Ossigeno e plusvalore, cellula e merce
La logica della scoperta nella critica dell’economia politica
di Sebastiano Taccola
La scoperta dell’ossigeno: un “caso paradigmatico”
L’epistemologia del secondo dopoguerra si è concentrata sulla logica e la struttura delle rivoluzioni scientifiche da diverse prospettive. Che si parli di rottura, rivoluzione, mutamento di paradigma ecc., un punto ha accomunato simili orientamenti teorici: scoprire la genesi e le modalità di produzione e sviluppo di ciò che, di volta in volta, nella storia del sapere umano, ha acquistato lo statuto di “scienza” o di “scientifico”. Sullo sfondo vi era la necessità di rompere con un certo storicismo, che considerava la storia della scienza (così come la storia in generale) quale raccolta di fatti e aneddoti, omogenei da un punto di vista qualitativo, da inanellare lungo uno stesso filo conduttore1 2.
All’interno di un simile orizzonte teorico, La struttura delle rivoluzioni scientifiche di Thomas Kuhn può essere considerata come un’opera particolarmente rappresentativa (uno di quei classici che fanno epoca e che non smettono mai di stimolare la riflessione critica sul proprio presente)3. In questo saggio del 1962, Kuhn esprime tesi ben definite e, verrebbe da dire, radicali:
a) la scienza procede sempre per rotture rivoluzionarie;
b) si ha una rottura rivoluzionaria quando avviene il passaggio da un paradigma scientifico ad un altro;
c) il paradigma è un modello epistemologico accettato dalla comunità scientifica.
Muovendo da queste premesse - che rompono con la cronologia storicistica in quanto considerano lo svolgimento storico del sapere scientifico a partire dalla discontinuità dei paradigmi, invece che dalla continuità di un concetto di scienza tanto generico quanto posto arbitrariamente - Kuhn mette in evidenza il mutamento prospettico generato dalla sua teoria dei paradigmi nell’elaborazione di un modello storiografico in grado di ricostruire l’evoluzione e i mutamenti del sapere scientifico.
Secondo Kuhn, all’interno di un determinato paradigma si dà un sapere cumulativo della scienza. Il paradigma definisce i limiti, che perimetrano la ricerca scientifica.
All’interno di questi limiti matura quella che Kuhn definisce la “scienza normale”, la quale ha un carattere conservatore (essa non pensa nemmeno lontanamente a mutare il paradigma, ma a conservarlo e a mostrarne l’efficacia nella spiegazione dei fenomeni), inciampa in anomalie che considera come rompicapo da risolvere (e non come prove dell’inefficienza del paradigma), ha un andamento storico cumulativo.
La scienza normale individua progressivamente sempre più anomalie; nel momento in cui tali anomalie iniziano a essere qualitativamente e quantitativamente consistenti ci si trova di fronte a un periodo di crisi della scienza, all’interno del quale è possibile che, a fianco del paradigma dominante, emergano nuovi paradigmi. In questo quadro, si instaura una vera e propria lotta tra paradigmi, al termine della quale, se si afferma un nuovo paradigma, abbiamo una rivoluzione scientifica. Il nuovo paradigma produce una configurazione inedita della natura o degli oggetti propri della scienza, cambia la maniera di leggere i fenomeni, fonda un nuovo set di procedimenti metodologici.
Nella Prefazione dell’opera, Kuhn riferisce al lettore il particolare insieme di circostanze che lo ha portato a interessarsi alla storia della scienza e a elaborare il concetto di “paradigma”. Sotto l’influenza di studiosi come Alexandre Koyré ed Emile Meyerson, Kuhn aveva iniziato a riflettere sulla storicità dei canoni scientifici e delle problematiche da essi definite mettendo momentaneamente da parte la distinzione tra scienze dure o naturali e scienze umane. Eppure, su questo fronte, dovette confrontarsi con una difficoltà: ai suoi occhi risultava evidente che, laddove nelle scienze umane abbondavano le discussioni sui metodi e i principi, nelle scienze naturali simili questioni sembravano costituire una sorta di preistoria:
Mentre cercavo di scoprire la fonte di questa differenza, — scrive Kuhn — fui portato a riconoscere il ruolo che, nella ricerca scientifica, svolgono quelli che da allora ho chiamato i ‘paradigmi’. Con tale termine voglio indicare conquiste scientifiche universalmente riconosciute, le quali, per un certo periodo, forniscono un modello di problemi e soluzioni accettabili a coloro che praticano un certo campo di ricerca.3
Questa considerazione contiene delle implicazioni interessanti, che vale la pena di sciogliere. Scienze naturali e scienze umane, in quanto scienze, hanno una stessa struttura formale (si basano sui paradigmi); i loro oggetti, però, sono così differenti da poter causare una vera e propria mancanza di sincronizzazione tra le due. È esattamente ciò che colpì Kuhn nel corso della ricerca: laddove le scienze naturali si basavano su una cornice epistemologica da tempo consolidata, quelle umane affrontavano una fase di definizione di nuove regole di scientificità, in cui la discussione sui principi appariva più rilevante rispetto ad altri tipi di indagine. È proprio su questo fronte che possiamo cogliere la potenza euristica del concetto di “paradigma”: esso, in astratto, definisce un determinato statuto di scientificità e la sua storicità specifica, il suo peculiare ritmo di evoluzione. Il concetto di “paradigma” è tanto universale quanto particolare: universale, perché, in quanto forma astratta, vale per ogni epoca, ogni tipo di sapere, ogni società; particolare, perché ci permette di inquadrare la storicità specifica (il susseguirsi di rottura, ricerca, stagnazione e crisi) di una determinata epoca del sapere scientifico. La mancata sincronia tra l’evoluzione del paradigma delle scienze naturali e quella del paradigma delle scienze umane, allora, ci dice che tale distinzione formale e qualitativa è innanzitutto determinata dalla definizione di oggetti distinti e di campi differenziati (anch’essi, se vogliamo, prodotti di un paradigma, di una nozione di scientificità tipicamente moderna4).
Nella Struttura delle rivoluzioni scientifiche, Kuhn fa più volte riferimento, a titolo esemplificativo, a vari casi di rottura scientifica. Tra questi compaiono Copernico, Galilei, Newton, la teoria della relatività di Einstein, Darwin, Lavoisier. Se l’importanza dei primi cinque nomi è lampante e assai nota anche per il senso comune, quella del sesto, ben lungi dal rappresentare un’eccezione nella serie, è comunque più peculiare. Quando si parla di rivoluzione scientifica, il nome di Lavoisier non è senza dubbio uno dei primi che balzano alla mente. L’occorrenza stessa di Lavoisier, di quel suo confronto con Priestley che lo portò a scoprire l’ossigeno, è molto più rara nella letteratura rispetto a quella di Einstein, Darwin, Copernico, Galileo, Newton. Setacciando contropelo la serie delle fonti, però, si può arrivare a definire un itinerario (o meglio, una costellazione) di riferimenti molto particolari, i quali, data la loro rilevanza e coerenza, possono conferire al dato della scoperta dell’ossigeno da parte di Lavoisier lo statuto di “caso paradigmatico”5.
2. Engels: dal flogisto all’ossigeno, dal surplus al plusvalore
Nella Prefazione al secondo libro del Capitale, Engels, dopo aver spiegato al lettore i criteri editoriali seguiti per approntare l’edizione definitiva del volume, ritiene sia il caso di respingere un’accusa via via sempre più “diffusa dai rappresentanti del socialismo tedesco della cattedra e di Stato e dal loro sèguito”: l’accusa è che “Marx abbia commesso un plagio ai danni di Rodbertus6.
Che cosa avrebbe rubato Marx a Rodbertus? Niente meno che il concetto di plusvalore. La difesa dell’autonomia di Marx rispetto a Rodbertus permette a Engels di scendere nel dettaglio di quella che, ai suoi occhi, rappresenta la scoperta scientifica epocale della critica dell’economia politica di Marx: il concetto di plusvalore. Seguendo questa scansione argomentativa Engels riesce a piegare una questione di attualità teorico-politica (l’idea di un presunto plagio di Marx nei confronti di Rodbertus sostenuta da molti socialisti tedeschi) in una questione più propriamente scientifica, che richiede un esame approfondito della storia del pensiero economico classico. Per Engels, infatti, “l’umanità capitalistica già da diversi secoli ormai ha prodotto plusvalore, e gradatamente è giunta a farsi delle idee sulla sua origine”7. A precedere Rodbertus, dunque, troviamo studiosi come Adam Smith e David Ricardo. E a guardare le cose più da vicino, secondo Engels, si può ben vedere come Rodbertus non sia che l’ennesimo sostenitore di una sorta di socialismo ricardiano. Egli, dunque, non ha compreso i lineamenti fondamentali della critica marxiana, la sua reale portata scientifica ed è rimasto impigliato nelle categorie date dall’economia politica senza riuscire a procedere oltre (e cioè, verso la critica). A questo punto spetta finalmente a Engels il compito di spiegare che cosa di nuovo ha detto Marx sul plusvalore. Per fare ciò, egli ritiene produttivo un parallelo tra la storia del pensiero economico e quella della chimica:
La storia della chimica ci può offrire un utile esempio. Ancora verso la fine del secolo scorso dominava, com’è noto, la teoria flogistica, secondo la quale l’essenza di ogni combustione consisteva nel fatto che dal corpo comburente si separa un altro corpo ipotetico, una materia combustibile assoluta, che veniva designata con il nome di flogisto. Questa teoria riusciva a spiegare la maggior parte dei fenomeni chimici allora conosciuti, se pure, in molti casi, non senza qualche violenza. Ora, nel 1774 Priestley descrisse una specie di aria ‘che trovò così pura, ossia così immune da flogisto, che l’aria comune al suo confronto appariva più corrotta’. Egli la chiamò: aria deflogistizzata. Poco dopo Scheele in Svezia descrisse la stessa specie di aria, e ne dimostrò la presenza nell’atmosfera. Egli trovò pure che essa scompare se si brucia un corpo in essa o nell’aria comune, e la chiamò perciò aria di fuoco. ‘Da questi risultati trasse quindi la conclusione che la combinazione che nasce dall’unione del flogisto con una delle parti costitutive dell’aria’ (dunque dalla combustione) ‘altro non è che fuoco o calore, che fugge attraverso il vetro’. Sia Priestley che Scheele avevano descritto l’ossigeno, ma non sapevano che cosa avessero tra le mani. Essi ‘rimanevano prigionieri delle categorie ‘flogistiche’ così come le avevano trovate belle e fatte’. L’elemento che doveva rovesciare tutta la concezione flogistica e rivoluzionare la chimica, era caduto infruttuosamente nelle loro mani. Ma Priestley subito dopo comunicò la propria scoperta a Lavoisier a Parigi, e Lavoisier, avendo a disposizione questo fatto nuovo, sottopose ad esame l’intera chimica flogistica, e scoperse solo che questa specie di aria era un nuovo elemento chimico, e che nella combustione non si diparte dal corpo comburente il misterioso flogisto, ma che questo nuovo elemento si combina con il corpo; così soltanto egli mise in piedi l’intera chimica, che nella sua forma flogistica se ne stava a testa in giù. E se anche non ha descritto, come più tardi ha preteso, l’ossigeno contemporaneamente agli altri e indipendentemente da essi, tuttavia egli rimane il vero e proprio scopritore dell’ossigeno di fronte a quei due, i quali lo hanno meramente descritto, senza minimamente sospettare che cosa avessero descritto.8
In questo episodio della storia della chimica, così come è raccontato da Engels, possiamo ritrovare un caso esemplare di rottura scientifica. Con le parole di Kuhn, potremmo dire che il paradigma flogistico non riesce progressivamente a risolvere certe anomalie con i propri mezzi; le anomalie rinvenute non rappresentano più semplici rompicapo della teoria flogistica, ma suoi propri limiti oggettivi; con la scoperta dell’ossigeno da parte di Lavoisier assistiamo al tramonto della teoria flogistica e a una rivoluzione scientifica, che cambia la storia della chimica e porta all’adozione di un nuovo paradigma. Ripercorrendo a ritroso la storia della scoperta dell’ossigeno, Engels traccia una linea di demarcazione qualitativa tra il paradigma flogistico e quello inaugurato da Lavoisier: laddove il primo non poteva che limitarsi a descrivere perché privo delle categorie adeguate per leggere determinati fenomeni e coglierne i nessi genetico-formali immanenti, il secondo è, invece, in grado di scoprire un nuovo oggetto e di collocarlo al centro di una inedita cornice epistemologica, la quale, finalmente, è in grado di spiegare le ragioni e i processi di quei fenomeni, che il paradigma flogistico non era riuscito a spiegare senza forzare la loro stessa natura.
Analogo è il caso della scoperta marxiana del plusvalore. Prosegue, infatti, Engels:
Come Lavoisier rispetto a Priestley e Scheele, così è Marx rispetto ai suoi predecessori per quanto riguarda la teoria del plusvalore. L’esistenza della parte di valore dei prodotti che noi ora chiamiamo plusvalore era stata stabilita molto prima di Marx; con maggiore o minore chiarezza, era stato altresì espresso in che cosa esso consista, cioè nel prodotto del lavoro per il quale colui che se lo appropria non ha pagato alcun equivalente. Ma non si andava oltre. Gli uni — gli economisti borghesi classici — indagavano tutt’al più il rapporto di grandezza secondo il quale il prodotto del lavoro si ripartisce tra il lavoratore e il possessore dei mezzi di produzione. Gli altri — i socialisti — trovavano ingiusta questa ripartizione e con mezzi utopistici cercavano di eliminare l’ingiustizia. Entrambi restavano prigionieri delle categorie economiche così come le avevano trovate. Qui interviene Marx. E in diretta opposizione con tutti i suoi predecessori. Là dove questi avevano visto una soluzione, egli vide soltanto un problema. Egli vide che qui non c’era più aria deflogistizzata né aria di fuoco, ma ossigeno, che si trattava non della pura e semplice constatazione di un fatto economico, né del conflitto di questo fatto con la giustizia eterna e la vera morale. Fondandosi su questo fatto, egli esaminò tutte le categorie già trovate, come Lavoisier fondandosi sull’ossigeno aveva esaminato le categorie già esistenti della chimica flogistica.9
Come sottolinea Engels, laddove gli economisti classici, da un lato, e i socialisti utopisti, dall’altro, vedevano un generico surplus aderendo a una cornice teorica che non poteva così che limitarsi alla superficiale registrazione empiristica di dati e alla loro conseguente naturalizzazione storico-sociale, Marx, invece, vede un concetto nuovo: il plusvalore. Seguendo l’analisi engelsiana pare che la questione del plusvalore sia allo stesso tempo un risultato epistemologico euristicamente produttivo e un presupposto oggettivo in grado di fondare l’autonomia teorica della critica dell’economia politica rispetto al pensiero economico classico e al socialismo utopistico.
Si ritornerà più avanti su questo duplice aspetto della scoperta marxiana del plusvalore. Nel frattempo vediamo di completare la nostra serie di fonti convergenti sull’accostamento tra la rivoluzione scientifica di Lavoisier e quella di Marx.
3, Althusser: le conseguenze teoriche del parallelismo engelsiano tra Marx e Lavoisier
“Per comprendere Marx, dobbiamo trattarlo come uno scienziato tra altri e applicare alla sua opera scientifica i medesimi concetti epistemologici e storici che applichiamo agli altri: nel caso specifico a Lavoisier. Marx appare così come un fondatore di scienza, paragonabile a Galilei e Lavoisier”10. Con queste parole, nel 1965, Louis Althusser commenta il parallelo engel- siano tra Marx e Lavoisier in un saggio contenuto in Leggere il capitale. Agli occhi del filosofo francese, le pagine della Prefazione di Engels permettono di cogliere ulteriori aspetti epistemologicamente cruciali della “fondazione scientifica”11 inaugurata da Marx. Nello specifico, secondo Althusser, Engels:
a) ci indica la natura della rottura teorica marxiana e le modalità del suo svolgimento;
b) mostra che la scoperta marxiana del plusvalore non è né la “pura e semplice constatazione di un fatto economico”12, né una scoperta eminentemente soggettiva. Non si tratterebbe infatti di un immediato o arbitrario mutamento di prospettiva, ma di un vero e proprio stravolgimento dell’og- gettività teorica del modo di produzione capitalistico.
Per Althusser, dunque, Engels ci mostra come Marx non operi un semplice rovesciamento correttivo del metodo dell’economia politica, ma un radicale cambiamento di paradigma (o “rottura epistemologica”) centrato sulla scoperta teorica di un nuovo oggetto. Questo nuovo oggetto nient’al- tro sarebbe che il plusvalore. Gli effetti epistemologici di tale scoperta, però, sono stati tutt’altro che circoscritti: il plusvalore permette di approntare nuove lenti per rendere visibile ciò che prima era invisibile13. La novità dell’oggetto, dunque, garantisce una nuova leggibilità della realtà; o, con altre parole, apre una nuova problematica teorica e un nuovo campo di indagine a partire dal quale si può scoprire (e non semplicemente descrivere) una nuova realtà. A questa realtà Marx darà un nome ben definito nel Capitale: il modo di produzione capitalistico.
Per Althusser, dunque, la scienza di Marx è rivoluzionaria perché definisce un nuovo oggetto e lo fa attraverso la critica di un sapere (l’economia politica), che si dimostra incapace di definire il campo di visibilità di quell’oggetto. La vera differenza specifica tra Marx e l’economia politica, dunque, si gioca tutta al livello del concetto di plusvalore.
A partire da questa constatazione, secondo Althusser, è possibile intraprendere una nuova lettura anti-storicistica di Marx e della sua opera. La specificità storica del modo di produzione capitalistico è il risultato di un montaggio che si dà sul piano dell’analisi di uno specifico oggetto teorico: la naturalizzazione e l’eternizzazione delle categorie economiche operata dall’economia politica non la si supera storicizzando immediatamente quelle stesse categorie, ma mutandone radicalmente il peso specifico e l’incidenza all’interno di una struttura epistemologica inedita, alternativa, rivoluzionaria14. La stessa rappresentazione tradizionale del cosiddetto “materialismo storico” dovrebbe, in questo senso, andare incontro a una revisione profonda: il punto di rottura introdotto da Marx, nota Althusser, non è tanto di aver assegnato il primato alla produzione, quanto di aver ristrutturato il concetto di produzione adeguandolo alla conoscenza del proprio oggetto, e di aver dimostrato, conseguentemente, l’inconsistenza epistemologica dell’oggetto definito dall’economia politica15.
Queste sono le profonde conseguenze teoriche che Althusser è in grado di trarre dal parallelo engelsiano tra la scoperta dell’ossigeno effettuata da Lavoisier e quella del plusvalore elaborata da Marx.
4. Kuhn, Engels, Althusser: una traccia da seguire
Kuhn, Engels, Althusser. Tre studiosi senza dubbio diversi, ma che abbiamo qui accostato alla luce di una particolare parentela tematica attinente alla logica della scoperta scientifica e al suo rapporto con l’impianto della critica dell’economia politica di Marx. La scoperta dell’ossigeno da parte di Lavoisier, più volte tirata in ballo da Kuhn in La struttura delle rivoluzioni scientifiche, è considerata da Engels un analogon della scoperta marxiana del plusvalore; Althusser, poi, come si è visto, riconosce alle considerazioni engelsiane un rilievo teorico cruciale per intraprendere una nuova interpretazione anti-storicistica della filosofia di Marx fondata sul riconoscimento del carattere rivoluzionario (di rottura epistemologica) della sua scienza: la critica dell’economia politica. La parentela tra Kuhn e Althusser, infine, non avrebbe quasi bisogno di essere ulteriormente esplicitata. Pur avendo alle spalle influenze teoriche diverse (ma non incompatibili), sia Kuhn che Althusser sono ispirati da esigenze teoriche simili e reciprocamente integrabili. Si vedano, a tal proposito, i seguenti passi, il primo di Kuhn, il secondo di Althusser:
La storia, se fosse considerata come qualcosa di più di un deposito di aneddoti o una cronologia, potrebbe produrre una trasformazione decisiva dell’immagine della scienza dalla quale siamo dominati.16
La comprensione di Marx del meccanismo della sua scoperta, della natura della rottura epistemologica che inaugura la sua fondazione scientifica, ci rinvia, dunque, ai concetti di una teoria generale della storia delle scienze, capace di pensare l’essenza di questi eventi teorici. Che questa teoria generale non esista ancora se non come progetto o che essa abbia già preso corpo parzialmente, è una cosa; che questa teoria sia assolutamente indispensabile allo studio di Marx, è un’altra. La via che Engels ci mostra facendo quel che fa è una via che bisogna seguire a qualsiasi costo: non è altro che la via della filosofia fondata da Marx nell’atto stesso della fondazione della scienza della storia.17
Due passi che sembrano richiamarsi l’un l’altro in maniera stretta. Al centro di entrambi vi è la necessità di intendere in una nuova maniera la scienza e la storiografia delle scoperte che ne hanno profondamente mutato la storia. La citazione di Althusser, poi, ci suggerisce che se da un lato una nuova modalità di fare storia della scienza era allora in corso di elaborazione (il riferimento è molto probabilmente a Bachelard, ma può essere da noi esteso anche allo stesso Kuhn), dall’altro lato un simile tentativo non si era ancora concentrato sulla rivoluzione scientifica di Marx. A fare da ponte tra questi due fronti, ci suggerisce Althusser, ci sarebbe la Prefazione di Engels al secondo libro del Capitale. Lungo questo sottilissimo filo conduttore possiamo intrecciare i nomi di Kuhn, Engels, Althusser. A partire da esso possiamo formulare una serie di domande, la cui problematica è tutt’altro che lontana dal nostro presente: la critica dell’economia politica di Marx può essere considerata come una rivoluzione scientifica, un mutamento di paradigma? Se sì, allora, che forma di logica della scoperta sorregge il suo impianto? Quali le parentele presenti al suo interno con i mutamenti paradigmatici delle scienze della natura del XIX secolo?
A tali domande è possibile rispondere solo ritornando ad esaminare alcune sfumature (sebbene nient’affatto marginali) della scienza marxiana.
5. Marx e le scienze del XIX secolo
Soprattutto [...] tre grandi scoperte hanno fatto progredire a passi di gigante la nostra conoscenza del nesso dei processi naturali. La prima è la scoperta della cellula come unità, dalla cui moltiplicazione e differenziazione si sviluppa tutto l’organismo vegetale e animale, cosicché non solo si è riconosciuto che la evoluzione e la crescita di tutti gli organismi superiori seguono una unica legge generale, ma si è anche mostrato che la capacità di trasformazione della cellula è la via attraverso la quale gli organismi possono modificare la loro specie e compiere una evoluzione non solamente individuale. La seconda è la trasformazione dell’energia, che ci ha dimostrato come tutte le cosiddette forze attive nella natura inorganica, la forza meccanica e il suo completamento, la cosiddetta energia potenziale, il calore, la radiazione (luce e rispettivamente radiazione calorifica), l’elettricità, il magnetismo, l’energia chimica, sono manifestazioni diverse del movimento universale, le quali, quando sono in determinati rapporti, si trasformano l’una nell’altra, in modo che, quando scompare una quantità dell’una, ricompare una determinata quantità nell’altra, e tutto il movimento della natura si riduce a questo processo ininterrotto di trasformazione di una forma nell’altra. Finalmente la dimostrazione data per la prima volta in modo organico da Darwin, che il complesso dei prodotti della natura organica che ne circonda, compresi gli uomini, è il prodotto di un lungo processo di evoluzione da pochi germi originari unicellulari, i quali a loro volta sono derivati da un protoplasma o sostanza albuminoide sorta chimicamente.18
Con questa parole Engels, nel suo Ludwig Feuerbach e il punto d’approdo dell’idealismo tedesco, mette in evidenza quelle che ai suoi occhi hanno rappresentato le più importanti scoperte scientifiche del XIX secolo: la teoria cellulare, la teoria della trasformazione dell’energia, il trasformismo o evoluzionismo di Darwin. Secondo Engels, si tratta di tre scoperte cruciali perché hanno liberato il materialismo moderno dalle secche di un empirismo basato sulla registrazione statica dei fenomeni; le teorie della cellula, dell’energia, dell’evoluzione, infatti, sono riuscite a: comprendere le relazioni uno-tutto (relazioni organiche), definire le peculiari leggi di trasformazione e tendenza nei loro rispettivi campi, mettere a fuoco la storicità (o la temporalità) specifica del mutamento. Senza necessariamente condividere la cornice della dialettica della natura engelsiana, possiamo comunque rilevare l’importanza di queste considerazioni per il percorso che stiamo svolgendo. Esse possono aiutarci a illuminare alcuni aspetti particolari della scienza marxiana. Questo è quanto ad esempio ha sostenuto Bob Jessop in un articolo recente, assai profondo e interessante. Secondo Jessop, molti marxisti, seguendo le indicazioni di Engels e basandosi sul dato di fatto che, in materia di scienze della natura, Marx dipendeva molto dai consigli del suo amico e collaboratore di sempre, hanno provato a sottolineare l’influenza giocata dalla termodinamica e dal darwinismo sull’elaborazione teorica del Marx maturo. La biologia cellulare, da questo punto di vista, è rimasta un po’ in secondo piano. Questo perché, suggerisce Jessop, l’analogia tra la critica dell’economia politica e la citologia: a) non ricade esattamente né sul piano del metodo della ricerca né su quello dell’esposizione; b) ha dei limiti specifici e svolge un’influenza sotterranea nella costruzione teorica di Marx.
6. Dai Grundrisse al Capitale: la ricerca dell’esposizione scientificamente corretta
Del resto è Marx stesso a connotare i contorni metodologici della propria critica dell’economia politica con una terminologia spesso presa a prestito dalle scienze della natura19. Ciò avviene sin dall’inizio, a partire da quella sorta di “discorso sul metodo”, che costituisce una parte molto rilevante della Einleitung del 1857. Qui, infatti, Marx, nel corso della definizione delle modalità adeguate a definire un’anatomia materialistica della società civile, scrive:
Sembra corretto cominciare con il reale e il concreto, con l’effettivo presupposto; quindi, per es., nell’economia, con la popolazione, che è la base e il soggetto dell’intero atto sociale di produzione. Ma, a un più attento esame, ciò si rivela falso. La popolazione è un’astrazione, se tralascio ad esempio le classi di cui si compone. E le classi a loro volta sono una parola priva di senso, se non conosco gli elementi su cui esse si fondano, per es., lavoro salariato, capitale ecc. E questi presuppongono scambio, divisione del lavoro, prezzi ecc. Il capitale, per es., non significa nulla senza il lavoro salariato, senza il valore, il denaro, il prezzo ecc. Se cominciassi quindi con la popolazione, avrei una rappresentazione caotica dell’insieme e, precisando da più vicino, perverrei via via analiticamente a concetti più semplici; dal concreto rappresentato, ad astrazioni sempre più sottili, fino a giungere alle determinazioni più semplici. Da qui si tratterebbe poi di intraprendere di nuovo il viaggio all’indietro, fino ad arrivare finalmente di nuovo alla popolazione, ma questa volta non come una caotica rappresentazione di un insieme, bensì come a una totalità ricca, fatta di molte determinazioni e relazioni. La prima via è quella che ha preso l’economia politica storicamente dal suo nascere. Gli economisti del XVII secolo, per esempio, cominciano sempre dall’insieme vivente, dalla popolazione, la nazione, lo Stato, più Stati ecc.; ma finiscono sempre col trovare per via d’analisi, alcune relazioni determinanti generali, astratte, come la divisione del lavoro, il denaro, il valore ecc. Non appena questi singoli momenti furono più o meno fissati e astratti, cominciarono i sistemi economici che dal semplice — come lavoro, divisione del lavoro, bisogno, valore di scambio — salivano fino allo Stato, allo scambio tra le nazioni e al mercato mondiale. Quest’ultimo è, chiaramente, il metodo scientificamente corretto. Il concreto è concreto perché sintesi di molte determinazioni, quindi unità del molteplice. Per questo nel pensiero esso si presenta come processo di sintesi, come risultato e non come punto di partenza, sebbene esso sia il punto di partenza effettivo e perciò anche il punto di partenza dell’intuizione e della rappresentazione.20
Marx mostra qui l’alternativa tra due metodi di esposizione: quello che scende dal particolare al generale e quello che, in forza di astrazioni particolari, segue il percorso inverso. La prima strada è quella seguita dall’economia politica ai suoi albori, la seconda quella caratteristica dell’economia politica classica. La seconda via, inoltre, è quella che il Marx del 1857 ritiene “scientificamente corretta”. Eppure, puntualizza Jessop, se noi guardiamo al Capitale, Marx non segue esattamente questo metodo. Nell’esposizione del 1867, la critica dell’economia politica di Marx si differenzia dalle due vie seguite dall’economia politica (quella classica così come quella precedente) perché:
a) identifica come punto di inizio l’elemento morfologico fondamentale, che è anche il germe di tutti i successivi sviluppi del processo di riproduzione del rapporto capitalistico;
b) considera “la forma elementare”21 come il proprio oggetto iniziale;
c) segue un particolare svolgimento logico-storico in base al quale l’elemento più semplice viene considerato come il presupposto-posto del processo dialettico del capitale22.
La merce, dunque, è questa forma elementare e, di conseguenza, anche il corretto punto di partenza dell’esposizione. Essa è quell’elemento semplice ma, allo stesso tempo, denso di contenuti e determinazioni, dalla cui “anatomia microscopica”23 poter ricavare l’analisi scientifica e strutturale del capitale inteso quale intero. Si tratta di un risultato metodologico che Marx viene progressivamente chiarendo nel suo complesso e articolato lavoro di messa a punto del modo dell’esposizione scientificamente corretto della critica dell’economia politica. È questa un’acquisizione teorica che trova la sua espressione compiuta nelle prime pagine del primo del Capitale e che Marx considera un aspetto fondamentale della sua scienza24.
Verrebbe da chiedersi a questo punto: perché la merce? Come ha scritto Roberto Fineschi:
per almeno due motivi: 1) Si è visto che non si può partire dall’astratto contenuto in quanto esso è astorico; anche la considerazione della forma senza il contenuto è tuttavia di per sé un’astrazione intellettuale, in quanto essa è sempre forma di un contenuto: la realtà di queste categorie non può esistere nella separazione. La cellula economica deve allora esprimere al tempo stesso il carattere universale del contenuto e la determinatezza formale che esso assume nel modo di produzione capitalistico. La merce sembra rispondere a queste esigenze. 2) Rappresentare al livello più astratto possibile l’unità di contenuto materiale e forma sociale non è tuttavia sufficiente per caratterizzare la cellula economica: essa deve contenere, potenzialmente, in sé, l’esposizione di tutta la teoria del capitale. [...] Questa è la seconda premessa metodologica fondamentale. Cellula appunto perché possiede il codice genetico, da un punto di vista logico, della totalità ‘modo di produzione capitalistico’.25
La “forma di merce del prodotto del lavoro” quale “forma economica cellulare”26 del modo di produzione capitalistico è la scoperta che permette di mettere a fuoco la differenza specifica tra la critica dell’economia politica di Marx e i metodi seguiti, rispettivamente, dalla prima economia politica e dall’economia politica classica. Nell’esposizione marxiana si produce una combinazione unica di analisi logica o genetico-formale, che procede per forza d’astrazione, e analisi genetico-storica (atta a definire la storicità differenziale del capitalismo). Nel corso dell’esposizione si produce un intreccio tra queste due dimensioni e le tendenze definite sul piano logico finiscono per trovare una loro espressione nei fenomeni capitalistici per come essi si producono alla superficie della società.
A questo punto, una volta individuata l’importanza epistemologica e la non gratuità dell’analogia tra la forma-merce e la forma cellulare, resta da chiederci secondo quali strade Marx è pervenuto a essa. In altre parole: che cosa è successo tra il 1857 e il 1867? Quali influenze o esperienze teoriche hanno determinato quell’autonomia metodologica della critica marxiana dall’economia politica classica, che abbiamo visto cristallizzarsi nell’immagine della merce quale forma cellulare del modo di produzione capitalistico e necessario punto di partenza dell’esposizione critica?
7. Marx alle prese con anatomia, fisiologia e citologia
In una lettera del luglio 1858, Engels mette Marx al corrente di alcune sue considerazioni sulla moderna teoria cellulare formulando un interessante parallelismo con la logica hegeliana: “tutto è cellula. La cellula è l’essere in sé di Hegel, e nel nuovo sviluppo si svolge esattamente attraverso il processo indicato da Hegel, finché non se ne sviluppa l’‘idea’, l’organismo di volta in volta perfetto”27. Ancora una volta vale la pena di precisare che poco importa il quadro teorico in cui lo stesso Engels avrà modo di sviluppare considerazioni simili. La questione da porre qui è piuttosto se suggerimenti teorici del genere possano aver trovato in Marx un interlocutore interessato, e, ancora più a fondo, se Marx non li abbia poi successivamente sviluppati in maniera autonoma inserendoli nel proprio specifico percorso di ricerca. In altre parole, per usare ancora un’altra volta il lessico di Kuhn, potremmo chiederci se le considerazioni engelsiane possano aver presentato agli occhi di Marx una serie di anomalie o questioni teoriche, la cui spinta risolutiva avrebbe portato necessariamente verso l’abbandono di una dialettica della natura astrattamente riformulata sul canone hegeliano e in direzione di un approdo a un paradigma epistemologico diverso, che fosse in grado di risolvere simili questioni in un nuovo orizzonte problematico.
Sul fatto che le considerazioni engelsiane abbiano suscitato l’interesse di Marx non sembra esserci alcun dubbio. In una lettera del 4 luglio 1864, infatti, Marx informa Engels di essersi messo a leggere opere di fisiologia e biologia cellulare: “in questo tempo, essendo del tutto incapace di lavorare, ho letto: Carpenter, “Fisiologia”, Lord lo stesso, Kolliker, ‘Istologia’, Spur- zheim, ‘Anatomia del cervello e del sistema nervoso’, Schwann e Schleiden, sulla merda delle cellule”28.
L’intenzione espressa da Marx in questa lettera sembra essere quella di provare a entrare nel dominio di scienze come l’anatomia, la fisiologia, la citologia. Tutto questo ci porta a pensare che l’impiego di analogie scientifiche all’interno del Capitale non può essere né casuale, né gratuito, ma teoricamente pregnante. Tra le varie analogie troviamo quella tra la forma cellulare e la forma-merce. Da essa, come si è già segnalato, prende le mosse l’intera costruzione del Capitale. Marx la introduce nella Prefazione alla prima edizione in un contesto significativo, che evoca questioni importanti sia sul piano del contenuto (l’analisi della forma valore) che su quello del metodo (il problema del cominciamento). L’economia politica classica, scrive Marx in queste pagine, ha parlato di valore, scambio, denaro; essa ha colto che l’analisi doveva concentrarsi su simili categorie. Ma, continua Marx, “la forma di valore”, se presa nella sua immediatezza, “è molto povera di contenuto e semplice”29. Che la semplicità e la povertà di contenuto della forma di valore siano solo apparenti lo si può vedere constatando che “invano, da più di 2.000 anni lo spirito umano ha cercato di scandagliarla a fondo, mentre, dall’altra parte, l’analisi di forme molto più ricche di contenuto e molto più complicate è, per lo meno approssimativamente, riuscita”30. La povertà di contenuto, dunque, non può essere presa con faciloneria. Ciò che è povero di contenuto richiede uno sforzo maggiore sul piano dell’astrazione, una più attenta indagine strutturale in grado di definirne la specifica determinazione formale. Ma perché, si chiede a questo punto Marx, talvolta ciò che è più complicato e ricco di contenuto è più facile da analizzare?
Perché il corpo già formato è più facile da studiare della cellula del corpo. [...] Per quanto riguarda la società borghese, la forma di merce del prodotto del lavoro, o la forma di valore della merce, è proprio la forma economica cellulare. Alla persona incolta, l’analisi di tale forma pare aggirarsi fra pure e semplici sottigliezze, di fatto si tratta di sottigliezze, soltanto che si tratta di sottigliezze come quelle dell’anatomia microscopica.31
Qui a Marx piace giocare con le parole e i doppi sensi: ciò che pare una sottigliezza, è veramente una sottigliezza; ma “sottigliezza” è da intendersi non in senso assiologico, bensì in senso meramente quantitativo (un qualcosa di microscopico, ma nient’affatto marginale). Per leggere le sottigliezze serve indossare le lenti giuste: l’analisi microscopica permette di cogliere il reale peso specifico della forma di valore nel “sensibilmente sovrasensibile”32 della forma-merce. È in questo quadro teorico che l’analogia tra la forma cellulare e la forma-merce trova la propria fondazione. L’“immane raccolta di merci” in cui si manifesta la ricchezza nel modo di produzione capitalistico trova nella merce singola la sua “forma elementare”33. Come la forma di cellula attraversa la costituzione di un organismo e, sulla base della logica che governa i rapporti fra le cellule, ne determina le condizioni di possibilità, le tendenza e i meccanismi riproduttivi, così la forma-merce agisce nella stessa maniera all’interno del modo di produzione capitalistico34.
Chiaramente, come si evidenzierà più avanti, questa analogia ha i suoi limiti. Non va intesa in senso riduzionistico o fisicalista. Ciò che interessa qui è esaminare se la biologia cellulare possa aver fornito a Marx un modello epistemologico adeguato per determinare la consistenza teorica della forma-merce nel corso della ricerca dell’esposizione scientificamente corretta della sua critica dell’economia politica e, conseguentemente, per pervenire all’ inquadramento e adeguata deduzione della sua scoperta fondamentale: il plusvalore.
8. L’influenza sotterranea della citologia nel Capitale
Si può fare nuovamente riferimento a Jessop, il quale, nell’articolo già citato, ha messo in evidenza una serie di corrispondenze teoriche tra i fondamenti della moderna teoria cellulare e alcuni aspetti della critica dell’economia politica di Marx. Nelle opere di studiosi come Theodor Schwann e Rudolf Virchow, i due padri della teoria cellulare moderna, possiamo enucleare, secondo Jessop, i seguenti principi teorici fondamentali:
1) tutti gli organismi viventi sono composti di una o più cellule, e la cellula può essere considerata l’elemento morfologico fondamentale di ogni manifestazione organica;
2) la cellula è l’unità vitale più semplice e fondamentale;
3) le cellule conducono una vita indipendente, la quale, almeno negli animali, è informata dalla struttura dell’organismo più ampio di cui fanno parte;
4) ogni cellula deriva da altre cellule;
5) la riproduzione delle cellule dipende dallo scambio metabolico dell’organismo vitale con l’ambiente circostante; uno scambio che converte il nutrimento in energia necessaria per gestire i processi cellulari, creare costruzioni di cellule, eliminare gli scarti;
6) le cellule embrionali si differenziano in altri tipi di cellule, generando costruzioni più articolate e complesse (tessuti, organi, ecc.), che compongono l’organismo vitale.
Secondo Jessop, questi sei principi trovano dei riscontri, consapevoli o inconsapevoli, nell’analisi marxiana della merce, dei momenti della forma di valore, della circolazione del capitale, oltre che di altri fattori caratterizzanti i rapporti capitalistici:
1) l’intero organismo vivente del modo di produzione capitalistico dipende dal montaggio dinamico di quegli elementi formali che strutturano la forma-merce (sopra tutti, la forma di valore) in un insieme di rapporti più complessi e ricchi di contenuto;
2) l’unità fondamentale della forma di valore è la forma-merce, che è anche la cellula economica del modo di produzione capitalistico;
3) le merci conducono una propria vita indipendente, i cui margini di operatività sono sovradeterminati dal “posto” e dalla funzione che occupano all’interno della macrostruttura di cui fanno parte: il modo di produzione capitalistico; le merci sono, allo stesso tempo, il presupposto e il posto della riproduzione capitalistica35;
4) ogni merce deriva da un’altra merce36;
5) produzione, distribuzione e scambio sono processi metabolici inter- dipendenti37;
6) le contraddizioni che si danno a livello “embrionale” nella cellula-merce assunta nella sua semplicità generano ulteriori sviluppi e determinazioni in cui si esprime e si rinnova il rapporto di capitale38.
Si capisce adesso l’importanza attribuita da Marx all’analisi microscopica della cellula economica del modo di produzione capitalistico, la forma-merce. Da una simile analisi, infatti, è possibile derivare gli elementi costitutivi del rapporto capitalistico di produzione: presupposti, risultati, limiti, tendenze riproduttive. È proprio a partire da questo tipo di analisi che è possibile articolare il passaggio dalla merce e dalla forma valore al plusvalore e alla sua produzione, che si dà nel processo lavorativo. A partire dall’analisi della duplicità della forma-merce, Marx passa a quella della forma di valore: x merce A (forma relativa) = y merce B (forma equivalente). Lasciando qui da parte una serie di passaggi particolarmente analitici, saltiamo all’espressione della forma di valore totale o dispiegata in cui si presenta la metamorfosi complessiva delle merci su scala universale:
x merce A = y merce B = u merce C = v merce D ecc.
In questo processo si attiva una sorta di competizione tra le merci a rappresentare la forma di equivalente. Ciascuna di esse deve sempre e comunque negare la propria forma di merce particolare (cioè, negarsi in quanto valore d’uso) per rispondere alla funzione di forma di equivalente, che non può essere consumata, ma permanere costantemente nella circolazione. È seguendo questa strada che Marx riesce a dedurre la forma-denaro dalla forma-merce: il denaro non è nient’altro che una merce che ha abolito il proprio carattere di forma relativa, per assumere unicamente quello di equivalente universale. Il denaro diviene così quel medium attraverso il quale la forma di valore delle merci riesce ad esprimersi quantitativamente.
Questa genesi della forma-denaro dalla forma-merce è quanto l’economia politica non è riuscita a cogliere. L’economia politica, infatti, è rimasta incastrata nell’apparenza sociale feticistica, per cui il denaro si presenta come un qualcosa di autonomo e naturale; non ha colto il processo di autonomizzazione che sta alle sue spalle. L’analisi microscopica di Marx, invece, è riuscita a ricostruire quel “movimento di mediazione [che] scompare nel proprio risultato e non lascia tracce dietro di sé”39.
Sul piano della sfera della circolazione, il denaro rappresenta la prima forma in cui si pone il capitale, ma ciò dipende innanzitutto dalla funzione che esso assume nella circolazione stessa. Per essere capitale, infatti, il denaro ha bisogno di porsi non solo come punto iniziale, ma anche come telos autovalorizzantesi del processo di scambio:
La forma compiuta di questo processo — scrive Marx — è perciò D — M — D’, dove D’ = D + DD, cioè uguale alla somma di denaro originariamente anticipata più un incremento. Questo incremento, o eccedenza sul valore originario, io lo chiamo — plusvalore (surplus value). Quindi, il valore anticipato originariamente non solo si conserva nella circolazione, ma in essa modifica la propria grandezza di valore, aggiunge un plusvalore, ossia si valorizza. E questo movimento lo trasforma in capitale.40
Il capitale è valore in processo, che si rinnova e aumenta su basi processuali. Capire le condizioni del suo aumento significa capire la costituzione di quel D, e perciò dedurre la costituzione del plusvalore. Tale costituzione, sostiene Marx, non può “essere spiegata né dal fatto che i venditori vendano le merci al di sopra del loro valore, né dal fatto che i compratori le comprino al di sotto del loro valore”41. Ciò significa che la genesi formale del plusvalore non può essere spiegata sul piano della circolazione. Nella circolazione non si genera il plusvalore, ma solo la condizione strutturale per la sua produzione: l’acquisto di forza-lavoro. Solo spremendo questa forza-lavoro il capitale produce plusvalore.
La rete di connessioni concettuali che dalla forma-merce, passando dalla forma di valore, è giunta al plusvalore e alle condizioni della sua produzione è riassunta da Marx in questi termini:
Conosciamo ora le modalità in cui viene determinato il valore che viene pagato dal possessore di denaro al possessore di questa merce peculiare, la forza-lavoro. Il valore d’uso che quest’ultimo riceve nello scambio si mostra solo nell’uso effettuale, nel processo di consumo della forza-lavoro. Tutte le cose necessarie a questo processo, come materia prima, ecc., il possesso di denaro le compra al mercato delle merci e le paga al loro prezzo pieno. Il processo di consumo della forza-lavoro è, al tempo stesso, processo di produzione di merce e plusvalore. Il consumo della forza-lavoro, come il consumo di ogni altra merce, si compie al di fuori del mercato, ossia della sfera della circolazione. Abbandoniamo, quindi, insieme al possessore di denaro e al possessore di forza-lavoro questa chiassosa sfera, che si trova alla superficie e che è visibile a tutti, per seguirli entrambi nell’occulto laboratorio della produzione sulla cui soglia si legge: no admittence except on business. Qui sarà mostrato non solo come il capitale produce, bensì anche come lo si produce. L’arcano di come il plus venga fatto deve infine svelarsi.42
Solo così si può spiegare il generico surplus come plusvalore. Marx esercita così la sua critica immanente dell’economia politica: egli coglie le cause della “svista” dell’economia politica e, contemporaneamente, appronta lenti in grado di garantire una nuova leggibilità dei processi capitalistici e di gettare su di loro una luce del tutto inedita - e così egli finisce per fondare una nuova problematica, un nuovo oggetto della conoscenza43.
9. Le leggi di natura del feticcio capitalistico
Abbiamo sin qui ripercorso l’itinerario teorico della scoperta del plusvalore. Esso si è svolto a partire dall’analisi microscopica della merce. L’analogia tra la forma cellulare e la forma merce ha rappresentato la cornice istitutiva di fondo dell’esposizione marxiana. Una cornice che, come abbiamo visto, non può essere considerata come puramente metaforica o gratuita, ma epistemologicamente significativa. Ovviamente, come già anticipato, l’analogia tra la merce e la cellula ha i suoi limiti oggettivi. E con “oggettivi” si intende proprio limiti che hanno a che vedere con l’oggetto stesso della scienza. A differenza della forma-cellula, la forma-merce è storicamente specifica: essa non è valida per tutti gli organismi sociali, ma solo per il modo di produzione capitalistico. Inoltre, essa è portatrice di una serie di contraddizioni, che definiscono dei limiti assai peculiari: le crisi capitalistiche. Si tratta di differenze molto importanti, che ci incalzano e ci invitano a porre la domanda fondamentale: perché allora, malgrado queste differenze oggettive, l’analogia tra la cellula e la forma-merce sembra funzionare così bene sul piano scientifico? Se l’obiettivo di Marx era, come accennato più sopra, quello di demistificare le naturalizzazioni dell’economia politica, perché egli si è servito di un’analogia così fortemente “naturalistica”?
Semplicemente perché, dalla prospettiva immanente al modo di produzione capitalistico, lo stesso “sviluppo della formazione economica della società» si presenta “come processo storico-naturale”44. La mistificazione che si produce nella “attuale società”45 trasforma i rapporti sociali, la loro storicità e i loro prodotti, in qualcosa di naturale: la “bronzea necessità”46 con cui si presentano le leggi immanenti alla società capitalistica ha veramente il carattere di una legge di natura, la cui consistenza immutabile agisce alle spalle dei soggetti umani e ne orienta le azioni. Che questo stato di cose possa essere avvertito, sul piano ideologico, come qualcosa di ingiusto e immorale, non ci aiuta a fare un passo in avanti sul piano della conoscenza scientifica: coloro che si limitano a indignarsi moralmente rimangono “prigionieri delle categorie dell’economia politica”47. La naturalità del modo di produzione capitalistico e delle sue leggi è vera e falsa allo stesso tempo. Solo penetrando teoricamente a fondo in questa naturalità è possibile comprenderla come un necessario effetto di struttura, e non come un semplice dato; cogliere la genesi formale del carattere apparentemente naturale delle leggi capitalistiche consente di demistificarne la naturalità e, allo stesso tempo, dedurne la cogenza sul piano della riproduzione sociale del modo di produzione capitalistico.
La radice della funzione demistificante della critica marxiana sta, com’è noto, nel suo riconoscimento del carattere feticistico del rapporto capitalistico, che si dischiude a partire dall’analisi della forma di valore:
Il carattere assolutamente arcano della forma di valore consiste [...] semplicemente in ciò: essa riflette agli uomini, come in uno specchio, i caratteri sociali del loro lavoro come caratteri oggettuali dei prodotti stessi del lavoro, come proprietà sociali di natura di queste cose; dunque riflette anche il rapporto sociale dei produttori con il lavoro complessivo come un rapporto sociale di oggetti che esiste al di fuori di loro. Attraverso questo quid pro quo i prodotti del lavoro divengono merci, cose sensibilmente sovrasensibili, vale a dire sociali.48
La critica dell’economia politica riesce a demistificare il carattere naturale del modo di produzione capitalistico proprio accettandone e riconoscendone, in prima battuta, la cornice istitutiva naturalizzante. In questo senso, nel suo riconoscere la solidale compresenza di naturalità e innaturalità nella struttura dei processi capitalistici, la critica marxiana si svolge come una critica immanente, nel duplice senso che aderisce intimamente al proprio oggetto e alla sua natura, sviluppandone le polarità dialettiche49, e che, non mantenendo una distanza troppo netta da esso, dà il proprio contributo in vista del suo rovesciamento50.
L’essenza del modo di produzione capitalistico si manifesta necessariamente nel carattere naturale dei suoi prodotti. La storicità specifica della società capitalistica è rimossa (ma, allo stesso tempo, in quanto rimossa anche sintomaticamente rivelata) dalla sua logica specifica. La critica marxiana comprende allora, con Hegel, che “l’essenza [....] non è dietro o al di là del fenomeno, ma in quanto l’essenza è ciò che esiste, l’esistenza è fenomeno”51.
10. Conclusioni: natura sociale e società “naturale”
Siamo partiti dalle tesi espresse da Kuhn nella Struttura delle rivoluzioni scientifiche per poi procedere verso Engels e Althusser. Dall’intreccio di queste fonti si è ricavato una sorta di semantica della scoperta scientifica, che abbiamo poi centrato sul “caso paradigmatico” del superamento della teoria flogistica promosso da Lavoisier e sull’analogia tra questo e la scoperta marxiana del plusvalore. Successivamente, seguendo i suggerimenti di Engels e Althusser, si è esaminato la potenzialità euristica di questa analogia e ci si è posti il problema del rapporto epistemologico tra la critica dell’economia politica e le scienze naturali. Che tale rapporto non possa essere ritenuto di assoluta estraneità lo si è visto esaminando il ruolo portante giocato dall’analogia tra la forma-merce e la cellula nell’esposizione scientifica di Marx. Malgrado i limiti costitutivi dovuti alla differenti natura dell’oggetto a cui le categorie “merce” e “cellula” sono rispettivamente dedicate, si è notato che l’analogia sembra effettivamente funzionare tanto bene da guidare i passaggi espositivi, che conducono Marx verso la deduzione scientificamente corretta della sua scoperta decisiva: il plusvalore. Esattamente come la cellula per le forme viventi, così la merce può essere considerata l’unità funzionale dell’organismo “modo di produzione capitalistico”. La merce, come forma sociale, infatti, struttura la logica di quei rapporti sociali più complessi che spiegano l’anatomia e la fisiologia della società borghese: in questo contesto, tutto è sovradeterminato dall’azione sociale della merce, compresi i “soggetti” umani, i quali compaiono sulla scena come compratori o venditori, produttori o consumatori di merci.
Lo studioso marxista Bob Jessop, cui si è fatto fin qui più volte riferimento, ha sostenuto che l’analogia marxiana tra la forma-merce e la cellula può rappresentare un elemento fondamentale del processo di scoperta che attraversa il modo d’esposizione del Capitale di Marx. A tal proposito, egli ha parlato di una vera e propria influenza sotterranea operata dalla moderna biologia cellulare, quale “paradigm-shifting discovery in the na- tural sciences”52, sulla critica dell’economia politica di Marx. E forse Jessop non ha torto. Le questioni da rimettere in discussione sarebbero tante, a partire, innanzitutto, dalla distinzione tradizionale tra “scienze dello spirito” (o scienze umane) e scienze della natura. Se, come abbiamo notato in apertura, nel contesto della modernità, la storia dei due ambiti scientifici difficilmente presenta sincronizzazioni istantanee nei rispettivi mutamenti paradigmatici, è comunque oggi necessario pensare tale rapporto in maniera osmotica e meno settaria, senza ricadere in riduzionismi eccessivi, da un lato, o disperdersi nella galassia interdisciplinare della retorica della complessità (una retorica spesso espressione di torsioni teoriche post-moderne). Da questo punto di vista, il caso di Marx esaminato in queste pagine potrebbe davvero svolgere un ruolo paradigmatico. Seguendo gli sviluppi delle scienze naturali del suo tempo, Marx prende una posizione decisa per “una totale immersione dell’umano nel naturale, un radicale rifiuto di ogni forma di antropocentrismo, di ogni causalità per libertà, di ogni radicale separazione di scienze della natura e scienze della storia”53. Il lessico che Marx prende a prestito dalle scienze naturali non presenta, in questo senso, un carattere neutrale o arbitrario. Anzi, Marx utilizza certe categorie, e non altre, per esprimere due tesi reciprocamente integrantesi, per quanto collocate su due piani diversi dell’esposizione: da un lato, che la natura è una categoria sociale tanto quanto la società è una categoria naturale54; dall’altro lato, che è la società capitalistica stessa a presentarsi fenomenicamente in maniera naturalistica55. In questo senso la teoria della merce e del suo carattere feticistico, cioè la teoria in cui si espone esplicitamente la critica immanente del sapere dell’economia politica, rappresenta la cornice istitutiva di un nuovo paradigma scientifico all’interno del quale trova posto una logica della scoperta in grado di costituire nessi analogici con le scienze della natura.
In un mondo in cui è ormai evidente l’estendersi delle determinazioni sociali sul piano della natura e della sua storicità, è quanto mai urgente non perdere di vista anche il processo inverso: il carattere naturale con cui i processi sociali astratti imposti dal capitale sovradeterminano la biosfera e il suo progressivo (e, verrebbe da dire, quasi inevitabile) incedere verso la catastrofe56. Si tratta di riflettere su quello che, a prima vista, può sembrare un paradosso - è proprio nel momento in cui la società, strutturata sub specie capitalistica, si pone come autonoma che essa acquista il carattere di uno stato di natura57.
Anche su questo fronte, si tratta di sottolineare la rottura paradigmatica della critica dell’economia politica di Marx. Demistificare il carattere feticistico dei rapporti capitalistici significa anche rimettere in discussione il rapporto tra società e natura su vari livelli, ivi compreso quello epistemologico. L’itinerario proposto in queste pagine, partendo da riferimenti marginali, suggerisce un possibile itinerario per procedere in questa direzione.
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Elefantiaco e sublime riepilogo di feticismi antifeticisti, che partorisce un topolino