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dinamopress

Economie di guerra e conflitti post-pandemici

di Alberto De Nicola e Biagio Quattrocchi

Il martellante richiamo alla guerra utilizzato per descrivere gli effetti dell’emergenza sanitaria sembra segnalare un mutamento all’interno del dibattito economico mainstream. Dentro questo interregno, le lotte in corso e quelle a venire potrebbero giocare un ruolo decisivo

91508605 3136988066367416 696347518761435136 nNel pieno dell’emergenza Covid niente sembra essere più pervasivo del richiamo alla guerra. La retorica bellica accomuna economisti e leader politici di differenti orientamenti: è addirittura arduo trovare qualcuno che non l’abbia almeno implicitamente evocata, prima per presentare le misure di distanziamento sociale e successivamente per preparare le popolazioni alle amare conseguenze della recessione economica che queste stanno già innescando. Per rendere conto della vastità e della profondità della situazione emergenziale presente e futura, è indubbio che le due guerre mondiali costituiscano gli unici “fatti totali” che è possibile reperire nel serbatoio della memoria collettiva. Bisognerà vagliare con attenzione le implicazioni di questo riferimento continuo e martellante alla guerra da parte di chi muove le leve del potere economico e politico: a prima vista, l’impressione è che serva a modellare le aspettative sociali verso un orizzonte segnato da una pesantissima compressione dei livelli di vita, da una rarefazione delle risorse e da una militarizzazione dello spazio sociale. Inoltre, la metafora bellica – specie se riferita a un “nemico invisibile” – spinge a rappresentare il corpo sociale come un qualcosa di omogeneo e indifferente alle sue interne striature.

Ma c’è forse qualcosa di più. La mobilitazione dell’immaginario della guerra sembra voler rompere con quel senso di familiarità a cui ci aveva abituato, per più di dieci anni, la parola “crisi”: e questo perché quella che stiamo vivendo non segue semplicemente quelle precedenti, ma si innesta su di esse, radicalizzandole e facendole mutare di natura. La crisi come forma di regolazione permanente della società che differisce all’infinito il momento della sua risoluzione, lascia ora il campo all’immaginario della catastrofe: il dischiudersi di una percezione collettiva legata alla minaccia della sopravvivenza delle comunità, non la temporanea interruzione nella continuità di un sistema, ma la sua stessa riproducibilità e sostenibilità globale.

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ilpungolorosso

Risposta a Mario Draghi

di “Junior”

draghi e1585477421471Mario Draghi è Mario Draghi. Il banchiere dei banchieri. Anzi: il super-banchiere dei super-banchieri. L’Italiano più ascoltato nel mondo. Super-Mario, lo chiamano i direttori dei principali quotidiani, uno più lecchino degli altri verso di Lui. Tutti nelle alte sfere aspettavano che parlasse.

Lui, infine, ha parlato. Non in italiano, ovvio. In inglese sul Financial Times, l’organo europeo dei pescecani del capitale globale. Le sue parole, la prospettiva che traccia, non riguardano solo l’Italia. L’uomo non può abbassarsi al livello di un Salvini o di un Di Maio qualsiasi. È stato capo della BCE, e tra i super-boss di Goldman Sachs. Il suo cv mette in soggezione solo a scorrerlo sui giornali. Specie a un giovane come me.

Vediamo cos’ha detto per afferrare cosa si nasconde dietro la dichiarazione di “guerra contro il Covid-19”. Quale altro tipo di guerra sociale. E contro quale altro tipo di virus.

La partenza è secca: “È inevitabile una profonda recessione”. Inevitabile, come fosse un evento naturale. Una volta assunta questa “inevitabilità”, il problema è “evitare che la recessione si trasformi in una depressione prolungata, aggravata da un enorme numero di fallimenti che lasceranno danni irreparabili”. Per evitarlo, la sola politica praticabile è “un significativo aumento del debito pubblico”.

Questa scelta è presentata al modo della Thatcher: “Livelli di debito pubblico molto più elevati diventeranno una caratteristica permanente delle nostre economie e andranno di pari passo con misure di cancellazione del debito privato”. È inutile discuterne: diventeranno. Non c’è alternativa. Punto. E sarà un dato permanente. Azzeramento del debito delle imprese e delle banche – il “settore privato” -, che ricomparirà trasformato in debito pubblico. Naturale anche questo. Qual è infatti il ruolo dello stato? È “proprio quello” di “usare” il suo bilancio per “proteggere i cittadini [imprenditori] e l’economia dagli shock di cui il settore privato non è responsabile”.

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deriveapprodi

It’s the capitalism, stupid!

di Maurizio Lazzarato

191c1d3c9146505765052bb71206317d XL«L’agroindustria, come forma di riproduzione sociale, deve
terminare per davvero, anche solo per una questione di salute
pubblica. La produzione altamente capitalizzata di cibo dipende
da pratiche che mettono in pericolo la totalità della specie umana,
in questo caso contribuendo a provocare una nuova mortale pandemia»
Rob Wallace

Il capitalismo non è mai uscito dalla crisi del 2007/2008. Il virus si innesta sull’illusione di capitalisti, banchieri, politici di poter far tornare tutto come prima, dichiarando uno sciopero generale, sociale e planetario che i movimenti di contestazione sono stati incapaci di produrre.

Il blocco totale del suo funzionamento mostra che in mancanza di movimenti rivoluzionari, il capitalismo può implodere e la sua putrefazione cominciare a infettare tutti (ma secondo rigorose differenze di classe). Il che non significa la fine del capitalismo, ma solo la sua lunga e estenuante agonia che potrà essere dolorosa e feroce. In ogni modo era chiaro che questo capitalismo trionfante non poteva continuare, ma già Marx, nel Manifesto, ci aveva avvisati.

Non vi contemplava solo la possibilità di una vittoria di una classe su un’altra, ma anche la loro vicendevole implosione e una lunga decadenza.

La crisi del capitalismo comincia ben prima del 2008, con la fine della convertibilità del dollaro in oro e conosce una intensificazione decisiva a partire dalla fine degli anni Settanta.

Crisi che è diventata il suo modo di riprodursi e di governare, ma che inevitabilmente sfocia in «guerre», catastrofi, crisi di ogni genere e caso mai, se ci sono delle forze soggettive organizzate, eventualmente, in rotture rivoluzionarie.

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jacobin

La fine del neoliberismo

di David Harvey

La pandemia conduce all'implosione un sistema economico globale basato su sfruttamento estremo e finanza volatile. Questa volta può salvarlo solo il consumo di massa finanziato dai governi. L'analisi a tutto tondo di David Harvey

capitalismo covid19 jacobin italia 1320x481Cercando di interpretare, capire e analizzare il flusso quotidiano di notizie, tendo a collocare quanto sta accadendo nel contesto di due modelli di funzionamento del capitalismo distinti eppure intrecciati.

Il primo livello è una mappatura delle contraddizioni interne della circolazione e dell’accumulazione del capitale mentre il valore del denaro si sposta alla ricerca del profitto attraverso i diversi «momenti» (come li chiama Marx) di produzione, realizzazione (consumo), distribuzione e reinvestimento. Questa è una rappresentazione dell’economia capitalistica come spirale di espansione e crescita senza fine. Diventa piuttosto complicato quando viene elaborato, ad esempio, attraverso la lente delle rivalità geopolitiche, degli sviluppi geografici diseguali, delle istituzioni finanziarie, delle politiche statali, delle riconfigurazioni tecnologiche e della rete in continua evoluzione delle divisioni del lavoro e delle relazioni sociali.

Tuttavia, mi raffiguro questo modello come se fosse incorporato in un contesto più ampio di riproduzione sociale (nelle famiglie e nelle comunità), in una relazione metabolica continua e in continua evoluzione con la natura (compresa la «seconda natura» dell’urbanizzazione e dell’ambiente artificialmente costruito) e con tutti i sistemi di formazione sociale, culturale, scientifica (basate sulla conoscenza), religiosa e contingente che le popolazioni umane in genere creano nel corso dello spazio e del tempo. Questi ultimi «momenti» incorporano l’espressione attiva di aspirazioni, bisogni e desideri umani, la brama di conoscenza e di senso e la ricerca continua di soddisfazione in un contesto di mutevoli assetti istituzionali, tensioni politiche, scontri ideologici, perdite, sconfitte, frustrazioni e alienazioni, tutte elaborate in un mondo caratterizzato da marcate diversità geografiche, culturali, sociali e politiche.

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effimera

La pandemia mette a nudo i disastri del liberismo

di Turi Palidda

pandemia 3Alcuni autori hanno già proposto serie riflessioni sugli effetti della gestione della pandemia in corso. Fra gli ultimi, ottimo l’articolo di Marco Revelli sul Manifesto e su Volere la luna. Ma alcuni aspetti e soprattutto l’insieme delle conseguenze di questa gestione della pandemia meritano più attenzione. Quest’insieme è infatti cruciale per capire non solo che siamo difronte al coagulo di tutti i disastri che ha provocato lo sviluppo liberista, ma difronte a un salto ancora più inquietante. Lo stato d’eccezione va ben oltre l’emergenza sanitaria; come sempre può permettere ai dominanti di imbastire scelte impensabili per i comuni mortali relegati alla condizione di impotenza dalla gestione della pandemia. Non è casuale che Trump decida di proclamare lo stato d’emergenza per poter aver mano libera a cominciare da un’operazione finanziaria sconvolgente (l’iniezione di 1,5 trilioni sul mercato finanziario), approfittando quindi dell’assenza di un effettivo governo europeo della finanza, delle difficoltà della Cina e del crollo del prezzo del petrolio per re-imporre il dominio del dollaro USA). La guerra economica fra USA e Cina e le sue conseguenze sul resto del mondo è aperta più che mai e la congiuntura pandemia è usata anche in questa contesa. E non è un caso che alcune personalità del potere convochino i vertici delle forze armate e delle polizie per riflettere sul rischio di rivolte o “insurrezioni” a seguito dell’emergenza pandemia (questo succede in Italia) in Francia e probabilmente in tutti i paesi mentre la Cina ha già mostrato qual è la gestione totalitaria dell’emergenza).

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sbilanciamoci

L’epidemia travolge tutti, anche il debito globale

di Vincenzo Comito

La diffusione del coronavirus è destinata a stravolgere l’ordine economico, finanziario e geopolitico internazionale. Mentre qualcuno, illusoriamente, invoca la deglobalizzazione e il decoupling Usa-Cina, si profila un’esplosione del debito mondiale. E con essa una nuova drammatica crisi finanziaria

gioconda arte coronavirusMi unisco al dibattito in atto su questo sito sul tema del coronavirus pubblicando queste note, certamente affrettate e non organiche, su alcuni tra i molti temi oggi sul tappeto (per esempio, trascuriamo di discutere del grande problema dei rapporti con l’Europa).

 

Gli eroi

In queste settimane di difficoltà la stampa e la televisione nazionali non hanno mancato nessuna occasione per qualificare i medici e gli infermieri che si battono per sconfiggere il coronavirus come “eroi”, mentre la loro attività viene parallelamente definita come “lavoro eroico”.

Ricordo a questo proposito che in un’opera teatrale tra le più note di Bertolt Brecht, Galileo, ad un certo punto qualcuno pronuncia la frase “infelice è la terra che ha bisogno di eroi”. Ora, per tanti anni, sotto i governi tanto di centro-destra quanto di centro-sinistra sono stati tagliati implacabilmente i fondi per la sanità, come del resto per la scuola e per la ricerca; se si fosse fatto respirare di più il settore, oggi ci sarebbero molti più medici e molti più letti per combattere il flagello. E il lavoro degli operatori sarebbe certamente meno eroico di quanto debba esserlo per necessità oggi.

Parlare di eroismo mi sembra dunque quasi aggiungere al danno la beffa, anche se certamente non è questa l’intenzione di tanti che, pronunciando l’espressione, vogliono solo apprezzare il lavoro svolto dal sistema sanitario pubblico e dai suoi operatori.

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sinistra

Capitalismo della sorveglianza

di Salvatore Bravo

ggggggggggggggLe metamorfosi del capitalismo

Il capitalismo è un movimento rivoluzionario, la sua ascesa ed il suo impero è sempre stato nell’ottica di una rivoluzione del plusvalore che mentre libera dai vincoli, dalle leggi, dalle identità tradizionali impone nuovi ceppi. Il movimento rivoluzionario del capitalismo è dunque non solo complesso, ma integra piani diversi di sfruttamento in funzione del plusvalore. La verità del capitalismo resta inalterata nei secoli associa lo sfruttamento all’alienazione, ma le forme storiche sono in perpetua metamorfosi. Il divenire sempre più veloce delle forme strutturali rende difficile la risposta politica dei suoi oppositori. Il testo di Shoshana Zuboff Il capitalismo della sorveglianza ci è di ausilio per conoscere e sistematizzare la nuova forma che il capitalismo sta assumendo. Shoshana Zuboff definisce l’attuale fase del capitale “capitalismo della sorveglianza”, quest’ultimo si struttura per la capacità di strumentalizzare lavoratori e non attraverso la capacità di astrarre, conservare ed utilizzare informazioni sulla loro vita a fini commerciali e determinare i loro comportamenti. Si tratta di un’operazione che investe l’intera società trasformata in un laboratorio sperimentale dove attuare tecniche predittive sui comportamenti. Il capitalismo mentre invita ad abbandonare ogni limite nel consumo, nel contempo determina le scelte fino a sostituirsi in modo impalpabile ai “liberi consumatori…”

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economiaepolitica

L’ascesa della destra e la creazione di un paradigma unico

di Riccardo Leoncini

scolastica economicaUn certo numero di anni fa (parecchi per la verità), prima di iniziare il mio programma di PhD, ho seguito un corso di master presso un’università inglese. Il corso prevedeva 8 insegnamenti (4 per semestre), alcuni obbligatori (i classici micro, macro ed econometria) e alcuni facoltativi. Fra quelli facoltativi che decisi di seguire ricordo che scelsi economia ambientale, economia marxiana, economia ricardiana, ed un corso di economia dello sviluppo tenuto presso un altro dipartimento. Dieci anni circa dopo, un caro amico seguì lo stesso corso di master. A quel tempo era partito da qualche anno il Research Assessment Exercise delle Università britanniche, e, presso quella stessa università, era stato assunto come professore una star del firmamento della crescita endogena (tema allora assai di moda). Il mio amico tornò dall’Inghilterra con un bagaglio (magari invidiabile) di insegnamenti focalizzati unicamente su quel tema (scherzando, gli chiedevo se avesse seguito anche un corso su crescita endogena e fish&chips). Proprio in quel periodo mi lamentavo con un altro amico della desertificazione della varietà di insegnamento (tutti i corsi che avevo seguito io non esistevano più ed i vari professori che li tenevano erano quasi tutti emigrati altrove): “vedi, gli dicevo nessuno ha più voglia ed incentivo ad insegnare economia marxiana o ricardiana.” Al che lui, addottorato in USA, mi rispose: “ma guarda che in America non è che non insegnano più economia marxiana, non insegnano più neanche economia keynesiana!”

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contropiano2

50 anni dopo, anche il liberismo ha finito il suo tempo

di Claudio Conti

Con un intervento in calce di Guido Salerno Aletta

liberismo fine tempoLa sensazione insiste da tempo. Lo stallo generale in cui siamo immersi – incrinato parzialmente ora dalla “paura globale” per un virus di limitata pericolosità – dura da anni. Uno scivolamento lento verso una condizione peggiore ma non ancora intollerabile, o forse tollerato solo perché lento e graduale. Una evidente incapacità-impossibilità per le classi dirigenti globali di trovare una “soluzione” alla crisi, per via del suo carattere mondiale e dei limitati strumenti – nazionali, o al più continentali – in mano ai decisori pubblici.

Però ogni stallo è una marcescenza. I problemi si accumulano, per quanto silenziati o rinviati. E le possibili soluzioni diventano sempre meno applicabili, perché si moltiplicano le connessioni tra un problema e l’altro.

Per esempio, chi vede l’immigrazione come un problema gravissimo non vede, in genere, l’emigrazione dei suoi connazionali – specie giovani, istruiti, preparati – verso luoghi in teoria più promettenti. E soprattutto non vede le ragioni strutturali che spingono così tante persone ad affrontare l’ignoto in un altro paese o continente, in diversi contesti culturali e linguistici.

Chi vede le ragioni strutturali (economiche o ambientali) spesso non coglie la complessità delle reazioni in popolazioni sottoposte contemporaneamente a uno stress economico-sociale (perdita di salario, status, sicurezza economica, speranza nel futuro) e a uno “epidermico-culturale” (“lo straniero in casa”).

Dovunque ci si giri non si incontra nulla di stabile, se non l’incrudimento delle reazioni repressive da parte di centri si potere che dappertutto sentono salire il malessere sociale.

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pressenza

I veleni dei nuovi poteri e del capitalismo della sorveglianza nell’epoca del digitale

di Maria Concetta Sala

x41fwrbSxNL. SX349 BO1204203200 .jpg.pagespeed.ic.wn43ZS GZdNell’ultimo decennio scrittrici, scrittori, analisti del digitale hanno messo in guardia sui veleni diffusi dal nostro disinvolto e compiacente uso degli strumenti che tutte/i – adulti, adolescenti, bambine/i – abbiamo in mano e nelle nostre case, ma una possente distrazione continua a non permetterci di osservarne la portata distruttiva riguardo alla libertà individuale e di cogliere le ricadute sociali di un sistema rapace e vorace che depreda la nostra esperienza umana. Basterebbe pensare alla serie distopica britannica Black Mirror che mostra gli effetti collaterali della nostra assuefazione alle nuove tecnologie; oppure alla scrittrice argentina Samanta Schweblin e al suo romanzo Kentuki (pupazzetti “innocui” di peluche dotati di webcam in grado di innescare simulacri di relazione); o ancora al volume La Grande G. Come Google domina il mondo dello studioso dei media Siva Vaidhyanathan, all’edizione francese La société de l’exposition del libro del teorico critico Bernard Harcourt, a The Culture of surveillance del sociologo David Lyon…

Che cosa è accaduto? che cosa ci sta accadendo? Perché noi “utenti” comuni – quasi metà dei sette miliardi di umani che abitano la Terra – non siamo ancora in grado di valutare gli esiti nefasti determinati dalla pirateria informatica dei colossi della Rete (Google, Facebook, Microsoft, Amazon, Twitter…) e dalla logica dell’accumulazione sottostante ai cosiddetti Big Data – l’enorme quantità di dati forniti da noi e immagazzinati, gestiti e analizzati dall’intelligenza artificiale, che non è un’entità astratta, per essere infine monetizzati e venduti? perché non siamo in grado di cogliere la commistione letale tra nuove forme di capitalismo estrattivo e svolta repressiva in atto mascherata in termini di certezza e di sicurezza? come saperne di più e venir fuori dalla nostra ignoranza? quali strategie adottare per non essere ciecamente e impunemente espropriate/i?

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Coordinamenta2

“Bambin* del neoliberismo”

di Elisabetta Teghil

bambin del neoliberismo“Nella grande fucina dove, attraverso processi sempre più complessi si sta forgiando il nuovo individuo, la <creatura> del capitale, nemmeno la condizione dei bambini sfugge a quest’opera di ingegneria sociale. Anzi, è il capitale, in un certo senso, ad inventare l’infanzia, almeno come la viviamo noi.”

S.Federici e L. Fortunati, Il grande Calibano, Storia del corpo sociale ribelle nella prima fase del capitale, Franco Angeli, 1984

C’è un’attenzione spropositata in questa società e in questo periodo storico nei confronti dei bambini e degli adolescenti. Ma facciamo un passo indietro. Nei periodi storici precedenti al capitalismo, attuando chiaramente una semplificazione necessaria, l’adultizzazione dei bambini avveniva precocemente. Nel medioevo adulti e bambini non erano poi così diversi fra loro e il passaggio del bambino dal mondo dei piccoli a quello dei grandi era molto precoce. Lo confermano, ad esempio, varie leggi riguardanti l’età minima per il matrimonio e per l’entrata nel mondo del lavoro. I bambini venivano inseriti nel mondo degli adulti appena potevano fare a meno della madre, cioè verso i sette anni circa e a dieci anni aiutavano già gli adulti in qualsiasi tipo di attività. Praticamente, a questa età, i bambini dovevano guadagnarsi il pane, ma non nel senso di sfruttamento del lavoro minorile come lo intendiamo noi, nel senso proprio che ormai facevano parte della comunità degli adulti. D’altra parte anche il modo di pensare di adulti e bambini non era molto distante, cioè l’infanzia non aveva prerogative particolari né tra i servi né tra i padroni.

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contropiano2

Davos di fronte all’abisso

di Claudio Conti

Con un intervento di Guido Salerno Aletta da Milano Finanza

pesdfadfSeguire il vertice di Davos a grande distanza, senza neanche potercisi avvicinare, è complicato. I media mainstream ne danno un quadro sicuramente fasullo, ma qualche informazione utile trapela lo stesso. Guarda caso, come sempre, da quelle testate specializzate, lette da imprenditori e operatori finanziari, che non possono permettersi di fornire informazioni sbagliate come base per le decisioni di investimento.

Al di là della cronaca, l’analisi di Guido Salerno Aletta, su Milano Finanza, stavolta centra il punto di crisi vera cui è giunto il modo di produzione capitalistico nel suo complesso – l’eccesso di capacità produttiva installata, che marxianamente inquadriamo come un aspetto della crisi di sovrapproduzione – e le due diverse ipotesi di “soluzione” che dividono il campo capitalista.

L’America di Trump ha scelto sicuramente una strada retrograda, che facilita una gestione ideologica reazionaria sul piano politico e culturale. Il resto del “mondo che conta” invece punta sul green deal per uscire dalla stessa impasse.

Entrambe le soluzioni, conviene dirlo subito chiaramente, presuppongono che non ci sia alternativa al capitalismo più brutale, al neoliberismo più sfrenato. Entrambe le soluzioni,insomma, prevedono morte e distruzione, profitti inimmaginabili e povertà sempre più diffusa. E una crisi ambientale inarrestabile.

La differenza sta fondamentalmente nel fregarsene della crisi ambientale oppure usarla come occasione di ulteriore business. Il che comporta un corollario politicamente importante: difendere soprattutto gli interessi e la struttura produttiva degli Stati Uniti (America first) oppure provare a disegnare una “globalizzazione di riserva”, con tanta vernice verde a nascondere sangue e povertà.

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seminaredomande

Dall’economia di guerra ad un’economia di pace

di Francesco Cappello

LP 9238235 e1557912308599 1024x438Al tradizionale conflitto tra lavoratori e proprietari dell’azienda si è aggiunto oggi quello più generale tra debitori e creditori. Alla categoria dei debitori appartengono non solo famiglie e imprese ma interi popoli e le loro organizzazioni statali. Sullo sfondo il conflitto tra micro e macro: microimprese e multinazionali, piccole banche e grandi banche d’affari, stati nazionali e poteri sovranazionali.

L’architettura del sistema finanziario e il sistema dei pagamenti internazionale generano enormi bolle di debiti e crediti, pubblici e privati, che non si incontrano e che la finanza gestisce in forma di cartolarizzazioni, derivati (1) e altro. I debiti accumulati dalla finanza speculativa ammontano secondo stime, utilizzanti dati della BRI, a una somma pari a 54 volte il Pil mondiale! Si tratta di denaro fittizio, ricchezza fittizia, tradotta in titoli, inventati dal sistema finanziario, il cui valore non è determinabile con certezza e che risultano continuativamente soggetti ad improvvisi quanto imprevedibili rischi di svalutazione. Tuttavia, la casta aristocratico-finanziaria (che si avvale dello strumento dei grandi fondi di investimento che controllano le grandi banche d’affari, le multinazionali, le agenzie di rating, le grandi agenzie informative, la stessa politica) che detiene e gestisce questa ricchezza di carta usa allo scopo le più diverse manovre speculative. La pretesa di fondo consiste nel pensare possibile far soldi con i soldi, nei vari passaggi di mano da un investitore all’altro, saltando a piè pari l’economia reale, tenuta ai margini, se non del tutto disgiunta, da quella finanziaria. Piuttosto che concedere prestiti a famiglie e aziende si trova più redditizio commercializzare titoli.

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tempofertile

Nancy Fraser, “Il vecchio muore e il nuovo non può nascere”

di Alessandro Visalli

thIl libricino raccoglie interventi rivolti a inquadrare la crisi in corso scritta tra il 2017 e 2019 della studiosa americana Nancy Fraser, molto nota per le sue posizioni critiche sul femminismo liberale[1] e il “neoliberismo progressista”[2]. Sembrerebbe, con particolare riferimento all’elezione a sorpresa di Donald Trump nel 2016, di essere alle prese con una crisi politica ma è piuttosto, a parere della Fraser, una crisi ‘globale’. Caratterizzata in ogni luogo dell’occidente dal “drammatico indebolimento, se non un vero e proprio crollo, dell’autorità delle classi politiche costituite e dei partiti”. Ma questa è solo la componente politica di una crisi che ha dimensioni economiche, ecologiche e sociali; tutti processi convergenti che finiscono per “disintegrare” l’ordine sociale neoliberale. Ovvero quell’ordine che si è costituito a partire dall’alleanza, reale e potente, tra due strani partner: le correnti liberali conservatrici tradizionali, espresse in America a partire dagli anni cinquanta nel lavoro continuo di alcuni influenti e ben finanziati centri culturali[3], e il contributo decisivo per la legittimazione sociale e politica della confluenza dei nuovi movimenti sociali (femministi, antirazzisti, del multiculturalismo, ambientalismo e diritti Lgbtq+). Questo “blocco egemonico” è quel che la Fraser chiama “neoliberismo progressista”. I due improbabili partner uniscono lo spirito libertario e individualista dei movimenti anti-autoritari, e quindi anche antistatalisti, degli anni sessanta, con tutto il loro variopinto colore, ai “settori più dinamici, lussuosamente simbolici e finanziari, dell’economia degli Stati Uniti (Wall Street, la Silicon Valley e Hollywood)”[4].

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effimera

Il furore di sfruttare e di accumulare

di Gianni Giovannelli e Turi Palidda

131202 salgado coffee02 pmpxun 1200x878Il diavolo è un ottimista
se crede di poter peggiorare
gli uomini
Karl Kraus

Solo chi è prigioniero dell’ideologia dominante può accettare con felice soddisfazione l’odierna struttura dell’economia e dei rapporti sociali. Il sistema di comunicazione costruito dal liberismo contemporaneo ha trasformato la rappresentazione in realtà e il mondo sembra, nonostante tutto (come sussurrano prudentemente i più critici), un porto felice, o, quanto meno, l’unica vita possibile nel terzo millennio. La servitù volontaria, nata per contrastare il timore dell’esclusione e della miseria, rende ciechi, impedisce di vedere gli effetti di una quotidiana violenta prevaricazione che caratterizza il meccanismo di estrazione del valore. L’esame, nudo e crudo, dell’esistenza di gran parte delle persone che ci circondano dovrebbe invece rendere palese la verità: quella di un oggettivo accanimento, di uno sfruttamento crudele e senza freni inibitori, a volte perfino inspiegabile nella sua sostanziale irragionevolezza. Non a caso viene evocato il concetto di neoschiavitù per descrivere le insostenibili condizioni in cui si trovano i soggetti soggiogati dai funzionari del capitalismo ultraliberista.

Era prevedibile questo scenario, a ben pensarci. La concezione liberista della società tende ad esasperare ogni cosa, perfino le modalità dello sviluppo e l’idea del cosidetto progresso. L’esasperazione travolge davvero tutto: il libero arbitrio dell’imprenditore, del padrone e del sottopadrone, del caporale, e ancora omologa i comportamenti dei gendarmi, dei lobbisti, dei politici e delle banche.

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