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Per una politica più che umana: pensare l'evento
di Giulio Pennacchioni
L’obiettivo dell’ultimo numero dell’Almanacco di filosofia e politica, pubblicato da Quodlibet lo scorso marzo[1] e a cura di Rita Fulco e Andrea Moresco, è duplice: riflettere sullo statuto ontologico-politico della categoria di “evento” e sul rapporto «tra evento storico, conflitto politico e forma istituzionale»[2]. In continuità con i numeri precedenti dell’Almanacco, l’evento si rivela quindi essere uno spazio all’interno del quale è possibile collocare una riflessione sul pensiero istituente. L’evento è dove avviene la trasformazione delle istituzioni, lo sviluppo di alcune e il declino di altre, che non vanno quindi considerate dei “blocchi monolitici” immutabili, bensì delle “strutture” dinamiche e aperte a cambiamenti. Come spiegato[3] da Roberto Esposito, che oltre a dirigere le uscite dell’Almanacco, è tra i filosofi italiani che più si è occupato della nozione di “istituzione”, si tratta di un «concetto che supera l’ambito strettamente politico-giurisdizionale entro il quale siamo soliti collocarlo, e che designa invece sia la forza, la potenza impersonale (ontologica) incorporata alla vita, sia l’intrinseca vitalità (politica)»[4].
Trasformazione delle istituzioni che, come emerso nei tre precedenti volumi dell’Almanacco, non è mai separata da una prassi antagonista, quella dei conflitti sociali, che va anzi assunta a suo punto di inizio. Conflitti politici e sociali che non sono certo mancati durante la crisi scatenata dal Covid 19 (Black Lives Matter, movimenti femministi e per la giustizia climatica, scioperi per la sicurezza sul lavoro e in difesa del salario, scioperi nelle carceri, reti di solidarietà e mutualismo, per citarne solo alcuni) e da cui un “pensiero istituente” può svilupparsi.
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Antagonisti… filoimperialisti
di Nico Maccentelli
È di queste settimane l’attacco politico “da sinistra” a quelle compagne e compagni che da anni sostengono l’autodeterminazione della popolazione russofona del Donbass e dell’Ucraina in generale e che denunciano l’operazione che l’imperialismo USA-NATO sta conducendo contro la Russia e sulla pelle dell’Ucraina.
All’accusa di “putinismo” che i media di regime portano avanti nella loro propaganda contro chiunque osi tematizzare il conflitto in Ucraina e rompere la coltre di luoghi comuni eterodiretti che girano attorno al concetto “aggressore-aggredito”, si aggiunge così quella di “rossobrunismo” sia verso i sovranisti di sinistra, sia verso quelle forze comuniste “nostalgiche” e “vetero soviettiste”, che non fanno di tutta un’erba un fascio, pardon un nazi, ma analizzano le cause e gli sviluppi di questa guerra, individuando le vere responsabilità in campo. Un j’accuse che va da La Repubblica e arriva agli anarchici “duri e puri”, passando per i “disobba” e per vari nodi e tribù di un certo antagonismo che ragiona per principi.
Ma andiamo con ordine. La polemica è saltata fuori nella sua virulenza, guarda caso, in concomitanza con due fatti: l’avvio di un’attività di delinquenza politica da parte degli ucronazi in Italia e la necessità di sostenere la politica delle armi all’Ucraina e della cobelligeranza italiana da parte del governo Draghi e di ambienti euroimperialisti come quelli del PD. Due aspetti collegati tra loro: la politica guerrafondaia di regime il secondo aspetto e il suo braccio armato informale il primo.
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La crisi della globalizzazione: la guerra di Putin e la guerra di Biden
di Paolo Ferrero
La guerra è una aberrazione disumana, non è mai giustificabile. Come saggiamente avevano capito i padri e le madri costituenti, la guerra non può essere considerata una soluzione per risolvere le controversie internazionali. I problemi debbono essere risolti in altro modo e noi ci impegniamo in tal senso. In primo luogo perché il livello di sofferenza prodotto dalla guerra è inumano e la pagano soprattutto i soggetti più deboli, dagli anziani ai bambini alle donne, verso cui la violenza di genere si somma a quella del conflitto armato. In secondo luogo perché oltre a sofferenza e terrore, la guerra genera odio, tende a riprodurre se stessa, distruggendo la politica, la democrazia, la libertà. La guerra genera guerra, ed è la più grande aberrazione prodotta dagli umani, una specie di cannibalismo su scala industriale. La guerra è un prodotto umano che nega completamente l’umanità. Per questo siamo contro la guerra, sempre, senza se e senza ma.
La guerra va combattuta in radice ma va analizzata nelle sue cause – cause, non ragioni – e nei suoi molteplici effetti. Capire la guerra per costruire la pace, una pace duratura, perpetua, è il nostro obiettivo. Con questo sguardo guardiamo alle guerre in corso.
La guerra di Putin e i suoi complici
Il 24 febbraio 2022 l’esercito russo ha invaso militarmente l’Ucraina. Come abbiamo ripetuto mille volte si tratta di una scelta sbagliata e criminale che ha aggravato drammaticamente i problemi dell’area e che apre al rischio della terza guerra mondiale.
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L’inchiesta sociale militante
Il compito da rilanciare dei comunisti
di Raffaele Gorpìa
Sono decenni che si è rinunciato alla capacità di analizzare seriamente la struttura del corpo sociale mentre ci si è persi invece dietro a tatticismi politici, a suggestivi “immaginari e a “nuove narrazioni”, quando al contrario si ha sempre più la necessità di sapere precisamente come sono fatte le classi subalterne e come sono fatti i nostri nemici che, invece, hanno convenienza a far sparire le classi sociali poiché senza di esse rimangono solo gli individui o tutt’al più i gruppi di interesse.
Se vi è un elemento sintomatico della crisi del movimento operaio e delle organizzazioni che un tempo ad esso facevano riferimento, certamente questo risiede nella scarsa presenza se non nella totale assenza di produzione di inchieste sociali sulla composizione di classe in epoca contemporanea. L’inchiesta non può essere solo concepita come lo strumento che l’organizzazione politica di sinistra deve utilizzare per non perdere il contatto con la realtà, quanto come un vero asse strategico attorno al quale costruire, appunto, la strategia politica; l’inchiesta diviene strumento fondamentale per cogliere da un lato la struttura di classe nelle sue diverse articolazioni e nella sua componente soggettiva e di coscienza, per un altro verso è il modo per raccogliere, secondo l’impostazione maoista, le “idee giuste” delle masse rielaborandole come linea politica.
Tale assenza dal campo politico rimanda sicuramente all’assenza dell’intellettuale organico prefigurato da Gramsci, una figura politica immaginata come interna alla classe e allo stesso tempo avanguardia della stessa capace di guardare al complesso della società senza perdere l’orientamento del punto di vista di classe e ispiratore del proletariato affinché lo stesso possa liberarsi dalle idee delle classi dominanti per sviluppare una propria coscienza di classe e così cambiare lo stato di cose presenti.
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Per rileggere Federico Caffè da una prospettiva rivoluzionaria
di Carlo Formenti
Nella collana Meltemi “Visioni eretiche” è appena uscito il nuovo libro (1) di Thomas Fazi, che quattro anni fa aveva inaugurato la serie con Sovranità o barbarie (2), dedicato al grande eretico della scienza economica, quel Federico Caffè che, dopo la sua misteriosa scomparsa (in data 15 aprile 1987), si è sollecitamente provveduto a rimuovere dai programmi di studio della disciplina perché la lucidità con cui aveva denunciato i rischi della svolta neoliberista – e previsto i disastri che ne sarebbero derivati – è imbarazzante per gli economisti e i politici (in particolare se di sinistra) che di quella svolta si fecero promotori e apologeti. Senza entrare nei dettagli dell’accuratissima ricostruzione che Fazi fa del pensiero e dell’impegno politico e sociale di Caffè, le pagine che seguono si propongono di: 1) ricordare quale fosse il senso comune condiviso dalla maggioranza degli economisti occidentali fino agli anni Settanta del secolo scorso; 2) riassumere i fondamenti teorici su cui si fondava, cioè la teoria keynesiana (e la lettura che ne diede Caffè, il primo a diffondere il pensiero di Keynes nel nostro Paese); 3) ricostruire a grandi linee della svolta neoliberista degli anni Ottanta, legittimata dalle “innovazioni” teoriche della sintesi “neokeynesiana” e della scuola neomonetarista; 4) rievocare la tenace quanto disperata opposizione di Caffè nei confronti del nuovo corso, con particolare attenzione alla sua irritazione nei confronti della conversione del PCI e del sindacato ai paradigmi del pensiero liberal/liberista.
Come ricorda Fazi (3) quando venne avanzata per la prima volta la proposta di istituire una moneta unica europea - con il cosiddetto piano Werner - fu bocciata come una bizzarria se non come una vera e propria follia.
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Lettera aperta a noi ventenni
di Sara Nocent
I. “Cito qualcuno per non stare zitto”
Cos’ha detto? Ho capito / Chi l’ha detto? Condivido / Leggo poco, guardo i video / Non mi vanto, sono un mito / E se non so cosa dire, cito qualcuno per non stare zitto
(Selton, Pasolini)
Ai ventenni di oggi. Nati dagli eterni figli della “Generazione X” ed eredi di rivoluzioni fallite, di una depressione romanzata dissoltasi ormai in una diffusa, indefinibile ansia. Siamo i post-figli, cresciuti senza conoscere la differenza tra le realtà sociali e lavorative stabili di più di quarant’anni fa e la disgregazione, l’accelerazione applicata a ogni campo, il desiderio autoimprenditoriale. Non abbiamo avuto neanche la delusione di una promessa mancata, quella di un’occupazione a tempo indeterminato, con ritmi e paghe decenti, e della possibilità di farsi una casa e una famiglia. Il verbo della flessibilità e del perfezionismo ci è stato infatti impartito fin dall’infanzia, già ai tempi delle maestre che elogiavano chi poteva permettersi di fare più attività extrascolastiche e riusciva a essere bravissimo in tutti i campi. Non che all’università le cose migliorino: dire “sono anche uno studente universitario” è quasi diventata un’abitudine per campioni di varia sorta, come se impegnarsi nello studio non fosse sufficiente di fronte al bisogno di eccellere il prima possibile. Professori e professoresse ci hanno insegnato che è necessario competere, ma manca un dettaglio: competere per cosa? Per quel fantomatico “mercato del lavoro” spesso rappresentato come un brutale stato di natura, quello stesso contesto che poi ti chiede, fra le varie soft skills, di essere empatico, causativo, creativo. Devi insomma essere quello che fai, mentre la qualità con cui lo fai e le tue risorse mentali sono oggetto di valutazione performativa e morale, capacità che possono essere addestrate.
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Italia, la lunga crescita è finita?
di Mauro Gallegati, Pier Giorgio Ardeni
Centocinquant’anni di economia italiana riesaminati con nuovi dati e con uno sguardo che non si ferma al PIL, esplorando la complessità dello sviluppo, dei divari, degli squilibri e dell’attuale stagnazione del paese. Un’anticipazione dal libro di Ardeni e Gallegati ‘Alla ricerca dello sviluppo’
L’Italia – come recita il felice titolo di un saggio di Vera Zamagni – nei centocinquant’anni tra il 1861 e il 2011 è passata «dalla periferia al centro». Il Paese è cresciuto: si è arricchito, istruito, ha visto un generale e vistoso miglioramento del tenore di vita della sua popolazione, la quale è aumentata per raggiungere un «plateau», dato l’aumento dell’invecchiamento e la diminuzione della natalità. Questo sviluppo, tuttavia, è avvenuto per fasi e negli ultimi decenni è sostanzialmente rallentato: poiché nulla è per sempre, esso può ancora tornare indietro, e questo libro investiga perché. Oggi il Paese sembra fermo, la sua economia non cresce, le sue prospettive paiono incerte, l’orizzonte vago: è questa la «fine» di una parabola, oppure è già iniziata una nuova fase? Eppure, dall’Unità d’Italia ad oggi, molta strada è stata percorsa, in termini di ricchezza prodotta, di qualità e tenore di vita, di benessere.
Reddito e ricchezza, com’è ovvio, influiscono profondamente sul tenore di vita, sui consumi e, quindi, sul benessere. Questo, tuttavia, non dipende solo dal reddito ed è il risultato di un insieme di fattori in cui istruzione, salute e condizioni di vita giocano un ruolo fondamentale, così come le infrastrutture – le scuole, gli ospedali, le strade, le reti idriche, elettriche e telefoniche, gli esercizi commerciali, insomma il «contesto» socio-economico – e le istituzioni, lo Stato e le politiche pubblici, nonché il capitale sociale e culturale. Come questi siano cambiati nel corso dell’ultimo secolo e mezzo e come abbiano influenzato l’evolversi dell’economia e della popolazione è l’oggetto di questo libro.
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Yu Yongding, Cosa fare con le obbligazioni USA, aggiustamenti nella ‘doppia circolazione’ cinese
di Alessandro Visalli
Yu Yongding è un economista cinese, membro dell’Accademia delle Scienze Sociali e già del Comitato di politica monetaria della Banca Centrale Cinese, in questo articolo per Guancha[1]. Nel Forum finanziario globale PBCSF di Tsinghua del 2022[2], espressione di un think thank cinese fondato nel 1981 dalla Banca Centrale, Yongding ha attirato l’attenzione sul “dilemma” centrale del sistema internazionale monetario: il dollaro può fungere da moneta di riserva e fornire quindi una piattaforma monetaria di scambio al mondo (banalmente, garantendo che ci siano sempre dollari a disposizione per scambi tra terzi), solo se gli Stati Uniti sono in deficit. Un paese in surplus, infatti, aspirerebbe dollari mentre uno in deficit li distribuisce. Questa è la contraddizione interna sulla quale si è bloccata l’economia mondiale dopo la rottura della parità legale con l’oro che era prevista nello schema di Bretton Woods. Ma il ‘dilemma’ ha un suo scolio decisivo: la domanda internazionale di valuta di riserva e di scambio è correlata con la crescita del commercio mondiale e questa con la tenuta del dollaro. Se cala il commercio mondiale diminuisce la richiesta di valuta internazionale e quindi il dollaro si svaluta, ma allora, aumenta anche la possibilità che gli Stati Uniti si vedano costretti a non rispettare il proprio credito. Ovvero a replicare la crisi 1969-71 che portò al disaccoppiamento dollaro-oro. Questo scolio mostra la reale posta in gioco, e la reale funzione sistemica, della continua espansione della cosiddetta “mondializzazione”. Nelle condizioni poste dal disaccoppiamento il sistema di potere del dollaro può funzionare solo fino a che cresce. Trascinando il mondo in una insostenibile, se non altro sotto il profilo ambientale, bulimia.
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Il sapere oltre il mercato
di Luca Michelini
L’aziendalizzazione della scuola, di ogni grado compresa l’Università, e il disperato tentativo di trovare una misura di mercato al suo funzionamento e sviluppo, hanno guidato qualsivoglia atto di governo negli ultimi 30anni. La stessa “pedagogia” è divenuta una “pedagogia per il mercato”. La parola “riforma” è stata snaturata, perché ha sotteso e sottende, sempre, una controriforma. E così accade della parola “progresso”, che ha sotteso e sottende, puntualmente, forme di “regresso” e di “conservazione”.
* * * *
- Voglio proporre una breve riflessione sull’Università ricordando un celebre passo di Marx.
Che cosa è la ricchezza se non l’universalità dei bisogni, delle capacità, dei godimenti, delle forze produttive, degli individui (…)? Che cosa è se non il pieno sviluppo del dominio dell’uomo sulle forze della natura, sia su quelle della cosiddetta natura, sia su quelle della propria natura? Che cosa è se non l’estrinsecazione assoluta delle sue doti creative, senza altro presupposto che il precedente sviluppo storico, che rende fine a se stessa questa totalità dello sviluppo, cioè dello sviluppo di tutte le forze umane come tali, non misurate su un metro già dato? Nella quale l’uomo non si riproduce in una dimensione determinata, ma produce la propria totalità? Dove non cerca di rimanere qualcosa di divenuto, ma è nel movimento assoluto del divenire?
2. Il superamento del capitalismo non è un fatto compiuto, come alcuni hanno voluto far intendere utilizzando questo testo.
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Le debolezze del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza
di Guglielmo Forges Davanzati*
Abstract:
Il PNRR (Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza) costituisce il programma di politica economica italiano nell’ambito di quello europeo denominato Next Generation EU (NGEU) ed è strutturato nella forma di investimenti finalizzati a raggiungere gli obiettivi di crescita e di resilienza. Il PNRR italiano è quello maggiormente finanziato fra quelli degli altri paesi europei. In questo articolo se ne mettono in evidenza due debolezze: segnatamente la sua provvisorietà rispetto al ripristino del Fiscal Compact e la sua inadeguatezza, sotto il profilo quantitativo. Si evidenzia inoltre come il PNRR si basi sulla convinzione che nel breve periodo l’aumento del PIL derivante da una politica fiscale espansiva sia tale da generare una crescita duratura e tale da mantenere sostenibile l’aumento del debito in rapporto al PIL. Si considera preferibile, in alternativa, un intervento strutturale e non condizionato a riforme di segno liberista. In più, si evidenziano alcune criticità nel modello di previsione, accentuate dalle incognite politiche che pesano sulla revisione del Patto di Stabilità e Crescita e dalla guerra in Ucraina.
Il PNRR (Piano Nazionale di Ripresa e di Resilienza) costituisce il programma di politica economica italiano nell’ambito di quello europeo denominato Next Generation EU (NGEU) ed è strutturato nella forma di investimenti finalizzati a raggiungere gli obiettivi di crescita e di resilienza. Il PNRR italiano è quello maggiormente finanziato fra quelli degli altri paesi europei.1
Questo saggio si propone di dar conto di due ordini di critiche mosse al Piano, ovvero la sua condizionalità rispetto alle politiche di austerità (quantomeno nella interpretazione di quella parte della Commissione Europea che fa riferimento ai c.d. ‘paesi frugali’) e la sua insufficienza sotto il profilo quantitativo. Non si entrerà nel merito delle singole riforme, ma si valuterà l’impatto complessivo che il combinato di politiche fiscali espansive e riforme stesse può avere sull’economia italiana post-COVID.
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Strage di Capaci, trent’anni dopo
di Pino Arlacchi
In occasione del trentennale della Strage di Capaci (23 maggio 1992) vi proponiamo, per gentile concessione dell’autore, un breve estratto dell’ultimo libro di Pino Arlacchi, dal titolo Giovanni e io, uscito per i tipi di Chiarelettere (sul sito www.pinoarlacchi.it potete trovare l’introduzione). Vicino ai giudici Chinnici, Falcone e Borsellino, in prima linea contro Andreotti, Cosa nostra e la cosiddetta mafia di Stato, Pino Arlacchi ha scritto un libro particolarmente significativo che non è solo il racconto di una bella amicizia e di un forte legame professionale, ma anche l’occasione per una ricostruzione storica profonda e accurata, condita con importanti aneddoti e retroscena, di una lunga stagione della storia del nostro Paese, che ha visto come protagonista la criminalità del potere (“il gioco grande” del potere direbbe Giovanni Falcone) le cui varie componenti hanno spesso interagito tra loro sui diversi terreni della corruzione sistemica, della mafia e dello stragismo, tramite una miriade di vasi comunicanti che hanno fatto circolare lo stesso sangue infetto all’interno di un unico fragile corpo.
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Gladio, Mattarella e il dopostragi
Pur non essendo più titolare di capacità investigativa, e dovendosi tenere lontano da qualsiasi indagine in corso per non fornire pretesti ai suoi nemici, Giovanni [Falcone] non resisteva all’attrazione fatale esercitata su di lui dai casi più misteriosi del passato. Anche perché c’erano in campo sviluppi clamorosi, come la rivelazione del segreto su Gladio fatta da Giulio Andreotti alla fine del 1990.
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La posta in gioco in Ucraina
di Massimiliano Bonavoglia
Premessa: consapevole che l’informazione mediatica ha disseminato automatismi interpretativi e chiavi di lettura preconcette dell’attuale situazione in Europa orientale, lo scrivente prega il lettore di considerare il meccanismo della sineddoche inversa come un cliché da cui guardarsi. La sineddoche inversa è quella figura retorica in cui, invece di intendere il tutto, nominando la parte (il dito per la mano, la mano per il corpo, eccetera) come accade nella sineddoche semplice, ci si ritrova ad aver detto sempre una singola parte, pur cercando di indicare altre parti del tutto, e dunque il tutto viene ridotto a quella sua singola parte. Attraverso questo filtro assunto inavvertitamente da moltissimi di quelli che si informano mediante tv e giornali, se si loda Putin, si è putiniani, se si critica Biden, si è putiniani, se si nominano orrori commessi dagli ucraini, di nuovo, si è putiniani. Il tenore del dibattito pubblico in Italia è tale che si viene etichettati come putiniani, qualunque cosa dissonante si dica rispetto alla sola verità ascoltabile, tanto che chi dissenta, integri in modo critico, o si discosti dal pensiero unico atlantista, viene immediatamente ritenuto una spia russa, che dovrebbe vergognarsi, visti i morti di Bucha, a non esordire recitando un incipit oramai obbligato: “C’è un invasore e un invaso, va difeso l’invaso, e perseguito l’invasore”. Chi avesse bisogno di sentirsi ripetere queste parole come introduzione di qualsiasi ragionamento o retrospettiva sulle vicende di quei luoghi, è invitato a provare semplicemente a seguire il tracciato e solo al termine decidere autonomamente a quale categoria esso appartenga.
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Secondo un recente articolo del DailyMail.com il figlio del presidente degli Stati Uniti d’America Hunter Biden risulta aver inviato alcune e-mail che confermano il suo coinvolgimento nei biolaboratori presenti in Ucraina1 in cui si lavorava, fino all’entrata dell’armata rossa, alla produzione di armi biologiche, quali virus e batteri coltivati in laboratorio.
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Tra 1 abito e 10 braccia di tela: il problema dell'equivalenza
di Frank Grohmann
«È questo ciò di cui si tratta, ed è questo che voglio proporre oggi alla fine di questa lezione: gli è che la Metonimia, a rigor di logica, costituisce quel luogo dove noi dobbiamo posizionare qualcosa che è primordiale, e questo qualcosa è talmente primordiale ed essenziale nel linguaggio umano al punto che noi, qui, al contrario, lo assumiamo secondo la dimensione del senso. Voglio dire che, partendo dalla diversità di questi oggetti - che sono già costituiti a partire dal linguaggio, e in cui viene introdotto il campo magnetico del bisogno di ciascuno, con le sue contraddizioni - la risposta che ho introdotto precedentemente a questo qualcos'altro, che forse qui potrebbe sembrare paradossale, è stata quella della dimensione del valore.
E questa dimensione del valore, è per l'appunto qualcosa che possiede una sua dimensione di senso in relazione a esso. Si pone e si impone in quanto essere in contrasto, a partire dal fatto che si tratta di un altro versante, di un altro registro. Se qualcuno di voi ha abbastanza familiarità; non dico con tutto il Capitale - chi ha letto il Capitale! - ma con il primo libro del Capitale, che in generale hanno letto tutti, vi chiederei di andare alla pagina in cui Marx, nel formulare quella che, in una nota, viene chiamata la teoria della forma particolare del valore della merce, appare come un precursore della fase dello specchio. In questa pagina [N.d.T.: sulla forma di equivalenza del valore della merce] - in questo suo prodigioso primo libro, che ce lo mostra, cosa rara, nelle vesti di uno che tiene un discorso filosofico articolato - Marx fa questa osservazione eccessiva e sovrabbondante, egli fa la seguente considerazione: che prima di intraprendere qualsiasi tipo di studio delle relazioni quantitative di valore, come prima cosa è necessario presupporre che non può essere stabilito nulla, se non sotto forma dell'istituzione di una specie di equivalenza fondamentale che non si riferisce semplicemente ai tanti tessuti uguali, ma alla metà del numero degli abiti; cioè, esiste già qualcosa che va strutturato nell'equivalenza tela-vestito - vale a dire che gli abiti possono rappresentare il valore della tela, nel senso che essa non è, come un abito, qualcosa che può essere indossato; e che all'inizio dell'analisi c'è qualcosa per cui l'abito può diventare il significante del valore della tela.
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Pòlemos, padre di tutte le cose, 2/5. Lukács e Bloch nella grande guerra
di Antonino Infranca
La Prima Guerra Mondiale divise fisicamente Bloch e Lukács in forma definitiva, non torneranno ad incontrarsi mai più. Essi avevano dato vita a una vera e propria simbiosi intellettuale, alla maniera di Schelling e Hegel o Croce e Gentile. Da questa distanza fisica, poi comincerà anche una distanza ideologica, fino al momento del confronto critico nel 1935, venti anni dopo. Torneranno a scriversi soltanto dopo la Seconda guerra mondiale.
Come è noto entrambi furono profondamente avversi alla guerra, al punto che Bloch per evitare la chiamata alle armi si rifugiò in Svizzera e vi rimase per tutta la durata della guerra. Le motivazioni che spinsero Bloch all’esilio sono nel suo pacifismo. Lukács, invece, aveva motivazioni di ordine più strettamente politico:
A proposito della guerra non posso proprio dire altro che io fin dal primo istante fui contro. La mia posizione era allora più o meno che le armate tedesche e austriache avrebbero forse battuto i russi, e allora i Romanov sarebbero caduti. Fin li, tutto bene. Poteva anche darsi che l’esercito tedesco e quello austriaco venissero battuti dall’esercito anglo-francese e che sarebbero caduti anche gli Asburgo e gli Hohenzollern. Pure questo andava bene. Ma poi chi ci avrebbe difeso dalla democrazia occidentale? Qui si può vedere come la mia avversione per il positivismo aveva anche motivi politici[1].
Lukács rifiuta la guerra ma non sa cosa proporre in sostituzione delle sue conseguenze, perché egli intuisce che questa è una nuova forma di guerra, è una guerra universale, che avrà conseguenze universali. Si ritrova in quella che Hegel chiamò la “mera negatività”. Gli era chiaro che la guerra era una forma di dipendenza della monarchia asburgica e con essa della società civile ungherese rispetto al Reich tedesco e alle sue mire di espansionismo imperiale in Europa.
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La buona morale non ci salverà
di Giulio Calella
La scrittura «engagé», dai social network alla letteratura, adotta un linguaggio sempre più individualizzante e rivolto a rassicurare la propria «bolla». Occorre invece un vocabolario in grado «dov'era l'io di fare il noi»
Nel tempo della fine delle grandi narrazioni, il vocabolario consolidato su cui si è retto per decenni il movimento operaio si è diradato perdendo credibilità. Si tratta di un fenomeno epocale di lunga durata, iniziato almeno negli anni Ottanta del Novecento, frutto della sconfitta dei movimenti e dell’alternativa politica al capitalismo: l’epoca neoliberista ha pian piano espropriato i linguaggi degli espropriati, in un processo che ha subito un’accelerazione profonda negli ultimi quindici anni. Molte delle recenti esplosioni sociali – dai Gilet Gialli alle varie e diversificate mobilitazioni dallo stile populista – hanno mostrato caratteristiche «spurie», spesso si sono autodefinite «né di destra né di sinistra», diventando difficili da identificare in modo univoco proprio perché prive dei linguaggi e della memoria storica dei movimenti e delle tradizioni politiche.
In presenza di un ritorno dell’attivismo, seppur prevalentemente giocato sui social network, questa discontinuità discorsiva potrebbe anche essere un’opportunità di liberarsi di alcuni schemi precostituiti, ma non sembra al momento emergere un nuovo vocabolario efficace.
L’iper-politica degli influencer
Anton Jäger su Jacobin ha definito l’attuale come una fase di passaggio «dalla post-politica all’iper-politica». Ossia, le organizzazioni sociali e politiche continuano a essere impantanate nella crisi profonda iniziata più di trent’anni fa ma assistiamo a improvvise seppur poco durature esplosioni sociali di massa – basti pensare alle proteste di Black Lives Matter dopo l’uccisione di George Floyd – e a un profluvio di contenuti politici veicolati individualmente sui vari social network.
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Per una filosofia della geopolitica
di Pasquale Noschese
Che il prestigio della geopolitica sia in rapida ascesa, è possibile constatarlo con disarmante facilità: basterebbe guardare le ultime centinaia di ore di trasmissioni televisive. Rimonta che è innanzitutto lessicale, un aspetto non proprio secondario, in quanto non possiamo pensiero oltre i confini del nostro vocabolario (citofonare ad Heidegger per un’autorevole conferma). Si tratta, peraltro, di un rarissimo caso di una “moda” terminologica che non riguardi un anglismo. Un’effervescenza culturale strettamente congiunturale o la premessa di un cambiamento reale nella nostra cultura? Per abbozzare una prima risposta di un dibattito curiosamente silenzioso, è di certo utile guardare alle necessità strutturali che si faranno incontro alla nostra collettività, e che probabilmente già costituiscono le cause remote del revival della geopolitica.
La Storia non ha fatto in tempo a finire che subito è nata la frenesia di inaugurarne il ritorno. Il 2001, il 2003, il 2008, il 2011, il 2014, il 2020 e adesso il 2022. Principali indiziati: il terrorismo, la Cina, Putin, occasionalmente il Covid. Questi annunci, per quanto ispirati dalla buona fede di svegliare l’Italia o l’Europa dal sonno dogmatico della postmodernità, sono imprecisi nel voler trovare un evento, pure simbolico, che in virtù della sua forza intrinseca riesca a folgorarci col ricordo della storia. Nessun evento (nessun “oggetto” in generale) è così gentile da regalare un’interpretazione univoca di sé: è un pregiudizio realista quello di far fede su una fantomatica evidenza epistemologica dei fatti, tanto più se si parla di avvenimenti storici. Il dramma è che abbiamo perso la capacità di conferire senso storico (e quindi strategico) agli eventi, abbiamo perso il sentimento della Storia.
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La parabola dell’economia politica
III. Marx, la trasformazione del plusvalore in profitto, interesse e rendita
di Ascanio Bernardeschi
I capitalisti commisurano il plusvalore estratto non al solo capitale variabile, ma a tutto il capitale: in tal modo il plusvalore si trasforma in profitto. Avvicinandoci alla complessità del reale e alla concorrenza fra diversi capitali si vede che il plusvalore viene ripartito fra i capitalisti di tutti i comparti, produttivi e improduttivi, in ragione all’incirca proporzionale al capitale anticipato. I prezzi che ne scaturiscono differiscono dai valori, ma è la legge del valore a determinarli con le opportune mediazioni. Qui la parte I, qui la parte II
La trasformazione del plusvalore in profitto, del saggio del plusvalore in saggio del profitto e dei valori in prezzi di produzione
Dal punto di vista dei capitalisti il risultato economico, che sappiamo scaturire dal solo plusvalore, corrispondente al lavoro non pagato, deve essere valutato in rapporto all’intero capitale anticipato e non al solo capitale variabile. Lo scopo del capitale è la sua autovalorizzazione, e la si misura confrontandola con tutto il capitale. Diviene perciò, da quel punto di vista del capitale, cruciale il saggio di incremento del capitale, ΔD/D. Il plusvalore, in quanto rapportato all’intero capitale prende così la forma di profitto e l’efficienza delle imprese è misurata dal saggio del profitto, cioè il rapporto fra i profitti realizzati e tutto il capitale anticipato. Tale rapporto è espresso dalla seguente relazione
r=pv/(c+v) (1)
dove r è il saggio del profitto, c il capitale costante, v il capitale variabile, e il profitto in questa fase dell’analisi viene identificato con il plusvalore, pv. Questa relazione produce l’illusione che tutto il capitale, e non solo la forza-lavoro, contribuisca a produrre profitti.
Essendo questa la misura del rendimento di un capitale, i capitalisti cercheranno di investire i loro capitali nei settori che consentono di realizzare il maggiore saggio del profitto, che comporta, a parità di valore del capitale anticipato, anche maggiori profitti assoluti. Questa tendenza fa sì che accresca la competizione fra i capitali allocati nei settori maggiormente profittevoli, con un conseguente aumento dell’offerta di prodotti di quei settori, determinando una tendenza alla diminuzione dei valori di mercato dei rispettivi prodotti e quindi dei corrispondenti profitti e un aumento in quelli dove invece la competizione va diminuendo.
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Il conflitto in Ucraina e gli oligarchi statunitensi
di Federico Fioranelli*
Riceviamo da Fosco Giannini, direttore di Cumpanis, e con grande piacere rilanciamo...
Solamente la mancanza di adeguati strumenti interpretativi o una lettura superficiale della realtà possono portare a credere alla versione che ci viene fornita dai principali canali di informazione del nostro Paese e a non capire che il conflitto in Ucraina affonda le proprie radici nell’economia di guerra permanente degli Stati Uniti e nella natura oligarchica del capitalismo statunitense.
Gli Stati Uniti hanno un sistema di capitalismo che è possibile definire “oligopolistico”. Esso è un sistema che non rispetta i principi della concorrenza perfetta e che poggia sulle corporation, vale a dire sulle grandi e grandissime imprese.
Dato che le grandi corporation sono in grado di imporre il prezzo di vendita dei loro prodotti, negli Stati Uniti i prezzi tendono ad essere più rigidi verso il basso che verso l’alto e il soprappiù economico, cioè la differenza tra ciò che la società produce e i costi necessari per produrlo, tende ad aumentare nel tempo sia in cifra assoluta sia come quota della produzione complessiva.
Tuttavia è evidente che, pur avendo la tendenza a generare quantità sempre maggiori di sovrappiù economico, un sistema di capitalismo oligopolistico non riesce sempre a creare gli sbocchi di consumo e d’investimento necessari per assorbirli. Ne consegue che un sistema di questo tipo sia caratterizzato da crisi e dalla tendenza a cadere nella stagnazione. Infatti, il mancato assorbimento del sovrappiù economico crea un vuoto di domanda che rende potenziali e non reali i profitti, genera perdita di reddito e impedisce la piena utilizzazione del lavoro e degli impianti produttivi.
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Ucraina, 2022: la fine dell’Europa e della globalizzazione
di Pier Giorgio Ardeni
Voci sparse emergono dall’assordante barrage bellicista a reclamare la pace, il “cessate il fuoco”. Nell’imperiosa richiesta di prendere parte pare di dover fare ammenda, ricordarci che, sì, siamo figli di partigiani che “non avrebbero mai accettato di arrendersi, nemmeno al prezzo della loro vita”. Perché “ora la guerra è qui, nel cuore dell’Europa”, non in qualche remoto angolo di mondo dove si ammazzano con cannoni made in Italy, perché è una guerra “a difesa della democrazia” e, quindi, “dobbiamo fare qualcosa, non possiamo stare con le mani in mano e assistere al massacro”.
Ma il mondo occidentale, ce lo ricorda Slavoj Žižek, “stands for nothing”, si batte per il niente che nemmeno la sua ipocrisia sa nascondere. Fingendo di non sapere che la “lumpen-borghesia” che è emersa nelle ex-repubbliche sovietiche – in Russia come in Ucraina – controlla i capitali grazie alle privatizzazioni dei beni statali, ottenuti perlopiù da ex-gerarchi del partito dopo il crollo e grazie alla terapia-shock del passaggio all’economia di mercato. Da noi voluta e sulla quale anche noi abbiamo lucrato (ma il mercato non è “morale”, no?).
In tutti questi anni abbiamo fatto lauti affari con quelli, da una parte e dall’altra del lungo confine russo-ucraino sulle pianure sarmatiche. Ci abbiamo comprato non solo gas e petrolio, ma grani e fertilizzanti. L’Ucraina è un paese che dopo lo smembramento dell’Urss ha perso un quarto della popolazione, con un reddito medio che è un quarto di quello UE, popolato secondo linee di demarcazione storiche: nelle province (oblast) orientali, a maggioranza russa e russofona, in quelle occidentali con grosse minoranze polacche o rumene.
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La lotta di classe nell’epoca della finanza moderna
di Antonio Pagliarone1
Introduzione al volume La lotta di classe nell'epoca della finanza moderna, Asterios editore, Trieste 2022
La pubblicazione di questi articoli, come COVID-19 e la catastrofe del debito delle corporation in arrivo di Joseph Baines e Sandy Brian Hager, La lotta di classe nell’epoca della finanza moderna di Julius Krein un commentatore che pubblica regolarmente su America Affair, è utile per introdurre nel dibattito una immagine del capitalismo moderno degli Stati Uniti che non viene assolutamente presa in considerazione dalla stragrande maggioranza degli osservatori del vecchio continente anche da quelli ritenuti più affidabili. Sin dai primi anni del nuovo millennio sono stati fatti dei tentativi per stimolare una riflessione su quella che a suo tempo alcuni di noi, pochissimi in effetti, definivano la “finanza speculativa”. Uno dei primi studiosi che hanno analizzato la dinamica dello Speculative Capital fu Nasser Saber, che pubblicò nel 1993 con questo titolo il primo di una serie di volumi per le edizioni Financial Times Management. Naturalmente non esiste alcuna traduzione dall’inglese dei suoi lavori ma essi si rivelarono utilissimi per poter approfondire in maniera empirica la trasformazione del capitalismo verificatasi in maniera intensiva dopo il 20011 2, anno che rappresenta lo spartiacque tra due ere: quella del capitalismo classico e quella del capitale speculativo che ha prodotto i suoi guai peggiori con la Great Recession del 2007-2008 dalla quale a quanto pare non riusciamo assolutamente ad uscirne. Krein presenta un quadro della cosiddetta “finanziarizzazione” che risulta interessante nelle sue caratteristiche generali, ma i presupposti avanzati per spiegare la dinamica della finanza speculativa non sono così precisi anche se il risultato d’insieme è efficace.
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Masse postmoderne. Considerazioni su feticismo e dispotismo nel tempo dell’estetizzazione amministrata
di Marco Gatto*
1. Agglomerati transitori e identificazioni attimali
Di fronte alle recenti immagini dell’assalto alla sede romana della Cgil dello scorso 9 ottobre, ci siamo chiesti in quale misura l’evidente partecipazione di organizzazioni neofasciste avesse incontrato la protesta di corpi sociali meno smaccatamente politicizzati e più direttamente legati, in quel frangente, alla contestazione per le politiche di emergenza sanitaria adottate dal governo (green pass in testa). Abbiamo riflettuto, di fronte a quelle stesse immagini, sul peso specifico di alcune figure tribunizie, colte dai media nell’atto di incitare i presenti o, come si direbbe con lessico giornalistico, di aizzare la folla. Ed è stata dai più condivisa, probabilmente, la sensazione di trovarsi di fronte a retori casuali, finanche folcloristici, a pose tanto prevedibili quanto consumate, a un gioco di ruoli persino meccanico e tuttavia capace di scatenare una furia distruttiva simbolicamente orientata. Così come a non pochi dev’essere sfuggito il profilo fin troppo vario di quella folla, la cui costituzione sembrava caratterizzata da un’aperta provvisorietà degli attori partecipanti. Quasi che a vestire i panni dell’aggressore potesse essere, in fondo, chiunque e che la violenza risultasse come il naturale compimento di un modo d’esserci, come un tentativo di partecipare all’atto, di manifestare in quel momento – e solo in quel momento – la propria presenza. Che ad essere colpita sia stata la sede del maggior sindacato italiano dei lavoratori, è un dato di fatto incontrovertibile e nello stesso tempo carico di significati, che deve essere compreso insistendo su un’altra constatazione, relativa al carattere estremamente spurio e ibrido di quel chiunque.
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Il congelamento di agosto
di Pierluigi Fagan
Raccolgo qui una serie di informazioni, articoli, opinioni lette in questi giorni sulla stampa internazionale, per tentare la risposta alla domanda su quanto manchi alla fine del conflitto russo-ucraino. Sviluppiamo il ragionamento in forma ovviamente ipotetica, sebbene riteniamo di aver solide ragioni che limitano il campo delle ipotesi. E la risposta alla domanda è simile a quella data, se ben ricordo, poco tempo fa da un generale ucraino ed altri analisti che indicava agosto come termine dello scontro armato. Perché?
Chiariamo innanzitutto che con “termine del conflitto” intendiamo non la pace, ma la sospensione delle operazioni sul campo, quello che chiamano “congelamento del conflitto”, il conflitto rimane, diventa diplomatico o prende altre forme politiche ed economiche e perde quelle militari. Agosto è la stima del tempo che i russi potrebbero impiegare per prendere territorio dell’est fino ai confini amministrativi pieni dei due oblast del Donbass. Quasi raggiunto l’obiettivo per il Lugansk, manca ancora un bel po’ per il Donestsk. A quel punto, i russi potrebbero vantare appunto tutto il Donbass, la striscia sud fino all’antistante di terra della Crimea, il Mar d’Azov trasformato in un lago russo, la Crimea che già avevano annessa, il blocco navale completo nell’antistante Odessa, Kherson, la centrale di Zaporizhzhia (la più grande d’Europa) e altri annessi.
I russi avevano dato gli obiettivi dell’operazione militare speciale già il 7 marzo in una intervista Reuters a Peskov e da allora sono stati ribaditi ogni volta che ne hanno avuto occasione. Che fossero i veri obiettivi o gli obiettivi di minima qui non ci interessa, ci interessa fossero la versione ufficiale perché è rispetto a questa che il Cremlino chiederà alla propria opinione pubblica e quella internazionale, di esser giudicato.
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Preparativi di un nuovo mondo: circa la “trasformazione strutturale” dell’economia Russa
di Alessandro Visalli
Giovanni Arrighi descrive la svolta degli anni ottanta che produsse il ridisciplinamento dei lavoratori occidentali (il cui reddito reale è da allora stagnante[1]) come ultimo effetto di una lunga catena di cause e conseguenze il cui punto focale è la decolonizzazione. La svolta i cui alfieri furono Ronald Reagan negli Stati Uniti e Margareth Thatcher in Gran Bretagna è quindi letta nel contesto della lotta egemonica tra Est ed Ovest. La crisi dei profitti e della competitività delle merci occidentali, attivata dal cambiamento delle ragioni di scambio, in particolare di alcuni prodotti chiave (in primis energetici), determinò allora uno squilibrio fondamentale della bilancia dei pagamenti e fiscale. Squilibrio che fu aggravato dalle politiche di compensazione che si accumularono per tutti gli anni sessanta e settanta giungendo, alla fine, ad un punto di rottura. Politiche rivolte a salvare il grande capitale e cercare di conservare, allo stesso tempo, la pace sociale. Allora, con la svalutazione del dollaro (e della sterlina) del 1969-73 e con il distacco del 1971 dalla parità con l’oro derivarono un gioco di reciproco scaricabarile tra alleati. Un gioco a chi alla fine si sarebbe trovato a pagare la crisi. Toccò a noi.
Per evitare la distruzione di capitali, questi si rifugiarono nel loro “quartier generale”, ovvero nei mercati finanziari, cercando di moltiplicarsi senza passare per la produzione. Ma, come scrive Arrighi in “Adam Smith a Pechino”, in questo modo alla fine “gli Stati Uniti passarono dal ruolo di principale sorgente mondiale di liquidità e di investimenti diretti all’estero che avevano coperto durante gli anni Cinquanta e Sessanta, a quello di principale nazione debitrice e di pozzo di liquidità che non hanno più abbandonato dagli anni Ottanta”[2].
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Il keynesismo militare nel ciclo economico-politico
di Gianmarco Oro
Nelle sue pubblicazioni transuenze ha dedicato, e continuerà a farlo, molto spazio alle elaborazioni sulle trasformazioni dell'economia «post-covid». Il contributo di oggi di Gianmarco Oro, dottorando di ricerca in economia politica presso l'Università degli Studi di Macerata, introduce un tema che rischia di diventare quantomeno attuale: la crescita degli investimenti nell'industria di guerra come modalità di fuoriuscita dalla crisi. Nel prossimo futuro proveremo a dedicare un certo spazio al tema. L'articolo di oggi è molto utile perché aiuta a contestualizzare storicamente il keynesismo militare nel ciclo economico-politico e perché fornisce delle chiavi di lettura molto interessanti per decodificare alcuni aspetti strutturali delle politiche economiche del dopoguerra.
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I paesi occidentali si trovano oggi nella fase di restaurazione capitalistica dei rapporti sociali ed internazionali nel post pandemia. Contestualmente, i governi europei sono allineati e concordi sul fatto che questa restaurazione, ovvero l’uscita dalla crisi economica, debba avvenire a mezzo di spesa pubblica fatta in disavanzo e finanziata con nuova moneta (via istituto di emissione o via banche commerciali). Sembrerebbe dunque la fine delle austerità e delle restrizioni monetarie usate come mezzo di disciplina per i governi, se non fosse che l’indirizzo prioritario di spesa pubblica sia diventato (complice la destabilizzazione dell’area est-europea con l’invasione russa dell’Ucraina) l’aumento della spesa in armamenti (con obiettivo al 2% del Pil entro il 2024 nel bilancio dei paesi Nato). Questa scelta ha suscitato una varietà di opinioni a favore o contro. Qui vogliamo lasciare che altre penne si prodighino a dare sostanza geopolitica, sociale e morale a queste decisioni, per fornire esclusivamente un’analisi critica dei fatti di politica economica per come si manifestano nell’attuale congiuntura storica.
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“Il capitale mondo”: sguardo su globalizzazione, complottismi e dintorni
di Joe Galaxy
È uscito, per le edizioni Meltemi, un importante libro di Robert Kurz, Il capitale mondo. Per una sintetica presentazione del testo e della sua storia, rimandiamo all’introduzione, dove vengono tratteggiati velocemente anche temi e motivi di fondo.
In questo articolo vorrei invece sottolineare come, in un periodo travagliato quale quello che stiamo attraversando, il libro di Kurz rappresenti un raro tentativo, a mio avviso riuscito, di spiegare la crisi mondiale in modo lucido e ben argomentato, evitando derive cospirazioniste o destrorse, oggi così di moda.
Kurz, sulla scorta della teoria critica del valore, corrente di pensiero di cui ha rappresentato e rappresenta ancora la mente più brillante, riesce infatti a dare un quadro coerente di una serie di fenomeni che nei nostri tempi affranti sconcertano i più, fenomeni che scombinano le coordinate e provocano spesso grande confusione, anche teorica (solo per fare un esempio, la difficoltà di riconoscere oggi cosa sia sinistra e cosa destra, addirittura se questa distinzione abbia ancora senso).
Questo caos non creativo confluisce spesso in interpretazioni del reale che hanno un che di surreale, letture che immaginano grandi complotti e grandi manovratori i quali, da qualche luogo non ben definito ma immancabilmente sinistro e cupo, decidono delle sorti del mondo e dei suoi abitanti.
Sia chiaro: non mancano luoghi e organizzazioni, spesso statuali, dove effettivamente si decide su questioni o aspetti rilevanti per la sorte di ognuno di noi.
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