innovazione, ma verso un’era di coesistenza, in cui sistemi diversi – con o senza permessi, centralizzati o aperti – competono, collaborano e co-evolvono. I Paesi e le aziende che avranno successo non saranno necessariamente i più veloci o i più capitalizzati. Saranno quelli ritenuti più affidabili nel scalare la tecnologia in modo responsabile, nell’allinearsi ai valori pubblici e nel contribuire a risolvere le sfide globali condivise.
In Cina, un elevato livello di fiducia pubblica nella tecnologia è stato coltivato attraverso pianificazione a lungo termine, design e un contratto sociale che lega l’innovazione allo sviluppo nazionale. Se abbinata a un’apertura alla collaborazione multilaterale, diventa un potente catalizzatore per il progresso. In un mondo alla ricerca di fiducia e direzione, forse la tecnomeritocrazia è la proposta della Cina per guidare, non attraverso un dominio unilaterale ma con un’alternativa più equa.
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