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sinistra

Riflessioni sulla nascita del PCdI del 1921

Intervista a Gianni Marchetto

Classe Operaia 400x2672xD. Parlami un po' di te…

Ho 79 anni e sono nato nell’isola di Ariano Polesine e precisamente a Cà Zen, una frazione del Comune di Taglio di Po (prov. di Rovigo). Figlio di coltivatori diretti – ho frequentato le scuole (3 anni) di Avviamento Industriale ad Adria e il biennio Tecnico Industriale a Rovigo per tutti gli anni ’50. Chi volle questa mia destinazione scolastica fu mio padre il quale diceva così che avrei trovato lavoro a differenza di me che volevo invece frequentare le scuole medie per poi diventare maestro attraverso le scuole magistrali.

Al paese (negli anni ’50) specie in estate frequentavo l’Oratorio per via del fatto che potevo giocare al calcio in quanto c’era il campetto che lo permetteva - in autunno e inverno invece frequentavo la LEGA (era la sede della locale Camera del Lavoro CGIL), dove all’interno c’erano pure gli uffici del PSI e del PCI, e una sala da ballo per le domeniche. Avevo notato quanto segue: i Socialisti erano un gruppo di persone molto simpatiche, intraprendenti, “mangiapreti” e stalinisti, sempre al Bar a litigare con i Democristiani, quasi mai in ufficio. I Comunisti erano invece persone molto serie, responsabili della CdL e del PCI locale, ovviamente anche loro stalinisti, ma con un’ansia di riscatto formidabile che si notava nella loro sete di sapere, delle letture e dei libri che avevano in casa (avevo letto i libriccini che portavano scritti gli interventi dei dirigenti Comunisti alla Camera e al Senato, quando non invece dei veri e propri interventi di Togliatti, Pajetta, Longo, Ingrao, Amendola, ecc.) – nella sede della CdL una volta la settimana avevo notato delle riunioni di una decina di persone (quasi tutti braccianti analfabeti) che ascoltavano con un quadernetto in mano la lezione che un maestro gli faceva = imparare a leggere, scrivere e far di conto.

A 14 anni un mattino a me e alcuni amici ci capita andando a scuola a Rovigo di essere fermati davanti alle porte della scuola per uno sciopero indetto dagli insegnanti, i quali ci fanno incolonnare e ci portano verso il centro di Rovigo, ad un certo punto vediamo da una finestra una bandiera rossa: era la sede del PCI di Rovigo e vediamo uno dei professori che inizia ad inveire contro le finestre – era questi un professore di matematica molto fascista. Al che io e altri miei amici decidiamo di allontanarsi da quella manifestazione: era una manifestazione contro l’invasione sovietica dell’Ungheria del 1956!

Racconto un episodio per dire la differenza tra i Socialisti e i Comunisti al mio paese: in occasione della Festà dell’Unità avevo chiesto al “Biso” (era un mio coetaneo iscritto al PCI e fratello del Responsabile della CGIL locale) una spiegazione del fatto che i Socialisti la loro Festa dell’Avanti la facevano sempre dopo la Festa dell’Unità, tutte e due nello stesso posto, risposta: “cosa vuoi mai i Socialisti hanno tutti un “braccio più corto” (sta per poca voglia di lavorare), per cui alla fine della fiera loro cambiano solo i manifesti e gli striscioni e noi… a “piantare e spiantare” i pali!”

Mi capitò di trovarmi in alcune manifestazioni di braccianti alla fine degli anni ’50 per i problemi del caro vita con le camionette del Battaglione Padova che li caricavano senza pietà e con la determinazione delle donne che si buttavano in terra davanti alle camionette.

Nel 1960 fui veramente impressionato dalle foto sui giornali che riportavano gli scontri con i morti a Genova, a Reggio Emilia in occasione del governo Tambroni. Lo sconto in piazza del paese era sul serio furibondo: da un lato gli agrari e la chiesa locale e dall’altro i braccianti Comunisti e Socialisti.

Per tutte queste ragioni mi orientai verso il PCI e il mio primo voto nel 1962 fu al PCI: lo trovavo davvero il più utile possibile. Ancorché la mia coscienza politica somigliava di più a quella di un sotto proletario “ribelle ma integrato”: ribelle per le ingiustizie che erano davanti ai miei occhi ma integrato nel voler agguantare in una qualche maniera i frutti (per lo più proibiti e inarrivabili, per via dei pochi soldi a disposizione) del miracolo economico allora imperante.

 

D. Quali sono i tuoi ricordi/giudizi sulla nascita del PCI… La nascita del PCdI nel 1921, Lenin, Engels, Gramsci, Ivar Oddone, la CGIL di Torino

Ne so poco. Ovviamente vista la mia età. So per letture fatte e per ricordi di vecchi compagni del PCI torinese da me conosciuti nei primi anni ’60 a Torino. I nomi su elencati possono essere il percorso intellettuale che un operaio come il sottoscritto aveva intrapreso (intanto ero uno dei tanti immigrati venuti a Torino nei primi anni ’60, che dopo alcuni anni fui assunto in FIAT come operaio di mestiere: aggiustatore e attrezzista meccanico).

Siccome sono stato fin da piccolo un accanito lettore (specie di fantascienza) nei primi anni a Torino mi capitò di leggere “La fattoria degli animali” di G. Orwell e “Buio a mezzogiorno” di A. Koestler, dove l’uno è una feroce critica al regime sovietico e l’altro è una spietata denuncia dei processi farsa dei regimi dell’Est. Ma accanto a questi libri ce ne furono altri donatemi dai compagni in FIAT: “La madre” di Gorky, “Come si forgiò l’acciaio”, “Il bisturi e la spada” di N. Bethune (questo, medico canadese. Grande amico di Mao che morì di setticemia alla fine della Lunga Marcia nel ‘39 in Cina), il “Tallone di Ferro” di J. London (un libro che per me fu una rivelazione e che mi fece apprezzare il Marxismo).

Lenin e la rivoluzione bolscevica. Le cose che mi hanno colpito di quella rivoluzione sono da un lato le “Tesi di aprile” di Lenin e dall’altro l’articolo di Gramsci sulla “Rivoluzione contro il Capitale”. Lenin nelle sue tesi di aprile sostiene la necessità di “farla la rivoluzione” se no profetizza uno scannatoio di tutto il popolo russo da parte dei “bianchi” e della borghesia russa. Dall’altra Gramsci con il suo articolo apparso sull’Avanti nel 1917 prende le distanze da ogni concezione evoluzionistica (tesi cara ai socialisti positivisti e gradualisti) delle “fasi” della rivoluzione. Sostiene infatti la determinazione degli uomini che possono obbedire o meno ad ogni fase “preordinata”. Il che non significa affatto della bontà o meno dell’ipotesi rivoluzionaria. In pratica, mi pare di capire che la “rivoluzione” si sia imposta come necessità rispetto all’inconcludenza e alla pavidità dei socialisti.

Per farla ha bisogno però di avere e creare un gruppo coeso, determinato di militanti, disciplinato e coerente tra il dire e il fare. Non come erano invece la maggioranza dei socialisti che alla domenica parlavano della rivoluzione e tutti gli altri giorni lasciavano che tutto corresse. Nel leninismo il partito dei quadri, tra gli operai raccolti tra quelli di mestiere, coloro i quali avevano nella loro esperienza di lavoro il fatto di produrre dei manufatti dove c’era “un capo e una coda” = un prodotto finito.

E mi aveva colpito molto la decisione di Togliatti al suo ritorno in Italia dall’esilio sovietico (la svolta di Salerno nel 1944) la sua determinazione nel volere invece costruire il “partito nuovo”, non più solo il partito di quadri, ma un partito radicato nella società tra le masse dei lavoratori e cittadini: ad ogni campanile una Casa del Popolo, una sezione, un circolo, una Camera del lavoro, ecc. una stampa molto variegata a partire dal quotidiano l’Unità, al Pioniere per i ragazzi, a Vie Nuove per le donne, al Calendario del Popolo (come mensile) a Rinascita come settimanale, tutte pubblicazioni a cui collaboravano il meglio dell’intellettualità italiana. Con la diffusione militante alla domenica.

 

D. Siamo a Torino mi pare di capire – quali le cose che ti ricordi?

Ho un bel ricordo di Sergio Garavini della CGIL Regionale, di Ugo Pecchioli e poi di Adalberto Minucci del PCI e poi di Ivar Oddone, per non dire di tutto il gruppo dirigente della Camera del Lavoro, quelli di origine operaia ex licenziati FIAT.

Ad un certo punto di mie letture abbastanza confuse faccio l’incontro con una frase di F. Engels nella quale si dice: ogni volta che cambia la scienza doveva cambiare il materialismo dialettico, che guidava la politica”, che mi sarà scolpita nella mia memoria fin dagli anni ’60 quando la lessi per la prima volta. E ciò si sposò con la mia esperienza di operaio di mestiere, abituato come ero a misurarmi con la “tecnica” e gli sviluppi della scienza nelle produzioni meccaniche.

Tutto ciò si maturò poi nei primi anni ’70 con la mia conoscenza e frequentazione con Ivar Oddone medico, psicologo ex Commissario delle Brigate Garibaldi, partigiano sulle montagne di Imperia con Italo Calvino che lo immortalò nel suo primo libro “I sentieri dei nidi di ragno” dove era il KIM comandante partigiano. A Settimo T.se nei primi anni ’60 ad un convegno sulle “morti bianche” alla Farmitalia, Oddone coniò la parola d’ordine rivoluzionaria “la salute non si vende” (ricordo qui che per 26 Lire/ora si vendeva la pelle dei lavoratori) – erano presenti a tale convegno B. Trentin, G. Marri, A. Di Gioia, S. Garavini e tutto il gruppo dirigente della CGIL di Torino (quasi tutti ex licenziati per rappresaglia dalla FIAT).

L'incontro con Ivar Oddone, (che per tutti gli anni ’60 fu il responsabile voluto da E. Pugno e da S. Garavini della Commissione Sanità della Camera del lavoro di Torino) come ho detto, per me rappresenta l’incontro con la scienza; non in termini generali, perché l'avevo fatto già prima nel sindacato e nel Pci, ma in maniera più organica e sequenziata: più precisamente, l'incontro con alcune discipline scientifiche, che vanno dalla medicina del lavoro alla psicologia del lavoro. Cosa mi dà la possibilità di acquisire? La modalità di avere una visione dell’uomo CONCRETO, non quello tutto astratto per esempio derivante dalla sociologia e simili che hanno imperversato in tutti i manuali di cronotecnica e negli Uffici Analisi Lavoro in tutte le aziende (ora in possesso di tutti i progettisti di algoritmi). Vorrei dirlo con una formuletta, ripresa da Oddone: tutti quanti noi abbiamo dei piani, non foss'altro perché siamo degli esseri umani, però ci sono dei piani che sono eterodiretti, ci sono dei piani casuali (che sono la maggioranza nella vita delle persone) e ci sono dei piani consapevoli. L'incontro con quest'uomo, con questo compagno, mi ha portato - anche nei rapporti di carattere personale, esistenziali - a "dare una quadratura al cerchio"; e infatti io credo di essermi modificato parecchio nella mia personalità, da allora, almeno per quanto riguarda (come si dice) la mia personalità più razionale. Ho seguito, grosso modo, dei piani, mi sono appassionato a questo problema dell'ambiente di lavoro. Tra l'altro, io penso che nel fare il mestiere di sindacalista il primo obiettivo che uno debba avere è la tutela dell'integrità psico-fisica del lavoratore; la prima questione che un lavoratore pretende nella tutela, riguarda appunto la vita delle persone. Poi, in questo incontro, cos'è che ho scoperto? una questione estremamente interessante: accanto a due categorie che normalmente si maneggiano nel sindacato, la categoria economica, che per così dire trasforma le persone in merci, e quella sociologica, che le trasforma in numeri, avendo a che fare con la medicina e la psicologia del lavoro ti accorgi che ci sono altre due categorie, che non sono in alternativa alle altre due ma che entrano in contatto col mondo al livello dellindividuo. Io sostengo che una sinistra che non sappia parlare all'individuo è una sinistra da terzo mondo, è destinata a perdere: quindi questa è stata per me la scoperta maggiore. E ha due aspetti: uno di carattere mio particolare, per cui passo da un piano casuale a un piano consapevole, e quindi mi do degli obiettivi, che verifico nel tempo, ecc. Il secondo è che allargo, in maniera altrettanto consapevole, le mie categorie di interpretazione della realtà, dei rapporti, del mondo. Qui sta la radice della mia successiva permanenza nel lavoro sindacale.

E attraverso la mia partecipazione a due corsi delle 150ore a Psicologia del Lavoro all’Università a Torino con docente I. Oddone nel 1974 sperimentando la tecnica delle “istruzioni al sosia” mi trovai a fare i conti con le istruzioni al sosia dei compagni che lavoravano alle catene di montaggio. Che ricchezza di dettagli ragazzi! altro che le mie di operaio di mestiere che lasciavano i problemi della soluzione della stessa, sui problemi della sovrastruttura politica! Mettendo quindi in crisi la mia supposta “superiorità” di operaio provvisto io sì del Progetto di una nuova società e non invece quello di questi poveri operai costretti a mansioni stupide.

 

D. Cosa cambia negli anni ’70…

Il cambiamento più profondo dal punto di vista anche culturale è dato dalla nascita della Dispensa Ambiente di Lavoro (ad opera di Ivar Oddone e poi da Gastone Marri) – e ciò avviene in ambito Sindacale da parte dei Comunisti del Sindacato, abbastanza incompresi dai Comunisti del Partito, e dalla intuizione del GOIMO (Gruppo Operaio Interessato Minimo Omogeneo, che nei fatti poi diventerà il Gruppo Omogeneo). La Dispensa è nei fatti il “nuovo modello teorico” a cui si affianca il “modello d’uso” del Questionario di Gruppo (una sorta di intervista collettiva per recuperare l’esperienza che gruppi di lavoratori fanno nei luoghi di lavoro). Si afferma nella Dispensa il concetto di “validazione consensuale”, di partecipazione, di non delega: un cambio di paradigma.

A riprova riporto qui una brevissima frase di Ivar Oddone al Convegno dell’Istituto Gramsci che si tenne a Torino nel 1973 su “Scienza e organizzazione del lavoro”, in cui scandalizzava la presidenza del convegno con il ragionamento che portava a conforto della sua tesi: “con la nascita dei Delegati di Gruppo Omogeneo, la contrattazione articolata e tutte le forme di controllo e di potere che ciò si tira dietro, la coscienza di classe non è più solo appannaggio del partito politico che la trasferisce alla classe, ma si costruisce anche attraverso altre strade e altri confronti con altri intellettuali”, diversi dagli ‘organici’ al partito”.

Alla fine del suo intervento, venne avvicinato solo da tre dirigenti: Adalberto Minucci del PCI, Sergio Garavini della CGIL e Bruno Trentin della FLM: volevano maggiori chiarimenti per la frase pronunciata, che era in pratica, un superamento della concezione leninista del partito, affermando tutta la validità della “validazione consensuale”.

Specie nell’ambito de PCI tale impostazione non ebbe mai la piena condivisione, al massimo era confinata a pura tecnica sindacale. Non si voleva evidentemente mettere in discussione la natura “pedagogica” del partito politico.

Ad un certo punto mi viene in aiuto un ragionamento che mi ha fatto Ivar Oddone sulla “rabble iphotesys” (l’ipotesi dell’orda) nel senso che il meglio della sociologia e della psicologia di marca americana sosteneva che l’idea dell’operaio inteso come “orda bruta, o gorilla”, era del tutto affine alla cultura del padronato che sosteneva che i gorilla (gli operai) vanno ammaestrati per la produzione; di contro, Oddone mi faceva notare che per una certa sinistra italiana (in maniera trasversale) dall’area più moderata fino ad arrivare ai gruppi extraparlamentari gli operai erano non gorilla da ammaestrare ma da redimere per la rivoluzione (quale rivoluzione: la loro evidentemente, dei redentori! E io? Sempre gorilla rimanevo...).

Mi stupiva però “l’ignoranza” dei Dirigenti del Sindacato, per non dire del PCI in merito a padroneggiare gli elementi di merito di una fabbrica auto come la Mirafiori: nessuno o pochissimi sapevano descrivere il “ciclo di produzione” dell’auto!

 

D. spiega questo tuo stupore…

Non molti anni fa ho avuto occasione di interloquire con la Rossana Rossanda. Dopo aver letto il mio “Operaio sgalfo” scrive a Vittorio Rieser che glielo aveva fatto avere e anche a me. E scrive del tutto compiaciuta per queste mie memorie. Era rimasta colpita dalle mie descrizioni sulle lotte e gli scioperi anche un po' bruschi che alla Mirafiori periodicamente accadevano – lei vi ritrovava dei suoi ricordi nella Milano e Bologna degli anni ’50 quando alcuni militanti della FIOM e del PCI si facevano rincorrere dietro da dei poliziotti negli androni dei caseggiati e lì i poliziotti trovavano altri compagni che li menavano.

Mi aveva stupito (però non più di tanto) delle domande che rivolgeva a me e a V. Rieser in merito al 133 di rendimento, che qui tento di spiegare:

Cos’è il 133 di rendimento. Deriva dagli studi della medicina del lavoro sul “metabolismo basale” la quale ricorda che: per non avere nocumento alla salute il rapporto massimo tra riposo e attività non deve superare il 3 : 4 = + 1/3, cioè se lavorando ad “economia” (= senza predeterminazione dei tempi, dei carichi di lavoro e senza incentivazione), posso fare ad esempio 60 pezzi in una ora, sottoposto a predeterminazione e a incentivazione, il massimo che un cronometrista può assegnarmi è un terzo in più = 80 PEZZI IN UNA ORA. Se 60 lo facciamo uguale a 100, 80 sarà uguale a 133, ed ecco spiegato il famoso limite massimo stabilito nelle produzioni di serie. Di seguito un grafico di una esemplificazione del concetto di “saturazione” in una attività di lavoro a turni (come appunto la quasi totalità dei lavoratori della Mirafiori):

 

|<-------- tempo di presenza in officina – alle linee – 450’ = 100% --------|

|<-----T.A. = tempo attivo a ritmo 133 -------|< F.R.|<F.F|<Pausa| 14

 

T.A. – Tempi Attivi, sono i tempi di pura attività dell’operaio dedicati alla trasformazione e/o assiemaggio del prodotto, ovviamente sono i tempi che vengono prelevati dal cronometrista e successivamente “normalizzati” e maggiorati.

F.R. – Fattori di Riposo, sono le parti di tempo (dall’1 al 25%) da assegnare al lavoratore per recuperare la fatica tra un ciclo e l’altro, onde consentirgli di continuare a lavorare per tutto il turno, senza nocumento alla salute.

F.F. – Fattori Fisiologici, è la quantità di tempo concessa al lavoratore per i suoi bisogni fisiologici durante il turno di lavoro – la FIAT (compreso il suo indotto) usa uno stesso criterio per uomini e donne assegna un 4% di maggiorazioni, mentre per quasi tutti i manuali di “cronotecnica” è assegnata una differenza tra uomini e donne: il 4% per gli uomini, fino al 7% per le donne;

Pause – sono la quantità di tempo (è una variabile) concessa al lavoratore per allontanarsi dal ciclo di lavoro per cause riconducibili alla fatica derivante dal “vincolo” e/o dalle condizioni di nocività.

Alla differenza tra la ghisa grigia e quella sferoidale (che superò con la fusione, lo stampaggio a caldo delle bielle e di altri particolari del motore), a noi della delegazione sindacale delle Fonderie e Fucine ce l’aveva spiegato un dirigente della TekSid Fonderie, dicendoci pure che le Fonderie di Carmagnola con ca. 3.000 addetti, suddivisi per la Fonderia di Ghisa e la Fonderia di Alluminio), che allora io seguivo e che avevano sostituito quelle di Mirafiori, erano state parametrate per produrre per 2milioni di basamenti motori (pari ad altrettante vetture) con 2 moderni forni cubilotto (cose mai avvenute con un cubilotto sempre fermo!).

Ovvero alla differenza tra la vernice a pastello e a quella metallizzata, al concetto di saturazione, di bilanciamento, ecc.

Non più di tanto perché era la dimostrazione (da me ben conosciuta) della crassa ignoranza di quasi tutto il gruppo dirigente del PCI come “lo sviluppo delle forze produttive” (gli venisse il mal di pancia!); un po' meno nel Sindacato CGIL, dove almeno Sergio Garavini e Bruno Trentin qualche cosa masticavano, in merito alle fabbriche, ai modi di produzione e alle tecnologie presenti, non come mi venivano sempre catalogate (specie nel PCI);

Solo i compagni di origine operaia da me conosciuti padroneggiavano queste conoscenze: da Emilio Pugno, a Gianni Alasia, a Tino Pace, a Giovanni Destefanis, a Giovanni Longo e decine di altri nella FIOM e nella CGIL, per non dire Adriano Serafino, Alberto Tridente, Toni Ferigo nella FIM CISL, a Bruno Torresin, Amedeo Croce e parecchi altri nella UILM – solo due compagni di origine intellettuale mi avevano incuriosito per la loro disponibilità ad imparare: il matematico Renato Lattes e l’ing. Paolo Franco (tutti e due dirigenti sindacali).

In pratica tutto il limite di gruppi dirigenti tutti di origine umanista: gente che sapeva spiegare benissimo ogni nostra sconfitta, ma che erano del tutto inadeguati a prospettare un futuro possibile;

Non che l’origine umanistica fosse stata solo un difetto: anzi fu per un periodo molto lungo un pregio, affrancò il sottoscritto dal livello sottoproletario che ero, ma alla fine degli anni ’70 con tutto il bagaglio di mia conoscenza (e di figure di merda che feci di fronte al “sapere” dei dirigenti FIAT), non bastava più, e con me migliaia di altri meritavamo di più: un sapere tecnico-scientifico che non trovavamo né nel sindacato e ancor meno nel partito.

 

D. andiamo avanti…

È a cavallo della metà degli anni ’70 che si consuma questo matrimonio più che felice che fa festa a questi lavoratori. È di fronte a questa esperienza che mi sentivo come il biondo replicante del film Blade Runner il quale prima di morire, all’umano lì presente dice: “io ho visto cose, ho visitato mondi che voi umani non vedrete mai e adesso con la mia morte tutto andrà perduto…”.

Dura poco, purtroppo. Per la situazione che cambia e per errori marchiani dei soggetti sindacali e politici. I soggetti sindacali, che non prestano attenzione alla gestione degli accordi (specie quelli che derivano dal controllo, che per diventare potere hanno bisogno di tempo, di maturazione tra i lavoratori) e invece a fronte di accordi non del tutto gestiti cosa si inventava? nuove richieste, quasi che al soggetto che non riesce a saltare un metro la scelta sia di quella di alzare l’asticella! (vedi ad es. la prima parte del CCNL di B. Trentin) e i soggetti politici (il PCI in primo luogo), che, specie nella seconda metà degli anni ’70, da una idea di solidarietà e di emancipazione degli uomini e delle donne della fabbrica tendono a trasformarli tutti in “montacarichi” (la classe operaia che si deve fare carico dei problemi dello Stato)! E avanti popolo.

 

D. ma tu che rapporto avevi con la teorizzazione “sull’operaio massa”?

L’operaio massa e l’operaio di mestiere – faccio rispondere a questo quesito con l’affermazione che è presente nella prefazione al mio libro “L’operaio sgalfo” Vittorio Rieser ad un certo punto dice: “Partirò da una battuta ricorrente di Marchetto - che compare anche nel suo testo, e che qui cito nella versione che sentii la prima volta - perché è emblematica del suo modo di pensare e di analizzare la realtà. "L'operaio massa? - ama dire Marchetto - certo che l'ho conosciuto, anzi ne ho conosciuti due: Massa Giacomo della manutenzione, che era iscritto al sindacato, e Massa Giuseppe del montaggio, che non era iscritto però faceva gli scioperi". E, poi soggiunge: "vi siete mai chiesti perché a Mirafiori il turno A scioperava sempre meglio del turno B, anche se avevano esattamente la stessa ‘Composizione di Classe?’ (fa il verso alla ritualità liturgica con cui molti operaisti usano il termine). E risponde: "perché ogni turno è composto da tanti Mimì, Cocò e Zazà, ciascuno con le sue esperienze e le sue idee, che influiscono sui comportamenti".

 

D. Da quello che sei andato descrivendo ne viene un’altra impostazione, specie per quanto riguarda il PCI e figli e nipoti seguiti….

Mi pare proprio di sì e non ti dico la mia sostanziale “solitudine” nell’affrontare in tutti questi anni queste questioni… il tutto persino ignorando l’esperienza degli operai (specie tra questi i più curiosi e intraprendenti) per non dire la sottovalutazione dei cittadini organizzati nelle più varie associazioni laiche e religiose.

Mi pare proprio che paradossalmente occorra ritornando a Ivar Oddone il quale diceva: “I problemi che derivano, per noi, relativi al fatto di esserci resi conto che esistono molti problemi relativi alla risposta che la società ha dato al quesito di Taylor accusato in seguito, dimenticando la domanda da lui formulata: “di creare una scienza che ricuperasse l’esperienza degli operai che avevano nella loro mente un valore professionale produttivo che valeva almeno quanto quello della direzione”, di essere invece il solo responsabile del taylorismo (e non invece dei coniugi Gilbreth), della risposta inaccettabile della comunità scientifica mondiale interessata alle scienze umane essenzialmente ma non solo attraverso l’one best way”.

 

D. C’è una possibile risposta a tutto questo?

C’è la possibilità sempre che si voglia sul serio riflettere sulle esperienze fin qui vissute.

Se non si vuole essere “una rivoluzione indietro” occorre sapere che l’EGEMONIA VIENE SEMPRE PRIMA DEL POTERE.

In fondo, in fondo abbiamo imparato poco o niente dalla storia. Siamo ancora lì: a pensare di andare al governo, avviare il cambiamento compreso il cambiare le teste alla gente (magari con la Stasi come in DDR o gli spioni di Ceausescu in Romania per non dire la delazione in URSS).

Manca una vera autocritica: le rivoluzioni sociali del ‘900 hanno fatto tutte fallimento, da quella Russa a quella Cinese a quella Cubana! L’assunto che le muoveva era appunto PRIMA AL POTERE ATTRAVERSO IL GOVERNO (chi con il fucile ad oriente, chi con il voto e un mare di paternalismo, ad occidente) POI IL CAMBIAMENTO COMPRESO IL CAMBIO DELLA TESTA DELLE PERSONE. Basta vedere come sono finite.

Non abbiamo imparato niente dall’unica rivoluzione RIUSCITA: quella dei borghesi (in Francia nel 1789). Ergo: la borghesia prima (della rivoluzione) creò la sua egemonia nella società, attraverso le scoperte e le invenzioni di più di tre secoli poi queste COSE furono illustrate e spiegate dai pensatori dell’illuminismo (vedi per tutte L’ENCYCLOPEDIE di Diderot e D’Alembert), e quindi quando crebbe la propria coscienza e consapevolezza si accorse che erano (loro i borghesi) i soli a pagare le tasse, mentre i nobili, il clero e la grande proprietà fondiaria erano esenti: si incazzarono di brutto tagliando loro le teste. E bene fecero!

A quando la nascita della nostra Enciclopedia?

Più democrazia è uguale a più produttività. Intanto occorre dire che nella nostra cultura, democrazia e produttività sono sempre state considerate delle antinomie. Allora occorre essere consapevoli che se non si vuole essere dei parolai occorre dimostrare nei fatti e sul campo che i due termini si possono sposare e convivere felicemente insieme. Così come i padroni riescono a dimostrare con i fatti e non con le parole un ben altro assioma: più comando = più produttività.

Infatti, si può benissimo dire che la fabbrica taylorista – fordista e post-fordista vive su un altro assunto: la mancanza di democrazia.

Nel 1982 a Torino facemmo un corso delle 150 ore all’Università con il compagno Prof. Oddone mettendo a confronto 3 situazioni: il comune di Torino, l’USL 1-4 di Torino e la FIAT Mirafiori – le leggemmo attraverso l’assunto: + democrazia = + produttività e cosa scoprimmo? Che l’assunto dava una risposta positiva alla FIAT Mirafiori!

Nel saggio “L’uso inumano dell’essere umano” di N. Wiener ad un certo punto si dice: “nell’epoca dello schiavismo, un essere umano legato al remo di una galera era usato solo come fonte di energia, così come oggi nella fabbrica moderna l’essere umano è costretto alla catena di montaggio e quindi alla ripetizione stupida di alcuni manciate di secondi di attività, ne viene che l’uomo moderno è utilizzato per un milionesimo delle sue capacità” – in pratica l’essere umano moderno non è “sfruttato”, se per sfruttamento si intende le sue capacità mentali.

Allora si pone la vera sfida con il capitalismo globalizzato – progettare un lavoro e una fabbrica dove maggiore produttività sia insieme a maggiore democrazia. Se non ci si pone questa sfida la battaglia è persa in partenza.

Per maggiore chiarezza espositiva vedere lo schema seguente:

I fattori che influenzano la produttività

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È evidente che è un assunto che va dimostrato nella pratica – in pratica è prima di tutto una sfida a noi stessi prima ancora che al padrone.

Ivar Oddone mi ha insegnato a fare delle ricerche “irrituali”: non leggere solo la normalità che nella fase attuale è solo “sghinga”, ma leggere la “devianza” (evidentemente quella a carattere positivo). Domanda: nella fase attuale è possibile rintracciare delle esperienze positive per farle diventare come diceva A. Gramsci, “ordine morale” per il rimanente dei lavoratori?

Per finire (questa mia filippica): l’errore principale per quelle società (e anche per chi come il PCI se ne accorse molto tardi) è stato quello di costruire una società “semplificata dalla dittatura del proletariato (leggi di partito)”, quando invece il miglior socialismo pensabile è quella società complessa in cui la Democrazia deve sposarsi felicemente con la Produttività e i comunisti (o altri) devono esercitare una egemonia fondata sui dati di conoscenza, di esperienza, eccetera. E questa è una “macchia” di cui sono stati portatori prima di tutto quella banda di burocrati che fecero fuori i migliori tra i comunisti, ma anche quegli intellettuali umanistici (qui nella nostra coltissima Europa, in Italia) che per anni si abbeverarono alla migliore cultura europea e poco di questa fu presa in considerazione in nome della costruzione dell’uomo nuovo da avere nell’arco di una generazione. Con i risultati che si videro! E ancora meno si vide per centinaia e migliaia di militanti nel non avere a disposizione un sapere tecnico-scientifico che aiutasse nel percorso di riappropriazione del sapere tecnico-scientifico in mano al padrone.

Per parlare del pieno dispiegamento delle capacità lavorative bisogna avere a mente alcuni postulati di partenza che qui riporto da Ivar Oddone:

Trovare lavoro (anche con una sua riduzione degli orari)

Ridurre drasticamente la precarietà e la flessibilità in azienda. Si impara di più nel lavoro collettivo e dagli esempi positivi di altri lavoratori più anziani, più esperti

Lavoro non nocivo anzi coerente

con la salute in senso

complessivo

Abbattere tutte le forme di nocività conosciute: sono loro, gli ambienti inidonei, e non gli operai che quando lo diventano sono un peso sul rimanente degli altri operai e un costo sociale

Se si vuole che un operaio dia il meglio di sé occorre quindi liberarlo dalle forme di gravosità (i rischi da lavoro), di costrizione (gli accordi alla Marchionne) che non tolte portano gli operai ad un uso del tempo altro, lontano dalla produttività

Lavoro riconosciuto come

produttore di esperienza grezza

Se viene riconosciuto significa un arricchimento

complessivo dell’azienda

Lavoro riconosciuto dalla

società come lavoro sociale

Se viene riconosciuto deve significare un salto nella scala

sociale (quindi va certificato) e un adeguato riconoscimento

retributivo

Ivar Oddone mi diceva che era da poco tempo che era approdato a superare la SUA convinzione che un individuo poteva dare il massimo di sua produttività in un ambiente di lavoro dove non esistesse nessuna nocività (o quanto meno che questa fosse ridotta al minimo). E invece, continuava, l’assenza di nocività era una PRECONDIZIONE perché il suo cervello potesse essere “liberato” dalla preoccupazione del rischio. E io aggiungevo anche la COSTRIZIONE = non rispetto della dignità del lavoratore (alla Marchionne per intenderci) poteva essere causa di non liberazione. E lui conveniva. Ma da lì in poi tutto era da costruire.

È chiaro (almeno per me) che io ragiono sul “qui e ora”, non mi sogno neanche lontanamente di ipotizzare quale sviluppo avranno queste mie gabole. E sono altresì convinto che occorre “innestarle” nel meccanismo attuale di carattere aziendale e quindi immediatamente dopo di carattere generale ragionando sulla produttività più in generale. E francamente non capisco questa lettura di un capitalismo tutto uguale dappertutto, scevro da ogni contraddizione. È vero che al fondo il capitalismo ha “il profitto e il comando”, ma lo avevano in altre forme anche le società nobiliari in pieno medio evo e ciò non bastò per impedire la nascita di forme preborghesi che un po’ alla volta si fecero strada. A me pare che così non sia (un capitalismo tutto uguale, ecc.), vedi le contraddizioni tra le aziende “esemplari” e le altre (vedi le 4.600 aziende di cui parla Antonio Calabrò nel suo libro “Orgoglio Industriale”, lui le chiama le “multinazionali tascabili”), tra il capitalismo italiano e quello renano, per non dire quello statunitense e quello giapponese e via andando. Così come lo erano diverse le forme di “socialismo realizzato”.

Riporto le cose scritte nel libro di Minucci (La crisi generale tra economia e politica) è il capitolo V° che parla del “Nodo della continuità”. Mi ha colpito nel senso di non trovare niente o quasi nello sviluppo delle rivoluzioni “socialiste” nel 20° secolo: cosa mai esisteva in quelle società che fosse in embrione il “socialismo” che poi si sarebbe instaurato? C’era in Russia? C’era in Cina? Erano completamente assenti! Anzi (ed è di questi tempi) il Partito Comunista Cinese è attualmente a capo di una modernizzazione a carattere capitalista con annesso sfruttamento dei lavoratori, di alienazione di larghe masse e tutto l’armamentario tipico della fase di costruzione del capitalismo... e sì che la borghesia nascente nel tardo medio evo attraverso le scoperte scientifiche e non, attraverso l’affermarsi di nuove professioni nell’arco di 3 secoli o giù di lì, si installò via via nell’ambito della società medioevale fino ad arrivare al 1789 a scoprire l’inutilità delle classi allora al potere e.. tagliò le teste ai nobili e al clero.

Il pluralismo – chissà perché quando noi, parliamo delle vicende nostre, italiane, europee, ecc. facciamo sempre la distinzione tra partiti e sindacati, anzi esaltando (come nel caso italiano) la funzione autonoma e unitaria dei sindacati, quando invece parliamo dei paesi del “socialismo reale” o della Cina, parliamo quasi unicamente dei comunisti e del partito comunista a cui rivolgiamo delle critiche che ce lo fanno diventare di volta in volta il boia e l’impiccato... mah! E a proposito di pluralismo non c’era solo quello dei partiti delle società dell’ovest. Anche i Soviet erano e contenevano una forma di pluralismo da praticare come pluralismo non delegato, ma una forma di democrazia diretta, a cui prestare la massima attenzione, a cui caso mai i comunisti dovevano GUADAGNARSI la fiducia e essere in questi organismi la maggioranza e non imporla come è stato attraverso un potere statuale (e poliziesco). Così non è stato per cui l’Unione delle Repubbliche Socialiste SOVIETICHE è stata fin dall’inizio tutt’altra cosa, salvo che una Repubblica SOVIETICA. Stessa cosa mi pare per lo sviluppo delle “Comuni” nella Cina maoista: anche lì non si è mai capito dove era il partito: tra le “masse o contro le masse...”

La nocività e la costrizione – se applichiamo le stesse categorie che ci servono per capire i dati di partenza per una “liberazione del cervello” dei lavoratori in occidente, dobbiamo farlo anche per i lavoratori dei paesi dell’est compresa la Cina. Ebbene, mi pare francamente troppo pretendere che in quelle società, a quel livello dello “sviluppo delle forze produttive” i manager di quelle imprese, i sindacati, i lavoratori fossero nelle situazioni di produrre esempi migliori di quelli che potevano esserci nelle aziende occidentali (tra le migliori, le più sindacalizzate, le più vecchie in termini di età, ecc.). Restava anche qui, un ruolo dei comunisti nei sindacati di autentica egemonia e autonomia del soggetto lavoratore che invece non c’è stato per niente, avendo come risultato uno “stato operaio” senza nessuna egemonia della classe operaia, la quale la sua coscienza era il partito comunista... al potere! Risultato: nel partito si fiondavano tutte le aspirazioni (legittime e non) degli individui più intraprendenti, alla fine della fiera (vedi gli ultimi anni ’80) l’intraprendenza combinava con la corruzione e la corruttela. Nei sindacati, somigliando alle peggiori forme di sindacalismo corporativo e di integrazione nel modello aziendale di marca americana o di particolari esperienze del sindacalismo corporativo europeo. Ho ancora negli occhi la deferenza (tutta falsa, te ne accorgevi a cena con un bicchiere di vodka in più nel corpo) dei sindacalisti nei confronti del manager dell’impresa quando non del capo del partito. Per non dire dell’ultima degenerazione da me toccata con mano: il meglio della creatività, dell’esperienza operaia, della tecnica era fiondato nella produzione di strumenti di morte (aziende di armamenti) facendo qui sì la punta alle produzioni dell’ovest, americani in testa, mentre era del tutto fallimentare la produzione (e la produttività) nel campo della produzione di beni di consumo durevoli. Qui vigeva lo scambio alla democristiana nel nostro pubblico impiego: “io non rompo le balle a te, tu dai un voto a me”. Stesso scambio nelle aziende sovietiche: “voi operai mi date il vostro consenso e io partito vi garantisco il posto di lavoro e un minimo di “stato sociale” a livello aziendale”. In cambio ai lavoratori più intraprendenti cosa restava: quello di andarsene via continuamente da una azienda all’altra alla ricerca di aziende dove il welfare aziendale fosse il migliore e dove vigesse un clima di autoritarismo e di paternalismo meno dispotico e oppressivo. Ma valga per tutte la seguente questione: è in occasione delle rivolte operaie che la produttività operaia raggiunge vette mai raggiunte nei periodi di “normalità”. Il perché è facile intuirlo: si trattava di periodi di grande e intenso impegno individuale e collettivo: “le fabbriche sono in mano nostra, di operai e tecnici e quindi bisogna darsi da fare” – questo nelle ricorrenti rivolte in Polonia, ma anche in Cecoslovacchia, ecc. salvo tornare a vivacchiare nei periodi di “normalità burocratica”.

Ed è chiaro, almeno per me, il limite delle passate rivoluzioni: il partito, che doveva rappresentare e guidare la transizione sia in URSS sia in Cina. Hanno fallito entrambi in entrambi i paesi! Il problema non è quello solamente di RAPPRESENTARE ma di ORGANIZZARE nelle aziende e nella società tutte quelle novità che si presentano, ergo: BISOGNA CONOSCERLE, farle proprie, socializzarle, farle diventare ORDINE MORALE PER UNA INTIERA COMUNITA’. Quindi bisogna avere sindacati e partiti atti alla bisogna (dove sono? Mannaggia!).

Prima di morire Ivar Oddone precisò cosa, nelle attuali società sviluppate, con questi modi di produzione, si potrebbe tentare di fare: con quella che lui chiamava “la carriera dell’operaio”, (al fondo della quale ci potrebbe essere quel livello di consapevolezza che di per sé significherebbe una maturità delle “masse”), ovvero colmare l’indeterminatezza della strategia della lotta contro questa divisione del lavoro, per puntare ad un’altra divisione. Sarebbe sul serio costruire gli embrioni di novità per una società altra.

Intanto a partire dal recupero (e dalla trasmissione) delle competenze professionale dei lavoratori più esperti ai lavoratori più giovani e meno esperti. Basta pensare quale immane lavoro si presterebbe a fare per i sindacati. In fondo si tratta di dare seguito alla invocazione di Taylor il quale chiedeva di “produrre una scienza che raccogliesse tutto il sapere dei lavoratori e non una tantum ma in progress, che servisse a completare il sapere delle direzioni aziendali. In caso contrario ci sarà un sapere che andrà del tutto disperso”.

 

Fare i conti con i Big-data e gli algoritmi

Il corpo a corpo

Intendo quella pratica che in gioventù, militante del PCI, facevo in occasione delle campagne elettorali. Andare “casa per casa” a discutere e più di qualche volta a bisticciare con i cittadini – ancora di più delle discussioni molto accese nei bar e in altri locali piene di gente;

Era questa una pratica attraverso la quale potevi scorgere tutte le contraddizioni in “seno al popolo”, esempio: a questo proposito racconto un episodio descritto da un giornalista a proposito di una intervista ad una signora di colore in uno degli stati del sud degli USA, abbandonata dal marito, con 4 figli piccoli, con un lavoro mal pagato e oltretutto precario. Alla fine dell’intervista dopo aver ascoltato tutte le disgrazie di questa signora di colore, il giornalista chiede alla signora per chi voterà? Risposta: “certo che andrò a votare e voterò per Trump”. Ma come, obietta il giornalista, “dopo avermi elencato tutte le sue disgrazie, voterà per Trump?” – “certamente perché almeno lui mi fa sperare, che un giorno o l’altro mi capiti qualche cosa che possa tirarmi fuori dai miei guai”! è il sogno, e tu prova un poco a rompere la fiducia in un sogno!

Per certi aspetti vale anche per i migranti che si spostano dall’Africa per venire in Europa, in Italia. Forse che non sanno ciò che li attende, dai quattrini che devono sborsare per partire, dal viaggio, dalla Libia con i suoi aguzzini, dal mare sui barconi, ecc.? Per noi umani il sogno (= migliorare la propria condizione è sul serio un aspetto importante).

L’oceano dei BIG-DATA

In due recenti libri: “Il mercato della conoscenza” di Christopher Wylie (che ha come sottotitolo: come ho creato e poi distrutto Cambridge Analytica) – e “Il capitalismo della sorveglianza” di Shoshana Zuboff si mette in evidenza la modalità del tutto recente attraverso la quale ogni nostra azione viene quotidianamente “profilata” per andare a finire nell’oceano dei Big-Data.

L’estrazione mediante gli ALGORITMI

Da questo oceano ne viene una estrazione fatta con tutta una serie di “algoritmi”: quelli per venderti dei prodotti (avendo a mente il ragazzino di 11 anni di berlusconiana memoria), a quello di vendere delle auto (che ti danno la “libertà”) e un eccetera lunghissimo, fino a quando in maniera del tutto personalizzata ti viene “suggerito” per quale Partito e Candidato votare!

Accanto ai successi prima di OBAMA adesso di TRUMP ci stanno queste “manipolazioni” – senza diritto di replica!

Senza diritto di replica

Appunto: senza diritto di replica. Questo è l’aspetto più pericoloso di queste diavolerie. Non puoi metterle in discussione. Almeno nella versione del “corpo a corpo” il diritto di replica era OGGETTIVO al rapporto che tu instauravi con il tuo interlocutore. Anzi c’era pure il CONFLITTO per parti avverse.

Nel campo della politica a cosa si assiste, ad una “divisione del lavoro”: al candidato il compito di parlare al “cuore” delle persone (Obama) o alla “pancia” delle stesse (Trump), ai progettisti degli Algoritmi il compito della “persuasione occulta”.

Nel caso di Trump, una ulteriore conferma dell’assenza del “diritto di replica”: basta vedere nei filmati delle sue assemblee il modo come fa allontanare dai suoi gorilla coloro i quali hanno l’ardire di chiedergli spiegazioni quando non contraddirlo, con gli insulti che lui gli invia.

Il compito dei progettisti = Christopher Wylie dice chiaramente a cosa servono: “a fottere il cervello della gente”!

Per cui di fronte a questo problema bisogna porsi come Alice nel Paese delle Meraviglie, quando entrata, chiede: “ma chi è qui il padrone, chi è che comanda qui?”, per capire appunto con chi si deve NEGOZIARE e se serve produrre il necessario CONFLITTO.

Ciò implica una domanda successiva: “che ipotesi di uomo ha il “progettista di algoritmi”. E ciò chiama in causa un’altra domanda: “che ipotesi di uomo ha il nostro negoziatore?”

M i pare inoltre che occorra tenere in conto di un’altra questione che è dirimente: il processo (che bisogna immaginare continuo) di riappropriazione dei “modelli e dei piani tecnico scientifici” che l’attuale divisione del lavoro assegna agli “istruttori”.

Figurarsi se non so che sarà una lunga battaglia (per chi la vuole intraprendere) però questa mi pare la “nuova frontiera”. Convengo invece sui dubbi di poter avere un qualche terreno di sperimentazione nella situazione attuale (vedi la crisi) e nel contesto italiano fatto da un lato di piccole e micro imprese con imprenditori (abbastanza giovani) però, quasi tutti, con la “bocca alla canna del gas”, e dall’altro lato con una serie di imprenditori non più giovani che non hanno più voglia di rischiare, lo hanno già fatto in gioventù, ora un po’ di patrimonio è accumulato, i figli sistemati e il capitale ha già delle remunerazioni a livello altro (finanziario e simili..).

Ammettiamo per una volta di aver “specializzato” i nostri operai, che cosa farne di questa specializzazione? Sta dentro un contesto “specializzato”? non pare proprio. Siamo ormai un terziario della produzione manifatturiera della Germania con un numero esorbitante di piccole e microimprese che non hanno nessun soldo per fare ricerca e tantomeno innovazione. Partiamo dai dati: quante aziende (e padroni ci sono in Italia)? Quelle metalmeccaniche (dati INPS degli anni 2000!): sono 130.000 per 2.003.600 addetti, di cui 320.000 nel settore artigiano (l'Italia è quella a maggior presenza di artigianato: il 23% di occupazione indipendente sul totale degli occupati, siamo al 3° posto dopo la Turchia e la Grecia mentre la Francia e la Germania hanno il 10%). Gli addetti medi sono 15,5 per impresa.

Ancora: come è la composizione di queste imprese? Solo 2.700 imprese avevano nel 2000 più di 100 addetti, il rimanente stava al di sotto, con 100.000 di queste che stavano al di sotto dei 50 addetti - ora un'azienda di 50 addetti ha in media 15-20 impiegati - alla FIAT Mirafiori su circa 45.000 addetti gli ingegneri erano 64! e nel 1990 il 40% degli addetti alla carrozzeria di Rivalta aveva la 5a elementare!

Anche se (specie nelle aziende esemplari?) può esserci qualche Amministratore Delegato che ammaestrato dal tojotismo e da una serie di pratiche democratiche con i suoi dipendenti non possa essere incuriosito per questa nostra proposta (al fine ovviamente di incrementare i suoi profitti, beninteso). Il problema mi pare sia chi ha L’EGEMONIA di questo processo. Se non si tenta cosa altro c’è da fare visto che dalla crisi non si uscirà con la situazione pre-ante...? specie in questo periodo di Pandemia!

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Cosa si può dire:

1. La stragrande maggioranza di queste aziende sono di piccole dimensioni e i proprietari sono relativamente giovani, quasi tutti pieni di intraprendenza. Dentro ci sta’ di tutto: dalla genialità, alla professionalità, al rispetto delle regole, alla ignoranza più crassa, al lavoro sottopagato, in nero, alla evasione fiscale e contributiva, fino agli odierni “forconi”. Li accumuna, nel periodo attuale, la stessa condizione: tutti con “la bocca alla canna del gas”. Quando vanno in banca trovano degli strozzini, mentre invece per le aziende grandi (magari con i debiti) c’è la manica larga;

2. Una minoranza di medie e grandi aziende, affermate da anni, però con imprenditori avanti con l’età, che non hanno più voglia di rischiare (l’hanno già fatto in gioventù), ora la villa c’è, la pelliccia per la moglie pure, i figli sono sistemati e i profitti sono remunerati non con la ricerca di produttività (quindi innovazione ecc.) ma con l’abbassamento del costo del lavoro, le esternalizzazioni, la delocalizzazione, la precarietà, la remunerazione del capitale in borsa e un eccetera sconfinato. Per non dire il fatto che una parte di queste imprese sono ad oggi controllate da poteri mafiosi.

3. Contando il fatto poi che da qualche decennio in qua il nostro apparato produttivo è quantomeno un indotto della grande manifattura della Germania;

4. Quindi stando all’attuale “sciopero” sugli investimenti da parte di questo padronato, per ignoranza, ignavia, e con la filosofia di “farsi ricco in fretta”, ci sta’ portando se non allo sfracello, comunque ad un declino inarrestabile, dentro alla crisi del capitalismo attuale che è diventata “crisi di sistema” che da un lato può disegnare IL LAVORO per il futuro prossimo del tutto precario e per l’abbandono finale dello “stato sociale” così come lo abbiamo conosciuto: vedi gli oltre 10mlioni di persone che attualmente non si curano più per non dire gli oltre 4milioni di persone che vivono nella povertà assoluta.

Ed è a partire da questi nudi dati e da queste mie personali considerazioni che io non vedo nel panorama italiano qualche cosa che assomigli anche lontanamente ai postulati della Industria 4.0. se non per la propaganda che se ne fa.

Antonio Calabrò nel libro Orgoglio Industriale, Ed. Mondadori, ci dice che nel 2008 nelle oltre 4.000.0000 di aziende nel territorio italiano, ce ne sono 4.600 (lui le chiama “multinazionali tascabili” che vanno dai 50 ai 500 addetti, 600 di queste hanno più di 500 addetti) che forse ci tireranno fuori dalla crisi.

Domanda: chi le conosce, cosa producono e per chi, e cosa fa lì il sindacato (posto che ci sia)? Domanda successiva: è una bestemmia pensare di poter costruire a sinistra (dai sindacati) un archivio di queste aziende per portarle all’onore del mondo, per tentare di farle mettere in contraddizione con il resto delle imprese, prima che la crisi sia occasione di adeguamento alla normalità rappresentata dalla crisi e dalla recessione? per tentare una sorta di “alleanza dialettica” con il movimento dei lavoratori. Non fosse altro perché in questo campo vi sono senz’altro le possibilità di un “conflitto” più avanzato e non solo sulla difensiva. Inoltre, l’Assolombarda ha censito in Lombardia 60 aziende esemplari che fanno parte di un altro archivio: “L’INDUSTRIA ITALIANA CAMBIA VOLTO” di ca. 530 imprese (vedi la ricerca Conoscenza e crescita: le nuove strategie delle imprese del sistema Confindustria – Centro Studi – Progetto Focus Group). Di queste imprese si sa il nome, l’ubicazione, il prodotto, il mercato e un eccetera sconfinato.

Occorre partire dal recupero delle esperienze esemplari tra i lavoratori;

Recuperare queste esperienze e archiviarle in Data Base a disposizione dei più;

Verificare l’assenza o quasi di ogni elemento di rischio o di costrizione;

Le istruzioni al sosia = «dammi tutte quelle informazioni per le quali io possa sostituirti senza che altri se ne accorgano»;

Recuperare la storia sociale, scolastica e professionale del soggetto;

Avere una ipotesi di uomo, alternativo a quello del padrone;

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Paolo Selmi
Saturday, 30 January 2021 15:44
PS sul "potenzialmente scevre" ci torno ora. Se prendiamo come esempio il modello capitalistico giapponese, ed estremo-orientale in generale, notiamo infatti come la spinta al miglioramento continuo si fondi proprio sul PASSAGGIO - in un orizzonte pienamente di sfruttamento capitale-lavoro - DA UN MODELLO QUANTITATIVO A UN MODELLO QUALITATIVO.
- Ma sempre di sfruttamento si tratta...
- Siamo d'accordo. Il problema è che il substrato confuciano entro cui il kaizen si colloca, maschera pienamente il rapporto di sfruttamento e, anzi, fa sentire il lavoratore - PIU' ALIENATO del collega occidentale - PARADOSSALMENTE PARTECIPE del processo produttivo, delle trasformazioni che occorreranno grazie a lui, meglio, al suo collettivo.
- Ma in Italia non funzionerebbe mai...
- Certo, nonostante la fondazione Agnelli è dall'inizio dei Novanta del secolo scorso che ci prova...
Il padrone è padrone e visto che "fuori c'è la fila" appena posso svicolo e, dopo le otto-dieci ore che passo qui dentro, non ci sono per nessuno. In Giappone non è così... la "lealtà-dovere" (忠義 chūgi zhongyi in cinese) del samurai al suo padrone è stata trasferita in fabbrica.

Dove non ci riesce la fondazione Agnelli, ci è riuscito lo "smart working", il lavoro "agile"... non devi più timbrare, non c'è più un cronometrista... nessuno ti vede se sei uscito a prendere la bambina da scuola o sei davanti al pc... ma il lavoro DEVE essere fatto. Il problema DEVE essere risolto. Nessuno DEVE lamentarsi... e le otto ore sforano, senza neppure lo straordinario pagato, incollati da mattina e sera davanti a un terminale, sfruttati né più né meno di tante casalinghe di queste parti che, senza andare molto lontano fino a poco fa, una volta sbrigate le faccende di casa o durante le stesse prendevano una pezza, la srotolavano, e con pazienza e velocità estreme tagliuzzavano pizzi e ricami da sposa, li impilavano, li univano con un elastico, e sotto con un'altra pezza, per dieci lire a ricamo, se non mi ricordo male...

Oggi siam tornati lì... al tipo che porta la pezza e torna a ritirare i ricami, solo che ora invece di un paio di forbicine ti danno lavoro da ufficio, di concetto, così che - a differenza della casalinga che ascoltava la radio, o guardava la televisione, o pensava a cosa fare per cena - giacché, come dice il Wiener che citi "l’uomo moderno è utilizzato per un milionesimo delle sue capacità", in questo caso ci sei dentro anima e corpo, ti partono insieme vista, schiena, tasso glicemico nel sangue, cervello, salute mentale, rapporto con gli altri familiari, vita sociale, ecc.

Ecco perché quelle due frecce sotto il tuo schema, per me, sono "potenzialmente scevre". Perché i padroni ormai hanno imparato a impossessarsi anche di queste.

Ancora grazie e un caro saluto
Paolo Selmi
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Mario Galati
Saturday, 30 January 2021 14:45
Mi sembra di aver capito che il progetto "rivoluzionario" dell'intervistato consista nella realizzazione per via sindacale di una "democrazia" operaia finalizzata all'aumento della produttività, interna alla logica toyotista. E il tutto per il benessere degli operai e, naturalmente, per l'ingrasso dei padroni.
Le cause della fine del PCI non sono da cercare soltanto nell'ingresso numeroso dei ceti medi intellettuali nel corpo del partito: questa intervista ad un elemento operaio dirigente e più che sindacalizzato, persino troppo, credo che lo dimostri a sufficienza.
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Paolo Selmi
Saturday, 30 January 2021 11:21
Caro Gianni,

piacere di conoscerti, anche solo per via epistolare, e inizio subito con un appunto GRANDE TANTO QUANTO IL GRAZIE per queste tue analisi e riflessioni... ma come si fa a chiamare questa intervista "Riflessioni sulla nascita del PCdI del 1921"!!! Sarebbe come se, tornando indietro all'epoca analogica e a quando avevo i capelli, uno mi avesse fatto vedere una foto di una ragazza che mi voleva conoscere... e fosse la foto in tutona, calzettoni e magari due belle zucchine in faccia! Scherzi a parte, le tue sono LE RIFLESSIONI DI UNA VITA!!! Una vita in carne e ossa, fatta di letture, di analisi, di ragionamenti, così come di pezzi che escono dagli stampi, operai Massa (di cognome) anch'essi in carne ed ossa, cronometristi che ti prendono il tempo anche per quanto stai al cesso o per quanto ci metti a fumare una sigaretta. E tutta questa ricchezza non può essere rinchiusa in quel titolo. E' farle il torto più grande.

Nelle tue riflessioni tocchi molti argomenti su cui ho lavorato anch'io l'anno scorso nella mia indagine sull'emulazione socialista in URSS. Ti giro il link, poi c'è un file pdf da scaricare, se ti interessa, altrimenti te lo posso mandare per posta elettronica:
https://www.academia.edu/43631379/2_2_5_Lemulazione_socialista_социалистическое_соревнование_in_URSS

In particolare, molte delle tue obiezioni sul ruolo del partito e del sindacato sono così, idealmente, raccolte, da quanto si sviluppò nei primi dieci anni dopo la Rivoluzione d'Ottobre, un periodo estremamente fecondo grazie proprio a quegli operai e contadini, scelti DAGLI stessi lavoratori e non solo FRA gli stessi lavoratori, all'interno della cosiddetta "leva leninista", per organizzare non solo l'emulazione socialista, ma l'intera scansione di tempi, mansioni, risorse all'interno della fabbrica, dell'azienda agricola e del luogo di lavoro in generale.

In quel periodo, molto di quanto si fece si avvicinò parecchio a quanto riporti di Oddone: "con la nascita dei Delegati di Gruppo Omogeneo, la contrattazione articolata e tutte le forme di controllo e di potere che ciò si tira dietro, la coscienza di classe non è più solo appannaggio del partito politico che la trasferisce alla classe, ma si costruisce anche attraverso altre strade e altri confronti con altri intellettuali”, diversi dagli ‘organici’ al partito."

Poi arrivò l'imperativo staliniano del "raggiungere e superare il capitalismo" inteso UNICAMENTE come produrre di più, e torniamo alle prime due frecce, quelle di sopra, del tuo schema di produttività. E da lì non ci si schioda fino alla caduta del muro, se non per qualche espressione minoritaria di cui mi sto occupando (quando la sera messi a letto tutti ho ancora qualche residuo da buttar dentro questo lavoro tutt'altro che semplice, non tanto per il russo, che grazie a Dio capisco ormai immediatamente, ma alla testa che ormai non c'è più a quell'ora...) proprio per cercare di non scoprire l'acqua calda un'altra volta, per spremere tutto quanto di buono è stato fatto e partire da lì, e non da un grado inferiore.

Tra l'altro, da topo di rete quale sono, sono riuscito a recuperare la Dispensa di Oddone e Marri
http://www.mirafiori-accordielotte.org/1956-68/ambiente-di-lavoro/
insieme a un suo lavoro collettivo del '77
http://www.mirafiori-accordielotte.org/wp-content/uploads/2012/10/1977-Oddone-AdL-la-fabbrica-nel-territorio.pdf
e a una tua presentazione in lucidi:
http://www.mirafiori-accordielotte.org/wp-content/uploads/2017/04/16.03.30-Marchetto-Salute-e-WCM.pdf
Ma sarà sicuramente una ricerca incompleta. Occorrerebbe in tal senso una bibliografia ragionata, ovvero guidata per argomenti, tematiche, di modo da dare anche modo di sviluppare e ricercare su singoli aspetti, in particolare, per poi riferirli dialetticamente al totale, al generale.

Dici una cosa giustissima sulla PRECONDIZIONE. Io la estenderei all'intero MODO SOCIALISTICO DI PRODUZIONE. Così come l'assenza di nocività (ovvero non devo aver paura di perdere un'attimo la concentrazione e lasciare sotto la macchina una falange) e l'assenza di costrizione (o così o così altrimenti fuori c'è la fila) sono PRECONDIZIONI per sviluppare la produttività lungo le due direttrici POTENZIALMENTE SCEVRE di sfruttamento (sul "potenzialmente" poi ci torno), allo stesso modo PROPRIETA' SOCIALE dei mezzi di produzione e CONDUZIONE PIANIFICATA degli stessi sono precondizione per costruire un'economia in senso socialistico.

Visti i tempi, quando purtroppo la prima potenza industriale al mondo autoproclama "socialismo" dove c'è solo "capitalismo con caratteristiche cinesi", è giusto premettere anche questo. Ma sempre di PRECONDIZIONI si tratta. Se poi, dopo aver socializzato tutto, dopo aver iscritto anche l'ultima fresa a controllo numerico entro un PIANO globale, o Gosplan, utilizzo questo enorme potenziale solo per fare più pezzi degli altri, ho sprecato l'ennesima occasione storica di costruire qualcosa di diverso.

LEGGO PROPRIO IN QUESTA CHIAVE UN VANTAGGIO ULTERIORE DI QUESTA PRECONDIZIONE: solo in un modo di produzione socialistico, ovvero con le premesse di cui sopra, è possibile stabilire - proprio nelle modalità di Oddone - uno scambio profiquo fra produzione e resto delle sfere sociali, ivi compresa quella del consumo. Dal produttore al consumatore è immediato perché il produttore è insieme consumatore e proprietario dei mezzi di produzione. Leggere la produttività non solo in senso quantitativo, ma qualitativo, pertanto, assume una nuova valenza, laddove il proprietario dei mezzi di produzione è anche medico del lavoro, medico di base, psicologo, geologo, ingegnere ambientale, laddove quindi la stessa nozione di "valore d'uso" di un bene o servizio accresce qualitativamente la fattura finale del bene o servizio in questione in un modo assolutamente INAVVICINABILE dal capitalismo, per il semplice fatto che non è il profitto, con le sue logiche, a muovere il tutto. Un bene fatto per durare, per esempio, contrasta con la logica "usa e getta" con cui oggi è concepito e ingegnerizzato.

Naturalmente, MECCANISMI DI QUESTO TIPO non solo presuppongono, ma invogliano a una CRESCENTE PARTECIPAZIONE, ciascuno nel suo ambito. E il risultato di questo lavoro collettivo sarà l'esatto contrario di una mentalità alienata e alienante, come è invece quella che domina nella società globalizzata attuale, paradossalmente "social", come peraltro noti alla fine del tuo lavoro.

Grazie di questo lavoro, estremamente stimolante e ricchissimo di spunti di ricerca, oltre che di esperienze e testimonianze.

Un caro saluto.

Paolo Selmi
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