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La rinascita (atlantista) del militarismo tedesco

Da BlackRock alla Bundeswehr: il riarmo della Germania secondo Merz

di Thomas Fazi

Il nuovo cancelliere tedesco Friedrich Merz, già rappresentante del colosso finanziario BlackRock, avvia un massiccio riarmo militare, rompendo con la tradizione pacifista postbellica. Con investimenti senza precedenti e un deciso allineamento all’atlantismo, Berlino abbandona l’Ostpolitik e adotta una postura aggressiva nei confronti di Mosca. Eppure, dietro la retorica della sovranità, si cela una crescente subordinazione strategica. Ma Merz deve fare i conti con un profondo dissenso interno, soprattutto tra i giovani

Battle of Borodino on 26 August 7 September 1812 by Peter von Hess result«Vogliamo rendere la Bundeswehr la forza armata convenzionale più forte dell’Ue». Al vertice Nato all’Aja, lo scorso 25 giugno, il nuovo cancelliere tedesco Friedrich Merz ha presentato il suo piano per il riarmo tedesco. Con un investimento da 400 miliardi di euro e l’obiettivo di portare la spesa militare al 5% del Pil, non si tratta di una semplice modifica di budget, ma della cancellazione dell’identità strategica tedesca post-1945. Una rivoluzione che affonda le radici nella completa interiorizzazione dell’ideologia atlantista da parte della classe dirigente.

Il piano di riarmo della Germania e l’aggressiva postura anti-Russia non è un ritorno del nazionalismo tedesco, ma il suo opposto. Le politiche messe oggi in atto non derivano da una fredda ricerca degli interessi nazionali tedeschi, ma nella loro negazione. Sono l’espressione di una classe politica che ha interiorizzato così profondamente l’ideologia atlantista da non riuscire più a distinguere tra strategia nazionale e lealtà transatlantica.

Questa è la conseguenza a lungo termine di come la questione tedesca è stata «risolta» dopo la Seconda guerra mondiale: attraverso l’assorbimento della Germania nell’«Occidente collettivo» sotto la tutela strategica americana. Per gran parte del periodo postbellico la leadership tedesca ha cercato di bilanciare questo assetto con la difesa dell’interesse nazionale, ma negli anni successivi al colpo di Stato in Ucraina, l’ala «americana» dell’establishment tedesco ha cominciato a prendere il sopravvento. Con Merz, che in passato è stato un rappresentante BlackRock, è saldamente al comando.

Oggi la leadership pensa solo in termini di allineamento a un progetto occidentale le cui priorità sono spesso definite altrove. In un editoriale pubblicato il 23 giugno sul Financial Times, per esempio, Merz ed Emmanuel Macron hanno nuovamente ribadito il loro impegno nella relazione transatlantica e nella Nato (che ha sempre comportato la subordinazione strategica dell’Europa a Washington), nonostante i recenti gesti retorici verso una politica europea più autonoma.

È significativo che Merz, pur criticando pubblicamente Donald Trump, stia in realtà realizzando la sua visione: spingere la Germania a incrementare drasticamente la spesa per la difesa, a prendere la guida nella guerra in Ucraina e a rompere i legami energetici con la Russia. Eppure tutto questo viene presentato come espressione di sovranità tedesca ed europea. Contrariamente al coraggioso atteggiamento di Gerhard Schröder contro l’invasione americana dell’Iraq 20 anni fa, Merz ha anche offerto un sostegno pieno all’attacco recente di Trump contro l’Iran.

L’idea di un riarmo delle forze armate tedesche risale al discorso Zeitenwende (svolta epocale) pronunciato nel 2022 dell’allora cancelliere Olaf Scholz, pronunciato all’indomani dell’invasione russa dell’Ucraina. Scholz promise un fondo di 100 miliardi di euro per le forze armate e il raggiungimento dell’obiettivo del 2% del Pil in spesa militare, come richiesto dalla Nato. Tuttavia, quel punto di svolta è rimasto in gran parte sulla carta. Due anni dopo, il Consiglio tedesco per le relazioni estere ha dichiarato senza mezzi termini che poco era cambiato.

Ora Merz è deciso a realizzare ciò a cui Scholz aveva solo accennato. Il nuovo cancelliere ha fatto della difesa e della sicurezza la pietra angolare del suo mandato, lanciando la più ambiziosa campagna di riarmo dalla Seconda guerra mondiale. Il piano da 400 miliardi di euro in investimenti per difesa e sicurezza rappresenterebbe quasi la metà del bilancio federale: circa 225 miliardi di euro. Una «svolta epocale» con ripercussioni enormi: Berlino ha confermato che la spesa militare raggiungerà il 3,5% del Pil entro il 2029, con l’obiettivo del 5% negli anni successivi.

Per raggiungere tali obiettivi, Merz ha forzato una modifica costituzionale per riformare il «freno al debito», un meccanismo fiscale inserito nella Legge fondamentale tedesca dal 2009, che limita il deficit strutturale federale. Nonostante in campagna elettorale avesse promesso di mantenerlo intatto, Merz ha cambiato rotta immediatamente dopo l’elezione. Il suo governo ha sfruttato l’ultima seduta del Parlamento uscente per approvare la modifica. L’obiettivo era chiaro: sbloccare vasti fondi per l’espansione militare.

Il 19 maggio scorso, il massimo ufficiale militare tedesco, il generale Carsten Breuer, ha emesso una direttiva che delinea una visione complessiva per la Bundeswehr che mira a raggiungere la «piena prontezza operativa» entro il 2029. Le priorità sono numerose e ambiziose: equipaggiamento e digitalizzazione completi di tutte le unità, ritorno alla coscrizione, sviluppo di difese anti-drone e antimissile, potenziamento delle capacità offensive nel cyber e nella guerra elettronica, e persino lo sviluppo di sistemi difensivi spaziali. Il piano prevede anche il rafforzamento della partecipazione tedesca alla condivisione nucleare della Nato e l’ampliamento della capacità di attacco a lungo raggio.

Questi cambiamenti non riguardano solo la dottrina militare: riflettono una trasformazione profonda della postura di politica estera della Germania. Merz ha sposato una linea di forte contrapposizione con la Russia, riecheggiando le voci più dure della Nato. Ha affermato che la Russia sta «conducendo ogni giorno una guerra ibrida aggressiva» e ha dichiarato che «c’è una minaccia per tutti noi dalla Russia». Alla vigilia del vertice Nato, ha sostenuto che «dobbiamo temere che la Russia continui la guerra oltre l’Ucraina», suggerendo un’imminente minaccia diretta all’Europa.

Nel frattempo, un documento strategico della Bundeswehr ripreso da Reuters descrive la Russia come un «rischio esistenziale» e parla di preparativi del Cremlino per un conflitto su larga scala con la Nato «entro la fine del decennio». L’idea che la Russia possa lanciare un attacco all’Europa nei prossimi anni è ormai parte della narrativa ufficiale di leader Ue e Nato, nonostante Mosca non abbia né le capacità né l’interesse strategico per un’azione del genere.

Subito dopo l’insediamento, Merz ha lanciato una campagna attiva di politica estera. Ha visitato le capitali europee per coordinare la linea su Mosca e Kyiv. Uno dei suoi primi atti è stato recarsi a Kyiv insieme ai leader di Francia, Regno Unito e Polonia, un gesto simbolico di unità con l’Ucraina e una sfida diretta a Donald Trump, che nel frattempo aveva pubblicamente promosso un accordo negoziale con la Russia.

A Berlino, Merz ha ricevuto il presidente ucraino Volodymyr Zelensky e proposto l’invio dei missili Taurus prodotti in Germania, con una gittata di oltre 500 chilometri. Di fronte alla forte opposizione interna, ha parzialmente ritrattato, ma ha rilanciato con una nuova strategia: un accordo da 5 miliardi di euro per la co-produzione di missili a lungo raggio sul territorio ucraino utilizzando tecnologia tedesca.

Ancor più provocatorio, Merz ha dichiarato che le armi fornite dall’Occidente non sono più soggette a restrizioni di gittata. «L’Ucraina può ora difendersi attaccando obiettivi militari in Russia» ha detto, dando di fatto il via libera a colpire il territorio russo con armi occidentali. Per la prima volta dal 1945, la Germania non solo si sta riarmando su larga scala, ma sta anche legittimando l’escalation diretta contro una potenza nucleare. A conferma di questo orientamento, Merz ha annunciato la consegna all’Ucraina di nuovi sistemi di difesa aerea tedeschi, nell’ambito di un piano pluriennale.

Ma ciò che rende questa campagna di riarmo particolarmente significativa è che non si limita alla sfera militare. La visione di Merz prevede una mobilitazione totale: un approccio che mira a preparare non solo le forze armate, ma l’intera economia e l’infrastruttura civile tedesca al confronto con la Russia. I media, l’istruzione, la politica industriale e la protezione civile vengono progressivamente allineati alla nuova postura bellica. Il dissenso (politico, giornalistico o accademico) è sempre più stigmatizzato come sovversivo o visto addirittura come una minaccia alla sicurezza nazionale.

Si tratta di una rottura profonda. Per gran parte del Dopoguerra, la Germania si è definita in contrasto con il proprio passato militarista. Ha esercitato influenza non con i carri armati ma con il commercio, la diplomazia e la leadership nell’Ue. La dottrina della Zivilmacht (potenza civile) non era solo una linea politica, ma un impegno morale forgiato dalle ceneri del nazismo. La Bundeswehr era un «esercito parlamentare», costruito per evitare abusi da parte dell’esecutivo e inserito in istituzioni multilaterali pensate per limitare l’avventurismo sovrano.

La retorica aggressiva di Merz contro la Russia e la postura strategica che ne consegue rappresentano una rottura radicale con quella tradizione. Anche il suo predecessore, Olaf Scholz, pur sostenendo l’Ucraina, si era rifiutato di autorizzare l’uso di armi occidentali per colpire il territorio russo. Una linea rossa che Merz ha ora oltrepassato. Mosca ha già avvertito che tali azioni potrebbero provocare rappresaglie contro obiettivi Nato. Fino a poco tempo fa, uno scenario simile sarebbe stato impensabile per un cancelliere tedesco.

Per la maggior parte del periodo postbellico, anche durante la Guerra Fredda, la politica tedesca puntava al miglioramento delle relazioni con la Russia, allora Unione Sovietica. Questa strategia era nota come Ostpolitik (politica orientale) e si fondava sulla convinzione che la stabilità politica e la pace in Europa potessero essere raggiunte attraverso legami economici più stretti e un dialogo costante con Mosca. Non lo scontro, ma il disinnesco delle tensioni era il mezzo per costruire fiducia e spazio politico per la riconciliazione.

Per oltre 50 anni questo è stato il consenso dominante in Germania, almeno fino all’invasione russa dell’Ucraina nel 2022. Col tempo, tuttavia, la leadership tedesca, in particolare Angela Merkel, ha fatto sempre più fatica a bilanciare gli interessi strategici nazionali con i legami transatlantici, sotto l’intensa pressione statunitense per destabilizzare la Russia proprio attraverso l’Ucraina.

Dal 2022, tuttavia, quel consenso postbellico ha iniziato a essere smantellato – e oggi si è completamente rovesciato. Ma com’è possibile che nel giro di pochi anni si sia passati dalla Ostpolitik a Merz che promette di fare «di tutto» per impedire la riapertura del gasdotto Nord Stream, lancia un riarmo colossale e parla con leggerezza di aiutare l’Ucraina a bombardare la Russia? È solo una risposta «naturale» all’invasione russa e al nuovo scenario geopolitico post-2022, aggravato dal disimpegno americano?

Secondo alcuni osservatori, questo cambio di rotta segnala il ritorno – pericoloso – del nazionalismo e del revanscismo tedesco: un impulso latente che covava da tempo tra settori delle élite e della società. Per decenni, sostengono, questo istinto è stato contenuto dal consenso postbellico e dall’ordine di sicurezza guidato dagli Usa. Ora che Washington sembra voler disimpegnarsi, quel freno si sarebbe allentato. Secondo questa lettura, Berlino starebbe sfruttando il vuoto lasciato dall’America per riconquistare una posizione egemonica in Europa. E stavolta non solo attraverso la leva economica, ma attraverso una postura militare assertiva, in un ritorno inquietante a pagine oscure del Novecento.

Ma questa interpretazione, a mio avviso, è sbagliata. Ciò a cui stiamo assistendo non è un ritorno del nazionalismo tedesco, ma il suo contrario. Le politiche oggi in atto – dal riarmo massiccio all’escalation del conflitto con la Russia – non affondano le radici in una fredda difesa dell’interesse nazionale, bensì nella sua negazione. Sono l’espressione di una classe politica che ha interiorizzato così profondamente l’ideologia atlantista da non saper più distinguere tra strategia nazionale e fedeltà transatlantica.

La buona notizia è che le ambizioni militariste della Germania si scontrano con una realtà implacabile: la Bundeswehr non riesce a trovare abbastanza persone disposte a combattere le sue guerre. All’esercito mancano 30.000 effettivi, e una recluta su quattro abbandona entro sei mesi. La Nato ha chiesto a Berlino di creare sette nuove brigate – il che richiederebbe altri 60.000 soldati – un obiettivo che persino il ministro della Difesa, Boris Pistorius, definisce irrealistico.

Pistorius afferma che, per ora, la leva obbligatoria è «fuori discussione», non per mancanza di volontà, ma perché logisticamente impossibile. «Non abbiamo le strutture — né in termini di caserme, né di addestramento» ha detto il ministro al Parlamento. Tuttavia, ha lasciato intendere che questa potrebbe essere solo una fase transitoria, subordinata alla possibilità che l’esercito riesca a trovare abbastanza volontari.

Ma il vero ostacolo potrebbe essere non logistico, bensì culturale. Un sondaggio YouGov ha rilevato che il 63% dei tedeschi tra i 18 e i 29 anni è contrario alla leva obbligatoria; solo il 19% sarebbe disposto a combattere se la Germania venisse attaccata. Al contrario, tra gli over 60 — ben lontani dall’età della leva — il sostegno è molto più forte. «Questa divergenza generazionale non è solo un cambiamento di atteggiamento» sostengono i ricercatori Chris Reiter e Will Wilkes. «Riflette due realtà vissute completamente diverse. I tedeschi del dopoguerra sono cresciuti durante la Guerra fredda, in un mondo con una missione civica condivisa: difendere la democrazia dall’espansionismo sovietico. In cambio, lo Stato offriva posti di lavoro stabili, case accessibili e un senso di scopo nazionale».

Ma questo patto sociale si è rotto, in un contesto di prospettive sociali ed economiche sempre più precarie per i giovani. «Per molti, la chiamata a indossare una divisa non suona come patriottismo, ma come l’ennesima richiesta da parte di un sistema che non restituisce nulla» scrivono Reiter e Wilkes. «Ignorate le nostre preoccupazioni e poi ci chiedete di morire per lo Stato – è assurdo» ha dichiarato l’influencer Simon David Dressler in un dibattito televisivo. Questo sentimento è stato forse espresso al meglio dal giornalista tedesco Ole Nymoen, 27 anni, in un libro intitolato Perché non combatterei mai per il mio Paese, in cui l’autore affronta l’ampia opposizione della sua generazione alla militarizzazione, alla leva obbligatoria e al riarmo.

Questo disincanto si sta riflettendo anche nella politica. Alle ultime elezioni, quasi la metà dei giovani elettori ha respinto i partiti tradizionali, rivolgendosi a Die Linke o all’AfD, non necessariamente per affinità ideologica, ma come forma di rifiuto dell’agenda della Nato e per scetticismo verso la spinta al riarmo. Alla fin dei conti, questo potrebbe essere il vero ostacolo al riarmo, in Germania e altrove: che un numero crescente di persone comincia a rendersi conto che i veri nemici non sono a Mosca, ma tra le élite politiche ed economiche del proprio Paese.

Il problema, dunque, non è l’ambizione della Germania, ma la sua sottomissione. E la tragedia è che questa sottomissione viene mascherata come autonomia strategica, una parodia della sovranità nell’era della dipendenza ideologica. Se i leader tedeschi di un tempo sapevano che la pace con la Russia era un interesse fondamentale del Paese, quelli di oggi si comportano come se il conflitto permanente fosse un prerequisito della responsabilità statale. Questo capovolgimento di prospettive non è solo pericoloso per la Germania, ma per l’Europa intera.

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