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intelligence for the people

In Ucraina Trump somiglia sempre più a Biden

di Roberto Iannuzzi

Chiuso lo spiraglio negoziale, torna la logica delle armi e il rischio di escalation

18d59473 280f 42fd 9d00 997f7bb6132a 2048x1366E’ probabile che chi ancora nutriva speranze nella possibilità che il presidente americano Donald Trump risolvesse il conflitto ucraino per via negoziale le abbia perse in questi giorni.

Una reale trattativa fra Russia e Ucraina non è mai decollata, e la bizzarra mediazione dell’amministrazione Trump (gli Stati Uniti sono parte cobelligerante piuttosto che arbitro) è stata inefficace fin dall’inizio . Ma gli eventi di questi giorni segnano uno spartiacque probabilmente definitivo.

Dopo una breve pausa nell’invio di armi a Kiev apparentemente motivata dall’assottigliarsi delle riserve americane, lo scorso 7 luglio Trump ha annunciato la ripresa delle forniture giustificandola con gli intensificati attacchi russi e l’urgente bisogno di sistemi di difesa aerea da parte dell’Ucraina.

L’amministrazione ha pertanto deciso di prelevare dalle riserve del Pentagono armi per un valore di 300 milioni di dollari in base alla Presidential Drawdown Authority (PDA), per mandarle a Kiev.

E’ la prima volta nel suo secondo mandato che Trump fa ricorso alla PDA, uno strumento abitualmente utilizzato dal suo predecessore Joe Biden.

La decisione è coincisa con un cambio di toni da parte del presidente USA, che per la prima volta ha impiegato un linguaggio molto aspro nei confronti del presidente russo Vladimir Putin, accusato di “uccidere un sacco di gente” e di non far seguire alle parole azioni concrete.

 

Trump e i sostenitori della “linea dura” 

Sebbene il presidente americano ci abbia abituato da tempo a repentini cambi di rotta e improvvisi sbalzi d’umore, il differente approccio nei confronti di Mosca è parso nei giorni successivi come qualcosa di meno estemporaneo.

Tale cambio di approccio si inserisce infatti nel quadro di un’immensa pressione da parte dei media e dell’establishment politico per spingere il presidente a tornare nel solco della strategia seguita da Biden, fornendo all’Ucraina supporto finanziario e militare in abbondanza.

Falchi repubblicani e neocon, che fin dall’insediamento di Trump alla Casa Bianca hanno manovrato al fine di emarginare le tendenze “isolazioniste” del movimento MAGA, sono determinati (anche sull’onda dell’intervento militare contro l’Iran, da essi propagandato come un “successo”) a rilanciare lo scontro con la Russia.

I leader di Gran Bretagna, Francia e Germania, e i vertici dell’Unione Europea, spingono anch’essi per un prolungamento del conflitto. Il cancelliere tedesco Friedrich Merz ha dichiarato che gli strumenti diplomatici per risolvere la guerra ucraina sono ormai “esauriti”.

Trump aveva finora resistito a queste pressioni. Convinto che Kiev non fosse in grado di vincere, aveva ripetutamente definito il conflitto ucraino come “la guerra di Biden”, per distanziarsi dal suo predecessore e tentare un disimpegno dall’Europa al fine di concentrare l’attenzione americana sul Pacifico e sull’ascesa cinese.

Il cambio di rotta di questi giorni fa invece presagire che quella ucraina possa diventare “la guerra di Trump”.

 

Scende in campo la NATO 

Lo scorso 14 luglio, ricevendo alla Casa Bianca il segretario generale della NATO Mark Rutte, il presidente americano ha svelato un accordo con l’Alleanza Atlantica per inviare ingenti quantitativi di armi all’Ucraina, ed ha minacciato Mosca con la prospettiva di aspre sanzioni secondarie sulle sue esportazioni petrolifere se non accetterà una soluzione negoziata del conflitto entro 50 giorni.

Secondo alcune fonti americane, l’accordo con la NATO avrebbe un valore di 10 miliardi di dollari, ma non è chiaro su quale orizzonte temporale.

Sebbene questo piano sia stato discusso al vertice NATO del mese scorso all’Aia, le sue origini risalgono al periodo immediatamente successivo alla vittoria presidenziale di Trump, allorché i leader europei cominciarono a pensare a un sistema che permettesse di continuare a inviare armi a Kiev anche nell’eventualità di un passo indietro da parte del neoeletto presidente.

Secondo quanto concordato, non sarebbe l’Alleanza Atlantica a inviare le armi a Kiev. Essa opererebbe invece come un centro di smistamento delle armi acquistate dagli USA, coordinando le consegne dei singoli paesi membri.

Il meccanismo di trasferimento degli armamenti all’Ucraina potrà prevedere sia la consegna di armi direttamente acquistate dagli USA, sia di quelle già in possesso dei paesi europei che verrebbero rimpiazzate da nuove ordinazioni presso i produttori americani.

Vendendo armamenti agli europei, invece di consegnarli direttamente a Kiev, Trump spera di rintuzzare l’accusa di non rispettare la promessa di uscire dal conflitto ucraino, che certamente gli verrà rivolta dalla sua base.

Inoltre, l’implementazione dell’accordo si tradurrà in nuovi profitti per l’industria bellica USA.

 

Più apparenza che sostanza 

Non è però chiaro quali armi e munizioni finiranno effettivamente nelle mani di Kiev, né quali paesi europei aderiranno davvero a questo schema. L’Ungheria ha già dichiarato di non aver alcuna intenzione di farvi parte e, subito dopo, Francia, Italia e Repubblica Ceca hanno fatto altrettanto.

Inoltre, dopo tre anni di guerra, né gli USA né i paesi europei hanno grandi riserve di armi e munizioni da fornire. Essi possono acquistare armamenti in via di produzione, che però impiegheranno diverso tempo prima di arrivare sul campo di battaglia ucraino.

Né l’industria bellica americana né quella europea riescono a tenere il passo con la domanda proveniente dall’Ucraina e da altri teatri di guerra, e nessuna delle due è in grado di competere con la capacità produttiva russa.

Un classico esempio a questo proposito è rappresentato dalle batterie di difesa aerea Patriot di produzione americana. In Europa vi sono attualmente 18 batterie, che non possono essere consegnate a Kiev senza lasciare indifeso il vecchio continente.

La Germania, che al momento ne possiede 6, ha confermato che intende acquistarne 2 dagli Stati Uniti per consegnarle all’Ucraina, ma ciò richiederà mesi.

Secondo un’inchiesta del Guardian, gli stessi USA hanno le proprie riserve di missili per le batterie Patriot a livelli minimi, disponendo attualmente solo del 25% degli intercettori richiesti dai piani militari del Pentagono.

La Lockheed Martin che li produce aveva annunciato un aumento di produzione dalle 500 alle 600 unità per il 2025. Secondo alcune stime, i russi produrrebbero però circa 750 missili balistici all’anno. Se si pensa che sono necessari diversi intercettori per abbattere un singolo missile, risulta chiaro che la produzione americana è del tutto inadeguata.

Malgrado dichiarazioni roboanti come quella del senatore repubblicano Lindsey Graham, secondo cui “vedrete affluire armi [in Ucraina] a livelli record”, è dunque probabile che i quantitativi che arriveranno a Kiev non saranno in grado di cambiare sensibilmente l’andamento del conflitto.

 

L’arma spuntata delle sanzioni 

Allo stesso modo, c’è da dubitare che la minaccia di ulteriori dazi o sanzioni possa alterare il calcolo strategico russo.

Possibili dazi sulle esportazioni russe negli USA sarebbero irrilevanti, non superando tali esportazioni il valore di 3 miliardi di dollari. Quanto ad eventuali sanzioni secondarie sulle esportazioni russe di petrolio e di altri beni, esse colpirebbero i partner commerciali di Mosca, come Cina, India ed Europa.

La Russia ne risentirebbe certamente, ma a pagare sarebbero tutti (ed in particolare alcuni partner di Washington) a causa delle ripercussioni sui mercati energetici mondiali.

Mosca ha inoltre sviluppato ormai una notevole abilità nell’eludere le pressioni economiche occidentali, e l’economia russa ha dimostrato un’eccezionale resilienza di fronte a tali pressioni.

A conferma di ciò, dopo l’annuncio di Trump su possibili nuove sanzioni la borsa russa è cresciuta quasi del 3%, lasciando intendere che gli investitori russi non siano particolarmente spaventati.

 

Un approccio negoziale inefficace 

Apparentemente, l’approccio più duro di Trump nei confronti della Russia è dovuto alla “delusione” per il fatto che Mosca non abbia accettato di negoziare alle condizioni occidentali, le quali implicano un cessate il fuoco come presupposto per qualsiasi dialogo.

Ma era scontato che il Cremlino non avrebbe acconsentito a sedersi al tavolo negoziale senza alcuna garanzia che le ragioni profonde del conflitto venissero affrontate, mentre l’Occidente continuava ad inviare armi all’Ucraina.

La prospettiva di un “conflitto congelato”, che avrebbe permesso a Kiev di riprendere fiato e riarmarsi in vista di un nuovo scontro militare, non poteva che essere scartata da Mosca.

Dal canto suo, l’amministrazione Trump non ha compiuto neanche i passi più elementari in direzione di una “normalizzazione” dei rapporti con Mosca (come la restituzione degli uffici diplomatici sequestrati, la ripresa dei voli fra le due capitali, o anche semplicemente la nomina di un nuovo ambasciatore a Mosca).

 

Perché Washington non può disimpegnarsi 

Per altro verso, la possibilità che gli europei rimpiazzino gli USA nel sostegno a Kiev, è sempre apparsa problematica.

L’Ucraina è stata rifornita dell’intero spettro di sistemi d’arma americani. Sistemi di difesa aerea come i Patriot, NASAMS e HAWK. Sistemi d’artiglieria come obici, mortai, HIMARS. Veicoli corazzati e blindati come Bradley e Strykers, e perfino carri armati Abrams.

Il moderno equipaggiamento militare è altamente sofisticato e complesso, necessitando di centinaia di sub-componenti ed elementi di software. Essi richiedono dati forniti dalle case produttrici per svolgere le loro funzioni, e si tratta invariabilmente di informazioni proprietarie che non possono essere condivise con altri soggetti.

Non solo. L’Ucraina dipende dagli USA anche sotto il profilo della logistica e dell’intelligence, in particolare per quanto riguarda la definizione e selezione dei bersagli. In Ucraina gli Stati Uniti sono “parte integrante della “kill chain”, come ha scritto il New York Times.

Gli europei non sono in grado di rimpiazzare adeguatamente i sistemi d’arma americani, e non hanno neanche la capacità di assumere il ruolo statunitense nei settori della logistica e dell’intelligence.

Se da un lato essi non possono assicurare la necessaria sorveglianza satellitare, dall’altro non dispongono degli aerei cargo e delle navi da trasporto per movimentare il materiale bellico.

Per tutti questi elementi l’Europa dipende dagli USA. Si tratta di una dipendenza che Washington ha incoraggiato negli anni, proprio per scongiurare l’eventualità che il vecchio continente assumesse una maggiore autonomia.

Ma proprio questo fatto rende pressoché impossibile un disimpegno americano dal teatro europeo (e da quello ucraino in particolare) almeno sul breve e medio periodo, se Washington vuole preservare la nuova “cortina di ferro” che ha così meticolosamente costruito in questi anni in Europa.

Per questa ragione, si è pensato di permettere ai paesi europei di acquistare il materiale bellico americano da trasferire all’Ucraina, un’idea abbracciata da Trump fin dai primi giorni della sua presidenza.

Si tratta di un sistema che permette agli USA di scaricare i costi del conflitto sull’Europa, e di sbandierare un disimpegno in realtà solo apparente (e che non risolve la questione della logistica e dell’intelligence).

 

Cresce il rischio di provocazioni 

Come abbiamo visto, l’invio di nuove armi probabilmente non cambierà molto l’esito della guerra ucraina, a causa dei problemi di capacità produttiva dell’industria bellica statunitense ed europea.

Ciò non vuol dire che la svolta di Trump non comporti rischi di inasprimento del conflitto, e soprattutto di nuove azioni provocatorie nei confronti di Mosca.

Non può neanche essere sottovalutato il pericolo di un’escalation “orizzontale”, ovvero di un’estensione dello scontro su altri fronti (dal Baltico al Caucaso, all’Asia Centrale).

Sia il Financial Times che il Washington Post hanno riferito nei giorni scorsi di un colloquio telefonico che Trump ha avuto con il presidente ucraino Volodymyr Zelensky durante il quale avrebbe chiesto a quest’ultimo se era in grado di colpire Mosca, e anche San Pietroburgo.

Zelensky avrebbe risposto che le forze armate ucraine sarebbero state certamente in grado di colpire queste città russe se gli Stati Uniti avessero fornito loro le armi necessarie.

Secondo il Financial Times, Trump si sarebbe mostrato aperto all’idea di consegnare armi a lungo raggio all’Ucraina al fine di “fargli provare dolore” [ai Russi] e spingerli al tavolo negoziale.

Responsabili americani avrebbero perfino dato a Zelensky una lista di armi a lungo raggio che gli USA potrebbero eventualmente fornire.

In dichiarazioni successive, pur senza smentire la conversazione telefonica, Trump ha negato di voler fornire armi a lungo raggio a Kiev e ha affermato che Zelensky “non dovrebbe colpire Mosca”.

In riferimento alla telefonata, un responsabile della Casa Bianca ha detto alla BBC che Trump stava “semplicemente ponendo una domanda, non incoraggiando ulteriori uccisioni”, ed ha aggiunto che il presidente “sta lavorando instancabilmente per fermare lo spargimento di sangue e porre fine a questa guerra”.

Tuttavia David Ignatius, firma del Washington Post legata agli ambienti dell’intelligence americana, ha citato fonti secondo le quali la “svolta” di Trump potrebbe includere la decisione di autorizzare Kiev ad impiegare i 18 missili ATACMS di cui ancora dispone per colpire in profondità obiettivi sul territorio russo. Essi hanno una gittata di 300 km.

Non sarebbe da escludere neanche la consegna di altri ATACMS all’Ucraina. Anche in questo caso si tratterebbe probabilmente di numeri limitati, perché questi missili scarseggiano perfino negli arsenali americani.

Ciò non impedirebbe a Kiev di compiere attacchi che, pur non essendo in grado di alterare gli equilibri del conflitto, potrebbero risultare distruttivi ed estremamente provocatori.

Secondo Ignatius, l’amministrazione Trump avrebbe perfino preso in considerazione l’idea di inviare missili cruise Tomahawk (con una gittata di oltre 1.000 km), gli stessi impiegati contro gli impianti nucleari di Isfahan in Iran, ma per il momento l’idea sarebbe stata scartata.

E’ difficile dire quanto siano affidabili simili “rivelazioni”. Non va dimenticato che Ignatius e il Washington Post figurano certamente nelle file dei “falchi” per quanto riguarda il confronto con Mosca.

Simili notizie potrebbero rientrare in una campagna propagandistica che tenta di intimidire i russi e rafforzare il partito interventista a Washington.

Ma il rischio di azioni provocatorie, come l’operazione ucraina “Spider Web” che lo scorso 1° giugno colpì i bombardieri strategici di Mosca in numerose basi su tutto il territorio russo, non va sottovalutato.

Dopo l’attacco all’Iran, si sta rafforzando a Washington un trasversale “partito della guerra” il quale ritiene che un numero crescente di questioni internazionali possa essere risolto con metodi “muscolari”.

Trump deve certamente fare i conti con la componente isolazionista del movimento che lo sostiene.

Ma egli stesso, afferma Ignatius, sarebbe rimasto impressionato dall’azione dei bombardieri B-2 contro le installazioni nucleari iraniane e si sarebbe persuaso della necessità di esercitare “maggiori pressioni” sul presidente russo Putin.

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