La parabola dell’economia politica – Parte XXVI
Il monetarismo e l’apologia della disoccupazione
di Ascanio Bernardeschi
Illustrazione degli elementi cardine della teoria monetarista
L’aspetto centrale del monetarismo, che si oppone radicalmente alla teoria keynesiana, è la teoria della moneta, per alcuni aspetti un recupero di prescrizioni della della vecchia teoria quantitativa [1], ma in cui la moneta non è un “velo”, bensì lo strumento più importante per governare l’economia.
Per i monetaristi la causa principale dell’inflazione – che poi è la maggiore preoccupazione dei seguaci di questa scuola [2] – è un eccesso dell’emissione di banconote da parte delle banche centrali. Secondo questa teoria occorre evitare che l’emissione di moneta (offerta) superi la domanda. Dovrebbe invece essere automaticamente quantificata, con l’obiettivo unico di regolare il livello di inflazione. La regola monetaria fissa di Friedman, chiamata k-percent rule, prevede che l’offerta di moneta sia calcolata sulla base di fattori finanziari e macroeconomici conosciuti. In questo modo la banca centrale non dovrebbe obbedire a indirizzi politici ma applicare in piena indipendenza questo automatismo, mentre gli imprenditori e gli speculatori potrebbero agire più consapevolmente, conoscendo in anticipo, sulla base dei dati macroeconomici, tutte le decisioni di politica monetaria, se così possano ancora denominarle, vista la rigidità della regola. L’offerta di moneta dovrebbe arrestarsi ancor prima che sia raggiunta la piena occupazione, la quale è considerata in sé un male. La motivazione tecnica di questo “male” viene dedotta da un uso strumentale della famosa curva di Phillips che descrive una relazione inversa tra il tasso di disoccupazione e il livello dei salari.
Tale curva, secondo la formulazione originaria [2], mostra semplicemente che al diminuire della disoccupazione, in conseguenza del maggiore potere contrattuale acquisito, la classe operaia rivendicherà salari maggiori. Il che è pacifico e lo abbiamo visto in sede di illustrazione del ruolo dell’esercito industriale di riserva nella teoria marxiana.




1. A chi mi chiede quale libro possa meglio introdurlo al marxismo, rispondo: Stato e rivoluzione di Vladimir Ilich Lenin. Perché? Perché se Marx è il cervello, Lenin è il corpo del marxismo, e per i materialisti è nel corpo che risiede anche il cervello. Il marxismo non è infatti una teoria economica ma una critica dell’economia politica, laddove critica significa in primo luogo capacità d’analisi nell’immergersi in un mondo caotico e conflittuale, materialmente dominato da padroni che ti sfruttano e da un sovrano che ti comanda. Quel “ti sfrutta” e quel “ti comanda” significano che il comando ha a che fare con il tuo corpo, cioè con i corpi, le energie, le passioni, i valori di chi abita e lavora questo nostro pianeta. Lenin, con Stato e rivoluzione, mette i corpi all’interno della lotta quotidiana dove si annodano rivendicazione economica e passione politica, sforzo di emancipazione e potenza di liberazione. In questo primo approccio, Stato e rivoluzione significa: i corpi in lotta contro la materialità del comando capitalista.
"Il lavoro in pelle bianca non può emanciparsi, in un paese dove viene marchiato a fuoco quand'è in pelle nera" - Karl Marx
1. I criteri di riferimento per lo studio del rapporto di Losurdo con il liberalismo
Lo scorso anno è stato pubblicato per le Edizioni della Normale un agile e interessante libro del filosofo Massimo Mugnai dall’accattivante titolo “Il mondo capovolto. Il metodo scientifico nel capitale di Marx”. A fronte delle sue ridotte dimensioni è un libro molto denso e ricco di spunti di riflessioni che riprende e sviluppa temi già affrontati dall’autore in una vecchia pubblicazione edita dalla casa editrice Il Mulino nel lontano1984 dal titolo “Il mondo rovesciato. Contraddizione e valore in Marx”.


1. Nel corso del mio prolungato soggiorno sul pianeta Marx, dove sono stato trascinato dall’astronave marxziana “La Grundrisse” (vedi Cronache MarXZiane n. 1) mi ero fatto l’idea che la presenza delle cosiddette “merci non-base”, che sono una componente significativa del suo panorama, potesse avere una qualche parte nella “legge di caduta” del suo Saggio Massimo (di profitto). Ricordo i due termini in questione: Saggio Massimo è il maggiore dei saggi del profitto qualora non si paghino salari (il che succede in una estrema periferia del pianeta che ho visitato) e questo è evidente: essendo il profitto P = (Y – W) con Y = prezzo del Prodotto al netto del capitale impiegato K e W = ammontare dei salari, per W = 0 sarà:
0. Premessa
Abbiamo visto che Sraffa utilizza la 
Esiste una “economia politica dei corpi” da quando esiste, storicamente e politicamente, la forza lavoro, da quando, cioè, esiste la questione della riproduzione di questa merce particolare, “scrigno che contiene la facoltà più importante della vita”, la condizione che rende possibile il lavoro vivo e la sua capacità di produrre valore32. La biopolitica foucaultiana, il nesso tra esercizio del potere e vita biologica, è di fatto un'economia politica dei corpi iscritta nei processi di accumulazione del capitale. Riprendendo sinteticamente una riflessione iniziata tempo fa33, vorrei ragionare sul divenire macchina, cioè capitale fisso, del corpo della forza lavoro a partire dalla fine del capitalismo industriale fordista. A partire, anche, dal “Frammento sulle macchine”, il capitolo dei Grundrisse in cui Marx, situando il general intellect, cioè il sapere astratto, la scienza e la conoscenza impersonale, nel capitale fisso, definisce il lavoro necessario, vivo e immediato, come “una base miserabile rispetto a questa nuova base che si è sviluppata e che è stata creata nel frattempo dalla grande industria stessa”34. L'ipotesi da cui parte questa riflessione è che, nella transizione al postfordismo, il general intellect si sia per così dire risituato nel corpo della forza lavoro, trasformandolo in contenitore non solo della facoltà di lavoro vivo, ma anche del suo opposto: capitale fisso, macchina, lavoro passato. Questa metamorfosi, questa trasposizione delle principali funzioni del capitale fisso nel corpo della forza lavoro, è stata possibile con l'ingresso del linguaggio e della comunicazione direttamente nei processi produttivi. È il linguaggio che ha veicolato il capitale macchinico nel corpo stesso della forza lavoro, rovesciando il “lavoro superfluo” del Marx del Frammento in “lavoro necessario”, lavoro vivo di cui il capitale si appropria per riprodurre sé stesso, per crescere oltre sé stesso.
Il libro di Paolo Favilli (A proposito de Il Capitale. Il lungo presente e i miei studenti. Corso di storia contemporanea, FrancoAngeli 2021) è un immaginario corso universitario di storia contemporanea su Il capitale di Marx, rivolto quindi a un pubblico non solo di studenti ma anche di lettori non specialisti. Come lo stesso titolo ci suggerisce, non è il capolavoro di Marx in quanto tale, come opera puramente teorica e scientifica, a costituire il suo tema specifico.
Il lavoro che il capitale cerca di appropriarsi direttamente e indirettamente può presentarsi nelle forme più diverse: dal lavoro di cura svolto in famiglia, necessario per riprodurre la forza-lavoro, alla scienza, che, nel Capitale, è presentata come un caso di lavoro altrui appropriato senza pagarlo: «la scienza non costa in genere ‘niente’ al capitalista, il che non gli impedisce affatto di sfruttarla. La scienza ‘altrui’ viene incorporata al capitale, come lavoro altrui»1. Nel modo di produzione capitalistico «tutti i modi per incrementare la forza produttiva sociale del lavoro si attuano a spese del lavoratore individuale; tutti i mezzi per lo sviluppo si capovolgono in mezzi di dominio e di sfruttamento del produttore»2. L’enfasi prometeica sullo sviluppo macchinico, ancora presente nei Grundrisse3, non ha più come esito il passaggio immediato al comunismo. L’«individuo sociale», per quanto suggestivo laboratorio di ricerca su un mutamento antropologico, lascia il posto allo storpiamento del singolo operaio, mettendo così in evidenza l’esito capitalistico di quel possibile mutamento. I mezzi per lo sviluppo della produzione, scrive Marx, «mutilano il lavoratore facendone un uomo parziale, lo avviliscono a insignificante appendice della macchina, distruggono con il tormento del suo lavoro il contenuto del lavoro stesso», e non solo, ma
Com’è noto, toccò ad Engels il duro compito di mettere ordine nel vasto lascito di Marx dando veste organica alla massa di appunti che costituirono, tra l’altro, il secondo e il terzo libro del Capitale e proprio nel secondo libro del suo capolavoro Marx espone un’idea che si rivelerà assai feconda: dividere l’apparato produttivo in due grandi settori e descrivere le relazioni che necessariamente intercorrono fra di essi in due situazioni diverse che sono quella di un’economia stagnante e quella di un sistema in crescita (riproduzione semplice e riproduzione allargata).
In un libro pubblicato in Italia nel 1973 (Neocapitalismo e crisi del dollaro), in cui sono raccolti vari articoli scritti in precedenza che sono ammirevoli per la profondità di analisi e la lucidità dell’autore, Ernest Mandel riflette sulla “negazione della funzione centrale del proletariato dei paesi metropolitani nella lotta su scala mondiale contro l’imperialismo e il capitalismo” (p. 118). Come è noto, Mandel era un autorevole economista trotskista, che certo non può esser trascurato per questa ragione in una fase in cui siamo invitati a riflettere a fondo su tutta la nostra complicata e dolorosa tradizione.
Ad inizio del XXI secolo, consolidatasi la crisi delle ideologie, la memoria storica induce a ripensare alle opere di alcuni autori, che hanno caratterizzato il pensiero occidentale contemporaneo. Tra gli autori che di tanto in tanto tornano di moda, oppure sono ricordati con nostalgica memoria, trova posto Karl Marx, troppo spesso legato alle vicende storiche del XX secolo, dalla rivoluzione d’ottobre del 1917 al processo di destalinizzazione avviato in URSS con lo svolgimento del XX congresso del PCUS nel 1956; nonché dall’esplosione del movimento giovanile del 1968 alla caduta del muro di Berlino nel 1989. L’autore de Il capitale, nel corso della seconda metà del XX secolo, è stato oggetto di studio e di continue reinterpretazioni alla luce della riscoperta o della pubblicazione postuma di non poche opere giovanili1. Sempre nel corso della seconda metà del XX secolo, è stato oggetto di facili entusiasmi, sia in Europa orientale che in Europa occidentale; con la riscoperta di alcuni scritti giovanili, per un verso (in Europa occidentale), è stato osannato per avere posto al centro della sua produzione il cosiddetto problema della persona umana nell’ampio contesto della Sinistra hegeliana2; per un altro verso (in Europa orientale), è stato assunto a simbolo di un sistema politico che riteneva di potere cambiare il mondo3. Venuto meno il sistema politico del socialismo reale, l’opera di Karl Marx costituisce a pieno titolo una delle componenti più interessanti della storia della cultura contemporanea, se si presta la dovuta attenzione, oltre che agli scritti del Marx giovane, a quelli del Marx giovanissimo solitamente trascurati. Se ci si sofferma sui contenuti delle opere dedicate all’economia politica, si può riscontrare che il problema della persona umana continua a costituire il tema centrale del materialismo storico e dialettico, già posto ed elaborato nelle opere giovanili sul piano antropologico e sociologico.
Paul Sweezy è stato uno degli economisti marxisti più illustri e più controversi del ventesimo secolo. Ha affrontato alcune delle questioni più vitali che chi vuole comprendere il capitalismo per poterlo superare si trova davanti. Nonostante abbia giocato un ruolo significativo nel diffondere le idee di Karl Marx, non gli è bastato fermarsi a questo e ha sviluppato un proprio schema concettuale per spiegare il modo in cui le economie capitaliste si stavano evolvendo durante i decenni del dopoguerra.
1.
Positivismo, Empiriocriticismo

Il tema affrontato in questo scritto può sembrare astratto e di appannaggio riservato ai soli specialisti. In realtà, quello della valutazione dei beni capitali è un aspetto estremamente problematico sin dagli inizi della storia del pensiero economico e costituisce, più o meno esplicitamente, un fattore discriminante di tutte le teorie del valore.
Paul Sweezy, un marxista americano di grande importanza nel XX secolo, ha collaborato lungamente con Paul Baran, un marxista nato nell'ex impero russo, con l'obiettivo di evidenziare l'unicità dell'economia mondiale sotto la direzione del capitalismo monopolistico, nonché la centralità della categoria “surplus economico” come spiegazione delle crisi. Sweezy, ancor prima della sua collaborazione con Baran, stava già cercando di approfondire, con maggiore attenzione, il problema del mismatch tra produzione e realizzazione di merci nella sua opera più nota “Theory of Capitalist Development”, pubblicata negli anni ‘40. In questo opuscolo, Sweezy ha sottolineato che Marx non ha dedicato un'analisi del sottoconsumo nella produzione capitalistica, concentrando la sua attenzione sull'ambito della produzione in situ. Il cuore dell'analisi di Sweezy è il processo di circolazione del capitale, secondario ai cambiamenti nella composizione organica del capitale come principale fattore scatenante della crisi.
Premessa
1. Con l’accumulazione del profitto realizzato in moneta viene messa in gioco la sorte del pianeta Marx. Ma come procedere per comprenderlo? Vale pur sempre la regola esposta dal suo primo “mappatore” per cui, davanti ad un fenomeno complesso, «si deve sempre partire dal presupposto che le condizioni reali corrispondano al loro concetto o, ciò che significa la stessa cosa, che le condizioni reali vengano esposte solo in quanto coincidano con il tipo generale ad esse corrispondenti» – insomma che il concetto sia adeguato all’oggetto secondo la sua necessità logica, mentre le altre condizioni, che sul momento sono state trascurate, potranno poi esservi aggiunte. Ciò vale soprattutto per l’argomento conclusivo da considerare, e cioè che il pianeta Marx, a differenza di ogni altro corpo celeste, ad ogni rotazione cresce di dimensione per l’accumulazione del profitto indirizzandosi verso un esito finale, una sorte o un destino che si possono almeno congetturare. Si sa che Marx ne aveva previsto la fine per la “caduta tendenziale” del saggio generale del profitto: essendo «il vero limite della produzione capitalistica il capitale stesso», esso entra «in conflitto con i metodi di produzione a cui deve ricorrere per raggiungere il suo scopo e che perseguono l’accrescimento illimitato della produzione, la produzione come fine a se stessa, lo sviluppo incondizionato delle forze produttive sociali del lavoro», cosicché «il modo di produzione capitalistico, che è un mezzo storico per lo sviluppo della forza produttiva materiale e la creazione di un corrispondente mercato mondiale, è al tempo stesso la contraddizione costante tra questo suo compito storico e i rapporti di produzione sociali che gli corrispondono».
Premessa


































