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Fra Stato e Mercato. L'ossimoro cinese
di Giovanna Baer
Fondata nel 1949 come Paese socialista, la Repubblica Popolare Cinese ha adottato in seguito, a partire dalle riforme economiche del 1978, un approccio ‘capitalista’ sui generis, che l’ha trasformata nella seconda economia mondiale e che le permetterà con ogni probabilità di strappare la leadership agli Stati Uniti entro la fine del secolo. Qualunque mutamento della politica economica cinese ha ormai implicazioni globali. Il progetto denominato “Made in China 2025”, un ambizioso programma elaborato e gestito da Pechino per trasformare la Cina nel principale leader tecnologico mondiale, costituisce di fatto non solo una sfida globale per le economie di mercato, ma soprattutto il primo tentativo di esportazione del sistema economico cinese. Da qui le tensioni fra la Cina e il suo partner commerciale più importante, ma anche il suo principale concorrente: gli Stati Uniti d’America.
L’ultima volta che due sistemi economici incompatibili e in competizione fra loro si sono fronteggiati – erano i tempi della guerra fredda – ogni lato ha eretto dei muri. Ma, oltre alla vendita occasionale di alcuni articoli di consumo (è il caso della Pepsi in Russia), c’erano pochissimi scambi o investimenti tra le nazioni basate sul libero mercato e le nazioni comuniste. Al contrario, l’adesione della Cina alla WTO (World Trade Organization, Organizzazione Mondiale del Commercio) nel 2001 è stata caldamente sostenuta dagli Stati capitalisti, nella speranza che l’appartenenza a un’organizzazione con regole comuni e condivise di matrice occidentale conducesse Pechino a compiere i passi necessari affinché la Repubblica Popolare diventasse una vera e propria economia di mercato. Secondo l’allora presidente della WTO, Supachai Panitchpakdi, la richiesta testimoniava “la volontà della Cina di giocare secondo le regole del commercio internazionale e di portare il suo apparato governativo spesso opaco e ingombrante in armonia con un ordine mondiale che richiede chiarezza ed equità”. Ciò non è accaduto, e fra gli impegni cinesi in seno alla WTO e le sue effettive pratiche commerciali ed economiche il divario è rimasto eclatante (1), con il risultato che in un’economia globale profondamente integrata, oggi coesistono – per ora pacificamente – due sistemi molto diversi.
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Sulle origini fasciste dell'UE
di Thomas Fazi
Oggi, in seguito alla nomina di Boris Johnson a nuovo primo ministro britannico, molti stanno riprendendo una sua celebre intervista del 2016 in cui affermò che l'Unione europea sta perseguendo un obiettivo simile a quello di Hitler nella creazione di un sovrastato europeo.
Detta così, può sembrare un'assurdità.
In verità, come spiego in Sovranità o barbarie, l'affermazione di Johnson non è così lontana dalla realtà.
È opinione comune che il moderno pensiero federalista nasca dalle ceneri della seconda guerra mondiale. Ma le teorie federaliste risalgono a ben prima del conflitto mondiale e persino lo stesso federalismo “antifascista” di Spinelli presenta inquietanti elementi di contiguità con le teorie che ispirarono quel conflitto e in antitesi alle quali, secondo la vulgata, si sarebbe sviluppato il pensiero federalista.
L’ideologia europeista, antisovranista e sovranazionalista – e il sogno dell’unificazione economico-politica del continente – erano infatti aspetti centrali della stessa filosofia nazifascista, nelle sue molteplici varianti, nonché della propaganda hitleriana.
Come scrive lo storico inglese John Laughland, autore di un corposo volume sul tema, “non solo i nazisti, ma anche i fascisti e i loro collaboratori in giro per l’Europa, hanno fatto ampio uso dell’ideologia federalista ed europeista per giustificare le loro aggressioni”. Ciò potrebbe meravigliare. È opinione comune, infatti, che i nazifascisti, in quanto ultrasciovinisti e imperialisti, esaltassero lo Stato-nazione e la sovranità nazionale; in verità, osserva Laughland, “essi nutrivano una profonda avversione per la sovranità nazionale; non solo, come può sembrare ovvio, per quella delle altre nazioni, ma per il concetto stesso”.
Il rifiuto della sovranità nazionale è molto esplicito nel pensiero nazifascista; fatto ancor più interessante, tale rifiuto si fondava sulle stesse argomentazioni dei federalisti odierni. Uno dei principali punti in comune dell’europeismo nazifascista tanto con l’europeismo spinelliano quanto con quello odierno era l’idea secondo cui gli Stati-nazione conducono inevitabilmente alla guerra e che dunque la presenza di una moltitudine di “piccole patrie” sul continente europeo fosse un elemento foriero di instabilità.
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Non è lavoro, è sfruttamento: il lavoro all’epoca della gig economy
di Sabato Danzilli
Il libro di Marta Fana Non è lavoro, è sfruttamento unisce il rigore dell’analisi all’efficacia polemica, ed è uno strumento molto utile sia per un ragionamento sul mondo del lavoro attuale sia per la militanza politica. Fana ricostruisce in maniera rigorosa la storia impietosa dell’attacco ai diritti sociali, avvenuto con violenza sempre maggiore negli ultimi decenni. Nel testo si prende in esame il vasto mondo del precariato perché, come dimostrato con notevole forza nel testo, studiare quanto avvenuto al lavoro precario significa studiare l’“avanguardia” dello sfruttamento. La cronologia dei colpi sferrati negli ultimi decenni ai diritti sociali duramente conquistati è, infatti, la piena dimostrazione di una tendenza graduale verso la degradazione sostanziale del lavoro. Studiare il lavoro precario significa quindi studiare quello che rischia di diventare il mondo del lavoro nel suo complesso.
Spesso persino nella sinistra “radicale” il tema assume, invece, un’impostazione caricaturale, differente solo nella fraseologia da quella “pietistica” che si può trovare nei liberal, se mai si occupano del problema. Per quest’ultimi basta infatti limitarsi a denunce di carattere moralistico quando avvengono tragedie sui luoghi di lavoro.
Se ci soffermiamo solo sul lavoro a chiamata e sui voucher rileviamo che essi hanno origine con la riforma Biagi- Maroni del 2003, approvata con la giustificazione di dover regolare prestazioni lavorative di carattere discontinuo o intermittente. In pochi anni i requisiti di disoccupazione o mobilità e i pochi limiti e obblighi per i datori di lavoro al loro utilizzo vengono meno e il lavoro a chiamata viene esteso come possibilità per tutti i lavoratori. Gli ultimi anni hanno visto l’esplosione dei voucher, liberalizzati completamente dal governo Monti nel 2012. Il Jobs Act ha poi ulteriormente aumentato il tetto massimo di reddito annuo percepibile in questo modo. Ricordiamo la grande campagna referendaria della CGIL nel 2017 per l’abolizione dello strumento e come essa fu bloccata con un decreto d’urgenza, che eliminava i voucher per far annullare i referendum, ma poi li reintroduceva dopo un mese, attraverso un mero cambio di denominazione.
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Autonomia differenziata e dissoluzione dell’unità nazionale: ce lo chiede l’Europa?
di Fernanda Mazzoli
Dietro le apparenze, l’autonomia differenziata sembra essere parte di un più generale processo di costruzione di una Europa (e di un’Italia) “a due velocità”. Le regioni italiane con il Pil più elevato vogliono competere alla pari con le regioni più ricche e produttive d’Europa, senza quei lacci e lacciuoli che un ordinamento unitario potrebbe far valere (contratti collettivi di lavoro, tutela paesaggistica, valore legale del titolo di studio, per citarne alcuni), disponendo, inoltre, di risorse più elevate, grazie al trattenimento in loco di una parte consistente del gettito fiscale. In Francia, una recente riforma ha ridotto il numero delle regioni da 22 a 13. Le regioni troppo piccole o poco popolate avevano bisogno di raggungere “una dimensione adeguata alle sfide economiche e di mobilità”, tale da consentire “di competere con le collettività simili in Europa“. Fra tali collettività regionali si citano la Catalogna, la Baviera e, guarda caso, la Lombardia. Al di là delle indubbie e anche notevoli differenze, riforma regionale francese ed autonomia differenziata compongono un quadro sostanzialmente unitario. Chi legga con attenzione le bozze di intesa dell’autonomia differenziata trova ben pochi riferimenti di tipo identitario e molta governance, efficienza amministrativa, crescita economica, sinergia con le imprese, promozione dell’innovazione. Il dibattito sull’impatto potenzialmente devastante di una regionalizzazione di sanità, scuola e ricerca ha posto in secondo piano questo punto, il quale ci offre, in realtà, la chiave di volta di tutto l’edificio. A ben vedere, anche la gestione dell’istruzione e della ricerca risponde alla necessità di formare manodopera per le aziende del territorio. In questa corsa spietata, l’Italia è percepita dalle regioni ricche come un carrozzone troppo lento ed ammaccato, per riuscire a tenere il passo con i bolidi del Nord Europa, loro naturale punto di riferimento. Il resto è folklore, una caramella dal gusto vagamente dolciastro ad uso e consumo (anche elettorale) dei nostalgici dei dialetti e dei sapori perduti.
Per comprendere in tutta la loro complessità – ragioni di fondo e razionalità generale che le ispira- le dinamiche sottese all’autonomia differenziata e gli effetti che potrebbero derivare da una sua realizzazione, è necessario allontanarsi dai confini nazionali ed aprirsi su uno scenario europeo.
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Democrazia sostanziale e formale
di Pierluigi Fagan
Questo post sarebbe riservato ad un dialogo di approfondimento con due miei contatti ( Vincenzo Cucinottae Gabriele Pastrello col quale mi scuso per il carattere minuscolo) ma poiché contiene opinioni di valore più generale, da commento diventa post. Se non siete interessati alla teorizzazione politica, evitatelo è molto lungo e molto palloso
In una precedente discussione, ci si imbatteva nella differenza tra formale e sostanziale a proposito della democrazia, ma la distinzione non era chiara, vedrò quindi di chiarirla. Innanzitutto per intenderci reciprocamente, debbo ancorare il punto di vista di partenza o quantomeno chiarirlo. Chi scrive aderisce ad una ideologia democratica. L’ideologia democratica sembra molto popolare ma c’è un profondo disguido sulla questione, non è probabilmente quella che pensate di conoscere voi.
Ideologia democratica ha ben poca teorizzazione di base. Compare inizialmente nelle Storie di Erodoto, se ne dà qualche specifica in Politica di Aristotele, se ne dà versione critica negativa nella Costituzione degli Ateniesi (versione c.d. Anonimo Oligarca o Pseudo Senofonte), viene sistematicamente massacrata da Platone, teorico massimo di ogni forma piramidale gerarchica, dalla metafisica in giù. Scompare dai radar della teoria politica lungo tutto il periodo romano e medioevale. Nel primo moderno ci sarebbero i diggers ed i levellers della Guerra Civile inglese di metà XVII secolo ma non scrivevano le loro idee. Per altro vennero tutti fisicamente massacrati da Cromwell delle cui truppe facevano parte. Ricompare sostanzialmente con J.J.Rousseau, seguito da qualche fazione dei moti pre e durante la Rivoluzione francese (giacobini-montagnardi, socialisti detti da Marx “utopisti”, anarchici della Comune del 1871). Ha qualche ripresa più recente ma non possiamo qui entrare nel merito.
Nel periodo moderno sostanzialmente scompare, sostituita da una forma giustificata teoricamente da B. Constant nel 1819 che titola: “La libertà degli antichi comparata alla libertà dei moderni”, corroborato poi da J. Stuart Mill (liberale, inglese). Constant era un liberale franco-svizzero e la sua comparazione muove dai principi teorici di Rousseau, dicendo però che -ovviamente- negli stati moderni composti da milioni di persone, non si poteva certo fare la “democrazia diretta” tipo Atene o Ginevra, bisognava passare a quella rappresentativa entro ovviamente lo stato moderno liberale à la Montesquieu con tripartizione dei poteri etc. etc. Constant chiama “libertà” la democrazia, facendo il verso a Rousseau che ironizzava sulla forma rappresentativa liberale che presupponeva di dare libertà di partecipazione al processo politico ai cittadini, “una volta ogni quattro anni” (riferendosi a gli inglesi).
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5 stelle nel buco nero
di Fulvio Grimaldi
La Storia in farsa: Di Maio, l’Occhetto del MoVimento, Conte, il suo Napolitano
Quos vult Iupiter perdere, dementat prius (A coloro che vuole rovinare, Giove toglie prima la ragione)
“Come può un movimento proseguire nella sua azione di cambiamento della Cosa Pubblica? Necessariamente attraverso un continuo attacco al pericolo numero uno della collettività: il pensiero dominante, la forma di fascismo più pericolosa del XXI secolo”. (Alessandro Di Battista, “Politicamente Scorretto”, edizioni Paper First)
Prima del diluvio
Si stava al fresco, iniziando, con l’aiuto di Speck, succhi di mela, automobilisti rispettosi, gerani ai balconi, gente senza cellulari sui sentieri, abeti rossi e praterie di trifoglio, l’adattamento al salto dai consuetudinari 380 metri ai quasi 2000. Arrivavano, dalla bottega alimentare che mi consegnava la mazzetta dei giornali, le solite notizie appassionanti confezionate dalle eccellenze del giornalismo nostrano traendone i materiali da territori tra il deserto, la palude e i letamai. Grazie alle ottime condizioni ambientali, spirito e corpo riuscivano a tenergli testa.
Statunitensi, ammattiti per gli scacchi di Venezuela e Siria, che sbattevano furiose sciabole su tonitruanti scudi in mezzo al Golfo; Elisabetta Due che, in ansia competitiva con l’omonima numero Uno, rilanciava pirati alla Drake contro petroliere da razziare; eletti europei che, in cambio di guiderdoni, cavolini di Bruxelles e foie gras di Strasburgo (da oche inchiodate quanto loro al patibolo della libertà), si prestavano a formare un “parlamento” che era tale come Salvini è Bismarck; l’inestinguibile flusso di zozzerie, volgarità, malandrinate e imbecillità Lega e PD che continuava a scorrere ai piedi degli italiani fermi e impassibili sulla sponda del fiume (mai un cadavere); i tg nazionali che al confronto di quelli tedeschi, francesi, russi, nigeriani (pure disponibili nel maso) parevano Sfera Ebbasta contro Aretha Franklin, tanto che ci si riprendeva solo alla vista del canale provinciale con i suoi jodel e i suoi caduti dalla bicicletta.
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Per una critica del populismo
di Mauro Pasquinelli
Non sono poche le occasioni in cui SOLLEVAZIONE ha ospitato riflessioni sulla questione del "populismo". Anni addietro, non solo noi, promuovemmo sul tema convegni di studio. Una categoria politica, quella del "populismo", polisemica e insidiosa quant'altre mai. Il terremoto elettorale del 4 marzo 2018, l'avvento al potere di due formazioni considerate populiste, il fatto dunque che l'Italia diventa il principale laboratorio politico europeo, obbliga a tornare sul punto ed a riaprire la discussione. Iniziamo con questo contributo. Inutile ricordare che pubblicare un contributo non significa che la redazione lo condivida. Il dibattito proseguirà
Populismi senza popolo, popoli senza socialismo
Ai tempi di Marx l’opposizione destra-sinistra non esisteva ma si presentava nelle vesti di alternativa tra Monarchia o Repubblica democratico-borghese. Non diverso era ai tempi di Lenin, dove destra significava fascismo, bonapartismo, reazione, militarismo e sinistra socialdemocrazia, democrazia, riformismo, pacifismo. Mai, tuttavia, abbiamo visto dirigenti o teorici del socialismo, tranne quelli di matrice riformista, posizionarsi nel secondo campo delle opzioni della classe dominante. Dal terzo campo rivoluzionario, si poteva al massimo fornire un appoggio tattico al secondo campo per porre un argine o battere l’ipotesi del primo, quella più autoritaria.
Al dualismo storico destra sinistra nel campo delle opzioni borghesi, che data dall’affare Dreyfus (1894) oggi si aggiunge, o forse si sostituisce, quello tra popolo ed élite, per la precisione tra populismo e globalismo, sovranismo e cosmopolitismo.
Cercherò di dimostrare perché il populismo non è un alternativa vera al cosmopolitismo, come la sinistra non lo è mai stata alla destra.
Queste riflessioni vogliono essere un invito alla discussione sul tema del populismo all’interno dellasinistra patriottica, per una ridefinizione del suo posizionamento tattico e strategico, che tutt’ora, ahimè, staziona all’interno del secondo campo populista, presidiato in Occidente da forze politiche per lo più xenofobe e rozzo-brune.
Lancio subito una provocazione concettuale che sarà più chiara dopo aver letto questo breve saggio, e che a me serve per renderlo più appetitoso: il populismo agisce in nome del popolo. Il socialista agisce per il popolo e con il popolo. Questione di preposizioni? No questioni di sostanza e lo vedremo alla fine.
“L’emancipazione dei lavoratori sarà opera dei lavoratori stessi” scriveva Marx in esergo al proclama di fondazione della Prima internazionale. Ed aveva ragione: il socialismo è la prima forma sociale, nella storia dell’umanità che per essere realizzata richiede il protagonismo e la partecipazione attiva e permanente della comunità degli uomini.
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Il malsviluppo e la crisi sociale ed ecologica
E attenti al 29 luglio, Overshoot Day: la terra (con tutti noi) va in rosso
di Giorgio Riolo
A Giorgio Nebbia, recentemente scomparso. Figura preziosa come presenza umana, intellettuale e politica della sinistra italiana. Ambientalista rigoroso e comunista, la giustizia sociale e la giustizia ambientale come pensiero vissuto. A lui la nostra gratitudine per averci aiutato negli anni decisivi della formazione culturale e politica
Il prossimo 29 luglio è il cosiddetto Overshoot Day (*) il Giorno del Superamento-Supesfruttamento. Vale a dire, della possibilità del pianeta terra di rigenerare-ripristinare l’equilibrio delle risorse a causa del consumo-emissione di CO2-inquinamento-rifiuti ecc. su scala mondiale. Questa misura è calcolata ogni anno dalla benemerita Rete mondiale dell’Impronta Ecologica (Global Footprint Network). Nel 1970 il giorno era il 31 dicembre. Il saldo allora era a somma zero. Oggi per 5 mesi e qualche giorno deprediamo letteralmente la terra. Da sommare alle depredazioni degli anni precedenti. L’accumulazione del capitale e l’accumulazione della violenza ambientale, sul vivente.
Naturalmente, con la gerarchia mondiale di questo furto. Gli Usa (328 milioni di abitanti) avrebbero bisogno di 5 pianeti a questo ritmo dell’impronta ecologica dei suoi abitanti. La Cina 2,2 pianeti (ma 1 miliardo e 420 milioni di abitanti) e l’India 0,7 (ma 1 miliardo e 370 milioni di abitanti) e via scalando nella popolazione mondiale delle periferie del mondo. Inoltre è annunciato per il prossimo agosto 2019 il nuovo rapporto dello Ipcc (gruppo di lavoro intergovernativo di scienziati del clima sul cambiamento climatico, legato all’Onu ). Ma basta lo Special Report del 2018 per allarmarci. Siamo già dentro a processi irreversibili.
Per l’occasione, anticipo qui di seguito alcune parti dell’ultimo capitolo di un libro scritto con Massimiliano Lepratti sulla “storia globale dell’umanità”, in attesa di pubblicazione. È una sintesi di circa 350 pagine scritta per un pubblico largo, senza pretese specialistiche, ma con l’intento di contribuire a una battaglia culturale importante, con riferimenti bibliografici minimi. Facendo tesoro della lezione di Samir Amin, della critica radicale dell’eurocentrismo e dell’occidentalocentrismo, secondo l’impostazione del sistema-mondo dello storico francese Fernand Braudel ecc.
Nel capitalismo “tutto si tiene”. Il fine è sempre quello di tenere assieme giustizia sociale (e di genere) e giustizia ambientale. Non sovrapposte, disgiungibili, bensì fuse, contestuali, della stessa sostanza (consustanziali, qualcuno direbbe). Dopo di che, il difficile è quale militanza, quale azione politica e sociale farne scaturire. Tutti i problemi che rimangono entro una sinistra decente (alternativa ecc.) in questa epoca storica.
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Gli Student Hotel e la creatività del capitale
di Carlotta Caciagli*
Mentre il diritto allo studio viene attaccato trasformandolo in «debito d'onore», in diverse città d'Europa nascono studentati privati di lusso. Sono l'ennesimo tentativo di far diventare qualsiasi esperienza di vita un'esperienza di consumo
Amsterdam, Dresda, Berlino, Firenze, Parigi. In alcune città gli Student Hotel sono già sbarcati, in molte altre arriveranno presto, come a Lisbona, Barcellona, Tolosa. In Italia si conta di aprirne almeno altri cinque nei prossimi due anni. Ma cosa sono gli Student Hotel? Stando al nome sembrerebbero dei semplici alloggi per studenti, ma a ben guardare sono molto altro: luoghi che riproducono un preciso modello di città e una precisa concezione di istruzione.
The Student Hotel (Tsh) è uno studentato e al tempo stesso un hotel di lusso, ci si può stare una notte come un anno intero. Al suo interno è composto di camere e spazi comuni: cucine, salotti, aule studio, aule conferenze, biliardi, terrazze con piscina, in alcuni casi saune e idromassaggi. Un design progettato – quando possibile dalla archistars di casa, poiché la visibilità è garantita – per essere casa, ufficio e luogo di ricreazione al tempo stesso. Uno spazio pensato per rendere accettabile che fra lavoro e tempo libero non ci siano confini. Perché se essere perennemente presi nella morsa del processo produttivo significa una camera vista mare, be’, allora non è poi così male. Salvo per i prezzi, che allo studentato si avvicinano proprio poco dato che una camera può costare anche 100 euro a notte. Viene quasi da chiedersi chi siano le persone che possono permettersi una stanza qua. Ce lo spiega il gruppo possessore: Tsh è per giovani creativi, studenti, intellettuali, professionisti e startuppers. Insomma per tutte quelle figure professionali che lavorano sempre pur sembrando non lavorare mai. In fondo, ci dice sempre il gruppo Tsh, si tratta di un’idea semplice, ovvero riunire imprenditori, studenti e viaggiatori sotto un unico tetto, alle parole d’ordine di mescolanza, multiculturalismo e condivisione.
Parole a cui è difficile contrapporsi, perché rimandano le menti a giovani aperti, che conoscono il mondo, che apprendono lingue nuove, a italiani che imparano a cucinare cous-cous, a inglesi che mangiano pasta e pizza, a film in lingua originale, a serate a tema in cui conoscere i costumi degli altri. La «mission» di Tsh è quella che abbiamo assunto essere dell’Erasmus, ovvero creare un contesto stimolante per tutti, in cui si beneficia del contatto con il diverso.
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Per chi sta realmente lavorando questa economia?
di Giovanna Cracco
Il 3 luglio scorso la Commissione europea ha ritirato la proposta di aprire una procedura d’infrazione nei confronti dell’Italia (1), dichiarando che terrà il Paese sotto stretta osservazione e se ne riparlerà in autunno, in fase di manovra finanziaria 2020. L’ha fatto perché l’Italia ha messo sul piatto 7,6 miliardi, modificando le proprie politiche economiche così come la Commissione aveva richiesto. Problema risolto? No. E per comprendere quanto sia irrisolto, occorre fare un passo indietro e tornare sul Rapporto con cui il 5 giugno la Commissione Ue aveva proposto l’apertura della procedura d’infrazione.
Per leggerlo (2), la sola volontà non è sufficiente; occorre saltare lo steccato ed entrare nel territorio dell’ostinazione, per poi accettare di muoversi nello spazio dell’incredulità. Dapprima è la fatica a dominare, per la sequela di cifre e percentuali che in modo ossessivo si ripetono, dopodiché arriva la sensazione di essere finiti in un mondo parallelo, nel quale le coordinate con cui dovremmo misurare il reale, non esistono.
Da parte sua, con titoli di scatola in prima pagina, editoriali, analisi e aperture di telegiornali che rappresentano come legittima la posizione della Commissione Ue, nemmeno l’informazione mainstream ha aiutato a giugno e non aiuta tuttora a restare aggrappati alla realtà, anzi contribuisce a eliminare dal discorso pubblico ogni riflessione che entri nel merito. La narrazione sulla bontà dei ‘vincoli di bilancio’ introdotti da Maastricht è pensiero dominante da quasi tre decenni, dunque non stupisce l’acritico recepimento del ‘torto’ e della ‘ragione’; eppure la capacità di ragionamento, per quanto atrofizzata, avrebbe dovuto avere un sussulto davanti alla lettura del Rapporto, e la realtà, per quanto negata, si presenta oggi agli occhi in modo talmente drammatico e prepotente che dovrebbe essere impossibile evitare di guardarla.
Se l’applicazione di una teoria economica allarga la forbice della diseguaglianza sociale e aumenta la povertà, deve essere messa in discussione. Alla radice, nella sua impostazione di base, non in superficie, cercando compromessi che non ne modificano l’impianto. “Per chi sta realmente lavorando questa economia?” ha affermato a fine giugno Elizabeth Warren, senatrice democratica in corsa alle primarie del partito, al primo dibattito televisivo della campagna elettorale:
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Boeri e le gabbie salariali: l’incubo che ritorna
di coniarerivolta
In un articolo pubblicato su Repubblica, Tito Boeri, ex presidente dell’INPS, propone una delle sue tante ricette, rigorosamente in salsa neoliberista, per far tornare a crescere l’economia italiana e ridurre la disoccupazione: la reintroduzione delle cosiddette “gabbie salariali”, cioè differenziali tra le retribuzioni dei lavoratori in base al luogo di residenza, ipocritamente giustificati sulla base di differenze nel costo della vita nelle varie regioni d’Italia. Prima di addentrarci nei dettagli della proposta, vediamo da cosa scaturisce questa nuova (nuova si fa per dire, i neoliberisti sono persone molto banali) idea del Prof. Boeri.
Il predecessore di Tridico ci informa, preoccupato, che il Nord del Paese si sente tradito dalla Lega, che avrebbe lasciato troppo spazio alle ricette economiche del Movimento 5 Stelle e avrebbe rinunciato, in tutto o in parte, alle proprie. “L’agenda di Governo” – scrive Boeri – “ha del tutto ignorato le istanze del blocco sociale settentrionale”. Immediatamente, Boeri mette le cose in chiaro sulla sua visione del Paese, riferendosi a un Nord di lavoratori e pensionati che speravano nelle promesse della Lega – quota 100 e la flat tax, ad esempio – e a un Sud di disoccupati che avevano votato in massa Movimento 5 Stelle per ricevere il reddito di cittadinanza. Solo questi ultimi sarebbero stati davvero accontentati. Il produttivo Nord sarebbe stato fregato dalla Lega attraverso una quota 100 molto limitata, nella sua portata, rispetto alle aspettative dei lavoratori settentrionali prossimi alla pensione e una flat tax che, fino ad ora, non si è vista (se non attraverso una ben misera “flataxina”).
Secondo Boeri, un partito interessato ad affrontare i veri problemi del Paese dovrebbe partire dalla questione settentrionale, prendendo di petto quella che secondo lui è la vera grande ingiustizia territoriale: i salari reali (ovvero il rapporto tra i salari in termini monetari e i prezzi, che ci dice, in pratica, quante cose un lavoratore può comprare con il proprio stipendio) sono più alti al Sud che al Nord, a causa di prezzi molto più bassi nelle regioni meridionali rispetto a quelli nelle regioni del Settentrione.
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“Il partito della secessione” urla, ma è sotto scacco
di Dante Barontini
La crisi del governo italiano è parte integrante della partita europea. Chi guarda alle vicende di questi giorni con gli occhi incollati ai sondaggi interni, farà sempre più fatica ad interpretare i messaggi trasversali, gli sgambetti, gli scontri violenti che devastano la maggioranza.
E’ appena il caso di ricordare che in questi ultimi cinque anni abbiamo avuto ben due partiti sopra o vicini al 40% nel voto popolare (non nei sondaggi), e in pochissimi mesi hanno perso tutto. Il Pd democristiano di Renzi e il M5S del neodemocristiano Di Maio sono già storia del passato. Il democristiano di ultradestra, l’”altro Matteo”, può fare la stessa fine alla stessa velocità.
Se fosse una partita solo italiana, questo andamento schizofrenico dell’elettorato richiederebbe l’intervento di uno squadrone di psichiatri di alto livello. Se la si vede intrecciata con la partita europea, invece, emerge una razionalità piuttosto severa.
Il punto essenziale da capire – e che la sedicente sinistra” ha sempre rimosso perché troppo chiaro – è che i governi nazionali dell’Unione a 27 hanno da quasi tre decenni perso la propria “sovranità di politica economica”. Quanto più è debole un paese (per peso economico o per livello del debito pubblico), tanto meno è libero di decidere cosa fare delle proprie risorse e delle entrate fiscali.
Questa limitazione è stata il problema che ha consumato il consenso di tutte le formazioni politiche succedutesi dal 1992 ad oggi, consumando leader (Berlusconi, Prodi, Bersani, Letta, Renzi, Di Maio, ecc) e “partiti”.
Se non puoi decidere la politica economica, le tue promesse elettorali diventano impossibili da rispettare. Quanto meno, quel che riesci a combinare – prendiamo ad esempio “reddito di cittadinanza” e “quota 100” – è solo una pallida imitazione di quel che avevi promesso.
In linea teorica, un governo nazionale – di qualsiasi connotazione ideal-politica – ha la possibilità di “retroagire” a livello europeo, avanzando istanze, chiedendo cambiamenti dei trattati, condivisione delle decisioni.
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Sulla violenza nella storia
di Ennio Abate
La questione della violenza nella storia, ora anche in una dimensione “gobalizzata” (in passato affrontata su Poliscritture almeno qui, qui, qui e qui), resta irrisolta . Meglio insistere a interrogarsi sul fenomeno. Da tutti i possibili punti di vista. Senza mai arrendersi all'”evidente” e finire per sublimarla o esorcizzarla. Va bene anche partire da materiale “datato” o “passato” o riflettendo a distanza di anni da questo o quell’evento traumatico.All’indomani della discussione scaturita dal post di Donato Salzarulo sugli anni ’70 (soprattutto nella sua seconda parte: qui) e per continuare ad approfondire, pubblico dal mio “Riordinadiario 2005” le ben meditate e ancora lucidissime e attuali “Sette tesi sul terrorismo nel Ventunesimo secolo” di Peppino Ortoleva. Apparvero il 5 agosto di quell’anno sul sito della LUHMI (Libera Università di Milano e del suo hinterland, promossa da Sergio Bologna) e vale la pena rileggerle e rifletterci. Aggiungo il mio intervento e le conclusioni dello stesso Ortoleva (purtroppo non più accessibili on line a quanto vedo, ma di cui avevo conservato una copia). Chi volesse conoscere il resto della discussione lo trova qui (andando in ‘Archivio’ > ‘Sul terrorismo’). Un’ultima precisazione. Ad Ortoleva, che nella sua replica scriveva: «La mia posizione sulla violenza politica implica un corollario, su cui credo Ennio non sia d’accordo. In materia di violenza politica l’etica della convinzione (per rifarci al binomio weberiano rimesso in circolazione da Bobbio) non serve a nulla: se si agisce sul terreno della storia è su questo che si deve essere giudicati; se si coinvolgono altre vite non si può pretendere di essere giudicati solo sulla propria coscienza», rispondo sia pur a distanza di anni di concordare invece in pieno con lui: no, per me pure non è la coscienza individuale (o soggettiva) a misurare da sola il valore di un’azione. Lo può essere (forse) un “io/noi” capace di proporre e attuare – fosse solo per poco tempo (nella storia le rivoluzioni sono lampi) – un progetto razionale e condiviso evitando sia i deliri incontrollati dell’”io” sia quelli standardizzati dei “noi” eterodiretti. [E. A.]
* * * *
Sette tesi sul terrorismo nel Ventunesimo secolo
di Peppino Ortoleva
1. Il terrorismo è un’arma. E’ un’arma peculiare, certo, per il tipo di “combattente” che richiede e che crea, e soprattutto per il carattere indiretto della sua azione, che non mira a infliggere danni alle forze avversarie ma a disorientare l’opinione pubblica.
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Non c'è tempo da perdere
Come industria 4.0 cambierà il modo di produrre
di Matteo Gaddi e Nadia Garbellini
Delocalizzazioni e Industria 4.0 sono due fenomeni molto dibattuti, ma raramente presi in considerazione congiuntamente. Eppure, come vedremo, entrambi concorrono all’evoluzione della geografia del Capitale, alimentandosi a vicenda.
Le imprese delocalizzano, ci viene detto, perché in Italia non trovano un clima favorevole al business. Le ragioni sono le più disparate: instabilità politica, eccessiva rigidità del mercato del lavoro, carenze infrastrutturali, quadro normativo eccessivamente articolato, tassazione troppo elevata, e così via.
La realtà, non è difficile capirlo, si presenta ben diversa: l’UE è una grande area di libero scambio, all’interno della quale si sono aboliti i confini alla circolazione di merci e capitali – e persone, limitatamente ai cittadini dell’area – in presenza di enormi disparità per quanto riguarda normative, standard sociali e ambientali, salari, regimi fiscali.
Ciò genera enormi possibilità di arbitraggio per le grandi imprese, che possono decidere di collocare sede fiscale, casa madre, impianti produttivi e uffici amministrativi in paesi diversi, a seconda della convenienza. Quindi, la strategia ottimale per ciascun paese è quella di specializzarsi in una determinata funzione, offrendo al Capitale tutte le condizioni ottimali per una allocazione geografica efficiente delle fasi produttive.
Naturalmente, gestire queste catene produttive lunghe è molto complesso, poiché implica il coordinamento di una lunga serie di fasi differenti, collocate in aree geografiche distinte – e soggette a normative diverse. L’attività di ricerca è stata pienamente organica a questa strategia, ed è stata indirizzata verso lo sviluppo di nuove tecnologie in grado di facilitare il processo di centralizzazione senza concentrazione.
“Lo sviluppo della tecnologia avviene interamente all’interno [del] processo capitalistico. [...] Lo sviluppo capitalistico della tecnologia comporta, attraverso le diverse fasi della razionalizzazione e di forme sempre più raffinate di integrazione, un aumento crescente del controllo capitalistico.” (Panzieri, 1961)
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Libra. Ovvero la naturale smisuratezza del denaro
di Sebastiano Isaia
Dieci anni fa Facebook contava 175 milioni di iscritti, «guadagnando altre due posizioni e scavalcando [quanto a popolazione] Pakistan e Bangladesh. “Se Facebook fosse un Paese – aveva scritto un mese fa il suo fondatore Mark Zuckerberg –, sarebbe quello con l’ottava popolazione mondiale, superando Giappone e Russia». Così scriveva Il Corriere della Sera il 9 febbraio del 2009. Con oltre 2,4 miliardi di utenti Facebook è oggi il Paese più popoloso del pianeta. Mi si obietterà che stiamo parlando pur sempre di un Paese virtuale, di un luogo che non esiste nella “concreta realtà”, di qualcosa che esiste solo in una dimensione algoritmica, tant’è vero che Facebook non è una Nazione, non ha uno Stato, non ha un esercito, non ha («e non deve avere!») una moneta sovrana. A questa legittima, sebbene un po’ ingenua e poco “dialettica” obiezione, mi permetto di rispondere con un’altra domanda: ma credete davvero che per il Capitale ha un senso porre la distinzione “ontologica” tra virtuale e reale? Perché dei rapporti sociali capitalistici, oggi dominanti su scala mondiale, qui stiamo parlando, e di nient’altro. E scrivendo rapporti sociali capitalistici non alludo solo a una dimensione “classicamente” economica, tutt’altro, tanto più che la stessa distinzione tra una sfera economica e una sfera esistenziale è sempre più evanescente, poco significativa, se non francamente inesistente. Per dirla con Massimo Troisi – e attraverso la mediazione di Marx, nella cui barba mi impiglio continuamente –, credevo fosse economia e invece era la vita. E viceversa.
Ciò che mi appare di gran lunga più significativo e degno di analisi (analisi che qui nemmeno tenterò) a proposito di Libra non è tanto l’intenzione che muove lo scabroso progetto (si tratta del vecchio e caro profitto, di cos’altro?) o la sua concreta realizzabilità nel medio o nel lungo periodo, quanto la sua “ontologia sociale”, il suo essere la perfetta espressione di tendenze economiche e sociali che rimontano molto indietro nel tempo e che sono intimamente legate al concetto stesso di capitale, oltre che, ovviamente, alla sua prassi. Dirompente non è l’idea imprenditoriale in sé, che a suo modo è anzi già vecchia (oggi le tecnologie hanno un grado di obsolescenza che tende alla velocità della luce), ma la scala, la dimensione sociale e geoeconomica che essa abbraccia: la globalizzazione capitalistica minaccia un nuovo scatto in avanti, e verso territori finora non esplorati fino in fondo. Di qui le preoccupazioni di diverso segno che hanno accompagnato il lancio mediatico di Libra.
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Dati INVALSI: “fotografia” o strumento di intimidazione matematica?
di Redazione ROARS
Arriva l’estate e arriva l’ennesimo rapporto sui test INVALSI. Le metafore dei test come “fotografia” della realtà e del “termometro” si sprecano. La Presidente Ajello ha in una recente intervista radiofonica usato la metafora degli esami del sangue: i risultati dei test INVALSI somigliano alle percentuali di colesterolo nel sangue. Proprio quest’ultima analogia può essere utile per capire bene cosa misurano le prove INVALSI. Nel sangue il colesterolo c’è davvero e può essere osservato. Le prove INVALSI, oltre alle famigerate “competenze”, dal 2016 affermano di stimare statisticamente anche un’altra grandezza che non è direttamente osservabile: il “valore aggiunto”. I test servono alle scuole per migliorarsi, si dice. Devono essere svolti da tutti: è una questione di equità, si aggiunge. Ma lo sanno i commentatori che le scuole non hanno alcun accesso alle prove svolte dai loro studenti? Che da quanto le prove sono computer based ciò che viene loro restituito è solo un file che associa il punteggio x all’allievo y, senza nessun’informazione su come quel punteggio sia stato ottenuto? Cosa non ha saputo lo studente? Dove e cosa ha sbagliato? L’assenza di questa informazione essenziale per qualsiasi insegnante, per qualsiasi concreto miglioramento in classe svela la sola e vera funzione della prova. All’INVALSI interessa raccogliere dati relativi a ciascuno studente nel tempo. I punteggi dei test certificheranno le competenze di ognuno. E quelle certificazioni piano piano subentreranno ai titoli di studio rilasciati dalle scuole pubbliche. Ecco a cosa servono i test INVALSI ed ecco perché la rilevazione è censuaria e non, come accade nel resto del mondo, campionaria.
“Una fotografia disarmante”, la definisce Christian Raimo; “due Italie, una che legge e scrive e parla inglese e l’altra no”, scrive Rai news; “un’Italia che non ama il merito e non capisce che la sana competizione è vitale per la crescita”, chiosa il Corriere della Sera; “il 35% degli studenti in terza media non comprende un testo in italiano”, continua Repubblica; “sono la foto di un Paese non democratico” commenta eccentricamente Marco Rossi Doria sul Fatto quotidiano. E tanti altri.
La pubblicazione annuale del rapporto dei dati INVALSI produce ciclicamente, almeno dal 2008 in avanti, anno in cui le prove diventano censuarie – ovvero destinate a tutti gli studenti italiani delle classi testate – paginate di indignazione e sconcerto mediatico.
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La guerra di tutti
Adriano Ercolani intervista Raffaele Alberto Ventura
Pochi libri aiutano a comprendere il presente come La guerra di tutti di Raffaele Alberto Ventura.
Forse solo La società della performance di Maura Gancitano e Andrea Colamedici, affrontando la contemporaneità da un’angolazione diversa, offre la stessa mole di spunti e sentieri di riflessione.
Ventura, intellettuale da anni molto apprezzato per le sue riflessioni sul blog Eschaton, ha destato molto clamore col suo libro precedente, Teoria della classe disagiata (premiato anche da un ardito adattamento teatrale), un testo che ha mostrato le già note qualità dell’autore: una notevole erudizione, una spiccata capacità di analisi, una non comune libertà da schieramenti (post) ideologici.
Il primo libro era una fotografia, spietatamente realistica, della condizione paradossale della classe media intellettuale contemporanea, composta da intelligenze brillanti destinate a vivacchiare nell’assoluta negazione di ogni riconoscimento simbolico dei propri talenti e competenze.
Una critica ricorrente tra i numerosi lettori è stata la mancanza di una pars costruens.
Ecco, dunque, La guerra di tutti: già nel titolo la risposta appare beffardamente consapevole. Come il titolo del primo libro faceva il verso al testo ormai classico di Thorstein Veblen, La teoria della classe agiata (di cui rovesciava la prospettiva), nel secondo c’è un riferimento evidente a Thomas Hobbes che indicava lo stato di natura, antecedente a ogni legge, come “Bellum omnium contra omnes”.
Fin dal titolo, l’autore mette in scena la crisi delle istituzioni politiche attuali. Il sottotitolo indica i macrotemi della riflessione: “populismo, terrore e crisi della società liberale”.
Il libro, oltre a essere, come già detto, una miniera di spunti di approfondimento senza troppi riscontri nel panorama attuale, ha il grande pregio di conciliare un alto livello intellettuale con benedette concessioni alla cultura pop: ecco, quindi, Ventura usare intelligentemente Debbie Harry in Videodrome di Cronenberg, come metafora del contagio populista tramite i media,; Captain America e Iron Man per spiegare il dibattito di teoria del diritto tra Carl Schmitt e Hans Kelsen; l’invasione dei Borg in Star Trek come spunto di riflessione sulla Rivoluzione Francese; V for Vendetta sul concetto hobbesiano di Leviatano; Rihanna per comprendere Il pendolo di Foucault di Umberto Eco.
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Salario minimo e cuneo fiscale: la fregatura è servita
di coniarerivolta
Tra le più conosciute scene del cult ‘L’allenatore nel pallone’ vi è una bizzarra conversazione tra Oronzo Canà, coach della Longobarda, una matricola della Serie A, e il patron della squadra, il pittoresco presidente Borlotti. I due si trovano impelagati nelle trattative del calciomercato, alle prese con squali e magnati del settore, e stanno cercando di imbastire una rosa sufficientemente competitiva per raggiungere una miracolosa salvezza. Borlotti, che di certo non ha né la stoffa né le disponibilità delle big del calcio italiano, si trova dunque a dover ingegnare astruse operazioni per poter portare qualche giocatore alla corte di Canà. Appena uscito da un colloquio con l’Avvocato Agnelli, Borlotti confida entusiasta al suo allenatore: “Ma lo sa che noi attraverso le cessioni di Falchetti e Mengoni riusciamo ad avere la metà di Giordano? Da girare all’Udinese per un quarto di Zico e tre quarti di Edinho”. Di fatto, la Longobarda stava cedendo i suoi due unici giocatori di livello in cambio di eventuali comproprietà future. Insomma, una fregatura bella e buona per il povero Canà.
Una scena simile si sta consumando in questi giorni nei corridoi del Palazzo, dove si discute delle condizioni materiali di vita di milioni di lavoratori italiani, il cui destino sembra somigliare a quello della Longobarda di Canà.
Sappiamo che c’è attualmente sul tavolo una proposta di legge sull’introduzione di un salario minimo che, seppur soggetta ad un futuro iter parlamentare che potrebbe comunque portarla a svuotarsi del suo contenuto più meritevole, rappresenterebbe per molti lavoratori un miglioramento delle condizioni retributive. Tale disegno di legge, a firma della senatrice Nunzia Catalfo (M5S), oltre ad essere stato criticato dai soliti portaborse degli interessi dominanti, è stato, in maniera tutt’altro che sorprendente, oggetto degli strali di Confindustria.
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Giorni che rischiarano decenni I
Giornalisti, scoop o truppe mediatiche?
di Norberto Natali
Riceviamo e volentieri pubblichiamo
L’obiettività e la neutralità sono due categorie molto diverse.
La prima è possibile e necessaria, è la premessa essenziale per un approccio scientifico alla realtà, deve e può essere perseguita anche con una logica di parte: per esempio, si può difendere apertamente l’interesse di una classe ma con obiettività, in primo luogo ammettendo da che parte si sta.
La neutralità, invece, è un’illusione, è già una manipolazione non obiettiva (“ideologica”) del proprio ruolo: specie nella società divisa in classi, è una pura illusione la “neutralità” della stampa ma anche di altre sovrastrutture (la giustizia, la cultura, ecc.), invocarla o attribuirsela è il primo indizio della mancanza di obiettività. La stampa, per esempio, è borghese anche quando espone o denuncia quanto vi è di negativo e sbagliato nella società capitalista, perché si limita all’indicazione di singoli fatti isolati, slegati dal resto e generalmente li presenta come dovuti a disfunzioni casuali o ad occasionali “colpe” di singoli, anch’essi considerati isolatamente.
La stampa borghese evita accuratamente di far comprendere ai lettori che tanti mali della società, in realtà, sono effetto (più o meno indiretto) di una comune causa originaria: per esempio il potere della borghesia, l’assetto capitalistico della società e la decadenza che esso genera. A maggior ragione, è cura della stampa borghese fare in modo che i suoi utenti non prendano coscienza che tanti guai collettivi potrebbero avere una soluzione duratura, ampia e profonda: ad esempio, con la rivoluzione, la sostituzione della classe al potere, il superamento del capitalismo.
Non sorprende che la stampa borghese, quindi, sia proprietà (diretta o indiretta) sul piano internazionale, di un piccolissimo gruppo di monopolisti, e che questi trovino anche il modo di guadagnarci economicamente, da tale proprietà, non solo politicamente ed ideologicamente.
Qui non si lamenta, dunque, la mancata “neutralità” della stampa borghese, né la sua proprietà e neanche l’esagerazione con cui manipola l’orientamento pubblico oltre i limiti fin qui descritti: in Italia in particolare (con il decisivo aiuto della gran parte della sinistra che ha rinunciato, oltretutto, a contrapporre una stampa di classe, proletaria, come ce n’era fino ad alcuni decenni fa) è riuscita a nascondere ogni conflitto ed interesse di classe.
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Democracy and its crises. Le lezioni berlinesi di Charles Taylor
di Paolo Costa
[Dal 17 al 19 giugno 2019 Charles Taylor ha tenuto a Berlino la prima edizione delle Benjamin Lectures, istituite dallo Humanities and Social Change Center, diretto da Rahel Jaeggi. Tema delle tre lezioni era la crisi delle democrazie contemporanee. Negli stessi giorni, sempre nella capitale tedesca, l’Istituto Italiano di Cultura ha organizzato una settimana di eventi entro la cornice del progetto DediKa per celebrare Giorgio Agamben]
Ho l’impressione, a volte, che non si rifletta a sufficienza sul peso che il culto delle celebrities ha anche nella ricerca scientifica – e sulla stranezza di tutto ciò.
Lo scambio tra celebrità e sapere è noto e reciprocamente vantaggioso. La celebrity intellettuale porta in dotazione un condensato di reputazione che non è più oggetto di discussione e tale reputazione cristallizzata gratifica di luce riflessa anche l’istituzione che riesce a reclutarla. La celebrity, a sua volta, se non ha scrupoli, può massimizzare l’Effetto San Matteo di cui gode per default e ricevere in cambio denaro, opportunità e, last but not least, vagonate di adulazione. Questo caso da manuale di ingiustizia epistemica ribadisce una delle leggi più affidabili della socialità umana: the rich are bound to get richer and the poor to get poorer: that’s the way it is.
Soprattutto per istituzioni che faticano oggi a legittimarsi, come i centri di ricerca umanistici, la notorietà – un indicatore incontestabile del fatidico “impact factor” – è spesso l’unico surrogato plausibile dell’utilità percepita, ovvero delle remuneratività.
Ma vi siete mai messi nei panni di una celebrity? Si direbbe un esperimento mentale interessante. Se la reputazione scientifica è meritata, questa dovrebbe andare di pari passo con l’umiltà. Il detto socratico “so di non sapere”, non è infatti un tributo alle buone maniere o, peggio ancora, un gesto di falsa modestia. È il riconoscimento prudente della sproporzione tra l’estensione e la profondità delle grandi questioni filosofiche che stanno sullo sfondo di qualsiasi indagine scientifica e la portata reale delle capacità della mente umana, o meglio delle episodiche performance cognitive di una persona in carne e ossa.
Ora, immaginate che un nuovo Centro di ricerca, con sede in una prestigiosa capitale europea, vi inviti a tenere un ciclo di lezioni pubbliche su una questione cruciale della contemporaneità – ad esempio, la crisi della democrazia – voi come vi disporrete psicologicamente all’evento?
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Non c'è democrazia senza conflitto
di Ivano Volpi
Il testo riproduce la relazione di Ivan Volpi (Potere al Popolo Udine) fatta a Gorizia il 16 giugno 2019 nel corso dell’incontro organizzato da Senso Comune Udine “Fare la Democrazia”
Democrazia e conflitto: i primi pensieri vanno al sessantotto, alla Guerra di Liberazione, alla lotta degli operai per le otto ore lavorative. Ma nel mondo d’oggi che cosa significa pensare al binomio democrazia e conflitto? Il mondo d’oggi è un mondo capitalistico, perché capitalistica è la forma di vita che viviamo, un vita che ha adottato un idea di società a cui è stato dato il nome di neoliberismo: un’idea che ha visto la luce e si è espansa attraverso uno dei modellamenti della natura umana più drastici e radicali di sempre. Il neoliberismo permette di fare la democrazia, o meglio ancora di fare la democrazia che vorremmo? Tollera l’esistenza di quegli elementi conflittuali che potrebbero essere l’ antivirus del processo democratico? Con ragionamenti suggestioni e alcuni accostamenti cercheremo di capirlo.
Ho parlato di neoliberismo come di un’ idea di società, una visione del mondo; quattro sono i pilastri che sostengono questa costruzione. Il primo pilastro è il METODO, quello che si rifà all’individuo: parliamo di individualismo metodologico in quanto al centro dell’agire c’è solo l’individuo; solo l’ individuo ha una sua reale consistenza ed esistenza reale nella storia. Quale la diretta conseguenza di questo? L’indebolimento della rete che gli individui creano, la società, classi sociali, i corpi intermedi.
Il secondo pilastro è la GERARCHIA. Quando presupponiamo la debolezza delle classi sociali ma che conta solamente l’individuo ne consegue che l’unica libertà che deve essere tutelata in assenza di corpi sociali da preservare e difendere, è quella individuale o, come si sente spesso dire, dell’”agente rappresentativo”; sull’ individuo deve essere declinata la libertà non su costruzioni ideologiche di sinistra, come la classe lavoratrice o gli sfruttati. La società non esiste diceva la Thacher. Il conflitto, dicono i liberisti, non ha senso perché ci mettono gli uni contro gli altri. Una volta queste libertà venivano chiamate diritti borghesi e oggi possiamo definirle diritti civili. Centrando i discorsi e i ragionamenti sui diritti civili non possiamo che constatare che si rimane imprigionati dalla stessa ideologia che fa da vestito alla democrazia liberale che stiamo criticando. Senza i diritti sociali i diritti civili sono solo accessori luccicanti.
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Nicaragua, i costi della guerra a quarant'anni dalla rivoluzione
di Geraldina Colotti
I costi. Non siamo più capaci di assumerci i costi: soprattutto nelle sinistre dei paesi capitalisti, dove pur ti insegnano a calcolare, ovvero a lucidare le scarpe del padrone, fin da quando emetti il primo vagito come “cittadino consumatore”. Intendiamo i costi dei cambiamenti veri, quelli che – da Spartaco a Lenin – hanno consentito agli oppressi di strozzare gli oppressori stringendogli al collo le loro catene. “Non importa se non mangiamo per un mese, perché non mangiamo da 44 anni”, gridava il popolo nicaraguense mentre lottava per liberarsi dalla morsa della dittatura somozista, la più longeva del continente.
Nell'anno che precede la vittoria del Frente sandinista, avvenuta il 19 luglio del 1979, mentre l'insurrezione popolare avanza, le forze imperialiste fanno di tutto per ottenere la resa della popolazione: oltre al cibo, manca la luce, l'acqua. Le scuole sono chiuse. Gli studenti hanno usato i banchi per costruire barricate, hanno scambiato i libri con armi di qualunque tipo: bombe artigianali, pistole, pietre...
Pochi mesi prima, il dittatore Somoza ha ricevuto in prestito dagli Stati Uniti 20.160.000 dollari per l'acquisto di armi con le quali ha promesso di liquidare “gli insorti, i sovversivi”. L'allora presidente USA Jimmy Carter gli ha inviato una lettera di congratulazioni per i miglioramenti ottenuti nel campo dei... diritti umani. Intanto, un ex reduce dal Vietnam pubblica apertamente sui giornali statunitensi un appello per reclutare mercenari da impiegare contro i sandinisti. Oltre 1000 rispondono all'appello altrettanto apertamente, senza che nessuna autorità intervenga per impedirlo.
Allora il mondo è ancora diviso in due blocchi, la lotta al comunismo è senza quartiere. Dal Cile al Brasile – che, insieme all'Argentina, alla Spagna, alla Francia e a Israele fornisce armi e mercenari a Somoza – sale l'allarme contro “il castro-comunismo che, grazie alla lotta contro Somoza in Nicaragua, sta mettendo un piede irremovibile nel continente”. I fautori delle democrazie di tipo occidentale, com'è allora quella venezuelana del presidente Carlos Andrés Pérez chiedono l'intervento dell'OSA per porre fine alla “guerra civile”.
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Libra, Trump, Facebook e il resto
di Vincenzo Comito
Zuckerberg e soci vogliono lanciare la loro moneta elettronica nel 2020 facilitando scambi online e accesso al credito. In Cina Alibaba e Tencent da anni forniscono servizi simili, ma per il gigante Libra si dovrà aspettare: non si può autorizzare una rete di pagamenti internazionale privata senza contrappesi
I due tempi del progetto
L’annuncio fatto recentemente da parte di Facebook, insieme ad un certo numero di altri soci quasi tutti statunitensi (tra i quali citiamo soltanto Uber, Lyft, Visa, Mastercard, eBay), relativo al prossimo lancio di una moneta elettronica, la Libra, da un certo punto di vista e per quanto riguarda almeno i suoi primi passi annunciati non apporta apparentemente quasi niente di nuovo.
Ma bisogna distinguere in realtà un primo e un secondo tempo ideali nell’iniziativa, anche se dal punto di vista pratico non si riscontra una separazione netta tra i due momenti.
Nel primo e più immediato passo, che dovrebbe decollare nel 2020, Facebook pensa alla creazione di una nuova struttura, denominata Calibra. Si tratta in sostanza di un’app, che consiste in un sistema di pagamenti inserito nei suoi servizi di messaggistica, in modo tale che gli utilizzatori possano facilmente e con poco costo inviare del denaro a parenti e amici in patria e all’estero, o anche fare acquisti; inoltre, secondo le dichiarazioni dei promotori, si aprirebbe la possibilità di offrire dei servizi finanziari di base a quei 1,7 miliardi di persone nel mondo che non dispongono di alcun conto bancario.
Ma lo sbocco finale del progetto, il suo ideale secondo tempo, consisterebbe in ben altro, nell’affermazione cioè di una moneta elettronica privata a livello mondiale, mentre la nuova iniziativa diventerebbe anche la più grande organizzazione finanziaria del mondo.
L’organizzazione che gestirà il progetto afferma in effetti che “il mondo ha bisogno di una moneta globale, digitale, che metta insieme le caratteristiche delle monete migliori: stabilità, bassa inflazione, larga accettazione a livello mondiale, flessibilità”.
La Libra potrebbe alla fine, così, tendere a scavalcare le banche centrali, i regolatori del settore finanziario nonché gli attuali sistemi monetari dei vari paesi (Stoller, 2019). Si tratterebbe di un progetto molto audace, ma d’altro canto di un’enorme e intollerabile concentrazione di potere; quello che può meravigliare è che si sia avuto l’ardire di proporlo alla luce del giorno, basandosi probabilmente sulla grande forza di mercato e sullo sperato potere di lobbying del gruppo proponente, che almeno sino mad oggi hanno fatto sì che i grandi gruppi dell’economia numerica statunitense abbiano goduto di una sostanziale impunità.
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Dalla leadership al leaderismo
di Carlo Galli
Che in politica l’obbedienza vada alla norma razionale, e non al comando di un singolo, è l’idea chiave della filosofia politica moderna. Non il Principe ma lo Stato rappresentativo, non Machiavelli ma Hobbes, è il cuore di questo modo di pensare, che non lascia spazio teorico alla figura verticale del capo perché si concentra sul contratto orizzontale di tutti con tutti: i cittadini devono obbedienza a un sovrano rappresentativo artificialmente creato, del quale non interessano le doti personali ma la struttura e il comportamento razionale; un sovrano che può essere anche un parlamento, che si esprime attraverso leggi neutre e universali. Anche la tradizione marxista ritiene, in linea di principio, che la politica non sia spiegabile con l’agire di grandi personalità, ma con leggi storiche oggettive, con processi e forze reali impersonate in soggetti collettivi, borghesi e proletari, che sono gestite da partiti e apparati, e che sono conosciute dalla scienza dialettica.
Eppure, nella concretezza storica non ci si è mai liberati dalla figura del leader. La personalizzazione del potere è talmente pervasiva che si potrebbe scrivere la storia come una successione di capi: il potere politico ha quasi sempre il volto e il corpo del leader, che guida e conduce. Nella modernità non avviene senza leader la costruzione degli Stati, che hanno bisogno di idee, interessi e passioni socialmente diffuse ma che devono anche essere interpretate da singole grandi personalità, capaci di prendere decisioni di portata storica, di rappresentare i bisogni del tempo. Così Napoleone dopo la battaglia di Jena era per Hegel lo Spirito del mondo che entrava a cavallo a Berlino; così Italia e Germania sono nate da Cavour e da Bismarck; la tradizione comunista si è affermata grazie alla persona di Lenin, e poi ha inventato il culto di Stalin. Nei grandi momenti fondativi, o nelle grandi crisi rivoluzionarie, nel leader si concentra l’essenza storica di un Paese: Mussolini, secondo una leggenda, nel 1922 porta al re l’Italia di Vittorio Veneto; Hitler incarna la paura e la sete di revanchedella Germania; Roosevelt ha guidato una nazione fuori dalla depressione e ne ha fatto una potenza imperiale; De Gaulle nel 1940 impersona la Francia; Stalin nella seconda guerra mondiale difende l’esistenza non solo dell’Urss ma della madre Russia; Churchill si identifica con l’epopea dell’Impero britannico. Tutti leader che intercettano e suscitano, nel bene e nel male, nella libertà o nella dittatura, lo spirito di un Paese, l’essenza storica di uno Stato.
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Perché il Movimento 5 stelle ha perso le elezioni europee?
di Vincenzo Alfano
Analisi del voto e correlazione con le domande del reddito di cittadinanza per provincia
Il reddito di cittadinanza è stata la policy-bandiera per il MoVimento 5 Stelle sin dalla campagna elettorale per le elezioni politiche del 2018. Difatti la promessa di attuazione del reddito pare esser stata un elemento decisivo per l’affermazione di quel partito nelle urne. Dopo l’attuazione, i cosiddetti grillini hanno appena un anno dopo visto drammaticamente ridimensionarsi il loro elettorato. E’ ciò dovuto ad un malcontento per l’attuazione della politica? Era questa stata sopravvalutata sin dall’analisi dell’esito del 2018? Oppure le elezioni politiche e quelle europee non sono davvero comparabili? Questo articolo si propone di fare chiarezza sul fenomeno rispondendo a queste domande, proponendo un’analisi formale della correlazione tra voti e domande del reddito di cittadinanza per provincia.
Introduzione
Le ultime elezioni europee, svoltesi appena pochi giorni fa nel nostro Paese, hanno visto un radicale cambio nelle preferenze accordate dagli elettori ai principali partiti. In particolare, il grande sconfitto è il MoVimento 5 Stelle (d’ora in avanti M5S), primo partito alle elezioni politiche di appena un anno prima, e solo terzo partito alle europee, avendo perso circa sei milioni di voti.
Fig. 1 Voti alle politiche del 2018 per il M5S nelle diverse province italiane. Elaborazione da dati Ministero degli interni
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