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Libia: la piazza chiede diplomazia, la Germania chiede le bombe
E l'Italia, chi ascolterà?
Patrick Boylan
Dopo le manifestazioni riuscite di sabato contro la guerra permanente, urge ora incalzare di continuo il governo, sollecitato da più parti a mandare l'Italia in una nuova e catastrofica avventura militare in Libia
Venticinque anni di guerra evidentemente non bastano a certi paesi della Nato, preoccupati per il caos che regna in Libia.
Venticinque anni di guerra sono invece fin troppi per le migliaia di italiani scesi nelle piazze di molte città italiane sabato scorso per esigere la fine di un susseguirsi ininterrotto di guerre nel mondo, iniziate il 16 gennaio del 1991 con l'operazione “ Tempesta nel deserto”. Quel giorno attaccarono l'esercito iracheno di Saddam Hussein le forze armate degli Stati Uniti affiancate da quelle di numerosi alleati, ivi compresa l'Italia – e ciò malgrado il divieto della sua Costituzione di partecipare alle guerre offensive. Purtroppo, dopo aver assaggiato quel primo frutto proibito, l'Italia si è data poi ad una scorpacciata durata un quarto di secolo: nel 1996, la guerra in Kosovo; nel 2001 (e fino ad oggi), la guerra in Afghanistan; nel 2003 (e fino ad oggi), la guerra in Iraq e, poi, nel 2011 la guerra in Libia e, indirettamente, la guerra in Siria.
E oggi l'Italia sta forse per partecipare ad una nuova guerra in Libia, voluta dai paesi della NATO, Germania in testa , per portare l'ordine nel caos libico con i missili e con le bombe: infatti, per la Ministra tedesca alla Difesa von der Leyen, è l'unico modo per dare alla Libia una speranza per il futuro e per salvarla da un oppressore. Ossia, la stessa argomentazione di quattro anni fa, con “unità nazionale” che rimpiazza “primavera araba” come speranza e “Isis” che rimpiazza “Gheddafi” come oppressore.
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Tempi complessi
P. Bartolini intervista Pierluigi Fagan
Il pensiero della complessità e l'interpretazione del mondo. Intervista a Pierluigi Fagan
Lei si occupa da anni di "complessità" declinando con rigore e ironia una critica duplice: al capitalismo globale, con la sua classe politica e imprenditoriale, e ai nemici del Sistema che continuano a ragionare adottando schemi logici vecchi almeno di due secoli. Quali sono, a suo avviso, gli errori principali di coloro che, un giorno sì e l'altro pure, vorrebbero capovolgere il capitalismo e puntualmente non vi riescono?
Appunto il fatto che un giorno e l'altro pure, tentano, non vi riescono ma non riescono neanche a cumulare qualche avanzamento sostanziale nell'opera e dopo un secolo e mezzo non si pongono la domanda su cosa non va di questo loro tentare e non riuscire. Il sistema anticapitalista ha il suo problema nella sua stessa definizione, che è negativa. L'esercizio del negativo ha ragioni logiche che rispondono a valori, ma l'ordinatore del nostro vivere associato risponde solo alla capacità che ha di fornire un qualche tipo di adattamento. Possiamo criticarlo in quantità e qualità a piacere ma fino a che non verrà progressivamente mosso, manipolato intenzionalmente, per diventare qualcos'altro che produca miglior adattamento (magari non solo materiale, ma neanche solo ideale), da una parte rimarranno idee in forma di parole, dall'altra permarranno fatti in forma di prassi.
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Walter Benjamin. A Critical Life
Roberto Gilodi
Di fronte alle 700 pagine di Walter Benjamin. Una biografia critica, recentemente uscito da Einaudi, di cui sono autori i curatori americani delle opere benjaminiane Howard Eiland e Michael W. Jennings, viene da chiedersi cosa alimenti questa inesausta curiosità biografica nei confronti del filosofo, critico e scrittore tedesco.
Da quando Adorno e Scholem iniziarono, dopo la fine della seconda guerra mondiale, a pubblicare presso l’editore Suhrkamp le sue opere, vide la luce quasi da subito una quantità impressionante di studi, variamente assortiti tra ricerca, testimonianza e ricostruzione esistenziale. Scritture di tutti i tipi: indagini micrologiche, virtuosismi filologici, ossessioni archivistiche e fantasiose ricostruzioni narrative[1]. Il perché di questo inesausto accanimento biografico sta forse in una singolare caratteristica che Benjamin condivideva con altri intellettuali degli anni di Weimar, ma che in lui ebbe una declinazione particolarmente accentuata: la capacità di praticare il ‘saggismo’ non solo come uno stile di scrittura e una forma di pensiero ma come uno stile di vita. L’icona ideale che corrisponde a questa sintesi di pensiero e modo di vivere è il flâneur, colui che si sottrae alla razionalità strumentale – quella delle azioni finalizzate, del camminare verso una meta – per lasciarsi sorprendere dalla verità che si cela nella banalità del dettaglio: la sua apparente passività è la condizione che gli permette di vedere ciò che la massa in movimento non vede e non può vedere perché impedita dagli automatismi percettivi imposti dall’ordine sociale al quale è sottomessa. Il flâneur, e Benjamin si è identificato con esso fin dagli anni giovanili, è infatti colui che si sottrae alla tirannia del funzionale per osservare il mondo con la gratuità dell’esegeta a cui interessa scoprire la verità anziché perseguire un beneficio immediato. Ma non solo. Il flâneur è anche chi scopre gli indizi che rivelano il senso di un’epoca e la direzione del tempo storico.
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Quarto, Juncker, Etruria, Sindona ed il Bail In
Cosa c’entrano uno con l’altro?
di Aldo Giannuli
Quarto è una ridente cittadina della provincia di Napoli, con 40.000 abitanti. Certo, non un centro piccolissimo, ma insomma, neanche una metropoli come New York o Shanghai e neppure Milano o Roma. Se ne parla ininterrottamente da dieci giorni. Per cosa poi?
Perché un consigliere del M5s avrebbe fatto pressioni sulla sindaca (parimenti del M5s) a proposito di alcune concessioni e/o appalti, e di un abuso edilizio per una mansarda, pressioni peraltro respinte dall’interessata. A questo sarebbero seguite imprecisate minacce e/o ricatti. Il ricatto riguarderebbe un abuso edilizio riguardante una mansarda di proprietà del marito della sindaca (mi adeguo alla vague femminista per cui bisogna declinare al femminile, ma è un orrore linguistico, sappiatelo) ora indagato. Non so a voi, a me non pare una notizia da prima pagina. D’accordo, la vicenda è tutta pasticciata, ma alla fine, stiamo parlando di pressioni per favori non ricevuti e di un abuso edilizio che è veramente piccola cosa. Certo: Quarto è un comune sciolto più volte per infiltrazioni camorristiche (come ce ne sono a centinaia) ed è giusto che ci sia un po’ più di attenzione, ma che tenga la prima pagina per dieci giorni, mi pare cosa un po’ sproporzionata: se vi prendete la briga di misurare in righe lo spazio dedicato, in questi 10 giorni, agli attentati di Istanbul, Dijakarta, Burkina Faso, alla crisi della borsa di Shanghai, allo scandalo Renault, a quello della Banca Etruria ed alla riforma costituzionale, noterete che si tratta più o meno dello stesso spazio e, tendenzialmente, un po’ meno.
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Gli spettri dell’innovazione
Benedetto Vecchi
Il capitalista di ventura, l’ingegnere e il pubblicitario. In tre saggi la descrizione di altrettante figure che operano per normalizzare la produzione di nuovi manufatti e idee. Wall Street è diventato il motore della ricerca scientifica di base e applicata. Parola dell’economista e capitalista finanziario William H. Janeway. Per il fisico Guru Madhavan, serve un pensiero sistemico modulare. È questo infatti il segreto per dare via libera alla creatività e produrre buoni manufatti. I cacciatori di idee devono infine conoscere bene «la cultura di strada» per vendere una merce sinonimo di uno stile di vita. Il saggio di Wally Olin per Einaudi
Il capitalista di ventura, l’ingegnere, il pubblicitario. Tre figure attorno alle quali è stata cesellata la retorica dell’innovazione, la parola magica per legittimare socialmente il capitalismo come la forma forse imperfetta ma migliore di tante altre nell’organizzare le relazioni umane.
Il capitalista di ventura è, recita la vulgata, colui che mette in rapporto il denaro con le idee. Ha cioè il compito di raccogliere gli iniziali finanziamenti per far decollare iniziative economiche tese alla produzione di prototipi, che in secondo momento possono diventare prodotti da mettere sul mercato. Definisce dunque lo spazio per l’incontro tra la finanza e la produzione.
Nell’immaginario collettivo è rappresentato come un personaggio eccentrico restio a mostrarsi in pubblico. Opera dietro le quinte, da dove svolge un’opera di paternage rispetto a uomini – le donne sono poco presenti – che possono avere idee brillanti ma sono incapaci di fare i conti con la realtà.
Nella ormai vasta pubblicistica sull’innovazione il venture capitalist è altresì qualificato come un avido ma pragmatico e lucido corsaro: il suo è il pragmatismo del giocatore d’azzardo. Tutto deve essere calcolato, pianificato, anche il rischio di fallimento.
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La sostanza del capitale
Prima parte: La qualità storico-sociale negativa dell'astrazione "lavoro"
di Robert Kurz
L'Assoluto [Absolutheit] e la relatività nella Storia. Per la critica della riduzione fenomenologica della teoria sociale
A ben vedere, quasi sempre si può constatare che esistono delle corrispondenze e delle correlazioni fra mutazioni storiche del tutto diverse, in aree del sapere o sfere della vita apparentemente separate fra di loro. Nel sistema produttore di merci della modernità, già nella sua costituzione primitiva, aree come la filosofia, la medicina, l'economia, le scienze naturali, la politica, il linguaggio, ecc., sebbene non si siano sviluppate secondo lo stesso ritmo, si sono pur sviluppate secondo una direzione comune, riferendosi sempre, oggettivamente, le une alle altre. Il motivo di questa concordanza o correlazione, a volte sorprendente, dev'essere evidentemente cercato nello sviluppo della relativa formazione sociale, la quale costituisce il legame comune intrinseco ai vari domini esistenziali, aree di conoscenze e competenze. Con ciò, tuttavia, si dice che non si può avere un sapere assoluto nel modus esistenziale della temporalità: tutto il sapere, anche quello che sembra puramente oggettivo, "rigido", atemporale, è storico e socialmente condizionato, ed è anche in un certo qual modo (non a caso) relativo.
Apparentemente, questa consapevolezza della relatività costituisce un progresso del sapere avvenuto nel XIX e nel XX secolo, che proviene dalla storiografia (a partire dallo storicismo) e passa dall'economia politica (dottrina del valore soggettiva o relativista), dalle scienze naturali (fisica quantistica), dalla linguistica (Saussure) e dalla filosofia (il "pensiero post-metafisico", la "svolta linguistica"), e sfocia nel generalizzato anti-essenzialismo, e relativismo, postmoderno.
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Il nuovo crollo delle borse in Cina: un’analisi critica
di Ferdinando Gueli
A distanza di sei mesi i mercati finanziari internazionali ripiombano nel panico a causa dei ripetuti crolli dei titoli sulle borse cinesi. Ma ad una più attenta analisi dei fattori reali in campo e del contesto generale, gli allarmismi largamente diffusi a livello mediatico appaiono non del tutto giustificati e “sospetti” di servire da strumento per giustificare altre dinamiche che caratterizzano questa fase fluida del capitalismo contemporaneo
La recente vicenda del crollo delle borse di Shanghai e Shenzhen in Cina ha aperto il nuovo anno tenendo banco sul “grande circo mediatico globale”, parimenti alle tensioni tra Arabia Saudita e Iran ed agli esperimenti nucleari in Nord Corea.
La vicenda, tuttavia, merita di essere analizzata con maggiore attenzione critica per scorporare i fattori effimeri e/o mediatici da quelli reali. È evidente infatti, come già accaduto con le analoghe crisi verificatesi nel mese di luglio 2015, che, per comprendere il reale impatto di questi eventi, non si può prescindere dal collocarli nel quadro più generale dell’attuale congiuntura politica ed economica cinese ed internazionale.
Già l’estate scorsa, su queste colonne, sia Alessandro Bartoloni che Ascanio Bernardeschi avevano evidenziato le caratteristiche tutte particolari dei mercati borsistici cinesi e le cause effettive di quei crolli che, in realtà, erano da imputare ad una serie di fattori endogeni ed esogeni ma molto specifici.
I fatti
I media mainstream internazionali hanno insistito sull’impatto negativo dell’andamento del mercato borsistico cinese a livello globale, anche se non viene data alcuna evidenza di quale sia l’effettiva interdipendenza tra i mercati dei capitali e valutari cinesi e quelli internazionali.
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«La nostalgia non basta, ma è un buon punto di inizio»
V. Montebello intervista Giorgio Agamben
Introduzione
In questa intervista, gentilmente concessa da Giorgio Agamben, si discutono alcuni dei temi più cari a Pier Paolo Pasolini, sia da un punto di vista teoretico che da un punto di vista personale. Agamben conosceva Pasolini e ha interpretato il ruolo di Filippo ne Il Vangelo secondo Matteo. La conversazione si concentra sull’anarchia del potere, la scomparsa delle lucciole e la potenza aristotelica, con l’intenzione di riportare in vita questi concetti, di evocare scenari. Dai ricordi di Agamben al presente, attraverso la strumentalizzazione del cibo, la decadenza delle città, fino al futuro, accennando ad un nuovo modo di abitare e ad una politica che possa esserne all’altezza.
***
Pasolini è stato un lucido analista di quel Potere che definiva «senza volto» e della sua congenita arbitrarietà. A proposito dell’origine anarchica che lo contraddistingue - anarchia che al fondo sarebbe anche il suo fine - e al tuo riferimento a Salò o le120 giornate di Sodoma in Nudità («La sola vera anarchia è quella del potere»), come s’inserisce l’ingovernabile, «ciò che è al di là del governo e perfino dell’anarchia»? Si può pensarlo come una forma di resistenza prima, di principio, invece che di reazione?
Il potere si costituisce catturando al suo interno l’anarchia, nella forma del caos e della guerra di tutti contro tutti. Per questo l’anarchia è qualcosa che diventa pensabile solo se si riesce prima ad esporre e destituire l’anarchia del potere. Klee, nelle sue lezioni, distingue il vero caos, principio genetico del mondo, dal caos come antitesi dell’ordine. Nello stesso senso penso che si debba distinguere la vera anarchia, principio genetico della politica, dall’anarchia come semplice antitesi dell’archè (nel suo duplice significato di ‘principio’ e ‘comando’). Ma in ogni caso essa è qualcosa che diventerà accessibile solo quando una potenza destituente avrà disattivato i dispositivi del potere e liberato l’anarchia che essi hanno catturato.
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Incertezza e instabilità: la Teoria Generale di Keynes 80 anni dopo
Federico Stoppa
Riprendere in mano un libro di teoria economica scritto ottant’anni fa; studiarlo a fondo, cercando chiavi interpretative per il capitalismo contemporaneo, e strumenti operativi in grado di emendarne i suoi peggiori difetti, che, allora come oggi, rimangono la disoccupazione di massa e la distribuzione iniqua e arbitraria di reddito e ricchezza. Scoprire l’attualità, la freschezza di un pensiero che il tempo non ha fiaccato. E contemporaneamente disfarsi di centinaia di articoli, papers, libri freschi di stampa ma già superati sul piano delle idee. Scopo delle righe che seguono sarà di riportare alla luce la lezione del più grande economista del Novecento, John Maynard Keynes: che l’economia capitalistica è intrinsecamente instabile e che la teoria economica dominante nell’accademia, nei centri studi e nelle cancellerie internazionali, quella neoclassica[1], basata sull’equilibrio economico generale e sulla neutralità della moneta[2], non è in grado di spiegare i fatti economici più rilevanti del mondo in cui viviamo.
Il ruolo dell'incertezza
L’innovazione profonda e radicale che John Maynard Keynes porta in dote alla teoria economica è di carattere metodologico; riguarda l’accento che egli pone sull’incertezza che caratterizza il contesto decisionale degli agenti economici . E che lo porta per questo a rifiutare l’approccio deterministico allo studio del sistema economico impiegato dalla teoria mainstream neoclassica.
L’incertezza è legata all’incapacità, da parte degli agenti economici, di fare previsioni attendibili su eventi futuri, per mancanza di conoscenza[3].
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Libertà e schiavitù
di Luciano Canfora
Trascrizione della prolusione di Luciano Canfora “Libertà e schiavitù”, tenutasi alla quarta edizione del convegno internazionale “Euro, mercati, democrazia: ripensare l’unione dell’Europa” il 14 novembre 2015 a Montesilvano (Pescara)
Grazie per questa occasione importante nella quale sono lieto di ritrovarmi, in un giorno non lieto, ma dolorosamente significativo.
Temo che l’argomento suggerito sia un po’ troppo accademico rispetto al carattere molto battagliero – giustamente battagliero – del convegno. Però forse una riflessione un po’ fredda sulla tematica anche lessicale, oltre che storica, di questo binomio libertà-schiavitù qualche rapporto con la vicenda della costruzione europea potrebbe averlo: e vediamo in quale delle due direzioni.
Partirei da una riflessione lessicale, vale a dire l’uso improprio di questo termine latino – libertà, libertas – che è stato assai largamente praticato.
Faccio alcuni esempi, molto noti: gli estremisti bianchi del Sudafrica avevano dato vita alla metà degli anni ’90 a un movimento politico che si chiamava Fronte della libertà.
E potremmo soggiungere che il movimento politico che contribuì fortemente ad abbattere il presidente Allende si chiamava Patria e libertà, un binomio tornato anche in altre formazioni politiche; quando la giunta dei generali traditori emise il primo comunicato alla radio – Allende si era appena suicidato – dichiarò che le forze armate e i carabineros erano uniti nella missione storica di lottare per la libertà.
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Sul crepuscolo di una subalternità
di Ferruccio Gambino e Devi Sacchetto
In vista della presentazione a Bologna (qui l’evento Facebook) di La fabbrica rovesciata. Comunità e classi nei circuiti dell’elettrodomestico di Graziano Merotto (Roma, DeriveApprodi, 2015), pubblichiamo il poscritto al volume di Ferruccio Gambino e Devi Sacchetto
Ci sono poscritti che si scrivono per dovere e altri che si scrivono per convenienza. Questo lo scriviamo per interesse: certamente non per lucrare qualche prebenda a beneficio dell’autore; e neppure per chiedere venia delle eventuali manchevolezze dell’opera, consapevoli come siamo delle coscienziose ricerche di Graziano Merotto in un reame industriale chiuso, che soltanto nel corso di un tempo da lui ben speso gli è stato possibile rischiarare. Il nostro è un interesse inteso a incoraggiare il dibattito sui rapporti industriali del presente e del futuro, al di fuori dei pregiudizi interessati alle armonie prestabilite.
Si tratta di un dibattito che si situa all’intersezione di alcune branche delle scienze sociali. Altre discipline appaiono parche di contributi per la ricostruzione di controversi processi sociali contemporanei. Sull’argomento studiato da Graziano Merotto le eccezioni sono rare. Lettrici e lettori potrebbero dubitare degli ostacoli che l’autore ha dovuto superare per portare a termine questo volume. In effetti, gli ostacoli non traspaiono nel testo, che anzi mostra un sereno distacco sine ira ac studio rispetto alle singole figure che impersonano il capitalista e il proprietario fondiario, rappresentanti di rapporti sociali di cui in realtà sono le creature.
Il libro è il frutto di una ricerca priva di sostegni pubblici e privati, svolta nei meandri di ambienti industriali di cui poco si conosceva, e portata a termine con notevole motivazione. In realtà, l’autore ha sviluppato una conricerca esemplare con i protagonisti delle molteplici iniziative operaie che hanno trasformato in soggetto politico la forza-lavoro del comparto dell’elettrodomestico nell’area studiata.
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Derivati, nel 2016 il Tesoro perderà altri 5 miliardi
di Luca Piana
Il ministro Padoan risponde a un'interrogazione dei 5 Stelle. E si scopre che le perdite dello Stato sui prodotti ad alto rischio crescono sempre più. Vanificando gli effetti positivi sui conti del "quantitative easing" della Bce
Come se non ci fosse Mario Draghi. Come se la Banca centrale europea (Bce) non avesse mai lanciato il “quantitative easing”, la massiccia manovra di sostegno all’economia dei Paesi dell’Eurozona. Come se i tassi d’interesse sul debito pubblico non fossero da tempo crollati in prossimità dello zero. È questo l’effetto paradossale che il Tesoro è costretto ad affrontare negli ultimi mesi a causa dei cosiddetti derivati sottoscritti negli anni passati con le banche internazionali, i cui contratti sono tenuti sotto stretto riserbo. In poche parole: mentre il debito pubblico costa allo Stato sempre meno in termini d’interessi, grazie agli interventi effettuati dalla Bce di Draghi, i derivati si stanno mangiando per intero o quasi i risparmi che ne dovrebbero venire, costringendo il Tesoro a un esborso crescente.
L’amara verità emerge dalla risposta che il ministero dell’Economia ha fornito il 22 dicembre a un’interrogazione presentata dal Movimento 5 Stelle. Nel documento gli uffici di Pier Carlo Padoan hanno messo per la prima volta nero su bianco alcune cifre destinate a far discutere. Hanno reso noto che nel 2015 i derivati sono costati al Tesoro un flusso negativo in termini di interessi di 3,6 miliardi. E hanno aggiunto che nel 2016 la spesa è prevista salire a 4,1 miliardi.
Quello appena iniziato, dunque, rischia di essere un anno durissimo su questo fronte della spesa pubblica. In una precedente interrogazione, Padoan aveva infatti rivelato che, su uno dei vari derivati, esistono clausole che entro il prossimo marzo daranno alla banca che l’ha sottoscritto la possibilità di chiuderlo, facendosi liquidare dal Tesoro una cifra stimabile oggi in 849 milioni.
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2016. La Nato che verrà…
Antonio Mazzeo
Aggressiva, dissuasiva e preventiva; onnicomprensiva, globale e multilaterale; cyber-nucleare, superarmata e iperdronizzata; antirussa, anticinese, antimigrante e anche un po’ islamofoba. Strateghi di morte e mister Stranamore vogliono così la NATO del XXI secolo: alleanza politico-economica-militare di chiara matrice neoliberista che sia allo stesso tempo flessibile e inossidabile, pronta ad intervenire rapidamente e simultaneamente ad Est come a Sud, ovunque e comunque.
La prova generale della NATO che verrà… si è svolta dal 3 ottobre al 6 novembre 2015 tra lʼItalia, la Spagna, il Portogallo e il Mediterraneo centrale. Denominata Trident Juncture 2015, è stata la più grande esercitazione NATO dalla fine della Guerra fredda ad oggi, con la partecipazione di oltre 36.000 militari, 400 tra cacciabombardieri, aerei-spia con e senza pilota, elicotteri, grandi velivoli cargo e per il rifornimento in volo e una settantina di unità navali di superficie e sottomarini. Presenti le forze armate di 30 paesi, sette dei quali extra-NATO o in procinto di fare ingresso formalmente nell’Alleanza (Australia, Austria, Bosnia Herzegovina, Finlandia, Macedonia, Svezia e Ucraina). In qualità di “osservatori”, inoltre, gli addetti militari di Afghanistan, Algeria, Azerbaijan, Bielorussia, Brasile, Colombia, Corea del Sud, El Salvador, Emirati Arabi Uniti, Giappone, Kyrgyzistan, Libia, Marocco, Mauritania, Messico, Montenegro, Russia, Serbia, Svizzera e Tunisia.
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Il mio Iraq. E quello degli altri
16/1/2016, 25 anni dall'inizio dell'olocausto
di Fulvio Grimaldi
“Quando racconto la verità, non è tanto per convincere coloro che non la conoscono, quanto per difendere quelli che la sanno”. (William Blake)
“E finchè facevano guerre, il loro potere veniva preservato, ma quando ottennero l’impero, caddero. Perché dell’arte della pace non sapevano niente e non si erano mai dedicati a nulla che fosse meglio della guerra”. (Aristotele. Gli Usa, dalla nascita, hanno fatto in media una guerra all’anno).
Una partita con tre campi da gioco
In tutte le guerre, rivoluzioni, aggressioni che ho vissuto e ho provato a raccontare, si configuravano sempre tre schieramenti. Il primo stava sul campo “Realtà” ed era costituito dal popolo sotto attacco e dai suoi amici in giro per il mondo; il secondo stava sul lato opposto, in un campo chiamato “Menzogna” ed erano le armate e le parole di soldati, politici, banchieri, industriali colonizzatori. In mezzo, con una gamba di qua e una di là, in un campetto di nome “Né-Né”, ciondolavano gli Astenuti. Ho sempre pensato che, per primi, dovevano essere tolti di mezzo questi qua. Confondevano sia la vista, sia i suoni dello scontro, che quelli della “Realtà” si sforzavano di percepire. Spargevano, anche all’occhio di chi guardava dalla finestra, una nebbiolina che offuscava i contorni. Per me combattere quelli del campo “Menzogna” significa far piazza puilita degli “Astenuti”. Dopo, si sarebbero potuti affrontare i nemici, meglio identificati grazie alla scomparsa dei mistificatori. Con gli Astenuti, va detto, gli irreali non se la sono mai presa.
Sono parecchi i luoghi dove ho visto questi soggetti manifestarsi, sempre nella formazione appena descritta: Palestina 1967, Irlanda 1969-1990, Jugoslavia 1999-2001, Iraq 1977-2003, Venezuela, Argentina, Bolivia, Ecuador 2002-2006, Cuba 1995-2005, Libano 1997-2006, Libia 2011, Siria dal 2012.
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E’ possibile usare il capitale contro il capitale stesso?
Per un dibattito su finanza alternativa e moneta del comune
di Carlo Vercellone*
Il potere della moneta e quello della finanza sono all’origine del capitalismo e in un certo senso ne esprimono l’essenza. Prima della rivoluzione industriale, i meccanismi d’accumulazione fondati sul potere della moneta e della finanza sono stati gli strumenti chiave alla base della cosiddetta accumulazione primitiva e del capitalismo mercantilista che si sviluppa tra il XVI e il XVIII secolo. Poi, con lo sviluppo del capitalismo industriale e della sussunzione reale, in particolare all’epoca fordista, il potere del capitale è parso cambiare di forma. Esso è sembrato poggiare principalmente sullo sviluppo delle forze produttive e sul controllo monopolistico della conoscenza detenuta dalla tecnocrazia manageriale delle grandi imprese.
In seguito alla crisi sociale del modello fordista e allo sviluppo di un’intellettualità diffusa, i rapporti di sapere e potere tra capitale e lavoro a livello dell’organizzazione sociale della produzione si sono rovesciati. Nel capitalismo cognitivo, la violenza della moneta e della finanza si presentano così nuovamente come la forma suprema del potere del capitale.
È su di esse (e non su un’egemonia fondata sul controllo della conoscenza e della tecnologia) che poggia la capacità del capitale di sottomettere la società del general intellect e di operare la cattura del valore creato dal lavoro a partire da una posizione di esteriorità rispetto all’organizzazione sociale della produzione. Al tempo stesso, perlomeno nei paesi a capitalismo avanzato, la logica della valorizzazione del capitale si fonda sempre meno sulla crescita delle forze produttive, ma piuttosto sulla creazione di una scarsità artificiale di risorse.
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La cassetta degli arnesi di Marx
Ascanio Bernardeschi intervista Roberto Fineschi
Roberto Fineschi, giovane filosofo senese, allievo del compianto Alessandro Mazzone, è uno dei pochissimi italiani che ha seguito da vicino i lavori della nuova edizione critica delle opere di Marx e di Engels. È autore di diversi saggi [1] che, partendo dall'illustrazione di questa novità editoriale, forniscono alcune indicazioni utili per sviluppare la ricerca sulle orme del lascito marxiano. Ha tradotto in italiano e curato la pubblicazione del primo libro del Capitale [2] che tiene di conto di tali novità
La nuova edizione critica delle opere di Marx ed Engels, la Marx-Engels-Gesamtausgabe (MEGA2) ci riserva molte sorprese. Non cambiano solo le interpretazioni dei testi, ma i testi stessi. Che uso farne per rilanciare una prospettiva comunista su basi teoriche solide?
***
Roberto, puoi dirci in cosa consistono i lavori della MEGA2 e perché sono importanti?
Si tratta della nuova edizione critica delle opere di Marx ed Engels iniziata nel 1975. Prevede la pubblicazione di oltre un centinaio di volumi, tant'è vero che è stata definita scherzosamente “megalomane”. Si articola in 4 sezioni. La prima contiene tutte opere pubblicate e i manoscritti, escluso Il Capitale; la seconda comprende Il Capitale e i relativi lavori preparatori a partire dai manoscritti del 1857-58, i cosiddetti Grundrisse; la terza sezione è dedicata al carteggio e la quarta alle note di lettura e gli estratti dei due autori.
È importante perché Marx in vita non ha pubblicato molto e quindi la stragrande maggioranza delle sue opere che conosciamo sono pubblicazioni postume di manoscritti editati e curati da varie persone in maniera più o meno filologicamente corretta. Quindi la nuova edizione offre per la prima volta i veri testi di Marx. Si tratta di opere non marginali, ma capitali, sulla base delle quali si sono sviluppate le varie interpretazioni. Per esempio, i cosiddetti Manoscritti economici-filosofici del '44, nella forma in cui li conosciamo, non sono un'opera unitaria.
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Riforme costituzionali/La posta in gioco*
di Gustavo Zagrebelsky
Democrazia e lavoro sono le radici della nostra Costituzione del 1948. Una cosa è cambiare, un’altra è il come cambiare. Il superamento del bicameralismo perfetto è largamente condiviso, ma siamo di fronte a un testo incomprensibile e al ritorno a condizioni pre-costituzionali
Coloro che, la riforma costituzionale, la vedono gravida di conseguenze negative non si aggrappano alla Costituzione perché è “la più bella del mondo”. Sono gli zelatori della riforma che usano quell’espressione per farli sembrare degli stupidi conservatori e distogliere l’attenzione dalla posta in gioco. La posta in gioco è la concezione della vita politica e sociale che la Costituzione prefigura e promette, sintetizzandola nelle parole “democrazia” e “lavoro” che campeggiano nel primo comma dell’art. 1. Qui c’è la ragione del contrasto, che non riguarda né l’estetica (su cui ci sarebbe peraltro molto da dire, leggendo i testi farraginosi, incomprensibili e perfino sintatticamente traballanti che sono stati approvati) né soltanto l’ingegneria costituzionale (al cui proposito c’è da dire che nessuna questione costituzionale è mai solo tecnica, ma sempre politica).
Molte volte sono state chiarite le radici storiche e ideali di quella concezione, perfettamente conforme alle tendenze generali del costituzionalismo democratico, sociale e antifascista del II dopoguerra, tendenze riassunte nella Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, approvata dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite nel dicembre del 1948, di cui la nostra Costituzione contiene numerose anticipazioni, perfino sul piano testuale.
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Il sessantotto
Armando Ermini
Proseguiamo la riflessione sul ’68 che abbiamo iniziato alcuni giorni fa in seguito alla pubblicazione di una breve ma significativa testimonianza del compianto filosofo marxista Stefano Garroni, con questo interessante contributo di Armando Ermini che riportiamo di seguito. Si tratta di un argomento molto controverso in grado di suscitare ancora, a distanza di tanti anni, un vivace e accesissimo dibattito. Saremo ovviamente felici di ospitare i contributi di tutti coloro che volessero esprimere la loro opinione sul tema.
“Ripensare quel periodo della nostra storia non solo è legittimo ma anche doveroso. Oggi, lontano dal fuoco della lotta di quegli anni, lo possiamo fare con più razionalità e realismo, solo che si abbia la volontà e la lucidità necessarie. Proprio quello che la grande maggioranza di chi a quel movimento partecipò si rifiuta di fare fino in fondo. Non si tratta di nostalgia per i giovanili anni ruggenti, né di fare i cantori dell’immobilismo ideologico. Il cambiamento, nello sforzo di capire la realtà che ci circonda, anche per trasformarla, è non solo normale ma anche inevitabile. Non si tratta nemmeno di rinnegare alcunchè, di fare abiure del passato o simili penose pratiche. Si tratta “solo” di tentare di capire se, dove e perché sbagliavamo; non nel desiderare astrattamente un mondo diverso, ma nel come realizzarlo concretamente. Non sto pensando, ovviamente, a quei figli dell’alta/media borghesia in “libera uscita”, passati in breve tempo con la nonchalance degli snob, dai gruppi dirigenti duri e puri di Potere Operaio o Lotta Continua al board di una Società per azioni. E nemmeno a coloro i quali, bloccati in ferree e malintese armature ideologiche, sono sconfinati nella follia terroristica scambiandola per lotta di classe. Sto invece pensando alla massa di studenti di estrazione piccolo borghese diventati il nucleo forte dell’intellighenzia, nei giornali, nelle TV, nelle case editrici , nella scuola e nell’università, insomma in tutti quei luoghi dove si forma il consenso. Essi si ostinano a credere di aver fatto qualcosa di grande e di rivoluzionario, magari non concluso causa il destino cinico e baro, ma comunque nel flusso di una trasformazione sociale positiva e rivolta ad una più ampia libertà.
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I compiti immediati della sinistra di classe in Italia e in Europa
Fabio Nobile e Domenico Moro
La fine del modello bipolare e bipartitico in Europa
I risultati delle elezioni di fine 2015 in Francia e in Spagna confermano la crisi del sistema bipolare e bipartitico dell’Europa occidentale. Tuttavia, crisi non vuol dire fine del sistema. Al contrario la crisi del bipolarismo fondato sull’alternanza di due partiti o coalizioni principali, l’una di centro-destra e l’altra di centro-sinistra, ha determinato un irrigidimento del modello politico in senso maggioritario. Ne troviamo un esempio in Italia nella proposta di riforme elettorali (l’Italicum) e costituzionali che rafforzano la governabilità intesa come predominio dell’esecutivo sul resto delle istituzioni e soprattutto sulla società. Grazie a leggi elettorali maggioritarie, partiti sempre meno rappresentativi riescono a garantirsi il primato, squalificando la rappresentatività delle istituzioni politiche agli occhi di milioni di elettori e accentuandone l’astensionismo.
Alla crisi del bipolarismo e del bipartitismo corrisponde - nella prevalenza dei casi - l’affermazione di terze e quarte forze, al di fuori dello schema di alternanza centro-sinistra/centro-destra. Questi partiti, malgrado si caratterizzino per orientamenti politici a volte molto differenti, sono accomunati, nella maggior parte dei casi, dalla individuazione di cause e soluzioni alla crisi socio-politica al di fuori della crisi del modo di produzione capitalistico e del conflitto lavoro salariato-capitale.
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A tutto profitto
Paolo Ercolani
Friedrich Hayek: un ritratto a tutto tondo del pensatore austriaco di quel liberismo reazionario che è tornato di moda con il dominio del potere tecno-finanziario. Le sue controverse teorie sembrano essere un vademecum per i governanti di oggi
Le cronache giornalistiche del tempo riferiscono che, durante una concitata riunione del suo governo, Margaret Thatcher di fronte ai suoi ministri che litigavano fragorosamente, sbatté un grosso tomo sul tavolo esclamando: «Basta signori, è inutile dividersi. La nostra bibbia è contenuta in questo libro. Esso ci indicherà la strada!».
Quel librone degli anni Sessanta del secolo scorso (The Constitution of Liberty) era lo stesso in cui Friedrich Hayek si lanciava in un’accorata e nostalgica esaltazione della Svizzera in cui le donne non avevano il diritto di voto (e in generale i diritti politici) e, nella ricostruzione dello stesso autore, erano per giunta contente di questo fatto.
Le possibilità allora sono due: o la signora Thatcher, donna e primo ministro inglese, non aveva letto quella che lei stessa considerava la bibbia del suo governo, oppure non si riteneva appartenente a un genere specifico e, quindi, accettava di conferire a quel volume un così grande valore, malgrado la discriminazione anacronistica nei confronti della popolazione femminile, contenuta fra le sue pagine.
In ogni caso, i conti non tornavano. O meglio, non tornavano per quel tempo, quando il liberalismo riteneva di aver costruito da solo le democrazie occidentali (sconfiggendo il comunismo), e Hayek veniva da molte parti presentato come «il più grande liberale del Novecento».
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La guerra valutaria nel nuovo ordine mondiale
di Filippo Violi e Pasquale Cicalese
“Non si deve essere confusi dai discorsi di istituzioni straniere: se loro dicono che lo yuan calerà non significa certo che debba accadere. Ci può essere chi cerca di realizzare profitti diffondendo una visione bearish sulla valuta per indurre le società domestiche e il pubblico verso il panico. Ma la Cina ha la determinazione e la capacità di difendere lo yuan dalla speculazione” Guan Tao, Capo Dipartimento Pagamenti Internazionali SAFE (State Administration of Foreign Exchange), citato da Stefano Carrer, E la Banca Centrale compra renminbi, Il Sole 24 Ore 12.01.2016.
“Alcune forze speculative stanno cercando di guadagnare giocando con il renmimbi ma tali attività di trading non hanno nulla a che fare con l’economia reale della Cina e hanno provocato fluttuazioni anomale”. Dichiarazione Ufficiale PBOC(People’s Bank of China) 7.01.2016, fonte www.advfn.com.
***
Lunedì 4 gennaio ore 06.00 in Italia. Le agenzie di stampa occidentali battono la prima notizia di giornata: grosso scossone in Cina nella prima seduta borsistica dell’anno. L’indice Composite di Shanghai (SEEC) crolla del 7%, lo yuan non fa più gola (come si dirà più tardi), e l’economia, rispetto alle previsioni di fine anno, rallenta, creando un forte terremoto finanziario. La divisa cinese perde d’improvviso il suo fascino, da moneta di traino dell’economia occidentale (scambi commerciali e investimenti produttivi in asset strategici), nuova di look per l’entrata nel paniere delle valute di riserva del FMI, diventa d’un tratto vulnerabile, debole, floscia, priva di slancio.
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Modus vivendi
di Marina Montanelli e Francesco Raparelli
Materialismo e ontologia dell'attualità in L'idea di mondo. Intelletto pubblico e uso della vita di Paolo Virno
0. L'idea di mondo. Intelletto pubblico e uso della vita (ed. Quodlibet) di Paolo Virno è un volume composito, si raccolgono testi vecchi e nuovi. Più nel dettaglio: tre saggi brevi, due filosofici e un “classico” della teoria politica contemporanea. Il primo saggio, Mondanità (1993), ha i tratti del laboratorio, fanno la loro comparsa nozioni chiave della ricerca materialista che l'autore non ha mai abbandonato. Il secondo, Virtuosismo e rivoluzione (1993), è un piccolo grande capolavoro, che ha consegnato a militanti politici giovani e meno giovani «le parole per dirlo», la bussola per navigare «dentro e contro» la scena del postfordismo o di ciò che, più recentemente, abbiamo definito capitalismo neoliberale. Concetti come moltitudine, esodo, intemperanza, diritto di resistenza “tornano alla luce” per ripensare radicalmente l'azione politica, quando la produzione fa del linguaggio, degli affetti, in generale della vita della mente, le sue risorse decisive. L'uso della vita (2014), presentato per la prima volta nel seminario della Libera Università Metropolitana proprio alla nozione di 'uso' dedicato, è un saggio di forza e bellezza rare. Si sancisce un nuovo inizio, si delinea una ricerca a venire.
Vista la ricchezza dei temi, ci risulta difficile, se non impossibile, la ricostruzione dettagliata dei tre saggi. E forse non è ciò che serve. Proveremo a soffermarci, quasi interrogando l'autore, su alcuni elementi comuni e, più in generale, sul gesto filosofico che Paolo Virno non smette di proporre. La mossa teorico-politica, condensata in Virtuosismo e rivoluzione, sarà semplicemente indicata, avendo quest'ultima già informato, per diversi anni, la ricerca e la prassi dei movimenti sociali radicali.
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Basaglia tra le righe: per un’analisi del lavoro cognitivo
di Maurizio Busacca
Pubblichiamo un estratto da “Lavoro totale. Il precariato cognitivo nell’età dell’auto imprenditorialità e della Social Innovation” di Maurizio Busacca (CheFare / Doppiozero)
Lavoro – Improduttività e i loro doppi
L’analisi che viene proposta in questo lavoro si fonda principalmente sulla produzione culturale, politica e tecnica di Franco Basaglia e Franca Ongaro perché la loro risposta operativa al governo della follia li rende soggetti e oggetti ideali dell’analisi che mi propongo di svolgere sui processi di soggettivizzazione dei knowledge workers nell’ambito della dialettica Lavoro totale – Improduttività malata.
La vocazione personale e il desiderio di esprimere il proprio talento spingono i lavoratori a costruire processi di identizzazione complessi, che rimescolano tra loro passioni, diritti e aspettative fino a rendere frastagliati i confini delle tradizionali sfere di definizione sociale. È proprio in seno alla volontà di autorealizzazione che si apre lo spazio soggettivo, e ambivalente, del lavoro cognitivo: da un lato spazio di auto-realizzazione, dall’altro spazio di umiliazione del lavoro (Chicchi, 2014). Il lavoro cognitivo mette così all’opera soggettività per la produzione di soggettività (Masiero, 2014) attraverso pratiche discorsive e non discorsive che generano comportamenti psichici di nuovo tipo (Dardot-Lavall, 2009) e analizzabili mediante la serie di “attrezzi” che Basaglia e Ongaro hanno utilizzato per tentare di comprendere la psicologia del colonizzato e la carriera sociale del malato.
Fin dalle sue origini il lavoro di Basaglia e Ongaro è fortemente influenzato dal lavoro sulla carriera sociale del malato e l’etichettamento di malattia di Goffman (1961).
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Cronache di un mondo indebitato
Vincenzo Comito
I. Il debito complessivo a livello mondiale ha raggiunto, a fine 2014, il livello di 200 trilioni di dollari
L’esistenza di un rilevante livello e di una ulteriore e apparentemente inarrestabile crescita dell’indebitamento mondiale è un fenomeno molto evidente; ora, il suo collegamento, per diverse vie, alle difficoltà e al rallentamento dello sviluppo dell’economia, nei paesi sviluppati come in quelli emergenti, pone dei rilevanti problemi di analisi e suggerisce anche delle possibili linee di azione. Nelle tre puntate di questo articolo cercheremo di individuare la situazione e le prospettive di soluzione di una questione cruciale.
Alcuni dati di base
Già in uno scritto apparso in questo stesso sito qualche tempo fa (Comito, 2015) ricordavamo alcuni dati che danno un’idea del fenomeno; ad essi ne aggiungiamo ora degli altri, più analitici.
Nel testo citato ricordavamo, in particolare, un rapporto Mckinsey (Mckinsey, 2015) del febbraio di quest’anno, che forniva delle informazioni di base sulla situazione.
Il debito complessivo a livello mondiale aveva raggiunto alla fine del 2014 il livello di 200 trilioni di dollari, essendo aumentato di ben 57 trilioni soltanto nel periodo tra il 2007 e il 2014. La sua incidenza sul pil mondiale raggiungeva ormai alla stessa data il 286%, contro il 270% del 2007. Si ha la sensazione, peraltro ancora non ancora suffragata da dati aggiornati, che la tendenza all’aumento sia proseguita nel 2015.
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La Siria, lo Stato Islamico e la “guerra all’Europa”/terza parte
di Militant
Qui e qui la prima e la seconda parte
V. La Cooperazione internazionale e le ONG, braccio "non armato" del capitale in Siria
Uno sguardo sull’attività di cooperazione dei paesi del golfo e il caso della Qatar Charity in Siria: dall’introduzione del concetto di guerra umanitaria e di “bombing for democracy”, gli interventi di assistenza umanitaria sono sempre più legati a doppio filo a contesti di guerra, al di là di eventi quali catastrofi naturali. Anche la cooperazione internazionale, governativa o meno (attraverso il tramite delle cosiddetto associazionismo da società civile), costituisce molto spesso l’apripista per gli interventi belligeranti, laddove accordi, diplomazia e buone maniere non raggiungono il loro scopo: o c’è da dire che forse la guerra costituisce spesso il cavallo di troia attraverso cui è possibile instaurare nuovi tipi di relazioni politiche ed economiche.
Negli ultimi anni tra i donatori che non appartengono al Development Assistance Committee (DAC) dell’Ocse più recentemente saliti alla ribalta si distinguono i paesi del golfo: tra questi i donatori maggiori sono riconducibili ai paesi dell’Arabia Saudita, del Kuwait e degli Emirati Arabi Uniti. In particolare, gli EAU nel 2014 si sono classificati per il secondo anno di fila come il più grande donatore di ODA (aiuto ufficiale allo sviluppo) al mondo in relazione al PIL: circa 1,17% del prodotto interno lordo secondo le stime DAC.
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