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Lo stato spende prima, poi incassa. Logica, fatti, finzioni*
di Sergio Cesaratto
Introduzione
La logica keynesiana (o kaleckiana) conduce gli economisti post-keynesiani a presumere che una variazione delle entrate dello Stato provenienti dalla tassazione o dalla vendita di buoni del Tesoro siano il risultato di una variazione della spesa pubblica, e non il contrario – date le altre componenti autonome che costituiscono la domanda aggregata (AD) e dati i parametri che regolano il moltipli catore del reddito (oppure, in un’analisi di lungo periodo, del super-moltiplicatore)1. La logica di questa proposizione è la medesima applicata dagli economisti post-keynesiani alla teoria degli investimenti: la creazione di moneta endogena finanzia l'investimento (finanziamento iniziale), mentre il risparmio compare solo alla conclusione del processo del (super)moltiplicatore del reddito e costituisce un fondo per il cosiddetto finanziamento finale (o “funding”) (Cesaratto 2016). Mentre la sequenza keynesiana moneta endogena→investimento→risparmio è generalmente accettata, almeno nei suoi termini generali, la proposizione che "lo Stato spende prima" invece non lo è. Come è noto, negli ultimi due decenni gli esponenti della Teoria della Moneta Moderna (MMT) sono stati in prima linea nel sostenere la logica keynesiana (o kaleckiana) di questa proposizione, riempiendo un vuoto teorico del pensiero post-keynesiano stesso. Considerando l’importanza della proposizione, si tratta di una lacuna davvero sorprendente. La preposizione è stata forse data per scontata, ma non dovrebbe esserlo.
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L’economia neoclassica? Una pseudoscienza
conversazione con Francesco Sylos Labini
L’economia è una scienza? I modelli elaborati dagli attuali economisti neoclassici hanno lo stesso potere predittivo delle teorie fisiche? Sono domande importanti perché come i modelli dei fisici sono usati per costruire razzi che mandano in orbita satelliti che ci permettono di usare i nostri smartphones e internet, così i modelli degli economisti neoclassici sono usati dai politici per prendere decisioni che hanno conseguenze sui servizi pubblici, sull’economia reale e sulle nostre scelte di vita. A quanto emerge da una recente disamina l’economia neoclassica può essere classificata come pseudoscienza e comporta una serie di conseguenze negative a vari livelli: in politica, nella società, nella cultura e nella ricerca scientifica. Di questo si discute nell’intervista con il fisico Francesco Sylos Labini.
Un modello teorico che ambisca a diventare una spiegazione scientifica della realtà dovrebbe produrre predizioni su fatti nuovi che permettano di controllarne l’affidabilità ed eventualmente confutarlo. Il successo empirico è un buon indicatore, non certo infallibile, dell’alta probabilità che una teoria possa aver colto una qualche regolarità della realtà, e possa conseguentemente divenire utile per pianificare azioni sulla stessa realtà. Un modello ipotetico che abbia ambizioni esplicative ma che fallisca il controllo empirico dovrebbe essere abbandonato dai ricercatori, e questo solitamente avviene nelle scienze sperimentali. Talvolta è possibile aggiungere ipotesi ausiliarie, ad hoc, che temporaneamente coprano le falle della teoria, ma un eccessivo accumulo di queste anomalie è segno di scarsa salute della teoria stessa, che andrebbe sostituita con una più aggiornata. Capita tuttavia che una comunità scientifica si affezioni particolarmente a un modello esplicativo e si dimostri talvolta restia ad abbandonarlo, nonostante i suoi ripetuti fallimenti predittivi. Se le resistenze sono dovute a convinzioni arbitrarie derivanti da una determinata visione del mondo (Weltanschauung), e non da ragioni veramente scientifiche, la teoria difesa strenuamente assume i caratteri della pseudoscienza.
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Ciao, ciao Keynes
di Alessandro Chiavacci
Parte I
Gli amici Moreno Pasquinelli e Leonardo Mazzei, e il gruppo Mpl/Sinista contro l’ Euro/P 101, da anni lavorano per coalizzare le forze sociali e intellettuali per creare una alternativa al presente, con gli occhi puntati su quella che è la questione centrale oggi per l’ Italia, cioè l’uscita dai vincoli dell’euro e dell’Unione europea. Nel fare questo però a mio avviso guardano con troppa condiscendenza a forze sociali e a teorie che mentre sembrano possibili alleati di un progetto di trasformazione del mondo, hanno anche limiti di fondo che ne inficiano l’utilità dal punto di vista di quella stessa prospettiva.
Una di queste teorie, sulla quale vorrei soffermarmi, è il keynesismo.
Dovendo fare una sintesi ultra semplificata e ingiusta del contributo pratico del keynesismo, potremmo dire che il suo significato è che, poiché il reddito non si traduce sempre in spesa è possibile che la domanda effettiva sia minore di quella che serve a generare piena occupazione, che perciò, in molti casi, è necessario integrare la domanda con la spesa pubblica realizzata in deficit.
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I limiti di fondo dell’economia politica
Enrico Galavotti
Prendiamo un qualunque Manuale di economia politica scritto da un marxista: quello di Antonio Pesenti (Editori Riuniti, Roma 1972). Sin dalle prime pagine si capisce che c’è qualcosa che non va, ovviamente non perché si è contro il capitalismo, quanto perché non si riesce a valorizzare sino in fondo il pregio di un’economia naturale basata su autoconsumo e baratto. Questo è un limite di fondo di tutti i manuali di economia politica, siano essi borghesi o socialisti.
Un manuale marxista di economia politica non dovrebbe porsi anzitutto in antitesi allo sviluppo capitalistico, poiché se si esordisce facendo questo, l’antitesi non sarà mai davvero radicale, ma sempre relativa. Per essere un minimo obiettivi, si dovrebbero anzitutto valorizzare tutte quelle forme di produzione economica in cui non esisteva una forte divisione del lavoro, una propensione accentuata per gli scambi commerciali, l’esigenza di avere tutte le comodità possibili, la necessità imprescindibile di produrre di più in minor tempo e con minor fatica e altre caratteristiche tipiche delle società basate sull’antagonismo sociale.
È vero che è stata la borghesia a inventare la scienza dell’economia, ma quando si parla di economia bisognerebbe anzitutto farne una storia, eventualmente avvalendosi degli studi di etno-antropologia, altrimenti rischiano di apparire falsati i presupposti metodologici della critica materialistica. Non si può fare del “materialismo dialettico” con uno sguardo rivolto solo verso al futuro, senza tener conto che siamo figli di un passato ancestrale, le cui caratteristiche, quando si viveva di caccia, pesca, raccolta di frutti selvatici, erano completamente diverse da quelle che si sono formate con la nascita delle prime civiltà urbanizzate.
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Dani Rodrik, “Ragioni e torti dell’economia”
di Alessandro Visalli
L’economista turco Dani Rodrik (questo il suo blog) è sicuramente una delle star del panorama economico internazionale, docente ad Harvard e autore del famoso “trilemma” sulla globalizzazione lanciato dal suo libro “La globalizzazione intelligente”, della quale avevamo fatto questa lettura. In questo libro tenta una complessa difesa della professione economica, anche se in una versione in cui sono avanzate più modeste assunzioni sulla capacità di conoscere il mondo “vero” attraverso i suoi strumenti.
La tesi essenziale è piuttosto semplice, in prima lettura: la realtà sociale (e quindi economica) non si può conoscere né prevedere, tuttavia per agire in modo razionale è necessario compiere con il giusto metodo e le corrette aspettative le semplificazioni e modellazioni che la disciplina organizza. La contraddizione si risolve, nella sua proposta, grazie al pluralismo. Precisamente al pluralismo dei modelli.
Questa prospettiva è molto interessante e promettente, ma non riesce a convincermi pienamente. L’economista “eterodosso” in troppi punti mi appare ancora legato da fili resistenti al paradigma neoclassico, ed al suo realismo ingenuo di derivazione neopositivista, e non riesce a trarre complete conclusioni dal suo “allentamento” di aspettative. Rodrik si dice vicino ad una prospettiva pragmatista (più propriamente “neo”) ma alcuni avvertimenti tipici della tradizione sono esercitati in modo credo troppo debole. L’abbandono dell’idea di Verità come corrispondenza ad una Realtà prestrutturata (o auto-strutturata), implicata nel neo-positivismo, in favore dell’inclusione del nostro contributo concettuale (che è sempre sociale e linguisticamente definito) che include sempre i criteri di verificazione e quelli di verità, porterebbe infatti in caso di coerente applicazione agli enunciati tentati dall’economista di Harvard a diversi “non sequitur” nella catena delle argomentazioni. Almeno questa è l’impressione che ho tratto dalla lettura.
Il movimento del libro di Rodrik parte dal discredito reciproco, verso il quale intende lanciare ponti, tra i settori disciplinari ed accademici degli economisti professionali e degli altri scienziati sociali (sociologi, politologi). Una controversia che matura nel diverso utilizzo e concezione del metodo scientifico ed in particolare nell’uso dei modelli matematici.
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Il socialismo e la gestione democratica delle imprese
di Bruno Jossa
1. Ampiamente diffusa oggi è l’opinione che il marxismo sia morto perché il sistema sovietico di pianificazione centralizzato è fallito. Ma è vera, invece, l’opinione contraria. «Sono lontani i tempi – scriveva Bensaïd nel 2009 – in cui una stampa sensazionalistica annunciava trionfalmente al mondo la morte di Marx. […] Oggi il suo temuto ritorno fa scalpore. L’edizione tedesca del Capitale ha triplicato le vendite in un anno. In Giappone la sua versione manga è diventata un bestseller. […] A Wall Street ci sono state addirittura delle manifestazioni al grido di: “aveva ragione Marx!” (cfr., per es., Kellner, 1995, Stone, 1998 e soprattutto Cohen, 1978 e 2000). Quest’ultimo argomenta che «il fallimento sovietico può essere considerato un trionfo per il marxismo».
Oggi, infatti, conosciamo un modo per liberarci del capitalismo senza violenza rivoluzionaria, in base a decisioni parlamentari, perché il lungo dibattito sulla teoria economica delle cooperative di produzione che si è avuto, a seguito di un celebre articolo di Ward del 1958, ha mostrato chiaramente che è possibile creare un sistema d’imprese gestite dai lavoratori, che è un nuovo modo di produzione nel senso di Marx e che, pur non essendo il paradiso in terra, può funzionare assai bene.
Sartre ha scritto che «il marxismo rimane insuperabile perché le circostanze che l’hanno generato non sono state ancora superate» (1960).
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Quello che gli economisti non dicono
F. di Lenola e A. Scorrano intervistano Daniele Tori
[La prima versione di questa intervista, curata da Fabio di Lenola e Aldo Scorrano, è uscita sul sito del Csepi]
Daniele Tori si è laureato all’Università di Pavia in Scienze politiche e in Economia. È membro del Greenwich Political Economy Research Centre e membro del Post Keynesian Economics Study Group. Dal prossimo settembre assumerà la posizione di Lecturer in Finance alla Open University (UK). Attualmente si occupa di investimenti da un punto di vista microeconomico, le evoluzioni del sistema finanziario, e i processi di finanziarizzazione in generale.
* * *
Sono ormai trascorsi quasi dieci anni dallo scoppio della crisi che ha investito il mondo occidentale. In questo periodo l’Italia ha visto l’alternarsi dei vari governi Monti, Letta e Renzi che si sono mossi, sostanzialmente, in continuità con una linea o agenda europea di politica economica che potremmo definire conservatrice. Alla luce di quanto è emerso dall’operato di questi governi, possiamo dire che tale “linea”, sia stata e continui ad essere fallimentare?
Questi governi hanno essenzialmente provveduto, con modalità simili, a meri aggiustamenti in senso restrittivo delle politiche di bilancio in accordo con i dettami europei. Era già evidente in partenza che queste politiche, frutto di una comprensione meramente tecnica della crisi (regolamentazione del sistema bancario-finanziario, contenimento di deficit e debito), sarebbero state fallimentari.
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Quando gli interessi finanziari si sposano con le istituzioni
Le crisi economiche, l’impoverimento culturale, le deformazioni del linguaggio
Sergio Bruno
1. Un tentativo di controinformazione colta
Quando interessi forti, quelli della gente molto ricca e potente, si sposano con le istituzioni per ottenere la possibilità di ottenere legalmente il loro tornaconto e per guidare le azioni pubbliche a proprio vantaggio, le nozze avvengono tramite il coinvolgimento di persone che occupano o occuperanno posizioni influenti nelle istituzioni e, da trent’anni in qua sempre più, nelle tecnocrazie, nazionali e internazionali. Per rendere fattibile questo deleterio matrimonio occorrono varie condizioni:
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un impoverimento culturale e una mancanza di curiosità storica talmente diffusi da impedire di attingere saggezza e capacità diagnostica dagli eventi passati,
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la creazione di un prestigio artificiale intorno alle tecnocrazie e ai think Tank da esse più o meno direttamente partoriti,
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la frammentazione delle competenze dei funzionari di livello medio delle tecnocrazie, che rende loro difficile avere una visione di insieme, coniugata nel corso del tempo ad un fluido funzionamento di meccanismi di cooptazione legati a comprensibili motivazioni di carriera, indipendenti dai requisiti di onestà personale (che possono essere ottimi) e alla carenza di capacità critiche robuste, combinate con il coraggio, da parte dei cooptandi1,
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Gli squilibri nell’eurozona non dipendono dal costo del lavoro e dalla competitività
di Servaas Storm
Servaas Storm, econonomista eterodosso olandese vincitore del Premio Myrdal 2013 e autore di Macroeconomics Beyond the NAIRU (Harvard University Press, 2012), sfida la visione mainstream della crisi dell’eurozona che ha per lungo tempo contagiato anche il campo eterodosso: gli squilibri tra i paesi dell’Eurozona, spiega Storm, non dipendono dal differenziale accumulato del costo del lavoro, né in generale dai prezzi, ma vanno ricercati nel lato finanziario dell’economia europea
In risposta alla mia analisi critica della moderazione salariale tedesca e della crisi dell’euro zona, Heiner Flassbeck e Costas Lapavitsas hanno chiarito la loro versione su ciò che grosso modo si intende per modello da manuale neoclassico di una unione monetaria. Il loro punto principale è che non ci sarebbero stati grandi squilibri delle partite correnti insostenibili all’interno della zona euro, e di conseguenza nessuna crisi del debito sovrano nei paesi in deficit, se tutti gli Stati membri avessero mantenuto la crescita dei salari nominali pari alla crescita della produttività del lavoro più il 2% (l’obiettivo di inflazione). Professor Wren-Lewis (2016) ha sostenuto lo stesso punto.
Il delicato equilibrio delle partite correnti con l’estero è stato deliberatamente sconvolto dalla moderazione dei salari nominali praticata dalla Germania mercantilista, che ha portato la crescita del surplus commerciale tedesco ad essere il rovescio della medaglia della crescita del deficit commerciale nel Sud Europa. E’ piuttosto ironico, a mio parere, che una logica simile sia adottata da osservatori mainstream come Sinn (2014) o persino dallo stesso signor Schäuble, con questa differenza: Sinn e Schäuble sostengono che gli squilibri delle partite correnti sono stati causati da un errore dei paesi in crisi nel seguire l’esempio di successo della Germania del taglio dei costi unitari del lavoro. Mi spiego meglio: il problema per me non è quale delle due parti di questo dibattito – da un lato chi accusa la Germania di impoverire i suoi vicini portando i propri salari su livelli inferiori, dall’altro coloro che lodano la Germania per essere ultra super competitiva dal lato dei costi – sia quella nel giusto.
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L’economista in tuta da lavoro. Federico Caffè e il capitalismo in crisi
Postfazione ad Economia senza profeti
di Riccardo Bellofiore
Premessa
Sono passati ormai ventisei anni da quando Federico Caffè ha deciso di scomparire: riformista solitario e sempre combattivo, ma forse anche uomo per cui i dolori privati e l’infelicità pubblica avevano superato la soglia della sopportabilità. Non è facile parlarne in modo misurato. Come recita il titolo di un libro di qualche decennio fa, sopprimere la distanza uccide. Forte la tentazione di sovrapporre le proprie preferenze e i propri giudizi su una figura che ha sempre brillato per equilibrio dottrinale nella passione conoscitiva, per volontà determinata nella battaglia riformista, per approfondimento concettuale nella costante tensione all’intervento. Un economista che non ha mai voluto farsi profeta, e che ha però saputo essere un maestro.
Ha detto Mario Draghi, nella giornata in ricordo di Caffè svoltasi a Roma il 24 maggio 2012: «Ai suoi allievi ha insegnato a pensare con la propria testa, non ha trasmesso un credo vincolante. Ha aiutato i suoi studenti – scienziati dell’economia, pensatori, servitori dello Stato e delle Istituzioni, cittadini consapevoli – a scoprire se stessi». Le due raccolte di articoli per le edizioni Studium – questo Economia senza profeti: Contributi di bibliografia economica (1977; d’ora in poi ESP, tutti i riferimenti sono da considerarsi infra e riguardanti questa edizione) e L’economia contemporanea. I protagonisti e altri saggi (1981, d’ora in poi EC, citato nella nuova edizione curata da Stefano Zamagni e uscita in questa stessa collana nel 2013): due libri che vanno letti e valutati assieme, e che congiuntamente danno un accesso privilegiato a questo economista – possono aiutarci ad andare oltre la celebrazione, e consentirci di intavolare un dialogo con Caffè una generazione dopo.
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Oltre l’austerità, il futuro dell’Euro
In margine a una lezione di Paul De Grauwe
di Mario Tiberi
Mario Tiberi dà un resoconto delle “Lezioni Federico Caffè 2015”, tenute da Paul De Grauwe, sul futuro dell’Eurozona. Tiberi ricorda le critiche di De Grauwe alle politiche di austerità, nate da un‘analisi inadeguata della recessione, troppo centrata sulla crisi dei debiti sovrani, e responsabili di molte conseguenze negative. L’alternativa è una politica fiscale espansiva, sorretta dalla piena affermazione della BCE come prestatore di ultima istanza. Tiberi conclude sottolineando la sintonia del ragionamento di De Grauwe con valutazioni presenti nei lavori di Caffè
Gli allievi di Federico Caffè, appartenenti al Dipartimento di Economia e Diritto della Università di Roma “La Sapienza”, hanno deciso, oramai da molti anni, di onorare la sua memoria con una serie di lezioni annuali, a lui intitolate e rivolte a studiosi e studenti. Le lezioni – che si avvalgono del contributo della Banca d’Italia, dove Caffè ha ricoperto importanti incarichi – sono tenute da autorevoli economisti stranieri ed italiani e intendono approfondire argomenti cari a Caffè: economia del benessere e teoria della politica economica; problemi epistemologici; moneta e finanza; occupazione e politiche sociali; questioni internazionali. Le lezioni sono state tenute, tra gli altri, da tre premi Nobel (Solow, Stiglitz ed Arrow) e da alcuni dei più prestigiosi economisti italiani (Sylos Labini, Graziani e Pasinetti).
Il relatore di quest’anno, è stato il Professor Paul De Grauwe. Belga di nascita, De Grauwe ha ricoperto incarichi prestigiosi, prima all’Università di Lovanio e, attualmente, come John Paulson Chair in European Political Economy, presso la London School of Economics. Egli è ben conosciuto anche in Italia, in parte grazie al suo manuale “Economia dell’Unione monetaria” che è un testo d’esame in numerosi corsi universitari. Non è un caso, quindi, che molti studenti abbiano contribuito ad affollare l’Aula della Facoltà di Economia, dove De Grauwe, il 10 e 11 dicembre, ha svolto le sue lezioni su un tema a lui congeniale: ”Il retaggio della crisi dell’Eurozona e il futuro dell’euro”.
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Cosa si muove nel mainstream economico
keynesblog
Joseph Stiglitz, Larry Summers, Olivier Blanchard, Brad DeLong, Paul Krugman stanno contribuendo negli ultimi anni ad un significativo riposizionamento del mainstream economico. Questi economisti, tuttavia, non si muovono sulla stessa linea. Stiglitz, come vedremo, pare ormai aver abbandonato il mainstream. Blanchard, invece, sta tentando di salvarlo aumentando la dose di keynesismo nei modelli “New Keynesian”. Summers si colloca a metà tra i due: pur non avendo sposato un nuovo paradigma, sente tutte le limitazioni del vecchio. Krugman è impegnato invece in un ritorno al “vecchio” keynesismo della cosiddetta sintesi neoclassica (il modello IS-LM) prima della rivoluzione delle aspettative razionali.
Larry Summers e l’isteresi
L’isteresi, in fisica, è la tendenza di una certa grandezza a conservare “memoria” dei suoi stati precedenti. Se ad esempio si sottopone un pezzo di ferro ad un campo magnetico, esso rimarrà parzialmente magnetizzato anche dopo averlo allontanato dal campo. Nell’economia mainstream, l’isteresi fu introdotta dallo stesso Summers e da Blanchard in un articolo seminale[1] del 1986 nel quale si cercava di spiegare la permanenza della disoccupazione in Europa.
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Teorie economiche alternative
Implicazioni per la politica economica
di Fabio Petri
Ripubblichiamo, con il permesso dell'autore, un vecchio saggio di Fabio Petri del 26.1.1995 che ci sembra tuttavia ancora utile come introduzione all'importanza che una solida base di analisi economica ha per trarre valide conclusioni di politica economica [Sergio Cesaratto]
Premessa
C'è da chiedersi innanzitutto se problemi come la disoccupazione siano da considerare come mali inevitabili, da addebitare ai lavoratori che si ostinano a pretendere salari troppo alti, o se invece si tratti di qualcosa di curabile attraverso interventi governativi che non rendano necessaria una diminuzione dei salari. Questo è un primo gruppo di questioni per le quali aderire ad una scuola teorica o ad un'altra fa una grande differenza. Mi soffermerò su questa differenza e poi parlerò del problema del debito pubblico che è la questione di cui si più si parla in Italia. Come vedremo, anche in questo caso ci si chiederà: il debito pubblico nel nostro Paese va o no azzerato in tempi brevi, mediante un attivo del bilancio dello Stato -cioè tramite entrate dello Stato superiori alle spese?
Il punto da cogliere è che gli economisti non sono d'accordo su quale sia la migliore descrizione di come funziona un'economia di mercato, e proprio per questo non sono neppure d'accordo su quale siano le risposte - in termini di scelte di politica economica - da dare alle domande che ci siamo posti.
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Ascetici perché «creativi»
Benedetto Vecchi
L’innovazione è il vangelo del capitalismo. Non è così per Joseph Schumpeter, che la considera un fenomeno raro. Un sentiero di lettura a partire dal saggio «Il fenomeno fondamentale dello sviluppo economico» pubblicato dal Mulino
Un’operazione editoriale ardita questa del Mulino che ha avuto la regia accorta, ma discreta di Adelino Zanini, filosofo, ma anche storico del pensiero economico, avendo dedicato molta della sua attività di ricerca teorica a Joseph A. Schumpeter e Adam Smith, con felici incursioni nell’opera di John Maynard Keynes e nel campo della critica dell’economia politica di Karl Marx. L’operazione consiste nella pubblicazione di due capitoli scritti da Schumpeter per la sua Teoria dello sviluppo economico e poi soppressi dallo stesso economista austriaco perché «devianti» rispetto al corpus centrale dell’opera. Nella sua introduzione, Zanini ritiene, in maniera convincente, che invece sono testi rilevanti, perché danno la misura del laboratorio teorico di Schumpeter e della messa a fuoco della figura cardine del suo pensiero economico, cioè quella figura dell’imprenditore che ha, per Schumpeter, la capacità di rompere l’equilibrio inerente l’agire economico grazie alla sua capacità di proporre una nuova combinazione di elementi noti – nelle tecnologie, nel credito, nel processo produttivo e nella sfera della circolazione, nella domanda di beni – tale da produrre una discontinuità nello sviluppo economico.
Adelino Zanini argomenta, sempre nell’introduzione a Il fenomeno fondamentale dello sviluppo economico (Il Mulino, pp. 200, euro 18), la decisione della pubblicazione di questi due capitoli, archiviati e mai più ripresi da Schumpeter, non tanto per offrire allo studioso materiali che vanno a comporre, come tasselli persi, il puzzle di un pensiero economico centrale tra gli anni Venti e Cinquanta del Novecento, ma perché consentono, dato il loro carattere introduttivo e riassuntivo – si tratta in origine del 2 capitolo e del 6 capitolo della Teoria dello sviluppo economico – di evidenziare la sua presa di distanza dall’economia neoclassica allora dominante nelle università, visti i non sono pochi rinvii proprio alla critica dell’economia politica di Marx.
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L’aporia del debito pubblico: Keynesiani vs Classici
di Gaetano Perone
L’intera architettura dell’Unione Europea poggia le sue basi sull’apodittico assunto che il debito pubblico rappresenti un vincolo insostenibile per la crescita di lungo periodo, nonché un grave ostacolo a una corretta e completa integrazione economica fra i Paesi. Si tratta chiaramente di un modello di stampo ortodosso, che dimentica l’essenza stessa del capitalismo, ossia la possibilità/opportunità di prendere denaro a prestito e di contrarre debiti/crediti.
Da qui l’idea che lo Stato sia assimilabile al buon pater familias e che il consolidamento delle finanze pubbliche rappresenti l’unico viatico possibile per rilanciare consumi e investimenti. Un paradigma antitetico a quello proposto da Keynes (1936), che vedeva nella spesa di matrice statale uno strumento di perequazione e di composizione dei fallimenti privati, nonché una leva fondamentale per azionare una crescita sostenibile e bilanciata.
Secondo l’approccio classico mainstream, dato che la crisi sarebbe da ascriversi principalmente a un eccesso sistematico di spesa pubblica, che avrebbe favorito in sequenza, prima l’accumulazione e poi l’implosione dei debiti pubblici, sarebbe necessario – per riattivare il sistema – tagliare drasticamente la spesa di matrice nazionale (Reinhart e Rogoff 2013).
Tuttavia, il rapporto di causazione non sembra reggere alla prova dei fatti, né a quella empirica. Innanzitutto, come dichiarato apertamente dallo stesso vicepresidente della commissione UE, Victor Constâncio (2012), il debito pubblico è semmai l’effetto, non la causa della crisi.
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