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I cinque problemi strategici di Israele

di Enrico Tomaselli

Arab Israeli Conflict KeyStoricamente, Israele ha sempre avuto una leadership pienamente consapevole dell’importanza delle sue forze armate, intese non come ipotetico baluardo difensivo del paese, ma come strumento attivo e costante della politica statuale. A loro volta, le forze armate israeliane hanno spesso fornito importanti leader alla politica, e tutto questo ha fatto sì che la guida politica e militare dello stato ebraico è sempre stata caratterizzata da una piena integrazione dei due aspetti. Questo equilibrio è però cominciato a venire meno quando, all’interno della società israeliana, si è andato affermando un radicalismo di destra, con forti accenti messianici, che ha trovato in Netanyahu la figura di riferimento. Per il leader del Likud, infatti, l’esercito è a tutti gli effetti uno strumento del potere politico, che ne dispone a suo piacimento; e benché il personaggio sia indiscutibilmente un pragmatico – diciamo pure uno spregiudicato – è anche assai poco disponibile ad ascoltare chi non è d’accordo con lui.

Nel corso della sua ormai ventennale carriera politica, Netanyahu ha via via esercitato un controllo sempre più stretto sull’apparato statale (proprio al fine di consolidare e difendere il suo potere personale), in primis sulle forze armate e sui servizi di sicurezza. Trovandosi spesso in disaccordo con entrambe, ma imponendo sempre il proprio volere. Questa divaricazione, che in qualche misura si è riflessa sulla società, ha sicuramente aperto una crepa nella stessa capacità operativa di Israele.

Ciò risulta macroscopicamente evidente a partire dallo spartiacque del 7 ottobre 2023.

Senza entrare qui nel merito dell’operazione Al Aqsa Flood, e delle varie interpretazioni che ne sono state fatte (e sulle quali ho più volte scritto), appare evidente che a partire da quel momento Israele si è impegnato in una serie di conflitti – praticamente ininterrotti – che hanno visto il culmine con l’attacco all’Iran del 13 giugno scorso.

Questi conflitti – Gaza, Cisgiordania, Libano, Yemen, Siria, Iran – hanno opposto l’IDF essenzialmente a formazioni di guerriglia (Resistenza palestinese, Hezbollah), con le quali ha ingaggiato un confronto a contatto, mentre con le realtà statuali (Siria, Yemen, Iran) il confronto è sempre rimasto a distanza.

Questo ha consentito alle forze israeliane di esercitare la propria superiorità militare sulle seconde, attraverso l’aviazione, e sulle prime attraverso questa e le sue forze di terra.

Ma questa superiorità si è dimostrata chiaramente insufficiente a risolvere i conflitti.

Per quanto riguarda lo scontro con Hezbollah, anche se sicuramente l’organizzazione sciita ha subito duri colpi (a partire dalla perdita di un leader eccezionale come Nasrallah), è indiscutibile che l’esercito di Tel Aviv non è riuscito a penetrare in territorio libanese se non limitatamente, molto meno di quanto non fosse riuscito durante la guerra del 2006 – che viene considerata pressoché univocamente come vinta da Hezbollah.

E ciò nonostante, appunto, i colpi ben più duri subiti dal movimento libanese. Del resto, se davvero l’IDF avesse avuto la possibilità di invadere il Libano meridionale e di ricacciare Hezbollah oltre il fiume Litani, non si vede perché non l’avrebbe fatto. Al contrario – ed esattamente come nel 2006 – a un certo punto lo sforzo richiesto alle forze israeliane (contemporaneamente impegnate a Gaza e in Cisgiordania) ha superato la soglia di tenuta, e Tel Aviv ha dovuto richiedere l’intervento diplomatico statunitense per ottenere un cessate il fuoco.

Per quanto riguarda la Cisgiordania, che rappresenta il cuoro degli appetiti espansionistici di Israele, nonostante qui le formazioni della Resistenza siano più ridotte e più deboli rispetto a Gaza, e nonostante l’appoggio attivo del governo coloniale dell’ANP (le cui forze di sicurezza operano in coordinamento con quelle israeliane), l’operazione militare volta a spingere una parte significativa della popolazione palestinese più ad est, in modo da liberare quanto più possibile dalla presenza araba i territori che Tel Aviv vuole annettere nel prossimo futuro, non si può definire né facile né completata.

Ovviamente la situazione si fa molto più evidente a Gaza, ma non solo per la politica genocida messa in atto dall’IDF. Vale appena la pena ricordare che la popolazione palestinese della Striscia, all’indomani del 7 ottobre, contava circa due milioni e trecentomila abitanti. A distanza di ventuno mesi, lo sterminio della popolazione civile ha raggiunto probabilmente la cifra 100-150mila morti (quasi 60.000 sono quelli identificati e censiti, ma ce ne sono ancora molti sotto le macerie). Questo significa che, quand’anche fosse possibile perseguirlo indefinitamente, a questi ritmi ci vorrebbero oltre venticinque anni, per cancellare la presenza palestinese dalla Striscia. Ma, ovviamente, questo è un paradosso. La questione centrale è che, anche a prescindere dall’immoralità, la politica genocida messa in atto da Israele serve principalmente ad alimentarne la sete di sangue, ma non è assolutamente in grado di scalfire la sostanza del problema – ovvero la determinazione a resistere sulla propria terra, a qualsiasi costo.

L’altro scopo che questa politica persegue è quello di occultare l’incapacità dell’IDF di avere ragione della Resistenza armata. 21 mesi di guerra ininterrotta, con il pieno dominio dell’aria, contro un nemico privo di forze corazzate e di artiglieria pesante, rinchiuso in un’area di 365 km2, senza alcuna possibilità di ricevere aiuti dall’esterno, e che ancora combatto, infliggendo perdite continue alle forze israeliane [1]. La guerra più lunga e più dura mai combattuta. E che non riescono a vincere.

Sul fronte dei nemici statuali, la situazione è ovviamente ancora peggiore. Lo scontro a distanza con gli yemeniti, nonostante l’impegno messo in campo dagli Stati Uniti [2] e da numerosi paesi europei a difesa di Israele, ha portato al collasso del porto di Eilat [3], il secondo per importanza del paese, e l’unico sul mar Rosso.

Lo scontro con l’Iran, a sua volta, ha mostrato la completa perdita della capacità di deterrenza israeliana; in effetti già con le operazioni True Promise I e II – effettuate in risposta ad attacchi dell’aviazione israeliana – Teheran aveva mostrato di non essere disposta a incassare silenziosamente i colpi, e di essere in grado di colpire con precisione.

Ma ovviamente è stato nel corso dei dodici giorni di guerra seguiti all’attacco del 13 giugno, che si è vista la capacità iraniana di infliggere perdite significative, tanto che Tel Aviv ha dovuto chiedere un cessate il fuoco, arrivato dopo che – ancora una volta – gli USA sono intervenuti con un attacco telefonato agli impianti nucleari iraniani – e relativa risposta sulla base statunitense in Qatar di Al-Udeidah.

L’unico fronte su cui Tel Aviv poteva rivendicare il successo era quello siriano. Prima della caduta di Assad, infatti, l’aviazione israeliana colpiva a suo piacimento sia le installazioni militari siriane, sia quelle di Hezbollah e dell’IRGC iraniano, forte delle scarse difese antiaeree della Siria (che in questo aveva ed ha lo stesso problema del Libano). Diversa naturalmente la situazione del dopo Assad, di cui parleremo in seguito.

Prima di esaminare la situazione attuale delle guerre israeliane, è necessario fare una premessa. Anche se, come detto all’inizio, si è determinata una divaricazione tra la guida politica e quella militare del paese, alcuni elementi strategici fondamentali sono perfettamente chiari ad entrambe. Lo stato ebraico ha, sotto il profilo strettamente militare, alcuni problemi niente affatto di poco conto; alcuni sono storici, mentre altri sono emersi in tempi più recenti.

Il primo problema è che Israele è totalmente privo di profondità strategica. Da nord a sud, misura circa 300 km, mentre da est ad ovest – all’altezza di Tel Aviv – anche considerando i territori occupati in Cisgiordania, ne misura circa 40. Ad ovest c’è il Mediterraneo, mentre su tutti gli altri lati ci sono paesi arabi (poco importa che alcuni di questi siano attualmente amici; per Israele sono tutti potenziali nemici).

Il secondo problema è demografico. La popolazione ebraica di Israele è di circa sette milioni (il 74% c.ca del totale), e si trova circondata da una massa di oltre duecento milioni di arabi. Il flusso immigratorio si è da tempo fermato, mentre – a seguito delle guerre prolungate – si registra una forte spinta emigratoria. Ovviamente questo si riflette sulla capacità di schierare forze militari.

Il terzo problema è la fine della deterrenza. Non soltanto forze relativamente piccole e relativamente armate (come la Resistenza palestinese, Hezbollah, e gli stessi yemeniti di Ansarullah) non si fanno problema a sfidare apertamente la forza militare israeliana, e si mostrano capaci di ingaggiare una guerra di logoramento difficilmente sostenibile per lo stato ebraico, ma l’emergere dell’Iran come potenza militare regionale, con ottimi alleati alle spalle, semplicemente ha ribaltato lo schema. Teheran ha dimostrato di poter colpire altrettanto duramente, e di non esitare a farlo.

Quarto problema, è la dipendenza. Israele ha sempre potuto contare sull’aiuto militare statunitense, sia in termini di supporto, sia in termini di rifornimenti. Ma il quadro strategico globale è mutato, Tel Aviv si è impegnata in guerre multifronte che sembrano non avere fine, e che significano un elevatissimo consumo (soprattutto di bombe e missili aria-terra, ma anche di sistemi e munizionamento anti-missilistico), ai quali l’industria bellica USA non è più in grado di fare fronte – anche alla luce del fatto che il complesso militare-industriale statunitense è già in affanno a seguito della guerra in Ucraina.

Last but not least, la società israeliana mostra evidenti segni di logoramento – se non di vero e proprio sfilacciamento – a fronte di queste guerre prolungate, e di cui non si intravede una conclusione positiva. E che si riflettono direttamente sulla vita praticamente di ogni singolo nucleo familiare, stante appunto la ridotta disponibilità di personale umano.

Conoscere e comprendere queste problematiche, aiuta ad inquadrare le azioni israeliane in una prospettiva non necessariamente coincidente con quella apparente. Ad esempio, dietro la retorica biblica del Grande Israele, o Eretz Yisrael Hashlemah [4] – un progetto semplicemente irrealizzabile, già solo per la questione demografica su accennata – c’è in effetti la necessità di acquisire quella profondità strategica di cui Israele è priva, e che costituisce il suo principale problema dal punto di vista militare. Se guardiamo la carta geografica – un esercizio più che utile, indispensabile – osserviamo come Israele abbia sempre cercato di espandere i suoi confini proprio sulla base di questo principio. Nel 1967, con la guerra dei sei giorni, occupò la Cisgiordania e Gerusalemme, e respinse la Giordania oltre la barriera naturale del fiume Giordano (cercando di accaparrarsi la gran parte delle terre fertili di quella valle, su cui ancora insistono la gran parte degli insediamenti coloniali). Occupò le alture del Golan in Siria e l’area delle fattorie Sheeba in Libano. Occupò Gaza (che faceva allora parte dell’Egitto) ed il Sinai. Ogni guerra è stata vista da Tel Aviv come un’opportunità per allontanare la minaccia araba dal cuore del paese.

Dal momento che la Giordania si è consolidata come un vero e proprio protettorato britannico, e non ha quindi più avuto alcuna velleità di confronto con Israele, il regno hashemita si è trasformato di fatto non solo in un alleato (Amman opera sempre attivamente per difendere militarmente Israele dagli attacchi), ma gli offre una significativa profondità strategica lungo gran parte della frontiera orientale. A restare scoperte, quindi, sono le ristrette aree confinanti a nord con Libano e Siria, a sud con l’Egitto. La stessa Striscia di Gaza è vista, in quest’ottica, come una potenziale spina nel fianco proprio sul confine con l’Egitto – e il Cairo resta il paese arabo più temuto, con i suoi 100 milioni di abitanti ed un potente esercito [5].

Quella dell’Egitto è comunque ritenuta una minaccia latente, ma non imminente, poiché il paese dipende in gran misura dagli aiuti (anche militari) russi e statunitensi, ed intrattiene rapporti di interesse con lo stato ebraico.

Diversa la situazione, soprattutto dopo la nascita dell’Asse della Resistenza, per quanto riguarda il confine settentrionale.

Qui Israele ha sempre incontrato i suoi problemi più significativi, e nonostante numerose guerre contro il Libano non è mai riuscito ad assicurarsi stabilmente la desiderata fascia di sicurezza [6]. E da quando è sorta Hezbollah questa capacità è andata scemando ancora più significativamente. Ugualmente, ciò che vediamo accadere in Siria risponde alla medesima strategia israeliana: occupare una parte del paese, usare l’occupazione per creare una milizia locale su base etnico-religiosa, utilizzarla come un esercito coloniale lasciato a guarnigione del territorio una volta che l’IDF dovrà ritirarsi – mantenendo però il controllo diretto delle posizioni dominanti (alture del Golan e monte Hermon nel caso della Siria).

Questa tattica dell’espansione-contrazione è un’altra caratteristica dell’azione israeliana, e risponde ad una precisa esigenza strategica. Durante la fase cinetica l’IDF occupa una parte di territorio nemico, e dopo un periodo di qualche anno si ritira, ripiegando su posizioni prossime al confine, preferibilmente lasciando una forza locale a presidio dell’area oggetto del ritiro.

La ragione è che il quinto grave problema con cui deve confrontarsi Israele è la sovraestensione. Questa è da intendersi principalmente sotto il profilo geografico: un paese piccolo, con una popolazione limitata, ed un esercito basato fondamentalmente sui riservisti (cioè persone che, quando richiamate in servizio, devono lasciare la loro normale occupazione), quanto più estende la linea del fronte tanto più necessita di truppe per presidiarla. Nell’economia di guerra israeliana, quindi, è più sostenibile ripetere ciclicamente dei conflitti cinetici rapidi e violenti, inframmezzati da periodi di relativa tranquillità.

Questo non è stato più possibile dal 7 ottobre, per la semplice ragione che i nemici hanno opposto una capacità di resistenza non superabile, costringendo l’IDF ad una guerra di logoramento prolungata. Il che ha messo Israele di fronte al problema di una sovraestensione sotto il profilo temporale: una guerra multifronte, nessuno dei quali mai realmente risolto, si traduce in uno stress sempre più insostenibile per lo stato ebraico, sia sotto il profilo militare (perdite di uomini e mezzi, crisi di approvvigionamento), sia sotto quello economico (paralisi del sistema produttivo, crisi totale del turismo, fuga all’estero…), sia sotto quello politico-sociale (la guerra radicalizza ancora più la società, ma al tempo stesso la polarizza, contrapponendo un pezzo ad un altro [7]).

L’accumulo di questi problemi, e la percezione che il sostegno statunitense è destinato ad essere comunque ridimensionato, hanno spinto Tel Aviv a giocarsi una carta decisiva.

Dopo quasi due anni di guerra continua – un’enormità, per un paese come Israele, che senza il continuo aiuto degli Stati Uniti sarebbe crollato dopo pochi mesi – la leadership israeliana ha compreso che l’intreccio di tutti i problemi, storici e contingenti, del paese, stava arrivando al pettine. La finestra di opportunità si restringeva sempre più. Ed è quindi giunta alla conclusione che l’unica via fosse tagliare il nodo di Gordio, risolvere in un colpo solo, e definitivamente, tutto il groviglio, tagliando la testa del serpente. Nella visione israeliana, infatti (solo parzialmente fondata, peraltro), tutto l’accumulo di ostilità combattente con cui deve confrontarsi fa capo all’Iran, e decapitando questo tutti problemi si risolverebbero, in un tempo più o meno breve, e sicuramente per molti anni a venire.

Ed è precisamente questa la ragione che ha spinto Israele ad attaccare.

Tutto dimostra che Israele fosse convinto di poter portare a termine un attacco shock and awe [8], che attraverso al decapitazione dei vertici politico-militari iraniani (compresi Khamenei e Pezeshkian) potesse determinare un collasso del regime, e portare ad un regime change gradito all’occidente. È altrettanto evidente che, anche a prescindere dalla mancata eliminazione della Guida Suprema e del Presidente, la leadership israeliana aveva profondamente sottovalutato sia la solidità e la resilienza del sistema politico iraniano, sia la sua capacità di risposta militare.

Il chiaro coinvolgimento statunitense nell’operazione (il cui via libera era necessario non solo per la copertura d’intelligence, ma anche per il supporto degli aerei cisterna KC-135 Stratotanker all’aviazione), si spiega molto probabilmente anche per la frustrazione di Trump di fronte alla fermezza iraniana nel negoziato sul nucleare. Ma, a mio avviso, un peso decisivo l’ha avuto la considerazione che, per gli USA, si trattava di una situazione win-win.

Se infatti il colpo israeliano avesse avuto successo, Washington si sarebbe definitivamente liberata della Repubblica Islamica, con cui aveva un conto aperto dalla crisi degli ostaggi [9] del 1979-81. Se invece fosse andato male, come è poi accaduto, questo avrebbe messo Israele nella condizione obbligata di chiedere aiuto agli Stati Uniti per uscire dai guai, e quindi riportando i reciproci rapporti di forza in una situazione favorevole agli interessi strategici statunitensi. Di ciò si è peraltro avuta plastica rappresentazione nell’ultimo viaggio di Netanyahu in USA. Mentre in quelli precedenti è stato il leader israeliano ad avere tutti gli onori (famosa la scena di Trump che gli accomoda la sedia), in questa occasione era evidente il ribaltamento dei ruoli, con Netanyahu che rende omaggio al presidente statunitense offrendogli la proposta di nomina al Nobel per la Pace.

In ogni caso, è evidente che il pallino è tornato in mano alla Casa Bianca, che del resto agisce così non solo per difendere i propri interessi strategici (non sempre coincidenti con quelli israeliani), ma anche per una necessità materiale. Il doppio conflitto – Ucraina e Medio Oriente – la cui alimentazione è prevalentemente in carico a Washington, ha raggiunto infatti un limite di insostenibilità, che impone uno stop sia per ricostituire le scorte, sia per reintegrare e rilanciare le capacità produttive dell’industria militare USA.

La mossa israeliana in Siria, pertanto, va vista non soltanto nel quadro della ricerca di profondità strategica, ma anche come soluzione di comodo, per tenere alto il livello di conflitto (necessario a Netanyahu per mantenere il potere ed evitare l’implosione del paese) esercitando pressione sul fronte dove il nemico (in questo caso l’uomo dell’occidente, Al Jolani, già prono ai desideri israeliani) è più debole.

Anche il cosiddetto corridoio David [10], che si ipotizza dovrebbe collegare il sud siriano al nord est, dove si trovano le forze curde delle SDF, va inteso più come misura difensiva (per connettere drusi e curdi, frammentare il paese e isolarlo ad oriente) che non – come da qualcuno suggerito – come mossa offensiva verso l’Iraq e l’Iran. La mancanza di una prossimità geografica con la Repubblica Islamica è infatti una fondamentale garanzia di sicurezza per Israele.

Tutto ciò, però, è mero gioco tattico, significa semplicemente calciare la palla un po’ più in là per guadagnare tempo. Se Netanyahu riesce a superare l’attuale crisi di governo, approfittando della pausa estiva della Knesset, a ottobre si ritroverà a dover fronteggiare le pressioni (interne ed internazionali, soprattutto statunitensi) per porre fine al conflitto di Gaza; cosa che però innescherebbe un’altra, ben più estesa, crisi della sua maggioranza. Quale possa essere la sua mossa per uscire dall’angolo è difficile da prevedere, ma di sicuro le sue possibilità si restringono sempre più.


Note
1 – Solo dal 1° luglio, 25 soldati e ufficiali israeliani sono rimasti uccisi in combattimento a Gaza; i feriti sono decine. E queste sono ovviamente le cifre fornite dalla censura militare. Quelli che l’IDF definisce “incidenti di sicurezza” (imboscate, scontri a fuoco, attacchi a mezzi corazzati, etc) sono praticamente quotidiani, spesso anche più di uno al giorno. Secondo dati riportati dalla stampa israeliana, “metà della flotta di carri armati Merkava 4 di Israele è stata danneggiata durante la guerra nella Striscia di Gaza, con il 25% che sarebbe stato reso completamente inutilizzabile a causa dei combattimenti”.
2 – Clamorosamente, dopo una intensa campagna di bombardamenti senza esito, gli USA hanno preferito andare a Canossa, e chiedere ad Ansarullah un accordo di tregua lasciando però fuori Israele…
3 – Il porto di Eilat, strategico scalo marittimo nel sud di Israele, è prossimo alla chiusura totale entro il 20 luglio 2025. La decisione arriva in seguito a una grave crisi economica innescata dal blocco navale imposto dallo Yemen a partire da novembre 2023, in sostegno alla causa palestinese. Le autorità portuali israeliane hanno annunciato la sospensione di tutte le attività, mentre il comune di Eilat ha già proceduto al sequestro dei conti bancari per il mancato pagamento di imposte locali pari ad almeno 700.000 shekel (circa 200.000 dollari). Secondo The Marker, i debiti complessivi ammontano a diversi milioni di shekel. Il blocco yemenita ha praticamente azzerato l’attività del porto: dalle oltre 130 navi del 2023 si è passati a sole 16 nel 2024, con appena 6 attracchi nei primi mesi del 2025. Il crollo ha colpito in modo particolare l’importazione di veicoli — di cui Eilat gestiva tradizionalmente la metà del volume nazionale — e ha causato licenziamenti di massa tra i lavoratori. Con la chiusura, cesserebbero anche le residue operazioni militari e commerciali, comprese le esportazioni di fosfati e il supporto alla marina israeliana. Intanto, Israele ha intensificato i contatti con compagnie assicurative internazionali e chiesto agli Stati Uniti di rilanciare una coalizione militare per affrontare la minaccia yemenita, nonostante la fallita campagna terminata a maggio dopo aver bruciato oltre 1 miliardo di dollari in munizioni. (Fonte: “‘Debt-ridden’ Eilat Port faces imminent shutdown due to Yemeni blockade”, The Cradle)
4 – Secondo la Bibbia, vi sono tre definizioni geografiche di Eretz Yisrael. La prima, che si trova nella Genesi 15:18-21, è quella cui fanno riferimento gli ultrà messianici sionisti, e descrive un ampio territorio “dal Nilo all’Eufrate”, costituito da tutto l’attuale Israele, i territori palestinesi, il Libano, gran parte della Siria, la Giordania e parte dell’Egitto. Da notare che, già nel 2008, l’allora primo ministro israeliano Ehud Olmert ebbe a dire che “la Grande Israele è finita. Essa non esiste. Chi parla in questo modo si auto illude”. Ciò nonostante questa mitologia permane forte, proprio perché corrisponde ad una necessità strategica, e non semplicemente ad una aspirazione politico-religiosa, e viene quindi costantemente alimentata.
5 – L’esercito egiziano ha una forza stimata di 340.000 soldati, di cui circa 120.000-200.000 sono professionisti e il resto coscritti. Esistono altri 438.000 riservisti. Le forze armate hanno combattuto ben cinque guerre con lo Stato di Israele (nel 1948, 1956, 1967, 1967–1970 e 1973), una delle quali, la Crisi di Suez del 1956, le vide combattere anche con gli eserciti del Regno Unito e della Francia.
6 – Durante la guerra del 1982, che oppose Israele alle forze dell’OLP presenti nel paese dei cedri, l’IDF arrivò anche ad assediare Beirut ovest. Ma poi dovette ritirarsi gradualmente, a partire dal 1985, lasciando una milizia cristiana locale a protezione della fascia di sicurezza.
7 – Le spaccature più evidenti sono quelle relative all’esenzione dal servizio militare per gli haredim (ebrei ultraortodossi, dediti esclusivamente allo studio della Torah), che ha tra l’altro portato all’uscita dal governo di due partitini religiosi (United Torah Judaism e Shas), e quella dei prigionieri in mano alla Resistenza palestinese – con sullo sfondo quella sulla svolta autoritaria che Netanyahu cerca di imporre, modificando l’equilibrio dei poteri istituzionali. Al riguardo, cfr. “Dentro Israele – Chi sono gli ultrareligiosi alla destra di Netanyahu”, Mauro Indelicato, InsideOver
8 – Shock and Awe (“colpisci e terrorizza”), conosciuta anche come “dominio rapido”, è una tattica militare basata sull’uso di una potenza travolgente, la cognizione della superiorità sul campo di battaglia, manovre dominanti, ostentazioni spettacolari di forza per paralizzare la percezione del campo di battaglia da parte dei nemici e distruggerne la voglia di combattere.
9 – L’occupazione dell’ambasciata USA a Teheran, avvenuta il 4 novembre 1979, fu l’evento chiave della crisi degli ostaggi in Iran. Un gruppo di studenti islamici, sostenitori della rivoluzione iraniana, prese d’assalto l’ambasciata, prendendo in ostaggio 52 persone. La crisi durò 444 giorni, concludendosi il 20 gennaio 1981, con la liberazione degli ostaggi.
10 – Quella dei corridoi è, come si può notare, una costante della operatività israeliana. Corridoio Philadelphia, corridoio Netzarim, corridoio Morag corridoio Magen Oz… Sono tutte risposte tattiche al problema del numero limitato di risorse. L’idea è quella di costruire assi di comunicazione tra punti strategici, che frammentano il territorio nemico, e che consentendo la mobilità militare in sicurezza consentano il rapido dispiegamento laddove reso necessario.
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Comments

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Marco da Zurigo
Tuesday, 22 July 2025 13:52
Nel film "no other land" c'e` una scena che rappresenta bene lo scontro ineguale tra pslestinesi ed israele: gli israeliani con una ruspa distruggono un pollaio costruito con mezzi di fortuna, come d'altronde tutte le altre costruzioni dei palestinesi ... un divario dei mezzi in campo piu grande non e` quasi pensabile ... questa e` la forza dello stato israeliano .
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