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marx xxi

Compagni, raccontiamola tutta la storia

di Pasquale Cicalese

“Contemporaneamente alla caduta del saggio di profitto si verifica una diminuzione di valore del capitale esistente, che frena questa caduta e tende ad accelerare l’accumulazione del valore-capitale” K.Marx, Il capitale, Libro III

“Si osservi: per quanto le svalutazioni del capitale esistente che subentrano con le crisi possano anche colpire i singoli capitalisti, esse tuttavia, per la classe dei capitalisti, per il sistema capitalistico, sono una valvola di sicurezza, un mezzo per prolungare la durata di vita del sistema, per attenuare il pericolo che il meccanismo salti. Gli individui vengono perciò sacrificati nell’interesse della categoria”. H. Grossmann,
Il crollo del capitalismo.

Il là ha avuto inizio il 28 aprile scorso; in un’intervista al Corriere della Sera, Leonardo Del Vecchio, patron di Luxottica, gruppo tra i più internazionalizzati a livello italiano e con un fatturato prossimo agli 8 miliardi di euro, si scaglia contro la dirigenza italiana, specie quella che parla e opera in campi che non le competono. Bersaglio, Perissinotto, ma si parla a nuora perché suocera intenda. E chi da un ventennio non fa più il suo ”mestiere” è ben altro, porta il nome di Berlusconi, la cui azienda sta subendo una poderosa distruzione di capitale.

Si scaglia poi contro i “banchieri” italiani, che si sono dimenticati che cosa significa allocare il risparmio, portando ad esempio il Credito Italiano, allora pubblico…, che accompagnava la sua azienda in giro per il mondo.

Due giorni dopo è la volta della conferenza stampa di Monti. Il messaggio è chiaro: il nirvana è finito…

Resta da capire chi da un ventennio, se non più, ha rincoglionito gli italiani con il nirvana. La risposta al lettore.

Mettiamola così: in questo Paese è in corso quella distruzione di capitale che si verificò nei maggiori paesi industrializzati del nord Europa a seguito della crisi del 1973; allora, questi dismisero capitale scadente per posizionarsi nella fascia alta del valore aggiunto. E chi prese questo capitale scadente? L’Egitto, la Tunisia, la Polonia? Nient’affatto, fu l’Italia.

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znet italy

Crisi: alla radice del problema c’è la politica

di Joseph Stiglitz

Le politiche d’austerità ci stanno spingendo verso una recessione a doppio minimo [double-dip], ammonisce l’economista statunitense Joseph Stiglitz. Egli si è seduto a un tavolo per discutere con Martin Eiermann del nuovo pensiero economico e dell’influenza del denaro sulla politica

The European: Quattro anni dopo l’inizio della crisi finanziaria, sei incoraggiato dai modi in cui gli economisti hanno cercato di comprenderla e dai modi in cui tali idee sono state raccolte da chi decide le politiche?

Stiglitz: Consentimi di dividere la materia in un modo leggermente diverso. Gli economisti accademici hanno svolto un grande ruolo nel provocare la crisi. I loro modelli sono stati eccessivamente semplificati, distorti e hanno tralasciato gli aspetti più importanti.  Tali modelli carenti hanno poi incoraggiato chi decide le politiche a ritenere che i mercati avrebbero risolto tutti i problemi.  Prima della crisi, se fossi stato un economista di vedute ristrette, sarei stato molto lieto di costatare che gli accademici avevano un grande impatto sulla politica. Ma sfortunatamente ciò è stato un male per il mondo. Dopo la crisi si sarebbe sperato che la professione accademica fosse cambiata e che le decisioni politiche fossero cambiate con essa e fossero divenute più scettiche e prudenti.  Ci si sarebbe aspettati che, dopo tutte le previsioni sbagliate del passato, la politica avrebbe richiesto alle accademie un ripensamento delle loro teorie. Sono molto deluso, da ogni punto di vista.


The European: Gli economisti hanno costatato le carenze dei propri modelli ma non si sono dati da fare per scartarli o migliorarli?

Stiglitz: Nel mondo accademico quelli che credevano nel libero mercato prima della crisi, oggi continuano a farlo. Alcuni hanno operato una svolta e voglio riconoscere loro il merito di aver detto: “Abbiamo sbagliato. Abbiamo sottostimato questo o quell’aspetto dei nostri modelli.” Ma per la maggior parte la reazione è stata diversa.

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Capitalismo in decomposizione?

Marco Sacchi

Tutti i modi di produzione del passato hanno conosciuto un periodo di ascendenza e un periodo decadenza. Il primo periodo corrisponde a un pieno adeguamento dei rapporti di produzione dominanti con il livello di sviluppo delle forze produttive della società, nel secondo questi rapporti di produzione sono divenuti troppo stretti per contenere le forze produttive.

La decadenza di un modo di produzione si caratterizza per due aspetti, uno economico e l’altro sovrastrutturale.


L'aspetto economico del concetto di decadenza

Lo sviluppo delle forze produttive può presentarsi sotto due forme:

1° Con l’accrescimento del numero dei lavoratori incorporati nella produzione a un livello di produttività dato.
2° Con lo sviluppo della produttività del lavoro con numero dato di lavoratori.


Nella realtà di un sistema in piena espansione si costata la combinazione di due forme. Un sistema in crisi è un sistema che si trova limitato sui due piani allo stesso tempo.

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politicaecon

La crisi globale

di Sergio Cesaratto

Lunedì 23 aprile si è svolta a Roma 3 la presentazione dei volumi di Bellofiore e Giacché sulla crisi, Radio radicale l'ha registrata, qui c'è la mia relazione con alcuni postscriptum

Mi occupo solo di uno dei due libri di Bellofiore, La crisi globale, l’altro è più teorico. Devo avanzare una critica di fondo a Bellofiore: l’eccesso di distinguo dalle altrui posizioni attraverso sottigliezze che lasciano il lettore smarrito circa l’argomentazione di fondo [molti l’han notato anche nell’esposizione al dibattito; un esempio è quando Riccardo ha disquisito circa la data di inizio della crisi … il 2008 non gli andava bene, le cause sono anteriori, ma questo è ovvio e non aggiunge molto. Il lettore potrà farsi una propria opinione attraverso la registrazione di Radio Radicale, che ringraziamo]. Tutto questo con amicizia, ma anche con franchezza.

Parto dalle conclusioni. I due volumi convergono nell’idea che una rottura/fuoriuscita dall’UME è improponibile, tanto sarebbero importanti le conseguenze. Non è di questa opinione Paul Krugman:

“What is the alternative? Well, in the 1930s — an era that modern Europe is starting to replicate in ever more faithful detail — the essential condition for recovery was exit from the gold standard. The equivalent move now would be exit from the euro, and restoration of national currencies. You may say that this is inconceivable, and it would indeed be a hugely disruptive event both economically and politically. But continuing on the present course, imposing ever-harsher austerity on countries that are already suffering Depression-era unemployment, is what’s truly inconceivable.”


Comunque, conclude Giacché, se continua così sarà l’Euro a rompersi. L’impegno dei paesi emergenti a sostenere l’intervento del FMI a sostegno dei paesi europei in difficoltà sembra però indicare che ci saranno degli sforzi ad impedirlo. Una lunga pena ci attende, più probabilmente. Ma può darsi che il redde rationem arrivi, ma siamo nel regno delle illazioni.

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nazione indiana

Titanic Europa

Helena Janeczek intervista Vladimiro Giacchè

Si chiama Titanic Europa (Aliberti, 14,00€), ma in circa 170 pagine contiene una nave e un iceberg ben più grandi: la crisi economica presa da molto prima del crack di Lehman Brothers, fino alla Grecia e l’Italia, perno del possibile naufragio, too big to fail ma troppo grande per essere salvata. L’ha scritto Vladimiro Giacché, dirigente della finanziaria Sator e, al contempo, marxista dichiarato. Nel saggio prevale lo sguardo dell’insider o la voce del militante? Entrambe, si direbbe, ma forse soprattutto qualcos’altro. Grande capacità di sintesi, chiarezza espositiva, scrittura agile. Si tratta per due terzi di un breviario utile a chiunque voglia integrare il costume di esprimersi come un allenatore con la più recente urgenza di dire qualcosa di sensato su spread e pareggi di bilancio.

Riconoscere le ragioni di una crisi di sistema e discernere le risposte affatto obbligatorie con cui si è reagito a essa, riduce il senso di impotenza di chi ne è investito quasi fosse un evento naturale. La grande bolla esplosa nel 2008 si stava preparando da decenni. Con la fine del boom industriale, la macchina del consumo e del profitto occidentale è stata alimentata togliendo ogni vincolo all’economia del credito e della finanza. Il suo rovescio è l’indebitamento, ma il conto della deflazione viene fatto pagare ai più deboli: negli Usa alle famiglie povere che avevano acceso un mutuo sulla casa, in Europa ai lavoratori costretti a rinunciare alle conquiste sociali. Il salvataggio delle banche, secondo un rapporto della Bank of England del 2009, è invece costato 14.000 miliardi di dollari, debito spaventoso assorbito a gratis dagli Stati che ora arrancano o si trovano nel occhio del ciclone. La cura non solo iniqua ma per giunta sbagliata – vedi i risultati in Grecia – dimostra, secondo Giacché, quanto un’ideologia possa resistere persino alla lezione della realtà.


Lei mostra di trovarsi in buona compagnia. Sempre più economisti riconsiderano Marx e ripetono, con Keynes, che imporre l’austerity in tempi di recessione è un’idiozia suicida. Ormai lo dicono non solo i più liberal, ma un numero crescente di colleghi mainstream. Perché la politica UE è diventata più realista del re nel farsi volonterosa esecutrice di una supposta volontà dei mercati?

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La più Grande Depressione della storia?

Antonio Pagliarone

Noi sappiamo bene che occorrono condizioni assolutamente determinate
perché sia possibile l'abbattimento del capitale. La volontà del
proletariato non basta, giacché se non esistono queste condizioni
determinate tale volontà non può svilupparsi affatto (Paul Mattick
Crisi
Mondiale e Movimento Operaio
, 1933).

Vedrai, vedrai… vedrai che cambierà…forse non sarà
domani ma un bel giorno cambierà (Luigi Tenco 1965)

ecco il nostro modello tedescoGli economisti più disparati e gli osservatori di ogni genere insistono nel definire l’attuale corso economico come una delle tante recessioni che hanno caratterizzato l’ultimo secolo, ma ben pochi hanno il coraggio di descrivere quella che potremmo forse qualificare come la più grande Depressione della storia. Per poter sostenere tale affermazione occorre prendere in considerazione le stime relative alle diverse grandezze economiche utili per fotografare una sistema economico e sociale che non è più in grado di riprodursi, un organismo seriamente malato di fronte al quale non si riescono ad applicare le solite terapie che in passato lo hanno rigenerato. Un malato terminale in via di decomposizione.

Uno dei protagonisti sorti alla ribalta dell’economia moderna è l’indebitamento.

Il debito accumulato negli Stati Uniti nel 2011 ammontava a poco più di 15 trilioni di dollari superando di poco il PIL dello stesso anno mentre nel pieno della crisi finanziaria del 2008 era di 9,6 trilioni Il debito al consumo delle famiglie americane, pur essendo declinato dal 2008, che era pari a 14 trilioni, registra nel 2011 un ammontare di 11,66 trilioni. La Figura 1 riporta l’andamento del debito complessivo rispetto al PIL nel quale si nota che nel 2009 ha raggiunto il 369.7 % mentre il picco del 1933 era del 299,8%

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La crisi vista dal muro della City

di Claudio Gnesutta

Perché la Grande Recessione non ha prodotto il rigetto dell'ideologia e delle pratiche che l'hanno causata? Le riflessioni nell'e-book "The neoliberal crisis", di Stuard Hall, Michael Rustin, John Clarke e Doreen Massey

What is this crisis? è la questione posta dall’ebook The Neoliberal Crisis nel quale Stuard Hall, Michael Rustin, John Clarke e Doreen Massey, collaboratori della rivista Soundings, indagano il ruolo materiale e culturale svolto dalla neoliberal revolution nella trasformazione della società inglese e ricercano le cause dell’attuale crisi e le prospettive politiche che ne possono derivare. Per quanto l’attenzione sia rivolta alla realtà britannica, le loro riflessioni hanno un interesse più generale, tenuto conto dell’importanza che ha avuto il thatcherismo e il suo prolungamento nel blairismo e nell’attuale cameronismo nel pensiero e nell’azione politica dell’ultimo trentennio.

I singoli contributi si presentano come articolazioni di un’elaborazione comune piuttosto compatta che analizza la crisi con riferimento non solo alla dimensione economica, ma anche alle tensioni accumulatesi a livello sociale, politico e culturale. L’analisi è condotta attraverso la conjunctural analysis con l’obiettivo di accertare come l’interazione tra l’instabilità dei diversi fattori possa determinare la specificità del processo di trasformazione di un dato assetto sociale. La convinzione che la dinamica di ciascuna dimensione è, almeno in parte, autonoma da quella delle altre e possa quindi presentarsi con differenti gradi di criticità indica che per l’emergere di una crisi è necessario che si condensino in un sufficiente numero di contraddizioni. Poiché le diverse dimensioni sono molteplici, la crisi può manifestarsi per l’affermarsi di diverse combinazioni di instabilità permettendo alla congiuntural analysis di sostenere che le crisi siano strutturalmente “sovradeterminate” e che i gradi di libertà che esse presentano ammettono una pluralità dei modi (politici) di soluzione.

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"La recessione è globale"

Cinzia Gubbini intervista Joseph Halevi

Mercati a picco, lo spread italiano volta a 400 punti. Che cosa è accaduto? Non eravamo in una botte di ferro dopo le politiche di Monti? Lo chiediamo al'esperto del manifesto, Joseph Halevi. Via Skype

09 La danza Macabra[10/04/12 22:11:33] cinzia gubbini: Ciao Joseph, lo spread oggi vola di nuovo. Quota 400. Ma non era tutto apposto dopo le riforme di Monti? (ce la raccontano così...)

[10/04/12 22:13:34] joseph halevi: Veramente Monti c'entra poco, mentre Draghi c'entra moltissimo. Gli spread sono calati quando Draghi ha deciso di aprire i rubinetti della liquidità, ora anche questa droga si sta esaurendo.

cinziagubbini: Dunque il nostro paese più forte, più credibile, non ha alcun tipo di influenza sull'andamento dei mercati?
 
joseph halevi: Non é più forte, questa é una finzione mandata avanti dai politici e dai loro governanti tecnici. Non ha influenza, punto e basta.

cinziagubbini
:
Quindi lo spread si sta rialzando perché di nuovo c'è crisi di liquidità?

joseph halevi
:
Non penso che sia per questo. E' che le aspettative recessive stanno investendo tutta l'Europa malata e lambiscono la Germania, si cumulano con il fatto che la Cina non tira come dovrebbe sebbene questa era una chimera sin dall'inizio.

cinziagubbini
:
Dunque, una volta tanto, i mercati rispondono a una reale difficoltà economica?

joseph halevi: Da un po' di tempo i mercati hanno ragione, direi da circa un anno. Vi sono due aspetti: andamenti quotidiani in cui i mercati finanziari e le società hedge cercano di lucrare, poi vi sono le loro valutazioni, diciamo strutturali e il quadro é molto più realistico.

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Quale progetto persegue il capitalismo contemporaneo?

di Marco Bertorello e Danilo Corradi

La crisi economica e sociale sembra senza fine. Prima l’esplosione del sistema finanziario nel 2008, poi un breve periodo di ripresa, in seguito un ritorno tendenzialmente recessivo per l’Europa e di modestissima crescita per gli Usa. Persino il principale paese emergente, la Cina, ha registrato un rallentamento della sua pur poderosa crescita a fronte delle difficoltà incontrate nei principali mercati di sbocco. L’economia del pianeta appare sempre più concatenata, il circuito finanziario sempre più avvolgente, e nessuna prospettiva sistemica sembra emergere. È infatti incomprensibile il disegno con cui le classi dirigenti del capitalismo contemporaneo intendono procedere. Dopo l’esplosione negli Stati Uniti l’epicentro della crisi si è spostato verso l’Europa, innescandosi sulla fragilità dell’economia reale che già avvolgeva il vecchio continente. Qui la crisi finanziaria  pare «retroagire sulla dinamica mondiale», come sottolinea Riccardo Bellofiore. Benché con pesi specifici differenti da paese a paese, il lato finanziario e quello strettamente economico in questi anni hanno contribuito ad alimentare una impasse complessiva. La recente dinamica è costituita da un passaggio della crisi dall’economia privata a quella pubblica, in cui i bilanci statali, già messi a dura prova per l’intero ciclo neoliberista, diventano il problema.

Una precisazione si rende necessaria. La natura insostenibile dei debiti pubblici va compresa in una doppia traiettoria, una di ordine globale e l’altra europea. La prima fa sì che i debiti statali stiano diventando un problema per tutti in quanto vanno aggiunti a quelli privati, cresciuti anch’essi considerevolmente in questi anni per sorreggere artificialmente l’economia. La prima retrocessione significativa delle agenzie di rating è subita proprio dagli Usa all’inizio del 2011. A essa fa seguito nella seconda metà dell’anno un braccio di ferro tra democratici e repubblicani per la modifica costituzionale del tetto di spesa (conflitto che rende evidenti le difficoltà su questo versante di quella che rimane la principale potenza mondiale). Ma il problema dell’entità dei debiti pubblici assume un carattere ancor più grave su scala europea, in quanto l’Unione conferma sull’argomento il punto di vista del capitalismo centro-europeo, cioè quello a guida tedesca: sull’onda della crisi greca restringe requisiti e predispone sanzioni già previste da Maastricht, mettendo sempre più sotto osservazione oltre al deficit anche il debito. Da queste decisioni avvenute a marzo del 2011 esplode la successiva crisi del debito in Spagna e anche in Italia.

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Interpretazioni della crisi

Oggi la parola crisi è sulla bocca di tutti. Cercheremo tuttavia di non cadere in un inconsistente immediatismo, ma di cogliere la dinamica del processo di crisi. Il tentativo di questo articolo è di analizzare le dinamiche che ruotano attorno a due possibili interpretazioni della crisi: quella di una stagnazione/parassitismo e quella di una ristrutturazione nella ristrutturazione; e se esiste una relazione tra questi aspetti.

Abbiamo deciso di analizzare comunque soltanto gli approcci che si pongono sul terreno della critica dell’economia politica, in quanto inseriti in una visione dinamica dei processi del capitale, rifiutando l’approccio economico-politico, ossia quello “keynesiano” o “neokeynesiano” e quello liberale “neoclassico”. La “teoria del mercato”, come teoria dell’equilibrio (della mano invisibile) in cui l’offerta determina la domanda e viceversa, al di là dei diversi adeguamenti, rimane il mito teorico egemone. Ambedue (keynesiano e neoclassico), anche se in forme diverse, rimangono legate a una visione in cui la produzione è legata al consumo, con la conseguenza che domanda e offerta finiscono per eguagliarsi nel mercato.

Se la teoria neoclassica dell’utilità marginale si regge su fondamenti psicologici, quella keynesiana non fa che riprendere la vecchia teoria del mercato, con l’unica differenza di considerare inefficace l’azione d’equilibrio che agisce spontaneamente concependo invece un equilibrio stabilito consapevolmente allo scopo di dare soluzione alla crisi.

In questo senso sia la teoria neoclassica che quella keynesiana sono teorie statiche fondate su un immaginario meccanismo di equilibrio. Bisogna ricordare che i limiti di queste ipotesi si manifestarono dentro precisi contesti sociali legati alla crisi: l’abbandono delle teorie neoclassiche con il crollo del 1929 e la messa in discussione delle teorie keynesiane con la crisi, che si è verificata alla metà degli anni Settanta.

Dobbiamo comunque ringraziare una serie di autori e gruppi di cui siamo debitori (tra questi ad esempio ricordiamo per l’Italia la rivista Plusvalore uscita tra gli anni 80-90), che in questi anni – pur nella loro estrema solitudine e osteggiati dalla sinistra ufficiale e alternativa – hanno continuato ad analizzare la dinamica della crisi.

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Riformismo e anticapitalismo nel movimento no-debito

Giulio Palermo

La crisi del debito pubblico in Europa impone dure misure restrittive che si abbattono su una situazione economica già critica. Secondo le istituzioni internazionali e i governi nazionali non c’è altra via d’uscita: pagare il debito è l’unica cosa da fare. La gente protesterà, ma non si può vivere perennemente al di sopra dei propri mezzi.

Lo stato deve ora onorare i suoi debiti, anche a costo di adottare misure impopolari. Niente mostra meglio la distanza che esiste tra stato e popolo della rabbia sociale espressa fuori del Parlamento greco, mentre all’interno gli onorevoli onoravano i loro impegni con la comunità internazionale, approvando i provvedimenti indicati dalla Banca centrale europea, l’Unione europea e il Fondo monetario internazionale, in difesa del potere bancario. Senza più alcuna mistificazione, lo stato schiaccia il proprio popolo, come misura necessaria a salvare il capitale internazionale.

In Italia, qualche ministro piange al pensiero che milioni di pensionati non arriveranno più a fine mese, ma non si dimette di certo: perché qualcuno il lavoro sporco dovrà pur farlo. “Misure impopolari, ma necessarie”, questo è il ritornello. Perché, appunto, la necessità è salvare le banche, anche a costo di sacrificare il popolo.

Gli stessi partiti di sinistra con ambizioni di governo faticano a dire qualcosa di sinistra perché la prima preoccupazione, per loro come per ogni partito borghese, non è il popolo che dovrebbero rappresentare, ma la stabilità del sistema, la solvibilità delle banche e la tenuta delle istituzioni finanziarie internazionali. Da questo punto di vista, ben vengano i governi tecnici: così sembra che le misure impopolari le prendano loro, senza che destra e sinistra se ne assumano direttamente la responsabilità politica (anche se, ovviamente, sono comunque parlamentari di destra e di sinistra che approvano le manovre dei governi tecnici).

In questo quadro, la nascita di un movimento che si oppone al pagamento del debito pubblico costituisce una novità politica significativa. Riconsiderare il debito, ed eventualmente ripudiarlo, per molti militanti significa rimettere in discussione i meccanismi che strangolano i debitori per il bene dei creditori, attaccare i principi sacri della proprietà privata, capovolgere l’assioma che antepone i profitti di banche e imprese ai bisogni di uomini e donne.

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utopiarossa2

La gestione politica postdemocratica della crisi economica

Riflessioni su postdemocrazia e statalizzazione dei partiti della sinistra, 1

di Michele Nobile

1. Un esempio del processo decisionale postdemocratico: la garanzia del governo irlandese sulle banche

Tra la sera del 29 e il primo mattino del 30 settembre 2008, giusto a due settimane dalla bancarotta della Lehman Brothers e dall’inizio del terremoto finanziario, il governo irlandese prese la decisione di offrire una garanzia pubblica su tutte le passività di tutte le banche del paese. L’urgenza era determinata dall’imminente tracollo della Anglo Irish Bank, che fu poi nazionalizzata a metà dicembre 2009.

Secondo il giornalista Simon Carswell che ne ha ricostruito la vicenda, quella fu «la più importante decisione politica presa da un governo irlandese» (1), tale da impegnarlo per l’equivalente di circa tre volte il prodotto interno e dieci volte il debito pubblico del momento. Iniziava così il processo di socializzazione dei costi del salvataggio del sistema finanziario privato dell’Irlanda, nonché dei creditori esteri, che ha ipotecato il futuro dell’intero paese, come sancito dall’accordo internazionale stipulato nel 2010. Più precisamente, ad essere ipotecati sono l’occupazione, i salari, le pensioni e i servizi pubblici dei comuni cittadini irlandesi, per molti anni a venire(2).

Nonostante la sua straordinaria importanza la decisione di garantire tutte le passività venne presa da un gruppo ristretto, in tutto una dozzina di persone: il primo ministro, il ministro delle finanze, l’attorney general, il governatore della banca centrale, alcuni alti funzionari; nelle stesse ore questo gruppo ebbe consultazioni con l’agenzia di rating Merrill Lynch e i massimi dirigenti (presidenti e Ceo) della Anglo Irish Bank e della Bank of Ireland. L’approvazione degli altri membri del governo venne ottenuta telefonicamente. Prima delle sei del mattino venivano informati il primo ministro del Lussemburgo, allora presidente del Eurogruppo, e il ministro delle finanze francese Christine Lagarde, a capo dell’Ecofin dell’Unione europea, ora direttore generale del Fmi. La decisione venne resa pubblica alle 6,45 e poi ratificata dal parlamento, con 124 voti a favore e 18 contrari: a favore votarono anche il principale partito d’opposizione, il Fine Gael, e il Sinn Féin, paladino dell’indipendenza irlandese.

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Sulla crisi

di Paul Mattick Jr.

Come descrivere gli eventi che hanno sconvolto l'economia globale negli ultimi tre anni?

La maggior parte dei commentatori economici concordano sul fatto sia stata una crisi finanziaria, a dare origine a una recessione, ma che una azione rapida del governo per salvare le società finanziarie e "stimolare" l'economia abbia scongiurato la minaccia di una vera e propria depressione. Alcuni economisti non si aspettano una ripresa economica prima di un anno o due, mentre quasi tutti sono d'accordo che anche se vi fosse un miglioramento dell'economia sarà una ripresa senza posti di lavoro, secondo l'opinione comune, almeno per il momento, è che il peggio è alle nostre spalle. Ma, con tutte le varianti, l'idea di base è che la causa principale dei problemi del mondo sia stato il crollo del settore finanziario americano, causato da una assunzione di rischi finanziari senza precedenti, stimolati dai fantastici profitti raggiunti da questo settore negli anni 90 e aiutati da una regolamentazione governativa lassista.

Mentre gli economisti “ufficiali”, dopo che per decenni avevano esultato per il sistema di autoregolazione del mercato, hanno avuto ben poco da dire sugli eventi attuali, con l’ eccezione importante di Paul  Krugman nel denunciare la sua professione come un fallimento di analisi, previsione, e spiegazione, i pensatori eterodossi hanno avuto tempi migliori. Ma anche la maggior parte di loro si è concentrata sulla crisi finanziaria come cuore della questione. Così diversi opinionisti come George Cooper, autore in campo finanziario, e l’economista marxista Fred Moseley – che da allora ha cambiato opinione - si sono avvicinati al Nation, di Robert Pollin che ha analizzato, aggiornandola, la caduta di Nixon attraverso Keynes, "Noi siamo tutti Minskyani adesso".

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Marx, la crisi e l’Europa: due libri per capire

di Vladimiro Giacché

La crisi capitalistica, l’Europa, l’euro, la Sinistra. Due saggi di Riccardo Bellofiore pubblicati da Asterios ci aiutano a far luce, da un punto di vista marxista, su alcuni dei nodi principali del dibattito politico attuale. Un utile antidoto al mix micidiale di austerità e liberismo oggi di moda nel vecchio continente.

Tutto quello che avreste voluto sapere sulla concezione marxista della crisi applicata alla crisi odierna e non siete mai riusciti a trovare in un solo libro. Ho immaginato questo sottotitolo per il libretto di Riccardo Bellofiore "La crisi capitalistica, la barbarie che avanza" (Trieste, Asterios, pp. 82, euro 7). Si tratta, molto semplicemente, di un testo indispensabile per chiunque voglia orientarsi tra i modi diversi di impiegare la teoria di Marx per capire la crisi (sto parlando degli utilizzi seri, non delle sciocchezze alla Tremonti).

È lo stesso autore, nelle prime pagine del libro, a offrirci la traccia del suo percorso: 1) una ricognizione delle diverse teorie della crisi riconducibili a Marx, 2) tentativo di integrare i diversi spunti marxiani sulla crisi all’interno di una lettura non meccanicistica della caduta del saggio di profitto, 3) quadro storico delle crisi capitalistiche dalla Grande Depressione di fine Ottocento sino agli anni Sessanta-Settanta, 4) ultimi decenni del Novecento e primo decennio del nuovo secolo.

Si tratta di un itinerario caratterizzato da un estremo rigore terminologico, ma anche da grande chiarezza. Certo, si tratta di pagine che vanno lette (direi assaporate) con attenzione e con calma, ma si è ampiamente ripagati di questo sforzo. Anche perché gli strumenti concettuali che vengono esposti nella prima parte di questo volumetto si aprono poi ad una spiegazione, incalzante e convincente, della parabola economica di questi ultimi decenni: fino alla crisi esplosa nel 2007 e ben lontana dal chiudersi.

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La luna di miele di Monti

di Nicola Casale

La cura “salva Italia” del medico Monti ha somministrato il suo primo ciclo di farmaci. Come era preannunciato l’impatto è stato pesante, e pesantemente a senso unico: tutti coloro che, per vivere, possono contare solo sul proprio lavoro hanno subìto decurtazioni ai redditi, con l’aumento generalizzato delle imposizioni indirette e i tagli al welfare, ed esproprio ulteriore di una vecchiaia di riposo, con il peggioramento delle condizioni per la pensione e dei relativi assegni.

Il secondo ciclo è già delineato nei suoi tratti essenziali: liberalizzazioni, privatizzazioni, e, soprattutto, demolizione dei residui diritti e garanzie dei lavoratori.

Gli obiettivi sono: risanare le finanze pubbliche e rilanciare l’economia. Il quadro complessivo al cui interno si collocano è complicato. Bisogna fare i conti con una crisi generale che non accenna a concludersi e con il fatto che, nel suo ambito, cresce lo scontro su chi debba farsi carico dei costi maggiori. Il conflitto dollaro-euro fa parte di questa partita, nella quale entrano una serie di varianti con altri soggetti, a loro volta, costretti a ri-posizionarsi a causa degli sconvolgimenti che la crisi ha portato con sé.

Il “primo tempo” di Monti ha tolto da salari, stipendi e redditi da lavoro autonomo soldi veri e li ha dirottati al pagamento degli interessi sul debito pubblico. Nella speranza di placare la speculazione e dare certezze a chi presta soldi allo stato e dovrà continuare a prestarne. La speculazione ha apprezzato, e … ha elevato la posta, con i quanto mai tempestivi giudizi delle agenzie di rating. La certezza che la finanza anglo-americana continuerà a sparare bordate per evitare la stabilizzazione della zona-euro rende il compito del “primo tempo” ulteriormente gravoso.

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marx xxi

The Draghi Put

di Pasquale Cicalese

Greenspan Put: così è stata qualificata l’asset inflation statunitense negli ultimi decenni. A partire dal crack borsistico di Wall Street del 1987, l’espansione illimitata di moneta da parte della Federal Reserve garantiva spettacolari aumenti di azioni (in tal modo le pensioni americane, legate ai corsi azionari, venivano corrisposte), obbligazioni e delle materie prime. Essendo il dollaro moneta internazionale, l’inondazione di liquidità monetaria provocava aumenti dell’inflazione mondiale. Del resto la Greenspan Put era in voga già negli anni sessanta, a tal punto che il Generale De Gaulle si batté per ripristinare il gold standard alternativo al gold exchange standard, basato sulla convertibilità del dollaro in oro.

Ad ogni sintomo di recessione americana o di sgonfiamento di bolle azionarie, Greenspan rispondeva con l’abbattimento dei tassi di interesse e dando liquidità illimitata alle investment-banks di Wall Street.

L’inflazione era contenuta principalmente grazie ad una trentennale gelata dei salari reali, mitigata con il keynesismo finanziario analizzato accuratamente da Riccardo Bellofiore, a cui si aggiungeva il keynesismo militare (guerre imperialiste). Insomma, burro e cannoni.

La Greenspan Put ha provocato, oltre che un aumento dell’asset inflation, l’esplosione di bolle speculative succedutesi negli ultimi venti anni: bolla dell’high tech, bolla immobiliare (mutui subprime), bolla obbligazionaria.

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Ma cos'è questa crisi?*

di Dante Lepore

Faccio riferimento ai testi qui di seguito per cercare di sbrogliare una matassa che si fa sempre più intricata.

- (1) Antonio Carlo, Capitalismo 2011: decomposizione in atto, 3 gennaio 2012
- (2) Antonio Pagliarone, Il Capitalismo come corpo marcescente, Milano 3 Gennaio 2012
- (3) Paolo Giussani, La crisi e il saggio di profitto, Domenica, 22 gennaio 2012
- (4) Marco Sacchi, Dalla decadenza alla decomposizione del capitalismo?, marzo 2011.
- (5) Marcos61: Dalla decadenza alla decomposizione del modo di produzione capitalistico (settembre 2011).
- (6) Marco Sacchi, Lotte operaie nella decomposizione del capitalismo, verso la fine del 2011 (?)
- (7) De Bellis-Fragnito, Una risposta a Carlo Sacchi e Pagliarone sulla decomposizione del capitalismo, Connessioni
- (8) Piero Favetta, Alcune note sul documento di Gianni De Bellis e Mario Fragnito.
- (9) Dino Erba, Perché tante chiacchiere? In margine alle tesi di De Bellis-Fragnito.
- (10) De Bellis-Fragnito, Una risposta a Giussani, 3 febbraio 2012
- (11) Michele Castaldo, Capitalismo, crisi, crollo, rivoluzione, 17 Gennaio 2012.

La discussione ha preso il volo nella stratosfera della teoria (o della «chiacchiera da bar», secondo Dino Erba (9)) sostanzialmente con due pagine di A. Pagliarone (2), che attribuiscono al lungo saggio di A. Carlo (1) il «riferimento ad una sorta di cupola o un grande fratello costituita dalle grandi imprese multinazionali associate alla Finanza (non si capisce come sia materializzata) che condizionerebbe in maniera asfissiante i governi dei paesi più industrializzati che ormai nei loro simposi dei G20 non fanno altro che blaterare di intenti, qua e là rispettati, senza peraltro riuscire a risolvere alcunché». Pagliarone afferma che «ciò è vero» ma che…«non ha senso», perché… non spiegherebbe la «causa» di questa crisi.

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marx xxi

L'apocalisse della democrazia*

Dal debito sovrano allo stato d'emergenza

di Domenico Moro**

La nomina del governo Monti e, più in generale, il modo in cui l’Europa sta affrontando la crisi del debito rappresenta un passo avanti nella conclusione del tipo di governo affermatosi a partire dalla fine della Seconda Guerra Mondiale. Più correttamente, si potrebbe dire che la crisi del debito solleva il velo sulla natura reale della democrazia borghese, attiva le potenzialità negative insite nel nostro sistema istituzionale, e conduce agli estremi quelle tendenze autoritarie che sono presenti da molto tempo in Italia, nel resto d’Europa e nel cosiddetto Occidente.

 
1. Capitalismo finanziario, di stato e multinazionale

Lo stato non è mai neutrale, è sempre lo stato della classe economicamente dominante. Questo principio è solo un punto di partenza, non potendo prescindere dall’individuazione del modo in cui lo Stato esercita la sua funzione né dalla forma che assume in un certo periodo e in un certo luogo. Forma e modo di funzionamento sono strettamente collegati al tipo di rapporti - di scambio e di forza (a tutti i livelli) tra le classi. Non potremmo, però, capire molto né di questi né dell’evoluzione dello Stato se non capissimo l’evoluzione del modo di produzione capitalistico. Sebbene ci sia abbondanza di analisi ed interpretazioni della crisi in atto e soprattutto sulla crisi dell’euro, più rare sono le riflessioni sul collegamento tra questa crisi e le modificazioni di lungo periodo attraversate dal capitale. Di conseguenza, spesso le misure proposte – dall’acquisto diretto da parte della Bce di titoli statali europei, alla modifica del ruolo di quest’ultima in prestatore diretto di ultima istanza (sul modello Usa), alla definizione di bilanci e fiscalità veramente comuni fino al ripudio del debito – al di là della validità o meno di questa o quella per tamponare la crisi e stante la giustezza di far pagare il debito ai ricchi e al grande capitale, rimangono legate ad una prospettiva, seppure necessaria, però ancora limitata, difensivista. Soprattutto, sia rispetto all’imperialismo che allo Stato, a me sembra che, in linea di massima, continuiamo a ragionare e a comportarci sul piano politico come se fossimo sostanzialmente in fasi storiche precedenti a quella attuale.

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Breve storia della crisi

di Andrea Baranes

Questo testo è contenuto in appendice al saggio «Manifesto degli economisti sgomenti. Capire e superare la crisi» (pubblicato da Sbilanciamoci! e da minimum fax, 2012), un libro importante perché smentisce alcune false certezze sulla crisi economica che stiamo attraversano e fornisce delle misure alternative per fronteggiarla. Questa breve storia della crisi curata da Andrea Baranes ne è un assaggio.


forconi sicilia protestaTroppo debito?

Nella prima metà degli anni Novanta il governo Berlusconi annunciava un nuovo miracolo italiano fondato sulla crescita e lo sviluppo, prometteva tagli delle tasse per cittadini e imprese, investimenti pubblici per trasformare il paese. A novembre 2011 il governo si dimette sotto il peso degli interessi da pagare, tra conti pubblici che non quadrano e nubi sempre più minacciose di possibili default. La pressione fiscale aumenta, a partire dall’Iva, assistiamo a tagli generalizzati di tutte le spese pubbliche mentre i soldi per gli investimenti e lo «sviluppo» sono un miraggio sempre più distante. Il nostro paese è uno dei principali problemi dell’Unione Europea.

Cos’è successo allora in questi diciotto anni? Perché nel 1994 l’Italia era sì un paese con un forte debito e diversi problemi, ma, così ci veniva raccontato, con ottime prospettive, mentre ci ritroviamo nel 2011 con l’acqua alla gola e in balia delle tempeste finanziarie? L’argomento che ci viene ripetuto è che l’Italia del 2011 è schiacciata da un rapporto tra debito e prodotto interno lordo che sfiora il 120% e sta strangolando la nostra economia. Bene. Qual era allora la situazione nella prima metà degli anni Novanta? Tra il 1993 e il 1995 il rapporto tra debito e Pil in Italia superava il 120%.

Occorre quindi analizzare meglio le cause politiche, sociali, industriali ed economiche che contribuiscono all’attuale rapido declino del nostro paese.

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politica e classe

La grande crisi dei debiti sovrani (2011-2012)

Giorgio Gattei

1.Tutti i debiti del mondo.

C’era un tempo in cui si teorizzava (sto esagerando, ma non di molto) che con il salario i lavoratori dovevano alimentare i consumi, i capitalisti volgere tutto il profitto a risparmio per l’investimento, le banche essere appena intermediarie tra l’investimento e il risparmio e lo Stato intervenire al minimo (al limite zero) negli affari economici, così che per:

(reddito) Y = W (salari) + Sc (risparmio dei capitalisti)
W = C (consumi)
Sc = I (investimento)
(spesa pubblica) G = 0

Nel Novecento questa rappresentazione ideale è stata sconvolta dall’avvento del credito bancario quale elemento nuovo di finanziamento delle imprese, così che nell’ipotesi estrema che tutto l’investimento venisse assicurato dalle banche, il profitto risparmiato poteva essere intercettato dallo Stato per finanziare la spesa pubblica con un proprio debito sovrano:

I = Fi (finanziamento alle imprese)
Sc = Ds (debito sovrano)
Ds = G > 0

A fronte dei due nuovi “motori” della produzione del reddito: l’indebitamento delle imprese verso le banche e l’indebitamento dello Stato verso i capitalisti, nella seconda metà del secolo è venuta a mutare anche la posizione finanziaria dei lavoratori perchè da un lato gli alti salari della produzione “fordista” hanno permesso di renderli anch’essi risparmiatori facendoli partecipare all’indebitamento dello Stato:

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A che punto è la crisi?

di Rino Malinconico

A che punto è la crisi economica?

La domanda ha senso perché una crisi è sempre un percorso. E’ costituita di momenti diversi, pur dentro un'unica, più o meno lunga fase di difficoltà o di vera e propria recessione economica. D’altra parte, ogni crisi è anche un nuovo inizio, come suggerisce l'etimologia stessa (krìsis in greco vuol dire “scelta”, “decisione”, oltre che “separazione”). Si tratta, perciò, di una dinamica di disequilibrio e, contemporaneamente, di ricerca di nuovi equilibri. Ed è bene non sottovalutare questo carattere costituente della crisi, il fatto, cioè, che essa prelude e prepara un nuovo assetto delle relazioni capitalistiche, tanto all'interno dei singoli sistemi-paese quanto a livello delle più complessive relazioni tra i diversi Stati nazionali.

Ovviamente coloro che pensano di essere alla vigilia del vero e proprio crollo del sistema capitalistico non hanno affatto bisogno di interrogarsi sul decorso della crisi, tantomeno sul suo andamento costituente. Se si stabilisce in maniera apodittica che siamo di fronte a un'agonia, l'unica trasformazione possibile diventa il passaggio dall'agonia alla morte. E però, un tale convincimento a me pare non solo immotivato nei suoi termini teorici, ma anche linearmente contraddetto da quanto avviene in vaste aree del mondo, dalla Cina al Brasile all'India, che presentano ancora consistenti trend di crescita, capitalistica appunto, e sono soltanto marginalmente sfiorati dalla crisi economica, la quale si incentra tutta, invece, tra le due sponde dell’Atlantico. Lo stesso Giappone, pur drammaticamente colpito dal disastro nucleare dei mesi scorsi, e penalizzato nelle esportazione da uno yen troppo forte, mantiene un trend economico più che accettabile, tanto che la borsa di Tokyo ha già sostanzialmente recuperato rispetto alla caduta del 2008.

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La Cina può salvare il capitalismo?*

Sander

In tutto il mondo, gli stati capitalistici adottano delle misure d'austerità per rallentare la crescita del debito pubblico. Ma dal momento che frena il consumo, questa politica non è  in grado di sostenere la crescita necessaria all'accumulazione del capitale.

Da dove può venire allora lo stimolo per mantenere la macchina in funzione? Per mancanza di alternative, lo sguardo si volge verso l’est. Sembra infatti che la storia - suprema ironia - abbia scelto la Cina "comunista" per il ruolo di salvatore del capitalismo mondiale.

Quale crisi?

PI (Perspective Internationaliste)  individua nella crisi attuale non solamente un evento ciclico nel processo d’accumulazione del capitale ma la manifestazione dell’obsolescenza delle fondamenta stesse del modo di produzione capitalistico, cioè a dire, della forma valore. La quale costringe il capitalista a misurare la ricchezza in termini di lavoro astratto quando, invece, la creazione di ricchezza reale dipende sempre meno dalla quantità di tempo di lavoro fornito, e sempre più dalle applicazioni produttive della conoscenza.

La previsione di Marx (nei 'Grundrisse'), che individuava in questa contraddizione fondamentale i limiti storici del capitalismo, trova oggi la sua piena realizzazione. Fondare sulla legge del valore le decisioni su cosa, come, quanto, dove e per chi produrre è diventato assurdo. Questa assurdità si manifesta nella coesistenza di una sovrapproduzione diffusa e di un’estrema povertà, nell’incapacità crescente del capitale di sfruttare l'aumento della forza lavoro disponibile –il cui effetto è la rapida espulsione di manodopera dalla produzione- mentre il denaro ricerca una sicurezza illusoria nelle bolle finanziarie.

Questa assurdità si manifesta negli sforzi fatti per imporre una carenza artificiale di beni che sarebbero altrimenti abbondanti e privi di valore (come i beni informatici). Nell'incapacità del Capitale di porre fine alla distruzione dell'ambiente, pur sapendo che le conseguenze disastrose sono sempre più minacciose.

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Scenari possibili dopo la crisi globale1

Domenico Mario Nuti2

1. La nuova crisi globale: déjà vu

La crisi globale iniziata nell'estate 2007 è senza dubbio “la più seria crisi finanziaria che abbiamo visto dagli anni „trenta in poi, se non da sempre” (Merving King, Governatore della Banca d‟Inghilterra, Sunday Times, 9/10/2011). E non solo questa crisi non è ancora finita. Non solo si sono verificate e ci si attendono ancora, dopo timidi parziali inizi di ripresa, nuove ricadute o “double dips”, soprattutto nella zona dell‟euro nel primo semestre del 2012 (compresa l'Italia al -0,5% per tutto l‟anno, secondo le previsioni dell‟OCSE di novembre 2011 (OECD, 2011a), o al - 1,6% secondo la Confindustria; come del resto la Grecia e il Portogallo rispettivamente al -3% e al -3,2%). Quel che è peggio è che alla fine del 2011 il ciclo economico del 2007-20?? si trova in esattamente la stessa, identica posizione dell‟estate 2007, con le stesso tipo di forze all‟opera e lo stesso meccanismo malefico innescato di nuovo, ma su una scala maggiore e in una forma molto più grave.

Infatti la crisi globale corrente iniziava nell‟agosto 2007 come crisi bancaria negli Stati Uniti, in seguito all‟accumulazione nei bilanci delle banche di titoli “tossici” che incorporavano prestiti immobiliari a mutuatari resi insolventi dalla loro disoccupazione, dall‟aumento dei tassi di interesse e dallo scoppio della bolla immobiliare. L'espansione di questi mutui, nonché di mutui al consumo tramite altri prestiti e carte di credito, era stata facilitata dalla de-regolamentazione finanziaria: ad esempio, l'abolizione nel 1980 della "Regulation Q che proibiva alle banche di pagare interessi sui depositi a vista, e nel 1999 della legge Glass-Steagall, che prima separava le attività di credito al dettaglio e di investimento delle banche. Più in generale questi sviluppi erano incoraggiati dal predominio dell‟ideologia iper-liberale che dagli anni novanta si diffondeva negli Stati Uniti, nel Regno Unito e nell‟economia globale.

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Dalla crisi di plusvalore alla crisi dell'euro

di Guglielmo Carchedi


Data la rapida sequenza degli avvenimenti, questo articolo sarà regolarmente aggiornato

Aggiornato all’11 Gennaio 2012


I.
Una delle caratteristiche della crisi finanziaria scoppiata nel 2007 - e ancora irrisolta - è il suo intreccio con la crisi dell’euro. In sintesi, la tesi di questo articolo è che la crisi dell’euro è la manifestazione nella eurozona della crisi dei derivati. Questa, a sua volta, affonda le sue radici nella caduta secolare del tasso medio di profitto nei settori produttivi degli USA. Questa tesi è stata sviluppata in Dietro e Oltre la Crisi.1 Questo articolo prosegue su quella linea di indagine. A tal fine, sarà necessario riprodurre alcuni argomenti già presentati in Dietro e Oltre la Crisi, ma solo quelli strettamente necessari e in versione accorciata.

Consideriamo, per incominciare, i settori che producono beni materiali negli USA che per approssimazione possono essere considerati come rappresentanti di tutti i settori produttivi.

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Cinque domande sulla crisi

a cura di Sandro Mezzadra e Toni Negri

L’approfondimento della crisi, con le sue devastanti conseguenze sociali, continua a spiazzare consolidati paradigmi interpretativi. Ne risultano non soltanto la bancarotta della scienza economica mainstream, ma anche inedite sfide per quanti hanno continuato in questi anni a praticare in forme originali la critica dell’economia politica. In questione, sempre più chiaramente, ci sembra essere proprio il rapporto tra le categorie economiche e le categorie politiche. Per aprire la discussione all’interno del sito di UniNomade abbiamo rivolto cinque domande ad Andrea Fumagalli, Christian Marazzi e Carlo Vercellone. Presentiamo di seguito le risposte di Andrea e di Christian, in forma di dialogo. Carlo ha svolto alcune riflessioni sull’insieme dei temi da noi proposti: le si possono leggere in conclusione.

 

Pensate che davvero i mercati non abbiano una leadership latente, qualcuno che suggerisca le operazioni da fare? Questo fuori da ogni teoria del complotto, ma semplicemente dentro l’analisi di ogni meccanismo di decisione, che prevede momenti di unificazione cosciente e non semplicemente condensazioni di spontaneità. 

Andrea Fumagalli: le grandi società finanziarie hanno un comportamento che possiamo definire da oligopolio collusivo. Il loro scopo è fare plusvalenze. In questa fase, le plusvalenze più elevate sono ricavabili dallo scambio dei derivati Cds, in particolare quelli relativi al rischio di default privato e pubblico. La natura collusiva dell’oligopolio finanziario viene garantita dall’intermediazione svolta dalle società di rating. A partire dalla crisi dei sub-prime (fine 2007), si è assistito ad un ulteriore processo di concentrazione nei mercati finanziari. Ecco alcuni dati.

Se il Pil del mondo intero nel 2010 è stato di 74 mila miliardi di dollari, la finanza lo surclassa: il mercato obbligazionario mondiale vale 95 mila miliardi di dollari, le borse di tutto il mondo 50 mila miliardi, i derivati 466 mila miliardi.