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lanatra di vaucan

Robert Kurz, Il collasso della modernizzazione

Introduzione di Samuele Cerea*

eteretopie kurz collasso modernizzazioneridPubblichiamo qui la bella introduzione di Samuele Cerea alla traduzione italiana del libro di Robert Kurz: Il collasso della modernizzazione, Mimesis 2017.

Il testo di Kurz, uscito in Germania nel 1991, a ridosso del crollo dei regimi a socialismo reale dell’est, mantiene ad oggi una sua vibrante attualità. La tesi di fondo, in estrema sintesi, è che questo crollo, contrariamente a quanto se ne è detto e si continua a dire, non ha rappresentato la vittoria di un blocco, quello occidentale, presunto “alternativo” e antagonista a quello orientale, che ne sarebbe uscito sconfitto e umiliato. Tantomeno, ha sancito la fine di ogni possibilità di “rivoluzione”, decretando quello capitalistico-occidentale non solo come il migliore dei mondi possibili, ma proprio l’unico, e affrettandosi a seppellire Marx e ogni istanza critica che abbia l’ardire di metterlo in discussione. Piuttosto, sarebbe la prima tappa di un crollo ben più importante e inevitabile, quello dello stesso sistema capitalistico, a cui anche i regimi dell’est hanno sempre appartenuto, sia pure nella forma di “modernizzazioni di ritardo”, quindi in modo raffazzonato e un po’ cialtrone, ma non meno devastante.

La crisi economica mondiale sembra aver confermato, a posteriori e in modo clamoroso, le tesi di Kurz e di tutti coloro che hanno partecipato ad elaborare la “critica del valore”, ovvero la teoria su cui poggia l’analisi che legge la fine del “socialismo da caserma” dei regimi dell’est come primo momento di una rottura, come detto, ben più ampia.

Questa crisi richiede dunque di essere compresa a fondo ed affrontata con “armi” nuove e più affilate, in vista dell’elaborazione di un percorso che sappia districarsi nella giungla della barbarie dell’agonia capitalistica e sia capace di immaginare e praticare una liberazione autentica dalla dittatura del “valore” e dei suoi epifenomeni.

Il testo “Il collasso della modernizzazione” rappresenta anche un contributo, riteniamo importante, in questo senso. Ad esso, almeno nelle nostre intenzioni, dovrebbero seguire altre traduzioni e altri testi altrettanto significativi. Buona lettura

Redazione, novembre 2017

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Introduzione a Il collasso della modernizzazione

I. Vorrei iniziare con un breve ricordo dell’autore. Robert Kurz ci ha lasciato nell’estate del 2012, in seguito alle conseguenze fatali di un’operazione chirurgica d’urgenza, cui era stato sottoposto in una clinica di Norimberga. Una vita appassionata, spesa in gran parte per la critica dei rapporti sociali esistenti, prima tra le fila della sinistra radicale tedesca – la cosiddetta Neue Linke, in cui aveva militato a partire dalla contestazione studentesca della fine degli anni Sessanta 1 e dalla cui fissazione antiteoretica aveva poi preso le distanze –, in seguito come co-fondatore e animatore del gruppo Krisis, raccolto intorno all’omonima rivista, e infine, dopo una traumatica scissione, come creatore della rivista Exit. Questo insolito intellettuale-operaio,2 assai poco incline ai compromessi, sul piano teorico come su quello pratico, non poteva che suscitare forti reazioni di amore e odio. I suoi ammiratori apprezzavano soprattutto la radicalità dei propositi, il rigore delle argomentazioni, l’estrema coerenza di una vita militante. Viceversa i critici, soprattutto quelli della sinistra tradizionale, lo avevano sovente messo alla berlina per le sue «ossessioni apocalittiche», il suo «messianismo tecnologico» o per la sua «nostalgia per l’epoca dei giocattoli di legno». La sua scomparsa non passò inosservata neppure presso quella pubblicistica che Kurz si ostinava ancora a definire «borghese».3 Lo stesso Der Spiegel, in un breve articolo commemorativo, volle onorarlo significativamente con l’epiteto di «rinnovatore del marxismo».4 Ma probabilmente Robert Kurz non si sarebbe riconosciuto volentieri in questa definizione: pur prendendo le mosse dal marxismo della sua gioventù, si era in seguito sforzato con successo di imprimere alla sua teoria critica una torsione indiscutibilmente originale e radicalmente innovativa. Il presunto «rinnovatore» fu, in realtà, l’artefice di un’autentica rivoluzione teorica, di una critica audace, intransigente e piena di fascino: una teoria della totalità sociale, che quindi mal si concilia con il puntilismo teorico della sedicente post-modernità. Paradossalmente l’impresa teorica di Kurz era iniziata con la riesumazione di un «fossile» o, più esattamente, del «cadavere che il marxismo teneva sepolto nella sua cantina»,5 cioè la teoria del valore di Marx, la critica del lavoro astratto e delle categorie della socializzazione capitalistica. Fu a partire da questa pietra d’appoggio che Kurz poté dare vita, assieme ai suoi compagni di battaglia,6 ad una solidissima costruzione teorica, ad un’analisi radicale e spietata della società capitalistica, cioè della società fondata sul valore, sul lavoro, sulla merce e sullo Stato moderno. Non è questo il luogo per approfondire l’impianto della «critica del valore» [Wertkritik];7 sono disponibili a questo scopo trattazioni specifiche, alcune delle quali in lingua italiana;8 mi limito qui a richiamare alcuni cardini di questo sviluppo teorico.

 

II. Da una parte si tratta di una critica del feticismo sociale: la società non è schiava di una classe, di un gruppo sociale, dei «capitalisti» o delle banche, ma di una logica impersonale, ovvero della logica del valore, che rimodella la vita sociale e l’esistenza individuale e collettiva degli uomini in funzione dell’accumulazione di capitale, cioè di «lavoro morto» (Marx). In altre parole, nella società moderna plasmata dal valore le relazioni umane su cui si fonda la riproduzione sociale devono prendere necessariamente la forma dello scambio di merci e della transazione monetaria e gli individui sono membri della società a pieno titolo solo in quanto venditori della loro forza-lavoro. La società complessiva si rivela così come una totalità concreta ma, allo stesso tempo, astratta. L’insieme delle attività concrete degli individui deve garantire la sopravvivenza dell’organizzazione sociale a un livello più o meno elevato, ma il suo presupposto non è l’utilizzo delle risorse sociali disponibili in maniera cosciente e pianificata, così da rispondere alle esigenze personali e collettive nella maniera migliore, ma la subordinazione di queste necessità agli imperativi della merce e del denaro. Si tratti della produzione di farmaci anti-tumorali o di pianoforti: l’obiettivo della produzione non è certo la soddisfazione immediata dei bisogni sociali ma la vendita ben riuscita di queste «merci» su mercati anonimi. Il corollario di questo nesso logico è il seguente: in assenza di «potere d’acquisto» la società della merce non registra neppure nessuna «necessità valida». Dall’altra la critica del valore e delle sue forme derivate non può che sfociare in una teoria della crisi generale del sistema capitalistico, in quanto la logica della valorizzazione di capitale è soggetta a un limite interno – la possibilità di sfruttare produttivamente il lavoro astratto, cioè la sostanza del valore – che si va manifestando nel corso di un processo che sta entrando oggi nella sua fase decisiva. Il concetto-chiave è quello di produttività, cioè la capacità di produrre con il minimo dispendio possibile di lavoro. La concorrenza di mercato spinge le singole imprese proprio verso l’aumento continuo della loro produttività e quindi all’espulsione di lavoro dai processi produttivi. A sua volta questo fenomeno, profittevole per la singola azienda in quanto incrementa la sua competitività, mina alla radice l’accumulazione ulteriore di capitale sul livello della società complessiva, che oggi è globale, non più nazionale. La riduzione progressiva, anche in termini assoluti, del plusvalore globale implica, da una parte, l’ulteriore inasprimento della concorrenza tra le imprese per le quote di mercato – che conduce, da un lato, all’espulsione dal mercato di tutte quelle imprese che non riescono a tenere il passo, dall’altro, sul livello degli Stati, alla rovina di tutte quelle economie nazionali il cui livello di produttività si trova al di sotto del livello stabilito dal mercato mondiale. Di conseguenza la crisi attinge per primi i cosiddetti ritardatari storici, cioè quei paesi che hanno intrapreso la strada dello sviluppo capitalistico in ritardo rispetto ai battistrada dei secoli XVIII-XIX (Europa Occidentale, Stati Uniti, Giappone).

 

III. Quando Der Kollaps der Modernisierung venne pubblicato per la prima volta, nel 1991, grazie ad un’acuta intuizione editoriale di Hans Magnus Enzensberger, Robert Kurz e i suoi compagni di avventura conducevano ancora, per loro stessa ammissione, «un’esistenza catacombale», relegata ai margini del dibattito teorico della sinistra tedesca. Fu proprio grazie al considerevole interesse suscitato da questo saggio che l’impostazione teorica di Kurz e di Krisis poté attirare l’attenzione di un pubblico più vasto. La parabola del «socialismo reale» si era conclusa solo un anno prima, in seguito all’unificazione tedesca, all’auto-scioglimento dell’URSS e alla fine ingloriosa dei regimi del blocco orientale: l’esperimento socio-politico più controverso del XX secolo si era estinto nel giro di pochi mesi in maniera (relativamente) pacifica. Da una parte le folle festanti nella RDT, in Ungheria etc. valicavano frontiere fino a poco tempo prima insuperabili per godere, almeno in apparenza, le gioie della democrazia liberale e del consumo occidentale, dall’altra le tristi figure del monopartitismo dittatoriale perdevano gli scranni del potere e in qualche caso (Ceausescu) la vita. Secondo un’opinione diffusa le nuove libertà politiche si sarebbero propagate in breve tempo nell’Europa Orientale mentre nuovi sistemi economici e politici avrebbero spazzato via le macerie delle vecchie strutture dirigiste sulla spinta dell’euforia per la caduta della «cortina di ferro». Le aspettative generali credevano fermamente in una nuova epoca di prosperità per tutte quelle regioni fino a poco tempo prima tenute in scacco dal socialismo di Stato. Allo stesso tempo però gli osservatori più critici iniziavano a presagire che la realizzazione dell’economia di mercato e della democrazia liberale sarebbe stata possibile solo a prezzo di enormi tensioni. Nessuno però osava mettere in dubbio il trionfo assoluto del capitalismo nei confronti del suo antagonista comunista. Parallelamente, il tracollo del sistema perdente venne inteso anche come una sentenza di morte per la teoria di Marx, disinvoltamente associata all’architettura del socialismo di Stato, e, con essa, per ogni velleità di cambiamento verso una società post-capitalistica. Questo sconquasso epocale venne addebitato a tutta una serie di cause e concause, generò un gran numero di spiegazioni e interpretazioni: il dito venne puntato, a seconda dei gusti, contro la debolezza delle strutture interne, la perdita di consenso dell’autoritarismo monopartitico, l’aspirazione delle masse verso la fine della dittatura, la democrazia e i diritti liberali, la disillusione delle classi dirigenti ormai immuni da qualsiasi metafisica rivoluzionaria, l’inefficienza della pianificazione burocratica, l’arretratezza del sistema produttivo, le politiche aggressive dell’amministrazione reaganiana e, addirittura, il nichilismo antropologico del comunismo. Pluralistica la diagnosi pressoché univoca la prognosi: solo una risoluta transizione verso l’economia di mercato avrebbe potuto salvare questi paesi dalla rovina economica, sociale e culturale. Tutte queste motivazioni contengono una parte di verità, ma restano comunque unilaterali e non propongono un contesto complessivo in cui collocare ogni singola spiegazione particolare. Né i critici di stampo liberale o conservatore né tantomeno la sinistra si sognarono di interpretare il crollo del «comunismo» come il sintomo di una crisi generale della moderna società globale. Proprio in questo consiste la novità fondamentale del saggio di Kurz, la cui tesi fondamentale può essere così sintetizzata: il socialismo reale non rappresentò affatto un’alternativa reale al sistema capitalistico e il suo tracollo fu solo una tappa, per l’esattezza la seconda, di un processo di crisi molto più drammatico, un vero e proprio «collasso della modernizzazione» che alla fine travolgerà anche l’Occidente.

 

IV. È necessario fin da subito chiarire cosa intenda Kurz per modernità e modernizzazione. Nelle scienze storico-sociali questi concetti vengono messi in relazione con fenomeni quali la nascita della rivoluzione industriale, lo sviluppo dello Stato nazione, il declino delle religioni tradizionali, l’ascesa della scienza a nuova religione sociale, il positivismo e la razionalizzazione di tutte le sfere della vita sociale, l’affermazione dell’individualismo rispetto al collettivismo comunitarista delle società premoderne, l’urbanizzazione, il funzionalismo sociale etc. A giudizio di Kurz la modernizzazione è un processo ben più specifico ed essenziale: essa si risolve nella «relazione tautologica del denaro con se stesso (plusvalore, produzione astratta di guadagno)» e nella creazione di «un sistema autonomo (il capitalismo)». Il risultato è «la logica economico-aziendale, cioè lo sfruttamento astratto dell’uomo e della natura sotto l’impulso coercitivo della produzione di guadagno monetario. Non importa sotto quale involucro politico, in quale stadio di sviluppo, con quale rivestimento culturale e con quali legittimazioni ideologiche: il mondo intero è oggi ricoperto da tali unità o elementi di sfruttamento economico-aziendale».9 Qualche detrattore sarebbe pronto ad accusare Kurz di «economicismo», ma per Kurz l’«economia» non è una sfera separata, che si affianca alla «politica», alla «religione» o alla «cultura», perché la logica della valorizzazione struttura la realtà sociale nel suo complesso sotto tutti i suoi aspetti, non solo sul piano immediatamente «economico».

 

V. La modernizzazione è la storia dell’imposizione di una «logica di sfruttamento» e tutte le società moderne, in una variante o nell’altra, comprese quelle real-socialiste, sono altrettanti capitoli all’interno di questa storia: la loro base comune è il lavoro o, per meglio dire, il «lavoro astratto», cioè l’attività umana assoggettata all’automovimento del denaro. Di conseguenza la differenza tra le forme dell’economia di mercato e quella dell’economia pianificata è solo relativa. La relativa autarchia dei processi produttivi, la proprietà statale dei mezzi di produzione e la pianificazione burocratica non possono celare il fatto che nell’URSS le categorie fondamentali dell’economia capitalistica hanno continuato ad esistere nel contesto di un’economia militarizzata gestita da un regime modernizzatore autoritario, l’unico possibile per una società ritardataria, destinata a confrontarsi in una gara per la sopravvivenza economica sul mercato mondiale. Peculiare è solo il rapporto del socialismo reale con le categorie dello Stato e del mercato; lo statalismo aveva favorito lo sviluppo dell’economia di mercato anche in Occidente, ad esempio durante le rivoluzioni borghesi (emblematiche le figure di Cromwell e di Napoleone), per non parlare del fascismo e del nazismo; nell’URSS però il dirigismo dell’economia di guerra non poté mai essere superato e sostituito dall’autoregolazione del mercato, in parte per ragioni ideologiche, ma soprattutto per il fatto che il paese doveva competere sul mercato mondiale con i paesi più sviluppati dell’Occidente. L’abolizione della concorrenza e la sua sostituzione con la pianificazione burocratica condusse solo all’estremizzazione di una serie di fenomeni negativi che caratterizzavano in forme differenti anche l’economia liberale occidentale.

 

VI. Kurz analizza con particolare rilievo i casi paradigmatici dell’URSS e della Repubblica Democratica Tedesca. Dopo il fallimento del cosiddetto «comunismo di guerra» (in realtà una economia pianificata di scambio senza l’intermediazione del denaro), la dittatura stalinista intraprese con successo la strada della modernizzazione («di recupero») del paese, a prezzo di un grado spaventoso di sfruttamento della forza-lavoro (soprattutto delle masse contadine), che rispecchiava in forme accelerate il processo di accumulazione originaria occidentale. Le manchevolezze dell’economia di piano vennero fatalmente alla luce solo nel dopoguerra, a causa della transizione indispensabile da un modello di sviluppo economico ad alta intensità di lavoro, fondato sull’industria pesante, alla riproduzione di tipo intensivo, ad alta produttività e incentrata sui beni di consumo, tipica del fordismo occidentale. Ma negli anni Settanta, mentre qualche economista occidentale pronosticava avventatamente il sorpasso da parte dello statalismo sovietico, il sistema entrò nella sua fase di stagnazione: l’incapacità della burocrazia di controllare i processi produttivi solo mediante misure amministrative, piani e indicatori economici, l’assenza di un sistema dei prezzi funzionale, l’incredibile capacità di spreco delle unità produttive, il peso insostenibile delle sovvenzioni, le assurde strategie di finanziamento, il collasso delle infrastrutture, provocarono nel giro di un solo ventennio il dissesto totale dell’economia sovietica. La vicenda della Repubblica Democratica è, per certi versi, ancora più paradossale in quanto, nel suo caso, si trattò davvero dell’applicazione ideologica di un «modello» di sviluppo pre-industriale su di un paese già abbondantemente industrializzato: un purosangue dell’industria moderna venne aggiogato all’aratro dello statalismo pianificatore. Essa non poté che condividere la fine ingloriosa dell’URSS: rovina progressiva delle strutture produttive, sprechi di risorse e di forza-lavoro, drastico calo delle esportazioni, elevato indebitamento con l’estero, impossibilità di mantenere il volume delle sovvenzioni fino alla crisi definitiva.

 

VII. In qualche caso Kurz procede per ampie generalizzazioni e certe sue conclusioni possono apparire talvolta apodittiche. Probabilmente non è vero che «il tenore di vita della maggioranza della popolazione nell’Italia meridionale» e negli altri paesi mediterranei fosse «molto inferiore a quello della Germania Orientale di Honecker» e le condizioni socio-economiche dell’Albania o dell’Estonia (per il momento) non sono neppure lontanamente paragonabili a quelle dei paria della società globale come il Niger o Haiti. Tuttavia, se non ci si lascia abbacinare dall’esoterismo dei parametri macroeconomici, è facile verificare, già solo consultando la stampa economica specializzata, come le promesse di prosperità e di sviluppo formulate negli anni della «svolta» verso l’economia di mercato si siano rivelate del tutto infondate per i paesi post-comunisti. Anche astraendo dalla catastrofe jugoslava e dai sanguinosi conflitti nello spazio post-sovietico, dopo i terribili anni Novanta, caratterizzati da deindustrializzazione, iperinflazione, liquidazione dei sistemi sociali, crollo del livello salariale e licenziamenti di massa, solo pochi paesi come la Repubblica Ceca, la Slovacchia, la Polonia, sono riusciti a integrarsi nelle catene produttive transnazionali che fanno capo alle grandi compagnie occidentali. La reindustrializzazione di questi paesi è dovuta in gran parte alla rilocalizzazione di processi produttivi ad alta intensità di lavoro, soprattutto da parte delle grandi compagnie automobilistiche, sempre pronte ad approfittare del basso livello salariale, della scarsa combattività sindacale, delle generosissime condizioni fiscali e di una manodopera docile e volenterosa. In particolare la Polonia, l’economia-vetrina tra le nuove economie orientali, si è giovata dei cospicui investimenti diretti esteri, dei finanziamenti dell’UE e dell’atteggiamento conciliante delle istituzioni monetarie internazionali (soprattutto del FMI), che hanno permesso una ricostruzione parziale dell’economia polacca (estremamente dipendente dalla Konjunktur tedesca) fino a superare attualmente il PIL della Polonia socialista, ma senza risolvere nemmeno in parte il problema della disoccupazione di massa, della disuguaglianza sociale e della povertà (soprattutto nelle campagne). Gli altri paesi ex-socialisti (Romania, Bulgaria etc.), nel migliore dei casi, hanno conosciuto solo uno pseudo-sviluppo negli anni Duemila, dovuto a spaventose iniezioni di capitali esteri e di finanziamenti sotto forma di crediti a buon mercato che hanno stimolato artificialmente il consumo interno e creato un boom artificioso nel settore immobiliare, nonché enormi deficit delle partite correnti. La crisi iniziata nel 2007 ha spazzato via queste economie finanziate a credito con conseguenze sociali spaventose, come ha dimostrato il caso più eclatante, quello dei paesi baltici il cui miracolo economico era fondato sulla sabbia. Ancora diverso è il caso della Russia che, dopo i torbidi dell’epoca di Eltsin – una miscela esplosiva di impoverimento di massa, declino industriale e infrastrutturale, dominio degli oligarchi e sfaldamento geopolitico – è riuscita faticosamente a riorganizzarsi su di una base industriale debolissima grazie ai proventi delle esportazione delle proprie materie prime energetiche, gestito da un Comitato di Salute pubblica permanente, incarnato dal regime di Putin.

 

VIII. Ma la débacle del socialismo reale aveva già avuto un insospettabile antecedente nel naufragio sul mercato mondiale dei paesi «in via di sviluppo». Una volta liberatisi dalla loro condizione di dipendenza politica, tutti questi paesi avevano tentato di realizzare le basi di una struttura socio-economica moderna, facendo leva su di un rigido interventismo statale. Le necessarie risorse monetarie vennero ottenute in gran parte contraendo prestiti con l’estero, dapprima con i governi dei paesi occidentali (generalmente gli ex-colonizzatori) e poi, a partire dagli anni Settanta, con il sistema bancario internazionale (specialmente con le banche d’affari statunitensi), drogato dal denaro proveniente a quell’epoca dai paesi produttori di petrolio. Ma nonostante tutti gli sforzi essi non si dimostrarono mai in grado di tenere il passo con il formidabile livello di produttività dei paesi più avanzati (compresi quelli del blocco sovietico) affogando ben presto in un mare di debiti. L’economia tradizionale venne soppiantata da un’economia nazionale fallimentare, incapace di creare l’industrializzazione e il mercato interno. Con poche eccezioni le strutture industriali sopravvissute si riducono a «isolotti» produttivi, integrati nelle catene transnazionali dell’economia globale, assolutamente incapaci di assicurare uno sviluppo interno universale e duraturo. Il classico «sfruttamento» capitalistico delle masse viene così sostituito dalla loro completa superfluità per le esigenze dell’economia di mercato: il punto terminale di questo processo si ha quando la società si sgretola e scivola nell’imbarbarimento nel contesto di un’economia del saccheggio e di sanguinarie guerre civili, il cui unico obiettivo è l’appropriazione delle ultime risorse valide per il mercato (come del resto è avvenuto in Europa nel caso della Jugoslavia), generando nel contempo flussi immani di profughi e migranti.

 

IX. Sarebbe però un grossolano errore interpretare il tracollo storicamente asincrono dei paesi del socialismo di Stato e dei paesi del Terzo mondo come la prova della superiorità dell’Occidente, cioè dell’avanguardia storica del capitalismo globale, e del suo «modello». Infatti la terza tappa della crisi complessiva del sistema si è già abbattuta irrimediabilmente anche sui centri del mercato mondiale: persino in Occidente il colossale aumento della produttività, dovuto all’applicazione della tecnologia microelettronica e dell’automazione ai processi produttivi, scatena la crisi del sistema capitalistico: anche qui le potenze sociali create inconsciamente dal capitalismo entrano progressivamente in conflitto con le forme capitalistiche del valore, della merce e del denaro. La crisi specifica del subsistema occidentale non è certo un fenomeno transitorio, congiunturale, ma risale addirittura agli anni Settanta, cioè alla fine della colossale accumulazione fordista del dopoguerra, che aveva garantito uno sviluppo socio-economico inaudito. A quel tempo la disoccupazione strutturale, l’inflazione fuori controllo, la stagnazione della crescita e del potere di acquisto di massa suonarono la campana a morto per le dottrine e le politiche keynesiane. Ma le promesse della nuova svolta «monetarista» degli anni Ottanta, basata sulla riduzione della spesa statale, sulle privatizzazioni, sulla deregolamentazione e sulla «flessibilità» dei rapporti di lavoro, non sono state mantenute e così il problema si è aggravato ulteriormente, come Kurz ha dimostrato in alcuni contributi successivi:10 la «razionalizzazione» della forza-lavoro, la diminuzione dei salari con la conseguente riduzione del potere d’acquisto sociale hanno creato una spirale al ribasso che ha depresso ulteriormente l’accumulazione di capitale. Non si poté far altro che surrogarla con una creazione di valore artificiale su livelli astronomici mediante processi speculativi e bolle finanziarie senza precedenti. La tendenza delle imprese verso la riduzione dei costi e la concorrenza sempre più spietata per le quote di mercato, cioè per contendersi la torta sempre più esigua del plusvalore globale, ha avuto come risultato l’assurda (sul piano materiale) scomposizione dei processi economico-produttivi per il mondo, mentre le sempre più esauste casse statali obbligavano i governi a lasciare via libera ai flussi monetari (proprio in questo consiste la banale essenza della cosiddetta «globalizzazione»). È facile prevedere che la grande crisi economica mondiale del 2007 sarà solo il primo di una serie di fenomeni sempre più drammatici di fallimento economico, paralisi e collasso sociale, a causa dell’insostenibile indebitamento degli Stati e della precarietà del settore creditizio e finanziario. È assurdo pensare che lo sviluppo economico (fittizio) dei cosiddetti BRIC (che del resto sembra già essere entrato in crisi) possa trainare un’economia mondiale ormai sopraffatta dalle sue stesse contraddizioni; sarà soprattutto la frenata imminente dell’economia cinese a spegnere le illusioni di chi spera nelle nuove economie asiatiche per puntellare l’edificio malconcio dell’economia globale e a innescare una fase decisiva della crisi del sistema: Pechino non sarà la «Terza Roma» del capitalismo, dopo Londra e Washington.

 

X. A questo punto è legittimo chiedersi fino a che punto l’opinione pubblica, gli intellettuali, i media, ma soprattutto l’establishment politico ed economico, siano consapevoli della catastrofe che incombe su di una società globale che sembra fare acqua da tutte le parti. Va detto, purtroppo, che i segnali in questo senso non sono affatto rassicuranti: le reazioni della classe dirigente e della «società civile» in tutte le sue declinazioni mirano risolutamente alla conservazione dello status quo (cioè verso la pseudo-naturalità delle categorie capitalistiche) o, in alternativa, si limitano ad invocare il ritorno del buon capitalismo fordista idealizzato come presunta opposizione al cattivo capitalismo neoliberista. L’idea di una società radicalmente diversa, affrancata dalle leggi di automovimento del denaro e della merce, appare al di là di ogni immaginazione. Dall’«alto» i governi e le istituzioni economiche, in modo tanto irragionevole quanto cinico, non arretreranno di fronte a nulla pur di garantire la sopravvivenza delle strutture di mercato, indipendentemente dalle ripercussioni in termini di calamità sociali ed ecologiche: le istanze politiche, a giudizio di Kurz, si trasformeranno più o meno gradualmente in «amministrazioni di emergenza della crisi», condannate a cavalcare la tigre di un capitalismo moribondo, coltivando nel frattempo la speranza infondata che la crisi attuale sia solo un «collo di bottiglia», una transizione critica verso un nuovo modello di accumulazione utopistico. Ne è un sintomo la tendenza irresistibile verso la «semplificazione del potere» che sta affiorando un po’ dappertutto in Occidente (si veda, ad esempio, la recente «riforma» costituzionale in Italia). Essa obbedisce ad un’esigenza ben precisa: quando si tratterà di liquidare gli ultimi lacerti dello Stato sociale, emanare legislazioni di emergenza di fronte al disastro sociale ed ecologico, approvare misure repressive e imporre drastiche riduzioni delle garanzie per i «cittadini», i governi «democratici» dell’Occidente, legittimati da «libere» elezioni sempre più irrilevanti, non vorranno certo impantanarsi in sterili discussioni con la palude parlamentare. La sferza dell’autoritarismo di Stato dovrà tenere a bada la massa degli scontenti a vantaggio di quella minoranza sempre più esigua che avrà ancora qualcosa da guadagnare dal sistema, fino a quando gli stessi apparati dello Stato, per mancanza di finanziamento, non verranno travolti da processi anomici. Dal «basso» i movimenti di opposizione, nel migliore dei casi, praticano un anti-neoliberismo superficiale, che nasconde solo la nostalgia struggente per la società keynesiana del «miracolo economico», fatta di piena occupazione, garanzie sociali ed economiche, libertà sindacali ed elevati livelli di consumo. L’idiosincrasia nei confronti della finanziarizzazione dell’economia, della speculazione fuori controllo, del potere «eccessivo» delle banche, sfocia in un anatema contro il parassitismo e la cupidigia di determinati settori e gruppi sociali ed economici, senza mai riferirsi ai limiti del sistema della merce. Ma più frequentemente la resistenza ai mali del capitalismo terminale assumerà le forme pseudo-antipolitiche dello sciovinismo nazionale, della xenofobia, del razzismo, dell’antisemitismo, ossessivamente protese verso la ricerca di un capro espiatorio (immigrati, burocrazie sovranazionali) da incolpare per i disastri prodotti dall’economia di mercato. Il fatto che questo genere di organizzazioni, movimenti o partiti abbiano notevoli possibilità di conquistare in tutto o in parte il potere politico, non solo in paesi socialmente dissestati come l’Ungheria e la Polonia, ma anche in Francia e persino nella presunta potenza economica egemone dell’UE, la Germania, la dice lunga sulla criticità della situazione storica.


Note:
1. Fino alla metà degli anni Settanta Kurz fu membro di un’organizzazione marxista-leninista, la Lega comunista dei lavoratori tedeschi.
2. Dopo avere scritto libri di notevole successo, Kurz, che in gioventù aveva sbarcato il lunario come conducente di furgoni e tassista, continuò comunque a lavorare part-time presso le macchine del quotidiano Nürnberger Nachrichten
3. Del resto ha collaborato regolarmente per molti anni con Folha di San Paolo, il più importante quotidiano brasiliano.
4. http://www.spiegel.de/kultur/gesellschaft/publizist-und-philosoph-robert-kurz-ist-tot-a-845455.html
5. Intervista con Stefan Amzoll in http://www.exit-online.org/link.php?tabelle=autoren&posnr=31
6. Tra i componenti principali del cosiddetto Gruppo Krisis, dal nome dell’omonima rivista (erede della pionieristica Marxistische Kritik), citiamo Roswitha Scholz, Peter Klein, Ernst Lohoff, Norbert Trenkle e Anselm Jappe (curatore e traduttore dei primi saggi di Kurz apparsi in Italia). Nel 2004 Kurz, R. Scholz e C. P. Ortlieb hanno fondato un nuovo gruppo attorno alla rivista Exit!
7. Le riflessioni di R. Scholz circa il carattere androcentrico del capitalismo suggerirono a Kurz e alla stessa Scholz uno sviluppo ulteriore della «critica del valore» nella forma della teoria del valore-dissociazione [Wert-Abspaltungkritik].
8. Per esempio, R. Kurz, L’onore perduto del lavoro, Manifestolibri, 1994; R. Kurz, La fine della politica e l’apoteosi del denaro, Manifestolibri, 1997 e, naturalmente, Gruppo Krisis (R. Kurz, E. Lohoff, N. Trenkle), Manifesto contro il lavoro, Deriveapprodi, 2003. Una trattazione analitica, scritta in lingua italiana, si può trovare in: Riccardo Frola, postfazione a N. Trenkle, E. Lohoff, Crisi: nella discarica del capitale, Milano, Mimesis, 2014.
9. Kurz, Potemkins Rückkehr, 1993
10. Soprattutto in Schwarzbuch Kapitalismus (1999) e in Das Weltkapital (2005), che speriamo di pubblicare il prima possibile in traduzione italiana.

*Samuele Cerea vive a Milano e si occupa da molti anni della Wertkritik (it: Critica del Valore). Ha tradotto La dittatura del tempo astratto di Robert Kurz e Il superamento del lavoro di Robert Kurz e Norbert Trenkle, apparsi sul Manifesto contro il lavoro (DeriveApprodi, 2003), e pubblicato per i tipi di Mimesis il libro di Robert Kurz Ragione Sanguinaria (Mimesis, 2014) e ora Il Collasso della Modernizzazione (Mimesis, 2017). Con Riccardo Frola e Massimo Maggini cura il sito www.anatradivaucanson.it, che ha fra i suoi scopi quello della diffusione della Critica del Valore e l’apertura di un dibattito intorno ad essa.

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Caddeo Sandro
Sunday, 30 August 2020 20:19
Devo ammettere che questo articolo non mi ha assolutamente soddisfatto. Il problema infatti che trovo insufficiente è che in un modo o nell'altro, uno come Marx, di cui ho letto tutti i suoi scritti, guardava al passato, come dovremmo fare sempre noi, per studiare il presente e per progettare i futuro. E' strano che uno studioso di economia, e anche di storia, senza considerare tutti gli elementi di ciascun Paese, ma soprattutto per il mondo intero, non faccia una riflessione sul passato, da quello lontano milioni di annni fa a quello di oggi. Tutte le società che sono nate, alla fine dopo pochi secoli, hanno finito di morire. E a quelle società che sono morte si sono sostituite nuove società che hanno preso il loro posto. Come accade a chiunque, quando un essere umano nasce, sa già che deve morire. Non sa quando, ma quella morte verrà sicuramente. Credo che Marx questo fatto ne aveva la piena consapevolezza, al punto che pensava anche lui che questa società nata dalla rivoluzione industriale e la fine, diciamo, del medioevo aveva fatto il suo corso. Ma come sempre da una società morta alcuni tratti di quella società morta hanno continuato a restare nella nuova società. Il capitalismo che dal 1974 sta morendo, e basterebbe rilevare anche i dati statistici che tutti noi abbiamo a disposizione atraverso gli istituti statistici di tutti i paesi del mondo per capirlo. Non voglio entrare nel merito di tutti questi problemi, ma alcune cose le voglio ricordare. Il lavoratore era considerato lavoratore occupato 24 ore su 24 e 365 giorni all'anno. Questo era negli anni dal 1970 in poi. Ma dopo il 1974 tutti quei diritti che erano scritti nelle nostre costituzioni sono state prima lentamente e poi soprattutto dopo il 1980 con la grande crisi della Fiat, sempre di più, sono stati cancellati. Il lavoratore che prima era come avevo già detto, da allora ha incominciato a essere lavoratore se le ore di lavoro fossero, ed è ancora così, almeno 1 ora alla settimana, per 3 mesi. Come accidenti si fa a dire che un lavoratore che lavora in questo modo sia un occupato. Ma questo avviene per tutte le questioni che riguarda quello che chiamiamo lo stato Sociale. E allora invece di fare ragionamenti che niente hanno a che fare con la realtà, perchè non si riprende lo studio di Marx guardando in avanti. Marx aveva scrito molte cose sulle questioni di come si lavorava allora. Noi perchè non dobbiamo raccontare veramente come si lavora oggi. Senza il lavoro, il cittadino non può vivere, come dimostra la statistica di questi ultimi anni. Il Capitalismo come è nato nella rivoluzione industriale è ormai finito, sta morendo. Non possiamo pensare che questa società con enormi disoccupati in più rispetto a prima degli anni 80, possa continuare a vivere. Questa società che sta morendo non puo assolutamente continuare a creare lavoro e non può nemmeno permettersi di farlo. Soprattutto perchè una rivoluzione nel frattempo è partita e si chiama rivoluzione tecnologica. Perchè questa grande rivoluzione non può finalmente sotituire questa che ormai sta morendo? Mi piacerebbe che Samuele Cerea me lo spiegasse.
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Mario Galati
Thursday, 23 November 2017 20:44
Sembra incredibile, ma c'è ancora chi, a sinistra, continua a festeggiare la caduta del muro di Berlino.
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