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Marx, Wall Street e la lotta di classe
di Riccardo Cavallo
Da poco è apparsa l’ultima fatica di Domenico Losurdo, La lotta di classe. Una storia politica e filosofica [1] che, muovendosi controcorrente rispetto alla vulgata liberista imperante, si sofferma su uno dei nodi problematici più significativi dell’opus marx-engelsiano: la teoria della lotta di classe. Si tratta di un ulteriore tassello che va inserirsi nel ventennale percorso di ricerca del filosofo urbinate che, oltre a stilare un vero e proprio cahier de doléance sui misfatti dell’Occidente liberal-capitalista, intende intervenire nelle ferite ancora aperte della tradizione marxista mettendone in evidenza luci ed ombre
1. What would Marx Think? Questo interrogativo campeggia sulla copertina della versione europea del Time del febbraio 2009, cioè nel momento clou della crisi finanziaria che partita dall’esplosione del sistema dei mutui subprime originatasi negli Stati Uniti, stava per dilagare anche nel resto del mondo. Non è un caso allora che il prestigioso magazine decida di dedicare la propria cover story ad un possibile ritorno alle tesi marxiste nell’epoca di Wall Street. Così il celebre ritratto del filosofo di Treviri diviene immagine pop, dai pixel giallo-oro che scorre al posto dei valori dei titoli azionari sul rullo della Borsa cui si accompagnano altre frasi fluorescenti che rimandano alla necessità di elaborare nuove idee per uscire dalla crisi e allo spauracchio del ritorno della povertà. Tutto insomma lascia presagire che le tesi di Marx, prima fra tutte quella sulla lotta di classe, siano più che mai da riprendere in considerazione come utile strumento per evitare il baratro generato dalla voracità autodistruttiva dei mercati.
Malgrado le apparenze, nel suo articolo intitolato Rethinking Marx[2], l’editorialista Peter Gumbel è ben lungi dal voler inneggiare ad un ritorno del marxismo, cercando anzi di evidenziare come le idee di Marx, seppur profetiche e a tratti geniali, abbiano nella pratica miseramente fallito.
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L’attacco alla Siria serve a ricomporre alleanze andate in frantumi
di Sergio Cararo
A giudicare dall’operazione di mediamenzogne messa in campo sulla Siria, c’è da ritenere che ben presto assisteremo al consueto scenario di un intervento militare congiunto per “fini umanitari”. Ci sono degli ostacoli che potrebbero essere superati come avvenne per l’aggressione alla Serbia nel 1999 dopo una campagna mediatica molto simile sui profughi kosovari, le fosse comuni, le atrocità etc etc. L’Onu infatti potrebbe non essere utilizzabile per legittimare l’aggressione alla Siria viste le posizioni di Russia e Cina che vi si oppongono. Contro la Serbia si utilizzò unilateralmente la Nato anche senza il mandato dell’Onu ed anche in questa occasione la strada potrebbe essere simile.
Tre domande si pongono e richiedono risposte che ben presto dovranno diventare iniziativa e tema di confronto:
Perché questa accelerazione dell’escalation contro la Siria?
Sulla prima questione è evidente come ormai, dopo anni di interventi di destabilizzazione imperialista sistematica, il Medio Oriente stia saltando completamente e con esso stanno saltando anche i precedenti sistemi di alleanze.
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Euro e monete nazionali
The best of both worlds
Keynes Blog
Sebbene la crisi dei debiti sovrani nell’area euro non occupi più le prime pagine dei giornali grazie al “whatever it takes” di Mario Draghi, il dibattito economico sulla sostenibilità della moneta unica nel medio-lungo periodo per fortuna continua.
Il problema centrale di questa discussione, tuttavia, è l’estrema incertezza sui concreti effetti che una deflagrazione della zona euro potrebbe produrre. Studi in una direzione e nell’altra si accavallano e contraddicono a vicenda. Sugli effetti negativi – anzi disastrosi -dell’uscita dall’euro c’è un famoso studio dell’UBS del 2011 che calcola una caduta del PIL del 40-50% per i paesi deboli e del 20-25% per quelli forti. E’ uno studio a dir poco discutibile, ma altrettanto lo sono le tesi di chi sostiene che uscendo dall’euro non succederebbe nulla o quasi.
Il difetto di questi studi pro o contro è che, sebbene condotti da studiosi di economia internazionale, generalmente trattano l’argomento guardando esclusivamente ai singoli paesi, senza tenere conto o tendendo a porre sullo sfondo, in lontananza, gli effetti continentali e globali.
E’ infatti immaginabile che un crollo “disordinato” dell’euro possa portare a un nuovo credit crunch, come quello seguito al mancato salvataggio di Lehman Brothers. In un quadro in cui nessuna economia oggi è in salute (non l’Europa, non gli USA, non il Giappone e nemmeno più i paesi emergenti) nessuno può davvero azzardarsi a dire quali sarebbero gli effetti di breve e lungo periodo di una nuova crisi e pretendere di essere creduto da popoli e governi.
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Siria, la demonizzazione preventiva
scritto da Diego Fusaro
L’opera di demonizzazione preventiva è sempre la stessa. La si ritrova, ugualmente modulata, su tutti i quotidiani e in tutte le trasmissioni televisive, di destra come di sinistra. In quanto totalitario, il sistema della manipolazione organizzata e dell’industria culturale occupa integralmente la destra, il centro e la sinistra. Il messaggio dev’essere uno solo, indiscutibile.
Armi chimiche, armi di distruzione di massa, violazione dei diritti umani: con queste accuse, la Siria è oggi presentata mediaticamente come l’inferno in terra; per questa via, si prepara ideologicamente l’opinione pubblica alla necessità del bombardamento, naturalmente in nome dei diritti umani e della democrazia (la solita foglia di fico per occultare la natura imperialistica delle aggressioni statunitensi).
Alla demonizzazione preventiva come preambolo del “bombardamento etico” siamo abituati fin dall’inizio di questa “quarta guerra mondiale” (cfr. C. Preve, La quarta guerra mondiale, All’insegna del Veltro, Parma 2008). Successiva ai due conflitti mondiali e alla “guerra fredda”, la presente guerra mondiale si è aperta nel 1989 ed è di ordine geopolitico e culturale: è condotta dalla “monarchia universale” – uso quest’espressione, che è di Kant, per etichettare la forza uscita vincitrice dalla guerra fredda – contro the rest of the world, contro tutti i popoli e le nazioni che non siano disposti a sottomettersi al suo dominio.
Iraq 1991, Jugoslavia 1999, Afghanistan 2001, Iraq 2004, Libia 2011: queste le principali fasi della nuova guerra mondiale come folle progetto di sottomissione dell’intero pianeta alla potenza militare, culturale ed economica della monarchia universale.
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Un fallimento ben meritato?
di Claus Peter Ortlieb
Ai primi di Novembre del 2012, Der Spiegel ha rivelato l'esistenza di un rapporto "segreto" della BND, secondo il quale il piano di salvataggio previsto per le banche cipriote avrebbe giovato, in primo luogo, ai detentori di conti correnti sui quali era depositato denaro sporco russo. Oligarchi, imprenditori e mafiosi russi, avrebbero depositato circa ventisei miliardi di euro sui loro conti bancari a Cipro. Dopo aver accuratamente taciuto la questione, i media on-line si sono improvvisamente scatenati a parlare solo di questi ventisei miliardi di euro. Quanto, esattamente, di questi depositi bancari era stato acquisito attraverso mezzi criminali? Chiaramente, proprio a partire dalla natura di questo genere di denaro, non si può sapere. Per cui, tutto il contenuto informativo del rapporto della BND si può dunque riassumere in questa sola cifra: ventisei miliardi di euro sui dei conti russi, di origine indeterminata. Il resto non aveva alcuna importanza, il fine della manovra era stato raggiunto e si poteva scatenare un "dibattito sull'equità".
Lo stesso giorno della pubblicazione della notizia, il gruppo dell'SPD al Bundenstag dichiarava, per bocca del suo portavoce per la politica interna: "Prima che l'SPD dia il via libera al finanziamento degli aiuti per Cipro, bisogna parlare del modello economico di questo paese.
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Secondo alcune e alcuni..
di Elisabetta Teghil
Secondo alcuni/e la storia è finita. Questa è la migliore società possibile e l’ideologia e la lotta di classe avrebbero provocato solo disastri.
Pertanto l’unico orientamento nella vita, se mai ce ne fosse uno, sarebbe la democrazia rappresentativa e, per i laici, il pensiero scientifico di cui si tessono acriticamente le lodi.
Le radici della illibertà non sarebbero innestate nel sociale, nello sfruttamento, nella reificazione, come ci dice la lettura marxista della società, ma nel tentativo più o meno riuscito di uscire da questa società, magari di costruirne un’altra.
Quest’area racconta la crisi come crisi del marxismo e i più dogmatici sono come sempre gli spretati/e. Il loro cavallo di battaglia è la fine dell’ideologia, contribuendo così all’ideologia neoliberista. E, da neofiti di quest’ultima, sono i primi/e nel condannare il pensiero e l’esistenza dell’Altro.
Pretendono di annullare la possibilità di soggetti che non intendono piegarsi rassegnati al dominio della merce. Sono i teorici del disincanto.
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Un keynesismo forte fa respirare l'Argentina
Roberto Lampa e Alejandro Fiorito
Agitata a mo' di spauracchio dai sostenitori ad oltranza dell'austerità targata Unione europea o incensata come paradigma da imitare dal grillismo più radicale, l'Argentina occupa ormai uno spazio indiscusso nel dibattito politico italiano: «Faremo la fine dell'Argentina » o «Bisogna fare come l'Argentina » sono diventati così due aforismi, ricorrenti e perfino abusati, nella discussione sulla crisi economica in corso. Simili giudizi sono finora restati ad un livello d'analisi estremamente superficiale, scontando per di più l'utilizzo di lenti deformanti "primo-mondiste" con le quali sovente si tenta di osservare il complesso, e talvolta contraddittorio, continente latinoamericano, piegandolo alla stringente attualità nostrana. Tuttavia, una volta inquadrato nella sua specificità, il caso argentino può effettivamente contenere alcune indicazioni cruciali per il dibattito sullo stato (comatoso) dell'economia italiana ed europea.
Riteniamo utile partire dai freddi numeri. Tra il 2003 ed il 2011, il Pil argentino è cresciuto in media del 7,6% annuale; nel 2012 ha subito un rallentamento attestandosi al +1,9% (complice l'improvvisa crescita zero della "locomotiva regionale" Brasile, ma anche un brusco freno alla spesa pubblica) ed infine quest'anno si va assestando ad un +6%. Vale la pena sottolineare che, come osservato da Mark Weisbrot ed altri, la crescita argentina fino al 2011 è stata la più rapida e corposa del mondo occidentale contemporaneo.
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Il costo proibitivo del capitale
di Laurent Cordonnier
Può essere interessante ripercorrere il cammino barcollante, tortuoso e vacillante che ha attraversato l'Europa e che alla fine ha ridotto la causa di tutti i nostri mali a questioni di competitività e, poco a poco, a problemi di costo del lavoro. La crisi dei subprime, la crisi di liquidità bancaria, le colossali svalutazioni degli attivi, il crollo del credito, l'immobilismo della domanda, la trasformazione dei debiti privati in debiti pubblici, le politiche di austerità sono state tutte dimenticate.
Come aveva ben spiegato già nel 2012 Ulrich Wilhem, all'epoca portavoce del governo tedesco, «la soluzione per correggere gli squilibri [commerciali] nella zona euro e stabilizzare le finanze pubbliche consiste nell'aumento della competitività dell'Europa nel suo insieme (1)».
Quando si fornisce una spiegazione, bisogna essere pronti a difenderla contro qualsiasi nemico, compreso il rigore aritmetico. Avendo ormai capito che i nostri squilibri interni non possono risolversi in una gara infinita e fratricida tra i ventisette paesi europei per guadagnare competitività gli uni contro gli altri - quel che si chiama, a rigore, un gioco a somma zero ... - il progetto che ci viene proposto ora mira ad aumentare la nostra competitività nei confronti del resto del mondo.
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CIEra una volta la dignità umana
Il 12 Agosto nel CIE di Crotone, in seguito alla morte di uno degli “ospiti”, è scoppiata una rivolta che ha portato alla chiusura “temporanea”, ma a tempo indeterminato del centro. Non è che una delle continue proteste in cui l’esasperazione dei migranti cerca una qualche valvola di sfogo, nella speranza di essere sottratti ad una condizione di detenzione ingiustificata ed indeterminata. Nel nostro curioso Paese, infatti, chi non possiede un certificato amministrativo finisce internato con il solo timbro di un giudice di pace, mentre chi è stato condannato in ben tre gradi di giudizio scivola indisturbato sui parquets della sua villa di lusso e gioca a birilli con il governo nazionale.
Ma come funziona, questo antropofagico mostro CIE? In realtà al di fuori della cronaca se ne parla poco, anche per un motivo strutturale: si tratta di un mondo blindato, i cui contatti con l’esterno sono ridotti all’osso e rigorosamente irreggimentati dalle rispettive direzioni. Nel 2011 una circolare di Maroni aveva addirittura vietato l’ingresso a CIE e CARA ai mezzi d’informazione, alle organizzazioni indipendenti e agli esponenti della società civile. Un provvedimento revocato in seguito dalla ministra Cancellieri, ma il cui intento prosegue tutt’oggi, con mezzi più sottili. La prima indagine indipendente si deve all’associazione MEDU (Medici per i Diritti Umani), pubblicata pochi mesi fa e ricca di osservazioni che avrebbero dovuto quantomeno scuotere questa istituzione. Vale la pena, di fronte ai fatti recenti, di ricordarne alcune.
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La nuova scuola premia i signorsì senza spirito critico
Due menzogne: competenze e meritocrazia
Christian Raimo
Quando si parla del mondo del lavoro e del mondo della scuola sembra sempre che si parli di due questioni totalmente distinte. E invece, nell’Italia con il Pil che crolla, nel mare magnum delle fugacissime questioni estive, ci sono un paio di notizie che si accoppiano per farci capire come dobbiamo immaginarci il futuro prossimo.
La prima è la disfida modello western tra Fiom e Fiat, simboleggiata al meglio dal duello in pieno sole tra Marchionne e Landini: il contenzioso nello specifico è la sentenza della Cassazione che obbligherebbe la Fiat a dare spazio ai delegati della Fiom, mobbizzati e licenziati senza nemmeno quegli ultimi scrupoli che sono gli articoli della Costituzione. Dalla parte di Marchionne stanno quelli che invocano un modello d’industria nuovo, senza i laccioli di un sindacato-reliquia. Dalla parte di Landini i difensori di diritti lesi da una globalizzazione che è tale solo nella deregulation.
La seconda è che il concorso per docenti che ha coinvolto milioni di persone in Italia sta volgendo al termine: entro l’estate ci saranno i vincitori.
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L'infezione hayekiana
Una nota di commento al lavoro di Wolfgang Streeck
di Gmdp
la democrazia funziona solo se non la sovraccarichiamo e se le maggioranze evitano di
abusare del proprio potere interferendo con la libertà individuale
(Friederich von Hayek, The economic conditions of Interstate Federalism, 1939)
fatta eccezione per la questione della sicurezza nazionale poco importa chi sia il prossimo
presidente. Il mondo è governato dalle forze del mercato
(Alan Greenspan, President of the US Federal Reserve, 2007)
Wolfgang Streeck è il direttore del Max-Planck Institut per la ricerca sociale di Colonia, ha diversi incarichi di ricerca e docenza in molteplici istituti tedeschi, europei ed americani; è un sociologo, che all'inizio della sua carriera fu dalle parti di Francoforte dove frequentò il sapere della Scuola di Adorno, Marcuse ed Habermas.
E' a tutti gli effetti un sapiente della knowledge factory che ha dato alle stampe un testo che ha innescato un dibattito forte e potente in Germania ed è stato appena pubblicato in Italia per i tipi di Feltrinelli (Wolfang Streeck, Tempo guadagnato, Campi del sapere, Feltrinelli, Luglio 2013).
Streeck fornisce una rilettura genealogica degli ultimi trent'anni in Europa, abbracciando nell'analisi l'economia e le coniugate riforme di politica economica, istituzionali e politiche.
Un sociologo, ovvero non un tecnico dell'economia - dio ce ne scampi! -, si assume il compito di riunire ciò che nell'economia classica era un connubio indissolubile per costruzione, due parole che se lasciate separate seducono ed inducono alle peggiori catastrofi tanto nell'analisi quanto nelle scelte: economia e politica ovvero economia politica.
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Quousque tandem?
1. I liquidatori "zeloti" runnin'on empty
di Quarantotto
Quousque tandem?
Questa domanda è probabilmente la più frequente che si pongono i lettori consapevoli dei vari blog che analizzano la crisi senza le formule preconfezionate e ripetute, sostanzialmente, da oltre 20 anni, che mugugnano su concorrenza globale, competitività, inflazione (monetaria), e, di conseguenza, attenzione esclusiva ed ossessiva al "debitopubblicobrutto".
Questo, a sua volta, viene visto, arbitrariamente, come fenomeno la cui rilevanza è compressa nella dinamica degli ultimi 4-5 anni, e quindi accomunata a quella degli spread, come se fosse da questi ultimi, improvvisamente, che ne sarebbe derivato il problema della insostenibilità.
Ora, l'elemento più macroscopico di questa mistificazione, tutta incentrata sull'occultamento del conflitto sociale, cioè della compressione della quota salari (in generale delle retribuzioni di ogni forma di lavoro), rispetto alla quota profitti e rendite finanziarie, in rapporto al reddito delle varie realtà statali coinvolte, anzitutto in Europa, ha il nome di "euro".
L'euro è certamente un sistema monetario pensato ed applicato per "disciplinare" le dinamiche salariali e riorientare il profitto verso una crescita fondata essenzialmente sulla "competitività", cioè sulle esportazioni, e lo fa in contrapposizione allo Stato, visto come l'inefficiente alimentatore della domanda interna.
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Gioco e teologia del denaro
di Mario Pezzella*
Nessuno dei personaggi del Giocatore[1] che non sia indebitato con qualcun altro: già dalle prime pagine, apprendiamo che il generale ha ricevuto, da poco, un prestito, che egli stesso deve soldi al protagonista (e gli dà un acconto di 120 rubli), che Polina ha urgente bisogno di danaro per pagare un creditore – “altrimenti sono perduta”. La catena del debito, nel corso del romanzo, diventerà universale, soffocante e minacciosa. Essa è ben lungi dall’essere una semplice sequela di transazioni economiche, anche perché nessuno si aspetta veramente di essere pagato, anzi tutto il contrario. Il credito viene concesso nell’aspettativa che il beneficiario non possa mai estinguerlo e così si trasformi da debitore in servo: il dominio su Polina è il vero scopo che ha spinto De Grieux a prestare danaro al generale (mentre lui stesso, probabilmente, deve restituirlo ad altri): “Voleva semplicemente dire che lui la dominava, che la teneva come incatenata”(58). Il possesso del danaro concede la libertà, la sua mancanza inchioda alla schiavitù. La relazione servo padrone di Hegel si è completamente finanziarizzata. Il motore profondo delle vicende del romanzo è la totale ipoteca concessa dal generale a De Grieux, che potrebbe essere sanata solo con la morte della ricca zia, di cui dunque tutti si augurano senza alcuno scrupolo la dipartita.
La catena del debito non si impone solo sul piano economico e morale, stimola anche un profondo e perverso impulso erotico ed anzi al di fuori del legame che esso istituisce non si può concepire nessuna relazione d’amore o d’amicizia.
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L'imperialismo globale del nuovo secolo
di Ernesto Screpanti
Si può ancora parlare di imperialismo? E come? Pubblichiamo un'anticipazione del libro di Ernesto Screpanti, L'imperialismo globale e la grande crisi
La tesi centrale di questo libro è che con la globalizzazione contemporanea sta prendendo forma un tipo d’imperialismo che è fondamentalmente diverso da quello affermatosi nell’Ottocento e nel Novecento.
La novità più importante consiste nel fatto che le grandi imprese capitalistiche, diventando multinazionali, hanno rotto l’involucro spaziale entro cui si muovevano e di cui si servivano nell’epoca dei grandi imperi coloniali. Oggi il capitale si accumula su un mercato che è mondiale. Perciò ha un interesse predominante all’abbattimento di ogni barriera, di ogni remora, di ogni condizionamento politico che gli Stati possono porre ai suoi movimenti. Mentre in passato il capitale monopolistico di ogni nazione traeva vantaggio dalla spinta statale all’espansione imperialista, in quanto vi vedeva un modo per estendere il proprio mercato, oggi i confini degli imperi nazionali sono visti come degli ostacoli all’espansione commerciale e all’accumulazione. E mentre in passato il capitale monopolistico aveva interesse all’innalzamento di barriere protezionistiche e all’attuazione di politiche mercantiliste, in quanto vi vedeva un modo per difendersi dalla concorrenza delle imprese di altre nazioni, oggi il capitale multinazionale vota per il libero scambio e la globalizzazione finanziaria. La nuova forma assunta dal dominio capitalistico sul mondo la chiamo “imperialismo globale”.
Una seconda novità è che nell’impero delle multinazionali cambia la natura della relazione tra Stato e capitale.
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Unione Europea, oligarchia e mercato
di Franco Russo
Entrato in vigore il 1° dicembre 2009, il Trattato di Lisbona è stato messo in mora, anzi di fatto sostituito con un sistema di governance messo a punto da una serie di direttive, concordate anche con il Parlamento europeo, la prima delle quali emanata dall'ECOFIN il 7 settembre 2010 dando inizio al Semestre Europeo. La nuova governance, nata per fronteggiare la crisi economico-finanziaria, si è strutturata con accordi intergovernativi: il Patto Fiscale e il Trattato ESM.
Fino al 2009 si poteva parlare di deficit democratico, ora si deve parlare di deriva oligarchica dell'UE. Per controllare ex ante e ex post le politiche di bilancio è stato successivamente emanato un gruppo di direttive: il Six Pack e il Two Pack. Con questa serie di misure si sono concentrati i poteri nel Consiglio europeo, nella BCE e nelle due nuove istanze istituzionali, quelle dell'Euro Summit e del suo presidente, che attualmente coincide con quello del Consiglio europeo, van Rompuy: sono questi i 'giudici di ultima istanza' che dettano le misure di bilancio e di politica economica, mentre la BCE regna sulla moneta.
Se si pensa che le rivoluzioni borghesi miravano a conseguire il controllo della 'borsa', cioè del bilancio pubblico - si coniò lo slogan "no taxation without representation" - si può ben capire la portata storica della concentrazione delle politiche della spesa e delle entrate nelle mani della tecnocrazia dell'UE.
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Leggere "Il Capitale Finanziario"*
di Emiliano Brancaccio e Luigi Cavallaro
Rudolf Hilferding
1. La teoria economica dominante è ancora lì, ferma sul suo trono. La «Grande Contrazione» iniziata nel 2008 l’ha colta di sorpresa, quasi del tutto impreparata, ma non sembra averle inferto gravi danni. La reputazione dei modelli ortodossi di funzionamento del capitalismo ne è uscita senza dubbio appannata, ma le prescrizioni che se ne derivano continuano ugualmente a rimbombare nell’arena politica. Si tratta ormai di una vera e propria geremiade, sulla cui capacità di far presa in modo duraturo non ci si deve però ingannare. Sotto di essa covano profonde contraddizioni, potenzialmente in grado di minare la solidità delle attuali convenzioni e deviare il corso storico degli eventi. Approfondirle è senz’altro possibile, ma occorre innanzitutto un chiarimento sul concetto di teoria dominante, a partire dal suo nucleo originario: l’analisi neoclassica.
Stando a una celebre definizione1, una teoria economica può dirsi «neoclassica» (o «marginalista») se si propone di descrivere il funzionamento del sistema capitalistico sulla base dei seguenti dati esogeni: la tecnologia di produzione, le dotazioni delle risorse e le preferenze degli individui. Date le risorse di cui dispone, ciascun soggetto decide di consumarle oppure di scambiarle sul mercato in base alle proprie preferenze, ossia al fine di massimizzare la propria utilità personale. La logica delle azioni individuali viene quindi espressa nei termini di quella che Robbins definiva una relazione tra fini e mezzi scarsi aventi usi alternativi2 e che Samuelson ha poi formalizzato mediante il criterio dell’ottimizzazione vincolata3.
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Gioco di società : il Tav, il femminicidio, l’odio, le armi, lo Stato…
di Elisabetta Teghil
Siamo d’estate perciò lanciamoci in un gioco di società dato che, soprattutto, in questa stagione i giochi impazzano.
Naturalmente questo invito vale per tutte/i, sia per quelle/i che si possono permettere le vacanze –se la godano fino in fondo perché potrebbe essere l’ultima vista la china che ha preso questo sistema sociale- che per quelle/i che sono rimaste/i a casa a cui va tutta la nostra affettuosa solidarietà.
Il gioco di società che vorrei proporre consiste in questo: andare a vedere quali sono gli articoli più commentati nei siti e nei blogs. Scopriremmo che sono quelli che riguardano il movimento NoTav e, partendo da questo dato, fare il “Gioco dell’oca incazzata”, gioco inventato da un collettivo femminista qualche anno fa per scoprire come ci vogliono turlupinare.
In un paese dove ci si lamenta della scarsa sensibilità civica e della poca partecipazione civile, si scopre che il Tav “coinvolge e appassiona i cittadini italiani”.
Ma questo interesse si manifesta con una valanga di commenti negativi e magari aggressioni verbali ai NoTav e con una miriade di spam.
La contrarietà a qualsiasi lotta ha delle caratteristiche di fisiologicità, ma in questo caso assume caratteri biblici che non trovano riscontro nelle pur tante vicissitudini che questo paese sta passando.
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Non opponiamo il reddito al lavoro
Alfonso Gianni
Non è vero che è impossibile perseguire la piena occupazione, come i teorici del «mainstream» neoliberista vorrebbero farci credere. E una sinistra moderna non può non essere fondata sul lavoro. Quello che è in discussione è il ruolo dello Stato: solo un suo intervento pubblico diretto nell'economia potrebbe portare a scelte produttive alternative a quelle monetariste
Dobbiamo a William Baumol una famosa metafora economica, quella di Mozart e dell'orologiaio, sulla quale conviene tornare a riflettere di fronte alle sconsolanti cifre e prospettive che tutti i centri studi, senza eccezione, ci offrono in materia di incremento della disoccupazione. Gli organi della Ue prevedono una moderata ripresa nel 2014. Non è la prima volta che dispensano ottimismo ingiustificato, ma in ogni caso avvertono che tale possibile inversione di tendenza rispetto alla pesante recessione in atto non potrà avere effetti, se non in tempi molto successivi, sull'occupazione. In sostanza quella perduta in questa crisi non verrà mai più recuperata, almeno nello scenario europeo.
Anche a sinistra, purtroppo, molti pensano che la riduzione dell'occupazione sia l'inevitabile prodotto dello sviluppo delle tecnologie applicate alla produzione. Non potendo contrapporsi a queste ultime, a meno di non cadere in una sorta di riedizione del luddismo, bisognerebbe abituarsi a convivere con un'elevata e crescente disoccupazione o inoccupazione - mi riferisco in questo caso a quella giovanile - le cui esplosive conseguenze sociali andrebbero temperate e prevenute con forme di distribuzione della ricchezza prodotta, fino ad assumere anche la forma di un reddito di base del tutto separato dal lavoro.
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Dalla filosofia alla concezione materialistica della storia
Appunti per un'introduzione al materialismo storico e alla dialettica, n.1
Antiper
Del rapporto tra marxismo e filosofia hanno trattato tanti libri da riempire intere biblioteche. Il “dilemma” è ricondotto, in definitiva, alla questione, posta da tutti i filosofi “di mestiere”, dell’insufficiente, nascosto, frainteso o addirittura mistificato “statuto filosofico” del marxismo. Nel parlare di marxismo e filosofia si va da chi afferma che il problema del marxismo è quello dell’assenza di uno specifico spazio filosofico (Preve) a chi afferma che un po’ di buona filosofia c’è, ma bisogna depurarla da deformazioni economicistiche, storicistiche, umanistiche (Althusser), a chi sostiene che in Marx è posto in modo tutto sommato chiaro il problema ontologico fondamentale (Lukacs).
Come è naturale, i filosofi chiedono più filosofia. Così come, del resto, gli economisti chiedono più economia, i sociologi più sociologia, ecc… Molto raramente si ricorda che una delle conclusioni teoriche di Marx – giusta, o anche sbagliata che possa essere considerata – è quella del superamento della divisione disciplinare della conoscenza (si potrebbe dire, della divisione del lavoro nel campo della conoscenza) e l'adozione di un approccio olistico – diciamo, interdisciplinare -ai problemi che in genere vengono catalogati come “filosofici”, “economici”, “storici”, “sociali”, “psicologici”, ecc...
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Obama, #Occupy e le fratture globali
Segmenti di classe e ansie di ricomposizione
di Michele Cento
Note e riflessioni provvisorie su politica di classe, movimenti e istituzioni a partire da La grande frattura, di Bruno Cartosio
Ai Repubblicani che in questi anni lo hanno accusato di promuovere una lotta di classefiscale, Barack Obama ha ribattuto che tassare le fasce più ricche della popolazione statunitense non ha a che fare con il class warfare ma con il National Welfare. D’altronde, invocareil benessere della nazione, il bene comune, è sempre stata una strategia per neutralizzare la lotta di classe condotta da coloro i quali sanno che quel comune non gli appartiene. In questo senso, guardando alle politiche della sua amministrazione, molti sarebbero inclini a dare credito alle rassicuranti parole del presidente. Eppure, nonostante Obama rispedisca puntualmente al mittente le accuse di evocare spettri del passato, le argomentazioni dei Repubblicani non possono essere semplicemente derubricate a becera propaganda politica. In La grande frattura (Verona, Ombre Corte, 2013) Bruno Cartosio soppesa attentamente quelle accuse, sebbene il suo intento non sia di costruire la rappresentazione immaginifica di un Obama class warrior. Né potrebbe essere diversamente per chi, come Cartosio, ha buona memoria dell’indecoroso salvataggio dei banchieri di Wall Street a cui il primo presidente afro-americano non si è di certo sottratto. Piuttosto, Cartosio sottolinea come, per la prima volta negli ultimi trent’anni, con Barack Obama si sia assistito a un timido tentativo di ricomporre la «grande frattura» che attraversa la società statunitense.
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Impiccarsi al "comunismo" di Badiou o al "comune" di Negri? Meglio vivere!
di Sebastiano Isaia
Nell’ultimo libro Il risveglio della storia. Filosofia delle nuove lotte mondiali (Ponte alle Grazie, 2012) Alain Badiou si è difeso da par suo dalla sanguinosa critica scagliatagli da un altro pezzo grosso del pensiero “alternativo” mondiale, Toni Negri: «Io in definitiva sarei soltanto un idealista senza rapporti con la realtà. Per di più, non sarei nemmeno attento alle sorprendenti trasformazioni del capitalismo, trasformazioni che autorizzano a parlare, con aria da intenditori, di un “capitalismo postmoderno”. [Negri] mi ha pubblicamente assunto quale esempio di tutti quelli che pretendono di essere comunisti senza neanche essere marxisti. In sostanza, gli ho risposto che era sempre meglio che pretendere di essere marxisti senza essere nemmeno comunisti» [1]. Chi la spunterà in questa lotta tra giganti del pensiero altermondista?
Quando Badiou bastona le pretese postmoderniste di Negri, e sottolinea la vitalità della critica marxiana dell’economia politica, almeno per i punti essenziali, non posso che battergli le mani, e rimandare il lettore alla mia annosa polemica che ha come oggetto la teoria negriana dell’oltrismo: oltre Marx, oltre la legge del valore, oltre il socialismo, oltre il comunismo, oltre l’imperialismo, oltre il postmoderno, oltre… l’oltre. Il tutto, forse, per dare l’impressione di essere sempre al passo con i tempi, anzi: decisamente oltre. Scrive Badiou: «La mia posizione è esattamente opposta: il capitalismo contemporaneo presenta tutti i tratti del capitalismo classico».
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Presidenzialismo via Violantum?
di Leonardo Mazzei
3 agosto. Che quello di Letta fosse un "governicchio", noi, lo avevamo detto subito. La sola cosa che frena i berluscones dal farlo cadere subito è la minaccia del reuccio Napolitano di dimettersi. Quest'ultimo esige che prima di votare si faccia almeno la nuova legge elettorale. Ma quale legge? Leonardo Mazzei, specialista in materia, spiega perché la proposta Violante potrebbe mettere d'accordo Pd e Pdl
Un sistema ispano-franco-tedesco: ovvero il Super-porcellum presidenzialista di lorsignori
Riuscirà il governo Letta ad arrivare all'autunno? La cosa non è certa, viste le fibrillazioni del campo berlusconiano. E tuttavia non è neppure impossibile, considerato il pressing quirinalizio e la volontà dei «poteri forti», così ben leggibile nell'offensiva mediatica sul bene supremo della «stabilità».
Sia chiaro, quello presieduto dal Nipote dello Zio è e rimarrà un governicchio, un esecutivo destinato a rinviare le scelte di fondo, votato per sua natura alla logica del «comprare tempo». Dalla sua questo governicchio ha però un'arma. Si chiama legge elettorale. Per essere usata essa ha bisogno di una sola condizione: l'accordo oligarchico e bipartisan di una casta ormai delegittimata in termini di consenso.
In altre parole, l'accordo ha da essere conveniente tanto per il Pd quanto per il Pdl. Ma, soprattutto, esso dovrà risultare confacente agli interessi sistemici delle oligarchie dominanti, protese più che mai a far man bassa dei salari, delle pensioni, dei diritti del popolo lavoratore. Tanto meglio, poi, se si troverà un sistema elettorale spacciabile per più democratico. Così quello stesso popolo verrebbe ad un tempo impoverito e turlupinato.
E' a questo che si sta lavorando.
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Detroit è morta, viva Detroit!
di Sandro Moiso
E’ stata la capitale mondiale dell’auto. La Parigi dell’Ovest del XIX secolo americano. Un tempo fu Fort Pontchartrain du Détroit, fondato nel 1701 dai francesi e poi conquistato dai fucilieri del maggiore inglese Rogers. Fu al centro della guerra franco-indiana e poi della guerra del 1812 tra gli Stati Uniti e il Regno Unito. Oggi, con i suoi settecentomila abitanti è praticamente una sorta di ghost town, cui rimane il merito di essere la capitale di quella che fu chiamata rust belt a partire dagli anni ottanta del secolo appena concluso. Eppure, eppure…
Heavy Music
Non fatevi fregare dalle critiche compiacenti: l’ultimo album di Iggy and the Stooges fa cagare! Molto peggio del penultimo e senza paragoni rispetto a quelli degli anni sessanta e settanta. Il chitarrista James Williamson non ricorda nemmeno vagamente gli assalti sonici di Raw Power, Iggy s’è giocato la voce ai dadi e il resto del gruppo…beh, meglio lasciar perdere. Eppure Ready To Die, con la foto di copertina che ritrae Iggy avviluppato da una cintura esplosiva sui fianchi e sul torace nudo può rappresentare simbolicamente (e non solo per il titolo) un ottimo punto di partenza per un viaggio a ritroso nella storia politica, sociale,economica e culturale della città del Michigan. Un viaggio, come quello di Iggy, a ritroso verso la gloria di un tempo, oggi forse definitivamente perduta.
Perché proprio a partire dagli Stooges? Perché Detroit fu una delle capitali del rock alternativo e del rock blues degli anni sessanta e settanta.
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Euro, una moneta prematura e divergente
di Domenico Mario Nuti
Se l’Eurozona rimarrà immutata è destinata al fallimento e al collasso. Perciò è necessario realizzare gli stadi e le istituzione ancora mancanti dell’integrazione europea
I benefici e i costi attesi da una moneta comune
Dalla formazione di un’area con una moneta comune ci si attendono di solito almeno sette benefici lordi per i suoi membri:
Primo, una riduzione dei costi di transazione, ad esempio il costo cumulativo delle commissioni pagate per convertire una valuta in un’altra (e in un’altra ancora).
Secondo, un aumento della concorrenza, data la maggiore trasparenza e comparabilità dei prezzi una volta che essi siano tutti espressi in una valuta comune.
Terzo, una riduzione del tasso d’inflazione, se la nuova valuta è assoggettata ad una maggiore disciplina da parte di una Banca Centrale indipendente che si pone una bassa inflazione come obiettivo.
Quarto, l’eliminazione del rischio di variazioni del tasso di cambio nelle transazioni fra paesi membri all’interno dell’area della moneta comune.
Quinto, una riduzione dei tassi d’interesse, grazie alla riduzione dell’inflazione e all’eliminazione del rischio del tasso di cambio all’interno dell’area.
Sesto, oltre a tutti questi fattori che dovrebbero promuovere l’integrazione commerciale all’interno dell’area, la promozione di maggiori investimenti diretti esteri, data l’abilità degli investitori di rimpatriare i profitti liberamente nella stessa moneta in cui sono stati realizzati.
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The RS Interview: incontro con Walter Siti
di Christian Raimo
Una lunghissima intervista di uno dei rubrichisti di punta di “RS” al magnifico scrittore recente Premio Strega. Mettetevi comodi
Allora, scusami c’è del rumore, perché sta arrivando il monsone qui a Roma.
“Sento un bambino”.
No, è una povera gatta che ha paura dei tuoni. Io partirei più che da una domanda, da una meta-domanda. Questa sarà l’ennesima intervista che subisci prima dello Strega, dopo lo Strega… Ti chiedevo se non hai paura di diventare banale. Probabilmente in quest’ultimo mese hai rilasciato una quantità di interviste che ti basteranno per dieci anni. Io stesso ne ho lette molte. E sicuramente quello che non ti manca è un deficit di consapevolezza sul perché scrivi, su come scrivi, quali sono i tuoi temi, etc… Una delle cose che ho notato, anche, è che – come molto spesso capita – quando bisogna fare un’intervista a una persona la cui opera non si può riassumere in un gesto, in una sintesi da titolo, vengono fuori domande un po’ vaghe.
“Il problema è che il grosso delle interviste sono per la radio o la televisione, dove uno è assolutamente sicuro di dire delle banalità perché ti chiedono di rispondere in 50 secondi a cose che richiederebbero molto più di tempo, dove dialoghi con persone che non sanno minimamente che cos’è la letteratura, a cui importa – semmai, se va bene – giusto dei temi di cui parli nel tuo libro. E da una parte ti dispiace di scontentare degli sconosciuti, quindi finisci per dare delle risposte banalissime e anche troppo perbene.
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