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Democrazia, oligarchia e capitalismo*

Andrea Bulgarelli intervista Costanzo Preve

Nell'intervista apparsa sul primo numero della nostra rivista Tu affermi: “La dicotomia non è dunque oggi (parlo di oggi, non del 1930) Democrazia/Dittatura, ma Democrazia/Oligarchia”. Si tratta di una presa di posizione radicale, che può suggerire almeno due conclusioni importanti. La prima è che la categoria di Dittatura come nemico principale viene tenuta in “animazione sospesa”, fungendo da paravento per interessi evidentemente inconfessabili. Al proposito, è bene ricordare la profonda ambiguità di tale categoria, che oggi viene utilizzata come sinonimo dei cosiddetti totalitarismi novecenteschi e dei loro presunti eredi (i social-populismi di Chavez e Ahmadinejad, la giunta militare birmana, ecc), ma che in passato è stata utilizzata da correnti democratiche, non necessariamente di ispirazione marxista. I giacobini francesi (Marat) e i repubblicani italiani (Mazzini) teorizzarono apertamente la dittatura, intesa come “Stato di eccezione” transitorio, indispensabile durante le prime fasi di una rivoluzione democratica, quando essa è ancora minacciata da nemici interni ed esterni. La seconda è che la grande narrazione dell'ultimo secolo come teatro della progressiva e addirittura definitiva (la famosa “fine della storia” di Fukuyama) affermazione del modello democratico, o meglio liberal-democratico, deve essere rigettata o perlomeno fortemente ridimensionata. Se il nemico principale non è nel Myanmar e in Iran ma “a casa nostra”, se i regimi che ci governano sono in realtà feroci oligarchie capitaliste, allora il novecento non è stato il secolo del trionfo della Democrazia attraverso tre fasi strettamente concatenate: il felice matrimonio con il liberalismo (una dottrina in realtà anti-democratica fin dalla sua origine, seppur apprezzabile per altri aspetti) la sconfitta prima del nazifascismo e infine del comunismo sovietico. Le cose stanno veramente così? La categoria metastorica di Dittatura e la grande narrazione liberal-democratica in tre fasi sono aspetti complementari del medesimo sistema di legittimazione oligarchica?

Per semplicità svilupperei la mia risposta in due parti.

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Godimento o desiderio?

di Rino Genovese

I

Marx e i teorici socialisti ottocenteschi stavano decisamente dalla parte del godimento: e ciò sia per una circostanza storica relativamente banale – l’eredità, nel loro pensiero, del materialismo edonistico settecentesco – sia per una ragione sostanziale: il godimento è ciò che il borghese non può raggiungere, perché, preso da un vertiginoso processo di accumulazione, isolato nella sua smania di possesso, non riesce a fermarsi per cogliere insieme con gli altri l’attimo fuggente. Certo, era questa l’immagine di un borghese delle origini, di cui poi Max Weber scriverà l’apologia, votato interamente alla gloria quasi religiosa dello spirito capitalistico. Ma è contro di essa che il socialismo si è formato, volendo dire liberazione degli individui dalla “schiavitù salariata”, mutamento dei rapporti di produzione, godimento del consumo nella ripartizione egalitaria delle risorse.

Da allora molt’acqua è passata sotto i ponti. Il capitalismo contemporaneo, come si sa, è stato capace di accendere il desiderio dei diseredati, facendosi cultura più o meno generalizzata. Oggi (ancora oggi, nonostante la crisi) i numerosi migranti che, con grandi sacrifici, raggiungono i nostri lidi sono attratti dalla promessa di un consumo che li sollevi da una vita di stenti. Quando uno di noi, abitanti del mondo per definizione benestante, si gode una spremuta d’arancia, in un certo senso sta parassitando il desiderio di quella manodopera a basso costo, immigrata, che quelle arance le ha còlte.

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Foucault per tutti. Lezioni di critica al neoliberismo

di Marco Assennato

A metà degli anni ’70 Franco Fortini dedicò qualche pagina pungente all’impresa teorica del giovane Cacciari – si tratta più o meno dell’epoca di Krisis – impegnato allora a sdoganare Nietzsche e Wittgenstein dalla reazione idealistica e però, allo stesso tempo, deciso a ripiegare la potenza ermeneutica del pensiero della crisi sugli algidi orizzonti dell’analitica weberiana. Seppure timido rispetto a questi autori, Fortini ben colse già allora, il tentativo di apparecchiare un Nietzsche per tutti, buono per consolare i sacerdoti della pianificazione capitalista e carezzare i desideri sovversivi dei giovani filosofi. L’approccio di Cacciari fu allora descritto come un saggio immancabile di chi vuole ad un tempo dirsi belva e compagno: internazionalista e rivoluzionario certo, ma solo come sanno esserlo gli agenti delle multinazionali della finanza. È curioso notare come si ripresenti ad ogni tornante critico questa posa ambigua: antiaccademica ma d’ordine, coraggiosa nell’immaginare il futuro ma solo in quanto coincide col presente, tecnocratica ma certo infinitamente più sottile e forte di ogni nostalgia gauchiste, d’ogni amore per tutto ciò che é Stato.

Era certo, quello lì, un altro mondo. Eppure quella tattica teorica vale ancora: si prenda un autore, o un quadro teorico, potenzialmente produttivo, foss’anche e soltanto sul piano metodologico; se ne accentuino i caratteri critici, fino a darne una lettura sovversiva; e poi però la si ripieghi indietro – come la testa del ben conosciuto angelo di Klee – così che possa, allora mettiamo Nietzsche e oggi poniamo un Foucault o un Deleuze, esser masticato con gusto dai palati più raffinati dei tecnocrati e dei governi.

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Lo stato d’eccezione proclamato dal basso

Marco Scotini intervista Paolo Virno

Vorrei ripartire dal tuo testo Virtuosismo e Rivoluzione apparso nel lontano ‘93 sulla rivista «Luogo Comune» per affrontare quello strano soggetto politico che definiamo disobbedienza. Facendo seguito alla riflessione sulla «disobbedienza civile» di stampo liberale, e molto lontano da questa, proponevi allora un’idea di disobbedienza sociale (o di disobbedienza radicale) che sarebbe diventata una delle parole-chiave per identificare l’azione del movimento globale. Dopo quel tuo intervento (confluito poi nella Grammatica della moltitudine) altri contributi teorici rilevanti non mi sembra ci siano stati.

Per me il problema era quello di pensare a una forma di disobbedienza radicale, tale cioè da andare al nocciolo stesso della forma moderna di Stato. Non si trattava e non si tratta di disobbedire a una legge reputata ingiusta in nome di un’altra legge, di una legge più basilare o di una legge anteriore e più autorevole, come per esempio il dettato costituzionale. Questo naturalmente è possibile ma non è il nostro problema. Il nostro problema è corrodere quello stesso obbligo di obbedienza, ancora vuoto di contenuti, che precede le singole leggi e che sta alla base dell’istituzione dello Stato moderno. Come a dire: lo Stato si forma su un obbligo preventivo a obbedire alle leggi che verranno, quali che esse siano.

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L’animale dialettico

La critica del domino nella Scuola di Francoforte

di Marco Maurizi

fittke fanciulla con bimbo1. Perché la Scuola di Francoforte?

L’interesse per la Scuola di Francoforte oggi, a dispetto di necrologi frettolosi e compiaciuti, va ridestandosi. Siamo ancora ben lontani dalla pubblicità e dalla circolazione – per altro parziali e ambigue[1] – che i temi del pensiero francofortese ha conosciuto negli anni ’60 e ’70 ma si può dire che la rimozione ideologica che il postmodernismo aveva provocato negli anni ’80 ha subito qualche scossone. Anche in ambito animalista si registra una qualche sensibilità alle figure dei francofortesi e in particolare di Theodor W. Adorno – seppure ancora in forma strumentale e ideologica.[2] Con questo intervento vorrei specificare perché e in che senso si debba guardare oggi al pensiero di Adorno, Horkheimer e Marcuse come l’indispensabile fonte di ispirazione teorica per ripensare il rapporto uomo-natura o, per essere più precisi, il rapporto che l’uomo ha con l’animale e, di conseguenza, anche con se stesso.

In particolare, mi sembra di straordinario interesse il fatto che la “teoria critica” della Scuola di Francoforte ci permetta di aggirare l’annoso problema del riduzionismo,che affligge pressoché tutta la letteratura scientifica ed etica che tratta la questione del rapporto uomo-animale. In poche parole, si tratta di sottrarsi alla duplice cieca alternativa tra il porre una differenza assoluta che separerebbe l’uomo dal regno animale oppure il predicare un’identità assoluta tra l’animale umano e quello non-umano.

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consecutio temporum

Una libertà post-liberale e post-comunista

Riflessioni sull’etica del riconoscimento

Roberto Finelli

1. Le due libertà.

La ricerca della più recente filosofia pratica tedesca, in particolare grazie ai lavori di Axel Honneth, è sbocciata nel risultato di ridefinire alcune categorie fondamentali della teoria sociale e politica.

L’acquisizione teorica più originale e significativa appare concernere l’allargamento del concetto di libertà, definibile ora, non solo come assenza o riduzione dei limiti che il mondo esterno pone all’attività di un soggetto, ma anche – e nel verso di una pari importanza -  come riduzione dei limiti che il mondo emozionale interno pone allo stesso soggetto. “Libertà” è infatti concepibile oggi,  dopo un secolo di psicoanalisi, e secondo quanto teorizza Honneth rifacendosi all’opera dello psicoanalitista inglese Winnicot, anche come la capacità di star soli, di avere cioè un rapporto di confronto e di interazione con la propria emotività, che non sia caratterizzato da terrori, rimozioni e difese, che costringano il soggetto in questione in ripetizioni rituali e patologiche, sottraendolo alla sperimentazione del mondo e a un possibile godimento della vita.

Tale complicazione interiore del concetto di libertà mette immediatamente in gioco per altro il concetto di riconoscimento, nel senso che non è possibile che un soggetto riconosca se stesso, il proprio mondo di bisogni, affetti ed emozioni, senza che in tale discesa verticale sia accompagnato da un riconoscimento orizzontale: dall’appoggio, cioè, dalla stima e dal sostegno di altri, che lo confermino e lo rassicurino in questo processo di individuazione.

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Tempo fuori sesto

Guy Debord contro la Modernità

di Raffaele Alberto Ventura

PRIMO TEMPO

Nell’eredità del situazionismo c’è qualcosa di paradossale. Da una parte, i concetti elaborati tra il 1952 e il 1968 in seno all’Internazionale Lettrista e poi Situazionista sono pervenuti a una posizione egemonica, costituendosi come sovrastruttura ideologica del sistema del consumismo culturale: parte integrante del cosiddetto «nuovo spirito del capitalismo». Ma d’altra parte proprio nel Sessantotto, e proprio con La Società dello Spettacolo, Guy Debord dava corpo a una riflessione tragica sulla Modernità che oggi nutre varie forme di pensiero più o meno reazionario — dalla Nouvelle Droite di Alain de Benoist a certe frange dell’anarco-primitivismo. Per semplicità, diremmo che vi sono due modi di «recuperare» il situazionismo, l’integrato e l’apocalittico. Si potrebbe allora credere che le contraddizioni del post-situazionismo rispecchino le contraddizioni del situazionismo, e magari le trasformazioni del pensiero di Guy Debord. In verità, come mostreremo, non c’è alcuna contraddizione, e ben poche trasformazioni. Apocalittico e integrato sono le due facce di una medesima medaglia.

Ma queste due facce vanno innanzitutto descritte. Da una parte, dunque, il situazionismo incarnò la dimensione libertaria, borghese, studentesca e artistica del Sessantotto, che nella storiografia popolare ha oramai del tutto oscurato la dimensione operaia e sindacale. «Il più grande sciopero generale di Francia», con la sua epica da vecchio romanzo di Emile Zola, non regge il confronto con The Dreamers. Vuoi mettere Etienne Lantier con Eva Green? Così il Sessantotto può oggi essere riassunto nello slogan coniato dai situazionisti di Strasburgo, che poi andrebbe benissimo anche per riassumere la società capitalista: «Vivere senza tempi morti e godere senza limiti». I baby boomers avevano stabilito che la nicciana «morale dei padroni» non andava sconfitta, bensì adottata. L’idea era semplice ma geniale: se gli schiavi avessero preso a desiderare quello che desiderano i padroni, si sarebbero ribellati per ottenerlo. Si trattava insomma di mettere il carro davanti ai buoi, credendo o fingendo di credere che i buoi avrebbero seguito.

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Contro gli spettri dell’Uno

Per un politeismo politico

Augusto Illuminati

Come può saltare in mente di occuparsi di teologia o di teologia politica, con questi chiari di luna? Ebbene, proprio con la crisi e l’avvento dei governi tecnici, con connessi sproloqui su trascendenza e necessità del fenomeno, ferree leggi dell’economia, occulta personalizzazione di mercati e spread, misteriosissima consistenza e tossicità di prodotti finanziari e derivati di ogni sorta, cosa c’è di più teologico, nel senso speculativo e in quello più basso di seduta spiritica ed esorcismi taglia-deficit? In cosa si distinguono i moderni economisti da astrologi, angelologi e demonologi professionali o dilettanti, maghi e stregoni? Se non che costoro, a volte, ci azzeccavano e i maestri del pensiero teologico argomentavano con rigore da premesse solo probabili, sfornando avvincenti prestazioni logiche. Lo stesso non si può dire di economisti e manager sul piano esplicativo e, peggio ancora, previsionale. Le streghe conoscevano empiricamente un bel po’ di rimedi curativi a paragone dei promotori finanziari del terzo millennio e degli esperti di spending review. Di politici e giornalisti specializzati è più bello tacere.

 Eppure, mai come in questa decadenza di teologia e teurgia è stata viva la tentazione di ricavare da quelle categorie divine indicazioni umane, di mettere in vigore le fantasie metafisiche in articoli di legge e massime costituzionali, conferendo una sanzione soprannaturale alle più arruffate pratiche di uso pretestuoso della crisi e di governo dello sfruttamento biopolitico e moltitudinario.

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Il triste dominio dell'«uomo accademico»

Pierre Macherey

Un progetto di ricerca centrato sulla critica al riflesso elitario e autocelebrativo della filosofia

Nel 1997, in un momento in cui molto probabilmente ha avuto delle ragioni particolari per sentirsi mortale, Bourdieu pubblica Meditazioni pascaliane, libro-bilancio di tutta una vita da «antropologo sociologo», per riprendere la definizione che egli stesso si dà nella quarta di copertina dell'edizione francese del testo. Questa copertina nera che contrasta con i colori piuttosto pimpanti con cui sono state pubblicate altre opere nella stessa collana «Liber» dell'editore Seuil, fa pensare all'oscuro lavoro di un lutto, o di un addio modulato attraverso pagine scandite da toni aggressivi o pacati, che seguono i risultati di una ricerca contrastata, allo stesso tempo sovrana e tormentata: è un modo di procedere alla Bourdieu, il cui riferirsi a Pascal sembra perfettamente appropriato visto che si serve di un fondo di pessimismo e di angoscia.


Un progetto antiaristocratico

In questo libro strano, sotto molti punti di vista fuori dalle regole, monumentale e accidentato, ripetitivo e creativo che, a seconda dei momenti, suscita l'esasperazione e costringe al convincimento, Bourdieu, come sua abitudine, sembrerebbe prendersela con il mondo intero, in realtà porta avanti innanzitutto un dialogo con se stesso: si rivolge a quella che lui chiama la buona coscienza del «filosofo-normalista», l'homonculus academicus che è stato all'origine e si assicura, ancora una volta, di averlo effettivamente svalutato e di essersene sbarazzato diventando il fondatore di una scienza sociale che, pur conservando tutte le risorse del pensiero concettuale, avrebbe respinto i pensatori e i vincoli della «ragione scolastica», presa come capro espiatorio di tutto il libro.

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Si può dare una classe eletta?*

di Mario Tronti

Qualunque discorso sui popoli eletti non può che partire dalle Scritture. Storia sacra, per leggere, in metafora, i nostri tempi, ahimé, secolarizzati. Tra i riferimenti testuali, c’è solo da scegliere. Scelgo Ezechiele. Dio parla al sacerdote e profeta: << Anch’io prenderò dal ramoscello del cedro solamente la sua cima, soltanto una punta ne staccherò e la pianterò su un monte alto e boscoso. La voglio piantare sull’alto monte d’Israele e stenderà rami e darà frutti e diverrà un cedro lussureggiante. Sotto di lui abiteranno tutti gli uccelli e riposerà all’ombra delle sue foglie ogni volatile. Tutti gli alberi della campagna riconosceranno che io, il Signore, ho abbassato l’albero alto e innalzato quello basso, ho fatto seccare il legno verde e germogliare quello secco >> ( Ez 17, 22-24 ).

Nell’arco di cinque-sei secoli - l’indeterminatezza temporale è segno appunto dei tempi - la sostanza del discorso raggiunge il sacerdote e missionario. Paolo vanta le rivelazioni del Signore che gli ha fatto vedere “l’uomo in Cristo”, rapito, non importa se col corpo o senza corpo, fino al terzo cielo. Ma non si vanta di essere stato, lui, prescelto, per queste visioni. In realtà, Dio lo aveva preso come la cima del ramoscello dell’albero di cedro, per piantarlo sui monti alti e boscosi delle terre dell’Impero, in modo che crescesse come pianta lussureggiante. << E perché non insuperbissi per la grandezza delle rivelazioni, mi è stata messo un pungiglione nella carne, un emissario di Satana che mi schiaffeggi, perché non insuperbisca. Tre volte ho pregato il Signore che lo allontanasse da me.

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consecutio temporum

Tipologie della negazione in Hegel

Variazioni e sovrapposizioni di senso

di Roberto Finelli

Il concetto di «negazione» nell’opera di Hegel appare centrale ma anche polisemico, composto di vari significati e di varie utilizzazioni.  Secondo quanto afferma Hegel stesso in un passo sulla religione egizia delle Vorlesungen über die Philosophie der Religion, «il negativo [das Negative], questa astratta espressione, ha molte determinazioni»[1]. Ne consegue che provarsi a comprendere la filosofia di Hegel significa saper chiarire la diversità delle varie determinazioni del concetto e delle funzioni della negazione: così come saperle distinguere e sciogliere tra loro, soprattutto quando si dia il caso di un loro intreccio talora indebito e sovrapposto.

In queste pagine cercherò di presentare tre diversi luoghi della filosofia hegeliana – appartenenti  rispettivamente al manoscritto giovanile di Der Geist des Christentums und sein Schiksal, alla Logik di Jena, alla Wissenschaft der Logik – per esemplificare usi e significati distinti della negazione in Hegel, senza rinunciare nello stesso tempo a svolgere qualche considerazione sulla Entwicklungsgeschichte del pensiero di Hegel, visto appunto alla luce delle trasformazioni e delle complicazioni di senso del significato del «negativo».

 

1.1.  La negazione come destino

La prima figura della negazione in Hegel, che qui prendo in considerazione, è di carattere metaforico, nel senso che non viene tematizzata come un qualche atto di un negare logico-apofantico – nella forma cioè di un giudizio negativo -, bensì sotto la forma, del tutto peculiare e originale, di un rapporto tra di opposti stretto ed unificato dal nesso del destino.

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La prevalenza dell’etica

di Roberto Esposito

C´è una tendenza in atto a moralizzare la filosofia. Non nel senso di rendere buoni i filosofi – ‘vaste programme´, avrebbe detto qualcuno. Ma nel senso di porre i valori morali al centro della ricerca filosofica, al punto da fare dell´etica non più un suo territorio, ma la questione stessa del pensiero. E´ questo il presupposto implicito, e anche la tonalità diffusa, che sembra accomunare una serie di libri recenti come La questione morale di Roberta de Monticelli (Cortina 2010), Filosofia morale di Luigi Alici (La Scuola 2011), Il coraggio dell´etica. Per una nuova immaginazione morale di Laura Boella (Cortina, 2012). Se si aggiunge che dopo una fortunata collana filosofica del Mulino, su ciascuno dei dieci comandamenti, ne è nata un´altra, da Cortina, sulle virtù, i cui primi titoli sono Sincerità (di Andrea Tagliapietra), Rispetto (di Roberto Mordacci) e Coraggio (di Diego Fusaro), il quadro si completa. Dopo una fase in cui il compito del pensiero è apparso quello di decostruire i valori consolidati, ponendo un interrogativo critico sulla loro vigenza, oggi la filosofia torna a riproporli in prima persona, parlando direttamente il linguaggio della morale.

I motivi di tale svolta sono evidenti. Nel momento in cui non solo l´etica pubblica sembra affondare sotto il peso di una corruzione ormai insostenibile, ma anche la politica diventa un collettore di interessi privati, la filosofia è portata ad assumere un ruolo di supplenza nei loro confronti. Questo spiega lo straordinario successo della filosofia in piazza, anch´esso in contrasto con la crescente disaffezione politica. Contro l´illegalità dilagante, e la vera e propria barbarie che esplode improvvisa a devastare il senso stesso della vita umana, L´elogio del moralismo – è il titolo del vibrante pamphlet di Stefano Rodotà (Laterza 2011) – diventa più che un segno di rivolta.

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Cittadini della catastrofe

Gianluca Bonaiuti

Nota su: Alessandro Simoncini (a cura di), Una rivoluzione dall’alto. A partire dalla crisi globale, Mimesis, Milano 2012

L’ultima chance per un futuro


«Non c’è mai stata un’epoca che non si sia sentita, nel senso eccentrico del termine, ‘moderna’ e non abbia creduto di essere immediatamente davanti ad un abisso. La lucida coscienza disperata di stare nel mezzo di una crisi decisiva è qualcosa di cronico nell’umanità». Così Benjamin, in un frangente decisivo della storia del XX secolo. A distanza di quasi un secolo dalla stesura di questa annotazione, verrebbe quasi da dire che non se ne può più di sentir parlare di crisi. Non solo nel senso che non se ne può più delle conseguenze che ad essa si addebitano in termini di effetti politici e sociali, ma perfino del fatto che in fondo, a ben vedere, sembra quasi che quello di «crisi» sia più un concetto di copertura, o di rimozione, che non un concetto di svelamento, grazie al quale, cioè, sia possibile rendere visibile qualcosa che prima non si vedeva. Sennonché, è subito evidente che la forma culturale della crisi è uno stimolo evidente all’intelligenza politica. Mai, come nei periodi di crisi, si assiste a una proliferazione di discorsi, di prese di posizione, di diagnosi e di prognosi che riguardano l’intero assetto della nostra vita in comune. Non si contano più gli interventi che hanno preso di petto la crisi, l’hanno spiegata, ne hanno discusso le premesse e le conseguenze a venire. Basterebbe forse questo argomento a legittimarne la cittadinanza nel campo della comunicazione: la crisi è uno dei principali content provider dell’intelligenza critica e, come tale, un serbatoio apparentemente inesauribile di prese di parola che impediscono la rassegnazione. Se non disponessimo di un concetto altrettanto fungibile e sfrangiato, gli stessi eventi e processi andrebbero descritti come una normale dinamica di adattamento. E, invece, conviene interpretare gli stessi eventi, gli stessi processi, le stesse decisioni come causa ed effetto della crisi, perché, come rivela uno storico tedesco tra i massimi esperti nella stratificazione storica dei suoi significati, Reinhardt Koselleck, nella crisi (la prima traduzione italiana della fondamentale voce Krise dei Geschichte Grundbegriffe è da poco uscita in libreria), si apre una chance per discutere del futuro, quasi ch’essa costituisca un’ultima riserva per proiettare in avanti speranze altrimenti condannate alla delusione preventiva, dunque alla paralisi.

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Sul confine fra forza e violenza

Ida Dominijanni

La voce della filosofa, della militante, dell'intellettuale in lotta contro il conformismo imperante. Lo spettro ritornante degli anni di piombo, un passato scongiurato per essere evocato e viceversa

Capita a volte che il momento più giusto, per un gesto politico, coincida con quello più scomodo. Capita, in particolare, quando il gesto politico in questione prende di mira il conformismo imperante, attaccandolo in un punto sensibile. Capita, nella fattispecie, all'ultimo saggio di Luisa Muraro, un «gransasso» Nottetempo intitolato Dio è violent, che piomba per l'appunto come un sasso nelle acque stagnanti del dibattito politico, attaccandone il conformismo nel punto sensibile, irritato e irritante, della violenza (e della nonviolenza).

Mossa imprevista, da parte di una pensatrice femminista: non ci ha abituate, l'ordine del discorso dominante - e anche l'ordine dominante del discorso femminista - a mettere gli uomini dalla parte della violenza, e le donne, che della violenza maschile sono l'oggetto prediletto, dalla parte della nonviolenza? Non è un fatto assodato che l'ordinamento democratico escluda la violenza e sia anzi teso a neutralizzarla ogni volta che compare, e che a questo comandamento democratico si sia infine piegata,«senza se e senza ma», anche tutta la sinistra erede di una tradizione novecentesca che dalla violenza non era stata esente? C'è qualcosa da scompaginare, e che cosa, in questo quadro assodato e tranquillizzante?

Qualcosa c'è, e in verità si è scompaginato da solo: l'ordine del discorso non dice più la realtà delle cose. Nella realtà delle cose, gli ordinamenti democratici vanno a braccetto con guerre illegali violentissime ma definite «giuste» e «umanitarie», con un uso sempre più cinicamente violento di alcuni poteri (per primo quello economico-finanziario), con una governamentalità biopolitica che con una violenza sempre più subdola fa presa sui corpi e sulle anime dei governati, con un'esplosione di micro e macroviolenza quotidiana insensata ed efferata contro gli altri (dal cosiddetto femminicidio alle bombe di Brindisi) e contro se stessi (i suicidi da disperazione economica).

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La violenza della libertà

Žižek e l’ideologia liberista

di Fabio Milazzo

La fine della “storia”

Ancora oggi, a quasi vent’anni dalla prima edizione del libro, è prassi socialmente condivisa in molti ambienti “radical chic” quella di farsi beffe di Fukuyama e del suo “la fine della storia e l’ultimo uomo”, il celebre saggio entro il quale il politologo, constatata l’implosione dei regimi comunisti, annunciava il dispiegamento transnazionale del liberalismo con il suo ordine socio-economico ottimale.

La tesi di Fukuyama, ridicolizzata e sbeffeggiata come poche, è invece attualissima e riesce a descrivere la contemporaneità post-secolo breve con una lucidità e una chiaroveggenza inusuali. In effetti la storia, intesa come movimento di rottura teso verso un divenire dell’essere mai pienamente pre-ordinabile, con l’avvenuta dislocazione del paradiso del libero mercato ha smesso di “funzionare”. Il liberalismo ha pienamente congelato le condizioni di possibilità che articolano il “mondo”[1].

Il capitalismo liberal-democratico è accettato come la formula definitiva della migliore società possibile, e tutto quello che si può fare è provare a renderla giusta, tollerante…”[2]. Il capitalismo ha ormai dislocato la propria ragion d’essere riuscendo ad imporre le proprie “logiche del mondo”. Abitiamo il “migliore dei mondi possibili”: di questo, pur tra tante lamentele, siamo tutti convinti ed è per tale ragione che il cambiamento tanto invocato, le trasformazioni rivoluzionarie tanto pretese e auspicate, in realtà, non sono altro che aggiustamenti volti a rendere “meno dannosa” la società matura e anti-utopica che ci troviamo ad abitare. Proprio quest’ultimo carattere, quella di messa al bando delle utopie[3], sembra caratterizzare una realtà che si è ormai lasciata alle spalle gli infantilismi ideologici e i conseguenti conflitti che ne derivavano.