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A che punto è la crisi?
di Giacomo Bottos
Il modello precedente, che è entrato in crisi nel 2007 (ma si tratta di una crisi -beninteso- che non equivale alla sua fine, ma anzi, in mancanza di alternative, alla radicalizzazione delle sue logiche) ma che già negli anni precedenti aveva iniziato, a livello globale, a presentare numerose crepe, è ciò che chiamiamo neoliberismo, che a sua volta nasce a cavallo tra anni Settanta ed Ottanta. Che cos’è il neoliberismo? Un modello che nasce come reazione alla crisi del precedente sistema, industrialista e fordista, basato su un grado di compromesso tra capitale e lavoro e sull’alleanza relativa tra il capitalismo ed una democrazia sostanziale e organizzata intorno al sistema dei partiti. All’epoca andò in crisi un modello che si era realizzato in quel trentennio postbellico che i francesi chiamano trente glorieuses, che Hobsbawm indicava come «l’età dell’oro». Diversi eventi segnanarono la crisi di questo modello. Li evoco brevemente:
1. La rottura del sistema di Bretton Woods, con la decisione di Nixon di bloccare la convertibilità del dollaro in oro, cosa che rese possibile la libera fluttuazione nel mercato delle valute e pose un importante presupposto per la finanziarizzazione dell’economia.
2. Gli shock petroliferi, che causarono una crisi di redditività delle imprese da un lato e una crisi fiscale degli Stati dall’altro, alimentando contemporaneamente l’inflazione e inondando al tempo stesso il sistema finanziario internazionale di petrodollari in cerca di impieghi redditizi.
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Sette anni di crisi: un bilancio
di Thomas Fazi
In Europa la crisi è stata utilizzata dalle élite politico-finanziarie per sferrare il più violento attacco mai visto, dal dopoguerra ad oggi, nei confronti della democrazia, del mondo del lavoro e del welfare
All’indomani della crisi finanziaria del 2008, quando il sistema fu salvato per il rotto della cuffia solo grazie a massicci interventi di spesa in deficit da parte dei governi di tutti i paesi avanzati (dimostrando la validità dell’assioma keynesiano secondo cui l’unico strumento in grado di risollevare un’economia in recessione è la politica fiscale) furono in molti a sinistra – tra cui il sottoscritto – a credere che il neoliberismo avesse i giorni contati. Cos’era la crisi, in fondo, se non la conclamazione del suo fallimento? Come ha scritto Paul Heideman, «l’impressione al tempo era che l’era della mercatizzazione assoluta stessa volgendo alla fine, e che la crisi dei mercati avrebbe condotto inevitabilmente al ritorno di una qualche forma di nuovo keynesismo».
Come sappiamo, è accaduto l’esatto opposto. Non solo il regime neoliberale continua a godere di perfetta salute in tutti i paesi avanzati (sì, qualche tabù è stato infranto – si vedano le politiche di quantitative easing – ma solo nella misura necessaria per garantire la sopravvivenza del sistema stesso); in Europa la crisi è stata utilizzata dalle élite politico-finanziarie per sferrare il più violento attacco mai visto, dal dopoguerra ad oggi, nei confronti della democrazia, del mondo del lavoro e del welfare; e più in generale, per ristrutturare le economie e le società europee in una chiave ancor più radicalmente neoliberista di quella esistente. «Una distruzione creatrice – ha scritto Alberto Burgio – finalizzata alla sostituzione del modello sociale postbellico (il capitalismo democratico incentrato sul welfare pubblico e sulla riduzione delle sperequazioni in un’ottica inclusiva) con un modello oligarchico (postdemocratico) affidato alla “giustizia dei mercati globali” e caratterizzato dal binomio povertà pubblica-ricchezza privata».
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Perché la Fed rischia di finire nella trappola del Quantitative Easing
Francesco Lenzi
Con la frase “sarà probabilmente appropriato alzare il livello obiettivo dei tassi d’interesse federali entro la fine dell’anno” Janet Yellen, presidente della Federal Reserve, pare aver tolto ogni dubbio sul fatto che ci stiamo avvicinando al primo rialzo dei tassi d’interesse negli Stati Uniti. Sono passati circa 6 anni da quando vennero fissati allo 0-0,25% per far uscire il gigante americano dalle secche della Grande Recessione.
Da allora la prima economia del mondo è riuscita a recuperare quasi interamente i posti di lavoro persi, anche se non è riuscita a riavvicinarsi ai ritmi di sviluppo avuti negli anni precedenti al crollo della Lehman Brothers. Dalle parole della Yellen l’abbandono dei tassi a zero sembra pertanto giustificato dal fatto che, con l’occupazione vicina al pieno impiego e l’attività economica in fase di recupero, l’inflazione potrebbe tornare a far capolino. La “normalizzazione” della politica monetaria avrebbe anche lo scopo di contrastare il pericolo di formazione di “bolle” finanziarie, visto il lungo periodo trascorso con tassi a zero e continue immissioni di liquidità.
Però, se dopo i ripetuti messaggi del board della Fed è ragionevole attendersi il molto annunciato rialzo dei tassi e un progressivo percorso di normalizzazione della politica monetaria statunitense, l’analisi del modo in cui i mercati hanno anticipato questa decisione e l’economia globale sta attualmente reagendo porta a conclusioni non più così scontate.
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Cronicizzazione della crisi e trasformazioni della governance europea*
Christian Marazzi
Ho come l’impressione che siamo entrati in una seconda crisi della regione Europa e sento la necessità di adottare un approccio indiziario per osservare la direzione che possiamo o dobbiamo intraprendere, allo stesso modo di come il cacciatore osserva la piuma d’uccello sul cespuglio per capire da che parte andare. Ad agosto mi sembra sia successo qualcosa che abbia a che fare con la fine di un ciclo: mi sembra che la crisi cinese dichiari la fine di quella forma che il capitalismo ha assunto negli ultimi trent’anni e che è stata definita impero, dove la colonizzazione della concorrenza, del mercato e della finanziarizzazione ha dispiegato dei confini senza un oltre, senza un fuori. Il lavoro di Michael Hardt e Toni Negri ha sottolineato la materializzazione di questa ragione imperiale che la crisi cinese sembra segni la fine dei suoi equilibri geopolitici, economici e finanziari.
La Cina, dopo forti investimenti nel settore immobiliare e dell’export – che hanno giovato non poco all’occidente in questi anni – e politiche espansive che hanno spinto verso la finanziarizzazione, da quanto si riesce a intuire vive una forte riduzione della crescita e delle esportazioni. Proprio per far fronte a questa situazione, il 12 agosto 2015 il renminbi è stato svalutato (un gesto salutato positivamente dal Fmi, considerato il primo passo per far entrare questa valuta nel novero dei diritti speciali di prelievo) e, per contenere questa svalutazione, gli stessi cinesi hanno venduto qualcosa come cento miliardi di buoni del tesoro americani. Ecco la piuma dell’uccello, ecco l’indizio.
Il flusso di risparmio dal Giappone e dalla Germania verso gli US negli anni Settanta, a cui è subentrata la Cina, ha permesso agli Stati Uniti di sviluppare forme di post-industrializzazione attraverso la finanziarizzazione e, allo stesso tempo, ha reso possibile a questi paesi di concentrarsi sulla crescita economica e una produzione orientata all’esportazione.
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Crash tutto cinese?
di Raffaele Sciortino
Difficile ad oggi prevedere se il crollo della borsa cinese, che ha trascinato con sé le correzioni delle borse mondiali, sia l’innesco di una precipitazione della crisi globale dopo la pausa, economica in realtà più che geopolitica, degli ultimi due, tre anni. In ogni caso ne rappresenta un passaggio di fase: non solo la Cina sempre meno può, e vuole, fare da volano per un Occidente in prolungata stagnazione, ma si approssima un secco redde rationem sui circuiti di debito globali. Detto in altro modo: tende ad alzarsi il livello dello scontro sullo scarico dei costi della crisi a partire dagli scricchiolii del disequilibrio bilanciato1 Usa/Cina perno finora della globalizzazione.
Presentiamo di seguito alcune provvisorie ipotesi di lettura e inquadramento degli sviluppi in corso tentando innanzitutto una lettura non scissa tra dimensione “interna” cinese ed “esterna”. Tutto all’opposto della narrazione, di netto segno politico, che va imponendosi in Occidente dove -dopo anni di idiozie giornalistiche sullo scontato “sorpasso” del Dragone ai danni degli Usa- come d’incanto si riscoprono ora i nodi irrisolti dello sviluppo capitalistico cinese (!) per ingiungere a Pechino i compiti da svolgere pena la messa a rischio dell’economia mondiale.
Primo. La svalutazione agostana dello yuan secondo la narrazione corrente sarebbe stata la risposta al rallentamento dell’economia cinese che ha “naturalmente” innescato il crollo di borsa. Risposta “disperata” (addirittura!), comunque “scorretta” (come se gli stati occidentali in questi anni non avessero socializzato le immani perdite dei mercati…).
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La ‘cronicizzazione’ della crisi e la necessità di costruire coalizioni sociali
Alberto De Nicola e Biagio Quattrocchi
Appunti per una discussione a venire, a partire dalla giornata seminariale dell’11 settembre nella Scuola estiva di Euronomade
Da più parti si discute sul fenomeno di sostanziale cronicizzazione della crisi capitalistica in Europa. Intendiamo riprendere questo tema nelle nostre giornate della scuola estiva, per tornare a discutere sulla nozione di crisi e sull’ipotesi che questa congiuntura, più che essere interpretata come una fase ciclica che apre ad un nuova stagione di espansione, sembra contenere invece tutti gli elementi di una “nuova forma di regolazione” di lungo periodo del sistema capitalistico. Sorprende che alcuni economisti del mainstream marginalista, anche negli ambienti da cui più direttamente sono provenute le ricette di politica economica centrate sulla austerità di bilancio e la liberalizzazione dei fattori nel mercato del lavoro, sia nata la preoccupazione sul futuro dello sviluppo capitalistico. Lawrence Summers alla conferenza annuale del Fmi nel 2013 suggerisce l’ipotesi che l’economia statunitense in modo particolare, si stia avviando lungo un sentiero di “stagnazione secolare”, aggiungendo che questa potrebbe essere la «questione [principale] del nostro tempo» . Ciò che questi economisti, insieme a tutte le altre teste d’uovo dell’establishment europeo non potranno mai vedere, è che alla base dell’ipotesi realistica della “stagnazione secolare” opera una radicale trasformazione del rapporto sociale capitalistico, maturata lungo il ciclo neoliberale.
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La crisi globale e la Pizia cinese
Cronaca di un’estate torrida
Angela Pascucci
Alla fine è arrivato Capitan America sfoderando un tasso di crescita dell’economia Usa che nessuno si aspettava e il rinvio dell’aumento dei tassi di interesse, e i foschi cinesi sono rientrati nei ranghi facendo quello che tutti si aspettavano dovessero fare, pompare soldi nel loro sistema spompato. Le Borse mondiali hanno rimbalzato di sollievo agguantando i rialzi, la “tempesta perfetta” si è dissolta. Fino al prossimo round che, a leggere bene le cronache economiche rosa del giorno dopo, è acquattato dietro l’angolo.
Ragion per cui l’immagine più vera di questa torrida estate di crisi finanziaria resta una sola. Quella di un mondo che, entrato nella seconda fase della grande crisi economica deflagrata nel 2008, non ha ancora capito a che santo votarsi per arginarla. Il disorientamento globale è tale infatti da far apparire surreale, anche alla luce del poi, il raccomandarsi spasmodico alla Cina che nella circostanza è apparsa anch’essa come una Pizia traballante sul suo trespolo fumoso, dal quale nei momenti più critici ha lanciato rimedi, senza apparentemente rendersi conto di dove sarebbero andati a parare.
Breve riassunto. Alle prime avvisaglie di squasso in Borsa, il governo di Pechino prima interviene massicciamente per bloccare il crollo, poi lascia andare rendendosi conto che frenare il panico di 90 milioni di piccoli azionisti incoraggiati dal governo stesso a entrare nel recinto dei razziatori di professione è come andare contro la forza di gravità, e soprattutto in quel momento non servirà a ridare fiato all’economia in panne.
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La ripresa Usa: una tigre di carta?
Prodromi di una nuova crisi globale
di Lorenzo Carrieri
Ultimamente sono molti gli articoli che parlano di una crescita dell’economia degli Stati Uniti, che avrebbe ripreso a crescere a ritmi costanti nel corso degli ultimi anni: negli ultimi trimestri si è addirittura sentito parlare di livelli di crescita compresi tra il 4% e il 5%.
Ma quanti di questi dati hanno un legame con l’economia reale, ergo con aumento occupazionale e produttività industriale, spesa in beni di consumo e redistribuzione della ricchezza?
A scandagliare e comparare i grafici sulla crescita si notano diverse cose interessante.
Primo, stando ai dato del Bureau of Labor Statistics il 20% delle famiglie americane è composto da tutti disoccupati: come fa dunque il tasso di disoccupazione a stare all’attuale 5,5%?
L’errore della narrativa imperante qui sta nei filtri usati per calcolare i disoccupati: calcolare solo i disoccupati ufficiali, quelli che si mettono alla ricerca di un nuovo lavoro e/o quelli che lo cercano fino a 4 settimane dopo la perdita, trascurando coloro che sono inoccupati di lungo corso.
In tal modo la descrizione della composizione della forza lavoro viene sempre più a restringersi, evitando in tal modo di approfondire la profondità reale della crisi sociale americana.
Altro cosa da sottolineare: l’aumento di posti di lavoro non considera l’aspetto contrattuale dello stesso rapporto: dai dati del BLS risulta che quasi il 90% delle nuove posizioni sono solo part-time (dai 3 ai 6 mesi di contratto, assunti per lo più nella ristorazione e nei fast-food, dove la busta paga settimanale è di 351$…), mentre quasi 250mila posizioni full-time sono andate perdute.
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Il mal cinese si chiama capitalismo
di Domenico Moro
La crisi borsistica della Cina e dei cosiddetti emergenti sta destando grande preoccupazione in Europa e negli Usa. Non si tratta di una crisi puramente finanziaria. Dietro il crollo delle borse c’è il calo maggiore in sei anni e mezzo dell’indice della produzione manifatturiera, il crollo dell’export del -7,3% nei primi sette mesi del 2015 rispetto all’anno scorso, e il drastico rallentamento della crescita del Pil della Cina, ormai la seconda economia del mondo di cui negli ultimi anni è stata la vera locomotiva.
Insomma, quella che si profila non è soltanto una possibile crisi della Cina, del Brasile e degli altri emergenti. Si sta profilando un rallentamento, se non una crisi, della globalizzazione e il rischio che si verifichi un secondo e più devastante secondo tempo della crisi iniziata nel 2007-2008, con lo scoppio della bolla dei mutui, che ebbe come epicentro gli Usa. Gli effetti della crisi dei mutui si estesero a tutto il centro più sviluppato dell’economia mondiale, oltre agli Usa, all’Europa occidentale e al Giappone. A distanza di otto anni non si è ancora verificata alcuna completa “recovery” in questa parte dell’economia mondiale. Nonostante i reiterati Quantitative easing, cioè l’immissione di massicce dosi di liquidità da parte delle banche centrali, nei casi migliori il tasso di crescita del Pil è ancora al di sotto di quello potenziale, e nei casi peggiori (in Italia e nella maggior parte dell’area euro) la crescita è nulla e il Pil reale rimane ancora al di sotto del livello del 2007.
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L’angelo sterminatore*
di Franco Berardi (Bifo)
Introduzione/Prefazione a Diario della crisi infinita (ombre corte) di Christian Marazzi
Questo libro di Christian Marazzi non è solo un diario dell’involuzione “austeritaria” che sta distruggendo la società europea, è anche un’indagine sugli effetti della piena realizzazione di un modello che lo stesso Marazzi aveva cominciato a delineare venti anni fa, ne Il posto dei calzini[1].
Nel 1994 quel libro anticipava gli effetti dell’integrazione linguistica dei processi produttivi, e al tempo stesso cartografava concettualmente il duplice mutamento che la svolta linguistica del capitale comporta.
Il primo aspetto del mutamento consiste nella sussunzione della dimensione comunicativa, affettiva, relazionale all’interno del processo di valorizzazione. Il secondo aspetto è la transizione che porta il denaro ad assumere sempre più una funzione pragmatica in quel ciclo della comunicazione umana che siamo abituati a chiamare “economia”.
A partire dagli anni Novanta, la ricerca di Marazzi converge con la ricerca di quei filosofi del linguaggio che cercano di capire come il verbo si faccia carne, primo tra tutti, naturalmente Paolo Virno.
Il denaro è un caso particolare ma anche esemplare del farsi carne del linguaggio, ovvero del farsi merce del segno monetario. Lo sviluppo di questa analogia tra denaro e segno linguistico ci ha portato però molto lontano. Vediamo dove.
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Sette lezioni critiche e la teoria del meno peggio
di Turi Comito
A otto anni dall'inizio della Grande Crisi del nuovo millennio credo si possa fare un breve sommario dei principali effetti, diretti e collaterali, che questa ha comportato per un pezzo di mondo (quello dell'Europa Occidentale in primis) dal punto di vista economico, sociale e politico.
Ho chiamato questo sommario "lezioni" ma è solo un promemoria senza pretese di completezza, giusto per riepilogare alcune cose (tra le tante) riepilogabili.
1. La Crisi nasce negli Stati uniticome collasso del sistema finanziario privato dovuto all'ennesima bolla immobiliare. Banche dedite al prestito facile, alle stregonerie mobiliari (CDS, subprime, ecc.), agli investimenti d'azzardo e via dicendo crollano sotto il peso di crediti inesigibili e falliscono - creando disoccupazione, distruzione di ricchezza privata, impoverimento di milioni di persone - oppure (nella maggior parte dei casi) vengono salvate dalle finanze pubbliche, cioè dallo Stato, attraverso tassazioni supplementari per i propri cittadini o (come nel caso statunitense) attraverso una super produzione di moneta.
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Gli anfratti inermi del potere
Dialoghi e pensieri su “Diario della crisi infinita” di Christian Marazzi
di Francesca Coin e Stefano Lucarelli
Scriveva Deleuze:
“quando scrivo su un autore il mio ideale sarebbe di riuscire a non dire nulla che potesse rattristarlo… pensare a lui, all’autore sul quale si scrive. Pensare a lui con tanta forza che non possa più essere un oggetto e che non sia neanche più possibile identificarsi con lui. Evitare la doppia ignominia dell’erudizione e della familiarità. Restituire a un autore un po’ di quella gioia, di quella forza, di quella vita politica e di amore che lui ha saputo donare, inventare” (Dialogues, 1977).
È con questo spirito che ci accingiamo a scrivere qualcosa sull’ultimo testo di Christian Marazzi, Diario della crisi infinita (Ombre Corte, 2015), un testo denso e articolato di cui ci piacerebbe provare a restituire almeno un po’ della forza e della vita politica che lo impregna.
Dobbiamo iniziare con una domanda. Più volte durante la lettura ci siamo chiesti, infatti, quanti economisti, in quest’epoca, potrebbero pubblicare una collezione di testi scritti in anticipo sull’oggi. Quante volte, in altre parole, sarebbe possibile mettere alla prova della storia le proprie previsioni senza esserne imbarazzati. L’origine di questa domanda sta nella prima caratteristica spiazzante del testo: Marazzi è stato in grado di anticipare già anni addietro, precisamente, i nodi con cui si confronta il presente, a descrivere non un semplice diario – forse il titolo è troppo modesto – ma una sorta di dissezione, implacabile e ossessiva, di ogni particolare della crisi, nel tentativo di offrire, con precisione tanto raffinata quanto a volte dolorosa, una mappatura ad uso sovversivo di quella che egli stesso, in una bella intervista con Gigi Roggero, ha definito “la guerra diffusa della crisi”.
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Cosa sta succedendo in Cina?
di Eduardo Garzòn
La seconda economia planetaria colpita da una storica e preoccupante bolla speculativa con conseguenze difficili da pronosticare
La storica caduta della borsa cinese dovrebbe preoccupare molto di più di quanto stia avvenendo. In fondo stiamo parlando della seconda economia più grande a livello internazionale, una delle poche al mondo che in anni di crisi economica internazionale ha continuato a crescere a ritmi elevati e agendo da locomotrice per buona parte del pianeta, e che ha un potenziale di destabilizzazione per l’economia mondiale decine di volte superiore a quello della Grecia.
Tutto è iniziato alla fine dell’anno scorso. Il governo cinese, abituato a tassi di crescita economica travolgenti, non vide di buon occhio che l’economia cinese stesse rallentando nell’anno 2014 (segnò la sua crescita più bassa degli ultimi 25 anni), così ideò un piano per dare impulso alla crescita: iniezioni statali di enormi quantità di capitale alle borse con il fine di apportare alle imprese già molto indebitate nuove fonti di finanziamento. L’obiettivo era che gli indici di borsa, stagnanti dal 2009, aumentassero in forma graduale ma costante. Tuttavia quello che hanno ottenuto è stato l’inizio di un rally del mercato azionario che ha creato una delle più grandi bolle nella storia.
Ciò che sicuramente non saputo ben valutare il governo cinese è stato l’impatto che il contesto internazionale avrebbe avuto sulle sue borse. Per farla breve, alla fine del 2014 la Banca Centrale Europea (Bce) già stava tessendo la sua nuova strategia di espansione quantitativa, il Quantitative easing, consistito nell’inondare i mercati finanziari di denaro per stimolare l’economia europea.
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Diario della crisi infinita
La crisi come forma permanente di accumulazione e di comando capitalistico
Cristina Morini
Parafrasando liberamente il disinvolto e cinico Gordon Gekko del vecchio film Wall Street di Oliver Stone, “al massimo settantacinque persone in tutto il mondo” riescono a comprendere che cosa stia capitando davvero nel sistema economico globale. Nella grande con-fusione tra capitale e stato, cioè di fronte al dominio diretto del potere economico e finanziario sui processi della decisione politica e perfino sulle ragioni dell’etica, si genera un senso – puramente emotivo e intuitivo – di vertigine e di assedio. In un certo senso, la violenza strutturale dei meccanismi dell’economia contemporanea sfugge alle categorie della politica ma non a quelle del corpo-mente. Così, seguendo quella che si potrebbe definire un’ispirazione foucaultiana, il potere che ci mette in difficoltà con la crisi, la precarietà, il debito, noi lo sentiamo prima di tutto con i nostri corpi, attraverso i riverberi che si riflettono sulle nostre vite.
Il sentimento prevalente del nostro tempo è, dunque, la percezione, indistinta e soffocante, di un “divenire mondo del capitale attraverso gli strumenti della governamentalità neoliberista”, per usare un’efficace immagine di Dardot e Laval tratta dal loro ultimo libro Del comune o della rivoluzione del XXI secolo (DeriveApprodi 2015), ovvero “la sensazione che non si possa più uscire da tale cosmo”. I discorsi “morali” che, a volte, vediamo dipanarsi a partire dalla descrizione delle nuove forme dell’organizzazione economica mondiale connessa alla crisi permanente, non riescono a rappresentare una difesa utile. Da questo punto di vista, non ha grande senso il rimpianto per l’età dell’oro del fabbrichismo, dell’economia “reale”, fondata su beni materiali e tangibili e contrapposta a una presunta, imprendibile e forviante, produzione “immateriale” contemporanea, che tutto avrebbe scombinato e corrotto. Tracciare una linea netta è pressoché impossibile, dovendo, tuttavia, tenere presente l’aspetto nullificante della convenzione finanziaria che sta alla base dell’intero processo: “Il vecchio modello industriale di accumulazione era fondato sul ciclo Denaro-Merce-più Denaro. Il nuovo modello di accumulazione sembra fondato sul ciclo Denaro-Predazione-più Denaro, che implica però una conseguenza: Denaro-Impoverimento sociale-Più denaro [...]. Come attrattore e distruttore di futuro, il capitalismo finanziario cattura energie e risorse trasformandole in astrazione monetaria, cioè in nulla” (Franco Berardi, prefazione a Diario della crisi infinita di Christian Marazzi, ombre corte).
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Il paradosso capitalista in due numeri
Militant
Se i capitalisti, presi singolarmente, non agiscono in termini razionali (in riferimento al sistema produttivo generale, s’intende), il capitalismo nel suo complesso sa descriversi molto bene. La voce del padrone, a volte, riesce ad illuminare meglio delle esegesi proletarie. L’assunto apparso sul Corriere di giovedì scorso sembra confermare questo dato. In un articolo di tal Roberto Sommella, si legge questa frase, buttata là per dimostrare una cosa che in realtà ne dimostra una opposta: “Apple quest’anno può guadagnare 88 miliardi di euro occupando 92.600 persone, mentre negli Anni 60 General Motors raggiungeva i 7 miliardi di dollari di ricavi dando un salario a 600.000 dipendenti.” Sembra una banalità, invece è esattamente qui il cuore della crisi capitalista, la contraddizione principale tale per cui le crisi, nell’attuale sistema produttivo, sono cicliche e mai risolte una volta per tutte. La natura borghese della riflessione del commentatore del Corriere impedisce però di trarne la giusta conclusione (una volta si sarebbe detto: la sua falsa coscienza necessaria che crede di scovare l’inghippo invece continua a non capirlo). Secondo Sommella, infatti, criticando tale forma produttiva di “crescita senza lavoro”, afferma che ormai, nel capitalismo digitale, questo riesce a generare profitti senza creare posti di lavoro (di qui alla conseguenza implicita subordinata, cioè che i capitali riescono a rigenerarsi senza mano d’opera lavorativa, il passo è brevissimo e già compiuto nella testa dell’articolista).
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La crisi, vera e falsa contraddizione del mondo contemporaneo
di Alain Badiou
La modernità è prima di tutto una realtà negativa. Effettivamente si tratta di una rottura con la tradizione. È la fine del vecchio mondo di caste, nobiltà, obblighi di carattere religioso, riti giovanili di iniziazione, mitologia locale, sottomissione delle donne, potere assoluto del padre sui suoi figli, e divisione ufficiale tra un piccolo gruppo di governanti e una massa condannata di lavoratori. Nulla può spingere questo movimento indietro – un movimento che, evidentemente, è iniziato in Occidente con il Rinascimento, si è consolidato con l’Illuminismo del XVIII secolo e poi materializzato nelle innovazioni senza precedenti nelle tecniche di produzione e nel costante affinamento dei mezzi di misurazione, di circolazione e di comunicazione.
Forse il punto più sorprendente è che questa rottura con il mondo della tradizione, questo vero e proprio tornado che si abbatte sul l’umanità – quello che in appena tre secoli ha spazzato via forme di organizzazione che duravano da millenni – crea una crisi soggettiva le cui cause e portata sono evidenti , e uno dei cui aspetti più rilevanti è la difficoltà estrema e crescente che i giovani, in particolare, affrontano nel trovare un posto in questo nuovo mondo.
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Sull’uso capitalistico della crisi
Stefano Lucarelli
La crisi messa a valore. Scenari geopolitici e la composizione da costruire, a cura di Commoware, Effimera e Unipop, raccoglie gli interventi sviluppatisi, prima, durante e dopo, due intense giornate dello scorso novembre tenutesi presso il Centro sociale Cantiere e lo Spazio di Mutuo Soccorso a Milano. L’occupazione dei luoghi conta, guardarsi in faccia è importante, discutere senza bastare a sé stessi e senza ridurre l’altro a una “tiro a segni” è possibile; altrimenti “la ricomposizione delle lotte... animate da soggettività diverse” rimane un pensiero lontano, un’eco mentale.
Oggi La crisi messa a valore è un ebook liberamente scaricabile dal web, concepito in un tempo che precede l’attentato parigino a Charlie Hebdo e le elezioni greche (di cui però tiene conto il dialogo fra Gigi Roggero e Christian Marazzi). “L’incapacità di fare i conti con la diversità della composizione di classe, l’ansia di armonizzare che ha come contropartita la riduzione della possibilità di produrre innovazione”, sono i due fuochi attorno ai quali si sviluppano ipotesi e narrazioni di esperienze concrete, oltre che riletture anche critiche delle categorie e delle pratiche politiche messe in campo in questi tempi duri. Leggendo si cerca di riprender fiato per uscire dall’oceano di crisi nel quale si è naufragati, fra colpi di reni insufficienti a risalire, piedi che sbattono e corpi che si agitano in un’acqua melmosa in cerca delle correnti amiche.
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BoT a zero, in attesa del grande botto
di Claudio Conti
In calce articoli di Plateroti dal Sole24Ore e di Martin Wolf dal Financial Times
La notizia è da prima pagina. Ma siccome nessuno sa bene come trattarla quasi tutti spingono il tasto “ottimismo” e fanno finta di non vedere l'altra faccia della medaglia.
Partiamo dunque dalla notizia semplice semplice: ieri il ministero del Tesoro (ora accorpato a quello dell'Economia) ha collocato BoT a scadenza di sei mesi a un tasso di interesse pari a zero. In pratica, il Tesoro chiede un prestito sui mercati e tra sei mesi non pagherà nulla come “retribuzione del capitale”, limitandosi a restituire la cifra ricevuta.
L'Italia non è l'unico paese europeo a godere di questa eccezionale situazione finanziaria. Tutti i paesi del Nord Europa (Germania, Olanda, Finlandia, ecc), più paesi fuori dell'euro come Svizzera, Svezia e Danimarca, sono da qualche mese in una situazione ancora migliore perché possono addirittra restituire meno di quel che hanno ricevuto in prestito, visto che pagano interessi sia pur infinitesimamente negativi: -0,2%.
Se si spinge il tasto “evviva” il quadro è splendido: un paese in queste condizioni può rifinanziare il proprio debito gratis, o addirittura guadagnandoci, togliendo così un peso enorme dai conti pubblici (chiamato “servizio del debito”, ossia interessi).
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Crisi, quando a crescere è solo la stagnazione
di Marco Bertorello
Come un mantra il governo ripete che siamo in ripresa economica, in realtà – dati alla mano – la crescita è minima e sul tesoretto a disposizione si sta aprendo un gran dibattito mediatico e popolare su come utilizzarlo. Ma quello in corso è davvero un nuovo inizio oppure siamo ancora in fondo al tunnel, con la luce sempre lontana?
Quell'araba fenice della crescita
Non tutti si accodano al coro enfatico sul ritorno della ripresa1. Il Sole 24 Ore, ad esempio, commentando i recenti dati dell'Istat e del Centro studi di Confindustria sulla produzione (-0.2% a febbraio su base annua e +0,1% a marzo rispetto al mese precedente), scriveva che la ripresa «per l'economia italiana, assomiglia in modo preoccupante alla descrizione fatta dallo scrittore Edoardo Galeano a proposito dell'utopia: “Mi avvicino di due passi, lei si allontana di due passi. Cammino per dieci passi e l'orizzonte si sposta di dieci passi più in là»2. Insomma i risicati decimali positivi o negativi non ci dicono un bel niente se non vengono contestualizzati in una serie di lungo periodo e soprattutto se non vengono incasellati nel quadro generale dell'economia mondiale.
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La grande crisi globale e le sue prospettive
Redazione ilcuneorosso
A sei-sette anni dalla sua esplosione proviamo qui a fare il punto sulla crisi. Sulla sua genesi, la sua natura, la sua portata, il suo decorso e sui tentativi di farne il punto dipartenza di una nuova era di accumulazione e di sviluppo. Tentativi finora falliti. Ma i capitalisti globali a tutto “pensano” fuorché ad ammettere il loro fallimento. Ciò che hanno in programma, e già stanno mettendo in atto, è un’aggressione intensificata al lavoro e alla natura e nuovi devastanti conflitti per rispartirsi i mercati mondiali. Prendiamone atto per dare loro la risposta che meritano, prima che sia troppo tardi!
Spiegazioni superficiali, insufficienti, mistificanti
La grande crisi in corso ha ricevuto spiegazioni differenti e contrastanti. Tralasciamo qui quelle fornite dagli esponenti del neo-liberismo che possono ridursi a pochi chiodi fissi ribattuti in modo ossessivo: le cose non vanno perché in economia c'è ancora troppo stato e poco mercato; ci sono ancora troppi ostacoli alla concorrenza e al libero mercato; ci sono ancora troppe protezioni per il lavoro. Le affronteremo occupandoci delle politiche anti-operai e dei governi europei e italiani che ad essi continuano ad ispirarsi anche dopo l'esplosione della crisi, certi - a ragione, dal "punto di vista" capitalistico - che indichino l'unica via praticabile per uscirne.
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Il fascino discreto della crisi economica
Intervista a Richard Walker
Il ciclo di interviste a teorici eterodossi a cura degli attivisti della Campagna Noi Restiamo continua. Siamo ormai arrivati all’ottava intervista e la parola va a Richard Walker. Walker è professore emerito presso il Dipartimento di Geografia della University of Berkely (California).
La sua ricerca si concentra sulla geografia economica, lo sviluppo regionale, il capitalismo e la politica, le città e l’urbanizzazione, le risorse e l’ambiente, la California e infine su tematiche legate a classe e etnia. Il suo lavoro più conosciuto per quanto riguarda la geografia economica è il libro The Capitalist Imperative: Territory, Technology and Industrial Growth (Blackwell, 1989), scritto con Micheal Storper. Fa parte del Board of Directors del progetto “Living New Deal”, che punta a raccogliere e mostrare i risultati raggiunti dal piano di riforme economiche e sociali promosso da Franklin Roosevelt.
Noi Restiamo: L’emergere della crisi ha confermato la visione di alcuni economisti eterodossi secondo la quale il capitalismo tende strutturalmente ad entrare in crisi. Tuttavia, le visioni sulle cause del disastro attuale divergono.
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La secular stagnation e il fallimento delle politiche di austerity
di Vladimiro Giacchè
In un suo recente contributo sulla stagnazione secolare nell’eurozona, Paul De Grauwe, dopo aver osservato che “dalla Crisi Globale del 2007/8 gran parte dei paesi sviluppati non sono stati in grado di tornare ai livelli di crescita pre-crisi”, ha rilevato però come “da nessuna parte nel mondo sviluppato l’ipotesi della ‘stagnazione secolare’ sia meglio confermata che nell’eurozona”. Lo stesso (ri)scopritore del concetto di “secular stagnation”, Laurence Summers, ha in effetti ricordato che nella zona dell’euro «il pil reale è circa del 15 per cento inferiore a quello stimato nel 2008», e anche il prodotto potenziale «è stato rivisto al ribasso di quasi il 10 per cento». Ma torniamo a De Grauwe: lo studioso belga osserva che, se già prima della crisi il pil reale dell’eurozona evidenziava dinamiche di crescita inferiori a quelle degli Stati Uniti e degli stessi paesi dell’Unione Europea che non fanno parte dell’area monetaria, dalla crisi del 2008 in poi questa divergenza si è accresciuta ulteriormente (v. grafico 1).
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Non servono "moniti" se manca una bussola
L'euro: un destino segnato?
Giovanni Mazzetti
Prosegue il dibattito sul “destino dell’euro”. Il “monito degli economisti” è inadeguato perché nega il bisogno di un radicale cambiamento della struttura delle relazioni sociali. Non è possibile una riedizione del Welfare. Perché abbiamo bisogno di una bussola per affrontare la crisi.
Poco più di un anno fa un folto gruppo di economisti di diversi paesi ha lanciato un “monito”, pubblicato sul Financial Times del 23 settembre 2013, che ora viene riproposto da Emiliano Brancaccio sull’ultimo numero di Critica marxista1.
Il succo dell’appello era ben riassunto dalle conclusioni:
Occorre essere consapevoli che proseguendo con le politiche di “austerità” e affidando il riequilibrio alle cosiddette “riforme strutturali” il destino dell’euro sarà segnato: l’esperienza della moneta unica si esaurirà, con ripercussioni sulla tenuta del mercato unico europeo. In assenza di condizioni per una riforma del sistema finanziario e della politica monetaria e fiscale che dia vita a un piano di rilancio degli investimenti pubblici e privati, contrasti le sperequazioni tra i redditi e tra i territori e risollevi l’occupazione nelle periferie dell’Unione, ai decisori politici non resterà altro che una scelta cruciale tra modalità alternative di uscita dall’euro.
Ma che cosa succede se la caduta degli investimenti pubblici e privati, l’accentuato squilibrio tra i redditi, l’esplodere della disoccupazione di massa e perfino l’eventuale futura fuga dell’euro, sono sintomi della crisi, non le sue cause? Succede – com’è successo – che il monito lascia il tempo che trova, e cioè non sortisce gli effetti sperati. Né basta insistere sulla sua attualità, come fanno ora Brancaccio e Zezza sul citato numero di questa rivista, per ottenere qualcosa di diverso.
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La fine della crescita senza fine
di Nafeez Ahmed
Qualche tempo fa abbiamo discusso del bel libro di Mauro Bonaiuti. Vi proponiamo oggi un intervento sui temi del libro, segnalatoci dallo stesso Bonaiuti che ha curato la traduzione. L'intervento è diviso in due parti, che pubblichiamo fra oggi e domani. Qui trovate l'originale. (M.B)
Parte I
È arrivato il nuovo anno, e la crisi economica globale è ancora grave. Ma mentre gli esperti si scontrano sul fatto che il 2015 sia l'anno della ripresa o piuttosto quello di una nuova recessione, nuove ricerche suggeriscono che tutti costoro potrebbero star non vedendo lo scenario nella sua interezza: il perdurare della crisi economica globale potrebbe essere, cioè, il sintomo di una crisi più profonda del rapporto tra la nostra civiltà industriale e la natura.
Lungi dal catastrofismo, alcuni economisti vedono l'attuale fase di stagnazione e austerità come parte di una fondamentale fase di transizione verso una nuova forma di società nella quale potremmo adattarci ai limiti imposti dalla natura e prosperare o, nel negarli, collassare lasciando alla natura ritrovare un suo equilibrio. Così il 2015 annuncia l'alba di una nuova era di prosperità, o il crollo dell'economia globale?
Mentre ci si avvicinava al nuovo anno, alcuni esperti hanno affermato con ottimismo che la più parte dei segnali indica che l'economia sia di nuovo sui giusti binari, mentre altri hanno descritto sorti più tristemente incerte. Di sicuro, con insolita umiltà, molti economisti mainstream hanno ammesso di non avere idea di cosa ci potesse serbare l'anno in arrivo.
Justin Wolfers del New York Times ha semplicemente consigliato di: "prepararsi al peggio, sperare per il meglio, e prepararsi ad essere sorpresi."
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Crisi e Capitalismo
Austerity Vs Anti-Austerity: un falso problema?1
Francesco Macheda*
Con l’esplosione e la diffusione della crisi economico-finanziaria, le medicine proposte sono essenzialmente due. Da un lato, i sostenitori dell'austerità, le cui convinzioni seguono i precetti della teoria economica neoclassica. Sul campo opposto, i sostenitori dell’intervento pubblico allo scopo di sostenere produzione ed occupazione. In questo caso, la teoria economica di riferimento è quella keynesiana. Tuttavia, esiste anche una terza ipotesi, riconducibile alla critica dell’economia politica di Marx. L’obiettivo di questo articolo è comparare i fondamenti delle tre teorie, tentando di sottolineare le rispettive implicazioni politiche.
1. Teoria neoclassica
Nella teoria neoclassica, la produzione è un rapporto puramente tecnico tra fattori – lavoro e capitale – allo scopo di produrre merci. Le forme sociali che si sono succedute, come feudalesimo e capitalismo, sono distinte in base al modo in cui tali fattori si combinano. Il capitale è dunque indipendente dal contesto storico-sociale, e la peculiarità del capitalismo starebbe nell’utilizzo del mercato per portare a termine questa combinazione, in un contesto di proprietà privata dei mezzi di produzione. Ne seguono tre conclusioni.
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