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idiavoli

Tramonto del neoliberismo

di I Diavoli

foto 1 DEFUna delle questioni più affascinati della storia delle idee è capire come una corrente minoritaria del pensiero economico, il neoliberalismo, sviluppatosi in Germania e Austria fra la prima e la seconda guerra mondiale, sia riuscita a conquistare negli ultimi decenni del XX secolo un ruolo egemone, nella vulgata degli studiosi e nelle politiche degli Stati. Tanto da giustificare l’idea di un “progetto”, o una manovra neoliberista, pervasiva al punto da determinare la vita d’ogni essere umano sul pianeta. Ma la questione di più scottante attualità è il tramonto di questa corrente insieme al suo ambizioso tentativo di dare luogo a un modello di civilizzazione alternativo e virtuoso.

 

Il libro

Il libro di Massimo De Carolis ha il grande merito di scandagliare in profondità – sulla scorta di altri pensatori, soprattutto il Foucault delle lezioni contenute in Nascita della biopolitica (Feltrinelli, 2005) – le origini di questa tendenza di pensiero per scovarne nella miopia teorica le cause del suo tramonto.

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micromega

Capitalismo di Stato e normalità capitalistica ai tempi della crisi

di Alessandro Somma

4 luca carlevarijsSino al crollo del Muro di Berlino il confronto tra capitalismo e socialismo aveva monopolizzato l’attenzione degli studiosi. Solo in seguito ci si è dedicati alle varietà di capitalismo, anche e soprattutto per promuovere la diffusione di quella più in linea con l’ortodossia neoliberale, da ritenersi oramai la normalità capitalistica. La crisi ha però incrinato molte certezze, tanto che alcuni hanno ipotizzato un futuro caratterizzato da un ritorno del capitalismo di Stato. Di qui uno dei tanti motivi di interesse per l’ultima fatica di Vladimiro Giacché: un’antologia degli scritti economici di Lenin introdotta da un ampio saggio in cui si sintetizza e commenta il percorso che ha portato a concepire il comunismo di guerra prima, e la nuova politica economica poi1. È in questa sede che si individuano alcuni punti di contatto tra le teorie economiche leniniane e la situazione attuale, alle quali dedicheremo le riflessioni che seguono.

Ci concentreremo inizialmente sullo scontro tra modelli di capitalismo e sulla possibilità di ricavare dal pensiero Lenin, pur nella radicale diversità dei contesti, alcuni spunti utili al dibattito. Verificheremo poi come attingere da quel pensiero per contribuire a un altro aspetto rilevante per la riflessione sulle varietà del capitalismo: la sua instabilità nel momento in cui prende le distanze dall’ortodossia neoliberale, ovvero l’assenza di alternativa tra il superamento del capitalismo e il ritorno alla normalità capitalistica.

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eddyburg

I signori dei disastri

di Naomi Klein

Anche le crisi, guerre e disastri fanno bene al PIL. Le collusioni tra la politica e gli interessi economici derivanti dalle emergenze esplorate dalla Klein nel suo ultimo libro "No non è abbastanza! Come resistere nell’era di Trump".

WOIAF2 dragonstone

«Dall’uragano Katrina alle crisi finanziarie,
alcune multinazionali statunitensi sfruttano
da anni le emergenze per imporre riforme
liberiste e fare enormi profitti, a spese dei
cittadini più poveri. Oggi i dirigenti di queste
aziende sono ai vertici dell’amministrazione Trump».

Nei viaggi che ho fatto per scrivere reportage dalle zone di crisi ci sono stati momenti in cui ho avuto l’inquietante sensazione non solo di assistere al succedere di un evento, ma di scorgere un barlume di futuro, un’anteprima di dove ci porterà la strada che abbiamo preso se non afferriamo il volante e non diamo una bella sterzata.

Quando sento parlare il presidente degli Stati uniti Donald Trump, che evidentemente si diverte a creare un clima di caos e destabilizzazione, penso spesso di avere già visto quella scena. Sì, l’ho vista negli strani istanti in cui ho avuto l’impressione che mi si spalancasse davanti il nostro futuro collettivo.

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vocidallestero

L’UE clona se stessa in Africa Occidentale e si dedica a saccheggiare la regione

di Bill Mitchell

Quello che si può dire con certezza dell’EPA – l’accordo di libero scambio tra Unione Europea e Africa Occidentale – è che è straordinariamente poco conosciuto. I mass media non si preoccupano di spiegare che un gruppo di stati tra i più poveri del mondo sono stati – volenti o nolenti – inclusi in un accordo commerciale con l’Unione europea che li costringe a condizioni svantaggiose, riproducendo – in un contesto di povertà ben più drammatico – regole fiscali assurde sul tipo di quelle imposte agli Stati membri dell’Eurozona. L’economista Bill Mitchell espone sul suo blog i risultati dell’analisi dell’EPA realizzata dall’organizzazione indipendente svedese CONCORD: questo trattato non è coerente con gli obiettivi di sviluppo dell’Africa Occidentale, e ha conseguenze addirittura opposte, intrappolando un gruppo di nazioni per la maggior parte già poverissime in una crescita bassa e discontinua e perpetuando le condizioni misere delle popolazioni

africa cibo9In un post recente – Se l’Africa è ricca – perché è così povera? – ho preso in esame la questione del perché le risorse che rendono ricca l’Africa non siano state impiegate per il benessere della popolazione indigena che vive sul posto. Abbiamo visto che la povertà in Africa dilaga, benché sia evidente a chiunque che il continente è abbondantemente ricco di risorse. La risposta a questo paradosso è che la rete di aiuti per lo sviluppo nonché la supervisione messe in atto dalle nazioni più ricche e mediate da enti come FMI e Banca Mondiale possono essere viste più come un gigantesco aspiratore, ideato per risucchiare risorse e ricchezza finanziaria dalle nazioni più povere, con sistemi legali o illegali, a seconda di quali generino i flussi maggiori. Così benché l’Africa sia ricca, la sua interazione con il sistema monetario e di commercio mondiale lascia milioni dei suoi abitanti in condizioni di povertà estrema – non in grado di procurarsi neppure il cibo per vivere. L’accordo di libero scambio (EPA) tra l’UE e gli stati dell’Africa Occidentale è una di queste istituzioni-aspiratore.

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vocidallestero

Il potere di un dollaro

di Milford Bateman

“Il microcredito non è altro che un modo socialmente accettabile con cui le élite finanziarie sfruttano i poveri”. Una lapidaria affermazione  che riassume questa analisi di un’idea, pubblicizzata come una panacea per alleviare la povertà nel mondo, che si è però rivelata essere l’ennesima beffa ai danni dei più poveri e disperati. E difficilmente avrebbe potuto essere altrimenti, trattandosi in realtà di un’interpretazione in chiave neoliberista dell’economia dello sviluppo. Fortemente voluta e promossa dagli stessi attori economici che hanno causato e continuano a perpetuare le diseguaglianze nel mondo, il microcredito continua, nonostante plateali fallimenti e scandali spettacolari, ad essere una delle strategie favorite dalla Banca Mondiale e dal complesso industriale della filantropia — con effetti catastrofici nei paesi in via di sviluppo

latam poverty wbTrent’anni fa la comunità internazionale per lo sviluppo era in estasi. Credeva di aver trovato la perfetta soluzione in linea con il mercato alla povertà nei paesi in via di sviluppo: il microcredito.

Il divulgatore di questa nuova strategia — che consisteva nell’offrire piccoli prestiti per permettere ai poveri di avviare attività di lavoro autonomo — era l’economista del Bangladesh educato in America Muhammad Yunus, che dipingeva il microcredito come una panacea in grado di creare in breve tempo un numero illimitato di posti di lavoro e di eradicare la povertà endemica.

L’idea di Yunus di “portare il capitalismo ai poveri” fece rapidamente di lui l’esperto assoluto della povertà mondiale. Nel 1983, avendo ormai fatto il pieno di donazioni, soprattutto da parte di agenzie di cooperazione e fondazioni private americane, Yunus fondò la sua “banca dei poveri” — l’oramai emblematica Grameen Bank.

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pierluigifagan

La grande regressione

di Pierluigi Fagan

AA.VV.: La grande regressione,  A cura di H. Geiselberger, Feltrinelli, 2017. Riportiamo un breve sunto dei quattordici interventi sul tema posto a cui faremo seguire un commento finale. Il tema lanciato è lo stato del mondo (migrazioni, terrorismo, stati falliti, incremento delle diseguaglianze, demagoghi autoritari, globale – nazionale, crollo dei sistemi intermedi come partiti – sindacati – media e naturalmente la parabola neo-liberista e globalista) al cui capezzale vengono chiamate alcune menti pensanti per fare il punto

grande regressionePer Arjun Appadurai, la regressione si legge nella nascente insofferenza verso la democrazia liberale a cui si contrappone una crescente adesione all’autoritarismo populista, il mondo vira a destra (come se la democrazia liberale fosse di sinistra). Di base, c’è l’erosione di struttura operata dalla globalizzazione (ritenuta irreversibile)  che depotenzia ogni sovranità nazionale ma i leader autoritari/populisti si guardano bene dall’affrontare questa causa profonda e si presentano come sovranisti solamente sul più comodo piano culturale: sciovinismo culturale, rabbia anti-immigrazione, identità, tradizioni violate. Il fallimento dei tempi lunghi e di una certa sterilità della politica democratica nell’affrontare i problemi fa crescere l’insofferenza ed alimenta la delega a soluzioni imperative che però rimangono di facciata in quanto nessuno veramente sembra intenzionato a discutere i fallimenti del neoliberismo globale. La ricetta dell’indiano è stupefacente: l’opinione pubblica popolare e di élite, liberale ed europea, dovrebbero fare fronte per difendere il liberalismo economico e politico – “… abbiamo bisogno di una moltitudine liberale.”.

Passiamo al da poco scomparso Zygmunt Bauman che conviene sulla lettura dei tempi come perdita completa di ordine e prevedibilità, nonché di messa in discussione della stessa nozione di “progresso”.

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appelloalpopolo2 

I fondamenti teorici del neoliberalismo

di Jacques Sapir

Sapir propone un’interessante rassegna dei gravi problemi teorici che smentiscono la pretesa dell’economia neoclassica dominante di essere scienza e la squalificano in una costruzione ideologica di un mondo irreale di eleganze matematiche, nel quale gli individui possono evitare legami istituzionali semplicemente abbandonandosi all’avidità, che genera a loro insaputa un sistema neutro, privo di solidarietà e di conflitto

beckmann la sinagoga a francoforte sul meno espressionismoLa teoria neoclassica, ossia la teoria dell’equilibrio generale, continua a permeare numerosi commenti o riflessioni. Questo è particolarmente chiaro per quanto concerne il «mercato» del lavoro, e la volontà dell’attuale governo di far passare, «di forza» se fosse necessario, tutta una serie di misure che riporterebbero i lavoratori a una situazione di isolamento, che è proprio quella descritta dalla teoria neoclassica. Infatti quest’ultima ignora le istituzioni oppure cerca di ridurle a semplici contratti, benché esse siano ben altra cosa.

Bisogna dunque tornare su questo paradigma dell’equilibrio, e più fondamentalmente su ciò che si chiama la Teoria dell’Equilibrio Generale o TEG. È chiaro che non si tratta di una congettura facilmente confutabile o, in tutti casi, che essa non è percepita come tale nella professione. Eppure il suo irrealismo ontologico pone un vero problema. Costruita attorno alla descrizione di un mondo immaginario, essa serve nondimeno ad alcuni di guida per comprendere la realtà. Facendo questo, essa si svela come un’ideologia (una «rappresentazione del mondo»), e una ideologia al servizio di interessi particolari, e non come una teoria scientifica.

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conness precarie

Capitalismo, piattaforme e trasformazioni del lavoro

Dialogando a distanza con Benedetto Vecchi

di Michele Cento

foxconn factory fabrica Shenzhen ipad iphone appleCapitalismo delle piattaforme è una definizione precaria che ambisce a ricomporre la realtà in frammenti che viviamo ogni giorno. In virtù della sua precarietà, l’espressione si presta a evocare un mondo di mezzo, uno stadio di transizione che inizia con la crisi degli anni Settanta senza aver ancora concluso il suo ciclo, senza cioè aver raggiunto un assetto stabile che lo identifichi con precisione, come l’assetto fordista rendeva identificabile il capitalismo industriale. Più precisamente, lo suggerisce Benedetto Vecchi nel suo ultimo volume, con il quale vorremmo dialogare a distanza (Il capitalismo delle piattaforme, Manifestolibri, 2017), agli assetti certi il capitalismo delle piattaforme preferisce quelli a geometria variabile: è un agglomerato per sua natura instabile, rifiuta le vecchie «regolazioni» e mette a valore la presenza di identità diverse e non immediatamente riconducibili a unità, spacciando per ambivalenze quelle che sono le sue contraddizioni. In questo modo va dritto al cuore degli uomini: può dominarli perfino fuori dai tradizionali luoghi dello sfruttamento e fare a meno dell’intermediazione delle cose, grazie soprattutto all’intermediazione immateriale della Rete.

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effimera

Povertà e debito, gli strumenti del controllo sociale

di Andrea Fumagalli

toto maccheroni pastaNegli ultimi mesi sono stati pubblicati due libri che trattano della povertà e del debito: due condizioni oggi sempre più interdipendenti e strutturali.

Il primo è un bel saggio di Marco Fama, giovane ricercatore dell’Università della Calabria:  Il governo della povertà ai tempi della (micro)finanza (Ombre Corte, Verona, 2017, pp. 180, Euro 15,00, prefazione di Stefano Lucarelli, postfazione di Carmelo Buscema).

Il titolo è già di per sé esplicito. Marco Fama ha condotto ricerche sul microcredito, sulla finanziarizzazione, sulla povertà e sullo sviluppo rurale in Messico e Nicaragua durante il suo dottorato in sociologia dei fenomeni politici[1]. Ha potuto così acquisire una solida base analitica per estendere il discorso sul fenomeno della povertà anche ai paesi occidentali a capitalismo maturo. Al punto che nel primo capitolo l’autore compie una vasta panoramica delle trasformazioni dei mercati finanziari come strumento di biopotere sugli individui.

Il concetto di povero ha sempre avuto un significato ambiguo e ambivalente.

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infoaut2

L’effetto contagio dei movimenti urbani globali

Intervista a David Harvey

Intervista al geografo marxista sulla traiettoria del suo pensiero e gli snodi politici del presente

0f3b508dfb1cd57f4149dc8080e91414 XLL’intervista è stata realizzata giovedì 29 giugno a Bologna, dove Harvey era presente per la Summer School «Sovereignty and Social Movements» organizzata dall’Academy of Global Humanities and Critical TheoriesAcademy of Global Humanities and Critical Theories. Abbiamo evidenziato col grassetto i passaggi politici a nostro avviso più significativi dell’intervista, che spazia dall’interpretazione di Marx all’analisi del capitalismo, dalla relazione tra mutazioni dello Stato e della città nel contesto neoliberale fino a una riflessione sui movimenti. Su di essi il geografo marxista analizza in particolare la dinamica di repentina diffusione delle mobilitazioni urbane a livello globale, come la sequenza di insorgenze del 2011-2013, indicando la necessità di cogliere quali elementi di profondità l’abbiano resa possibile. È su questo elemento che ci pare Harvey ponga una delle domande cruciali, ossia quale politica sia possibile costruire su questi processi. Una domanda tutt’ora senza risposta ma sulla quale rimane decisivo continuare ad interrogarsi.

Una versione ridotta di questa intervista è uscita su Il Manifesto il 13 luglio col titolo "Il contropotere è cittadino".

* * * *

I: Cominciamo dalle origini della tua elaborazione, che parte da Cambridge - dove non ti muovevi all'interno di un approccio marxiano – e a fine anni Sessanta muove sulla sponda opposta dell'Atlantico, a Baltimora.

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conness precarie

L’ideologia della governance

di Olimpia Malatesta

Alcune riflessioni sull’Europa e sull’ordoliberalismo a partire da un libro recente

Richard Lindner«Governance» è una delle parole maggiormente utilizzate nel lessico politico contemporaneo. Ricorre con frequenza nei documenti ufficiali dell’OCSE, della Banca Mondiale e dell’Unione Europea e designa il passaggio dalle forme decisionali verticistiche e «Stato-centriche del policy making (tipiche del fordismo)» a forme di coordinazione politica ed economica orizzontali in cui i programmi da attuare vengono concordati attraverso reti che intrecciano diversi livelli: locale, regionale, statale, europeo e globale. Inserendosi nell’ampio novero di studi governamentali sul neoliberalismo, il libro di Giuliana Commisso, dal titolo La genealogia della governance: Dal liberalismo all’economia sociale di mercato (Asterios, 2016), si pone l’obiettivo di far luce sul significato e i limiti della governance, espressione nient’affatto disinteressata di un mondo che si vorrebbe post-ideologico. A tale scopo l’autrice individua nelle categorie concettuali foucaultiane lo strumento più adatto per ripercorrerne l’origine e si cimenta in un impegnativo riepilogo dei principali nodi teorici del pensatore francese, riuscendo a restituire la complessità del «dispositivo potere-sapere», a ricostruire la nascita della ragion di Stato nella sua accezione di pratica di governo e ad evidenziare il passaggio da questa alla governamentalità liberale prima e a quella neoliberale poi.

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operaviva

Non comune

Jacques Rancière

Non la smettiamo un secondo di «fare del comune» e di «essere fatti dal comune». Tutto sta nel sapere quale

10 MUTAIMAGO bartleby 2 1000x563A prima vista sembrerebbe paradossale presentare, nell’ambito di questa mostra e nel contesto di una conferenza sul comunismo, una relazione dedicata al non comune. Per spiegare questa scelta devo cominciare scartando subito un malinteso. Il non comune di cui parlo non è l’individuale, il separato, l’unico. Per abbordare la questione del comune e del comunismo bisogna uscire dalla concezione che oppone la comunità alla solitudine o all’egoismo dell’individuo separato. In molti discorsi che vengono fatti sul comune, la comunità o il comunismo, è come se si trattasse di creare un comune che non esiste, come se la condizione degli individui nelle nostre società fosse una condizione di isolamento da denunciare, e cui dovremmo porre rimedio. Ci trasciniamo dietro ancora oggi la visione secondo cui il socialismo e il comunismo del XIX secolo hanno ereditato il pensiero contro-rivoluzionario. Questa visione ha fatto della Rivoluzione francese il compimento della catastrofe individualista moderna cominciata col protestantismo e proseguita con l’Illuminismo. Questo individualismo avrebbe strappato gli individui alla solidarietà e alla protezione del grande tessuto sociale costituito dalle gerarchie tradizionali, trasformandoli in atomi isolati. Ma conviene uscire da questa drammaturgia tragica dell’individualismo. Noi non siamo in alcun modo degli esseri isolati. I nostri pensieri, i nostri sentimenti, le nostre azioni individuali si inseriscono in una moltitudine di forme di comunità.

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tempofertile

Mazzucato e Jacobs, “Ripensare il capitalismo”

di Alessandro Visalli

000000000010 mtIl libro del 2016 a cura di Mariana Mazzucato e Michael Jacobs è certamente ambizioso ed ampio, coinvolge autori come Joseph Stiglitz, Colin Crouch, Randall Wray, Andrew Haldane, William Lazonick, e poi specialisti come Dimitri Zenghelis e Carlota Pérez, ma anche Stephany Griffith-Jones e Stephanie Kelton, otto uomini e cinque donne, considerando anche i coautori.

Malgrado questo apprezzabile esercizio di bilanciamento di genere (migliorabile), il libro è piuttosto disomogeneo, e in alcune affermazioni non pienamente condivisibile, almeno per me, in particolare l’ultimo saggio, di Carlota Perez, che mi pare un “Majone in salsa verde”, è del tutto non condivisibile, mostra molto bene come nel discorso del tecnologo ambientalista (anche se nel caso non californiano) sia ben incorporato lo spirito del tempo.

Lo scopo dichiarato dei curatori è di trovare una comprensione più chiara di come effettivamente “funziona il capitalismo” in aperta critica del mainstream neoclassico (anche se talvolta ci si scivola dietro). A questo fine già nell’introduzione si mette nella prospettiva aperta dalla crisi del 2008, come esito di un lungo processo nel quale sono crollati ovunque gli investimenti e si è registrata una bassa crescita della produttività, i mercati finanziari quindi hanno in quella circostanza contribuito ad allocare male le risorse, sbagliando valutazione di rischio.

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operaviva

Neoliberismo

Governare con la nostra libertà

Pierre Dardot, Christian Laval

DSC 8231 2 1000x664«Neoliberismo»? Questa parola associa la novità («neo») con la libertà («liberalismo»). Vuol dire che è necessario essere neoliberisti per essere «assolutamente moderni» (per usare un’espressione di Arthur Rimbaud) ed essere anche interamente liberi, ma sempre proporzionalmente alla libertà di cui deve godere il capitale, come chiedeva Milton Friedman? Assolutamente no. Il neoliberismo non è più una novità, ormai, anche se non è così antico come alcuni sostengono; e tantomeno ci rende liberi. Anzi, si può dire che esso tenda a manipolare la nostra libertà in modo tale da impedirci qualunque scelta di vita alternativa a quella che surrettiziamente ci impone. Come dice Foucault, il neoliberismo ci governa attraverso la nostra libertà.

 

Una parola alquanto strana

Diciamolo, la parola «neoliberismo» è un termine politico strano, interessante e anche difficile da maneggiare. I neoliberisti non si rivendicano come tali, anzi addirittura respingono energicamente questa definizione.

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effimera

Confusione o complessità?

Un convegno su sviluppo capitalistico e ostilità

di Carmelo Buscema

Dal 6 all’8 giugno 2017, l’Università della Calabria ospita un convegno internazionale in memoria di Giovanni Arrighi a 30 anni dalla pubblicazione del testo, scritto con Fortunata Piselli, “Capitalist Development in  Hostile Environments” (1987) che Donzelli ha recentemente pubblicato in italiano con il titolo: “Il capitalismo in un contesto ostile” (2017)

copGrande è la confusione sotto e sopra il cielo. Ma, con buona pace di Mao Tse-Tung, questo rende la situazione oggi pessima, altro che eccellente!

Attraversiamo tempi in cui le bussole del pensiero critico sembrano impazzire, mentre quelle che orientano la politica e la prassi comune segnano avventurosi territori di frontiera,dove difficile è orientarsi e pericoloso è vivere. In essi siamo tutti ributtati a forza, presi nella morsa di tenaglie di odiosi e sistematici ricatti: della propaganda mediatica e dello sfogo frustrato di indignazione moralizzatrice; dello Stato di polizia securitario, sempre più oppressivo, e dell’insicurezza generalizzata provocata dal terrorismo; delle guerre tra settarismi religiosi e delle crescenti contese geopolitiche per l’accaparramento e la gestione delle risorse naturali e strategiche. Intanto, il lavoro si fa sempre più degradante sfruttamento nelle case, nei campi, in fabbrica, in strada, negli uffici e nelle aule dell’accademia. Mentre le minacce della disoccupazione e della precarietà assoluta sono sempre più ampia cappa che opprime potenzialità di benessere condiviso mai state così ricche. Anche per questa via, ci incuneiamo nel paradosso del più poderoso sviluppo della cooperazione sociale che, però – costretto entro i binari che ingiungono universalmente la valorizzazione gratuita del capitale e delle sue forme di potere sociale –, finisce con il preparare e affinare dispositivi di controllo del pensiero e della condotta di tutti come mai la storia ne ha conosciuti.