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Le scorie dentro di noi, 2200 torri Eiffel sopra di noi
La plastica dimostra come l’umanità non sia in grado di gestire il pianeta
di Gabriele Lolli
La prima azione che ho fatto dopo aver letto le prime venti pagine del libro è stata quella di cambiare i pantaloni della tuta che indossavo in casa, che sono al 70 per cento cotone e al 30 per cento di poliestere. Le microplastiche sono particelle dell’ordine di un micron (un millesimo di millimetro, e più piccole ci sono anche le nanoplastiche, nella scala di virus e molecole); in casa, oltre che dai vestiti (di acrilico, nylon, elastan) per sfregamenti e usura, scorie di plastica sono rilasciate da lavatrici, coperte, divani, tappeti, e ci sono quelle volutamente inserite nei prodotti acquistati come dentifricio, detersivi, cosmetici (oltre alle plastiche note a tutti, dalle bottiglie agli imballaggi dei supermercati ecc.). Nel 2022 è arrivato l’annuncio che la plastica è presente nel sangue, sospettata finora, adesso provata con esperimenti che ne hanno rilevato la presenza nell’80 per cento circa dei soggetti esaminati; piccole quantità per ora, ma misurabili, e a ruota scoperte anche nei polmoni, nelle urine, nel latte materno, nel liquido seminale: sono il polietilene tereftalato, il polistirene, il polietilene, altri con quote a scendere. Non si sanno ancora gli effetti, ma incombe il ricordo delle polveri di amianto.
Le microplastiche sono introdotte anche con il cibo, perché usate nella produzione agricola, dove si cospargono i campi con piccole pastiglie plastificate a lento rilascio: col tempo i prodotti chimici entrano nel suolo, ma la plastica resta lì; e comunque i vasi linfatici delle piante portano nutrienti ai semi e insieme anche microplastiche assorbite dal terreno; la frutta più che la verdura è inquinata per i tempi più lunghi di maturazione ed elevata vascolarizzazione del frutto.
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Lo strano caso del caso Moro by Report
di Davide Carrozza
Domenica sera è andata in onda una puntata di Report sul caso Moro: una serie di inesattezze e omissioni davvero imbarazzante per una trasmissione del servizio pubblico. Le paventate incredibili rivelazioni annunciate via social nei giorni precedenti, in realtà non sono altro che i soliti argomenti già analizzati, le solite congetture cavalcate dalla Commissione Moro 2, le quali però inevitabilmente cozzano con le ben 4 sentenze e i lavori di altre due commissioni. Sarà forse anche per questo che tale commissione non produsse mai una relazione finale non chiudendo i lavori? Di seguito solo alcune delle questioni affrontate da Report che necessitano perlomeno di chiarimenti, non escludo di ritornarci con un altro articolo di aggiornamento…troppa roba!
1) Il presunto covo di Via Massimi.
In numerose sentenze, in particolare nel Moro Quinques si ricostruisce con dovizia di dettagli, (grazie soprattutto alla testimonianza dell’Ingegner Altobelli, alias Germano Maccari poi condannato all’ergastolo come quarto carceriere), la genesi del covo di Via Montalcini, indicato da tutte le sentenze come unica prigione dell’On. Moro per tutti i 55 giorni: acquistato dalle BR con i proventi del sequestro Costa, fu individuato perché possedeva tutte le caratteristiche necessarie e ristrutturato dallo stesso Altobelli/Maccari per ricavare l’intercapedine e la cella insonorizzata dove fu rinchiuso Moro per 55 giorni; lo stesso Maccari fu infatti ingaggiato dalle BR per le sue doti da costruttore ed esperto di muratura. Dopo la conclusione tragica che conosciamo infatti, fu lo stesso Maccari a smantellare il tutto insieme a Prospero Gallinari, l’altro carceriere.
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L’Italia nel Triangolo delle Bermuda tra Pnrr, Mes e Patto di Stabilità
di Fulvio Bellini
La politica economica e quella estera dettate dagli Usa, confezionate dall’Unione Europea e applicate dal Partito Unico in salsa urbana (Pd) e da quello in salsa burina (Fratelli d’Italia), ci stanno conducendo fuori dal tunnel, dove ci sta… l’Argentina e il suo default
“L’uomo è immortale; la sua salvezza viene dopo. Lo Stato non è immortale, la sua salvezza si ottiene ora o mai più”.
Cardinale Armand-Jean du Plessis duca di Richelieu
Premessa: alcune questioni sul senso di uno Stato
Henry Kissinger ha spesso dimostrato di essere affascinato dalla figura del Cardinale Richelieu, dal suo pensiero politico e dal suo modo di condurre lo Stato. Anche quando analizza l’operato di Otto von Bismark di un paio di secoli dopo, l’ex Segretario di Stato Usa ci infila il pensiero del Cardinale che abbiamo citato, ad esempio accostandolo al seguente passaggio di una lettera sul concetto di realpolitik indirizzata dal Cancelliere di Ferro al suo mentore, generale Ludwig von Gerlach, aiutante di campo del Re di Prussia: “Sono pronto a discutere con voi il punto di vista dell’utilità, ma se porrete antinomia fra diritto e rivoluzione, cristiani e infedeli, Dio e il diavolo, non potrò più discutere e mi limiterò a dire: ‘Non sono della vostra opinione e voi giudicate in me ciò che non vi spetta giudicare’. Questa amara dichiarazione di fede era l’equivalente funzionale dell’asserzione di Richelieu che, essendo l’anima immortale, l’uomo deve sottoporsi al giudizio di Dio, ma, essendo lo Stato mortale, questo può essere giudicato solo da come funziona” (Henry Kissinger, l’Arte della Diplomazia). Richelieu e Bismarck pongono alcune questioni di filosofia della politica assai utili da considerare nell’analisi della situazione italiana odierna, di un paese cioè che pare non veda nessuna luce nel tunnel di decadenza nel quale si è infilato ormai trent’anni fa. A titolo di aggiornamento, nell’ultimo mese del 2023 il Bel Paese è finito, consapevolmente oppure meno, addirittura al centro di una sorta di Triangolo delle Bermuda, foriero di foschi presagi per il 2024 e gli anni a venire.
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Yemen: un paese strategico nella scacchiera geopolitica
di Paolo Arigotti
La narrazione del mainstream sovente ci presenta gli Houthi – altrimenti detti Ansar Allah (“partigiani di Dio”) – come un gruppo ribelle, quasi a sottolinearne la natura non ufficiale di quello che, piaccia o meno, rappresenta il governo dello Yemen, perlomeno di una buona parte di questa martoriata nazione, ivi compresa la capitale Sanaa[1]. E non sarebbe neppure il caso di sminuirne il potenziale militare, tenuto conto che parliamo di un movimento di resistenza sciita che è stato in grado di tenere testa, a partire dal 2015, alla coalizione a guida saudita, nell’ambito di una lunga e sanguinosa guerra civile che ha funestato la nazione più povera della penisola arabica.
Gli Houthi sono tornati all’onore delle cronache quando hanno apertamente sfidato la potenza talassocratica per eccellenza, quella statunitense, nel contesto di uno dei più importanti e strategici “colli di bottiglia” del mondo: lo stretto di Bab al-Mandeb, sul mar Rosso, lo snodo di collegamento con l’oceano Indiano. Nessun dubbio circa le ragioni degli Houthi, che possono essere lette nelle dichiarazioni ufficiali del governo yemenita, nelle quali traspare la natura ritorsiva della strategia messa in atto a partire dallo scorso 14 novembre, per quanto il primo attacco si sia verificato il 19 ottobre, quando il cacciatorpediniere americano USS Carney aveva intercettato tre missili sparati dalle coste dello Yemen. Il gruppo sciita, quale risposta alle violenze perpetrate dalle forze armate israeliane nella striscia di Gaza, già costate la vita a oltre ventimila persone (per lo più donne e bambini), ha annunciato l’intenzione di prendere di mira, con droni e missili, qualsiasi nave legata a Israele che transiti da Bab al-Mandeb, che funge da porta d’accesso anche al Canale di Suez, per il cui tramite – giova ricordarlo - transita circa il 10 per cento del commercio globale e qualcosa come 8,8 milioni di barili di petrolio, corrispondenti più o meno a un decimo delle forniture globali, senza contare il circa 8 per cento di gas liquido.
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Come è possibile sciogliere in questa fase il nodo della questione comunista in Italia?
di Roberto Gabriele – Paolo Pioppi
Riceviamo e pubblichiamo
Le note che seguono servono a rinvigorire la discussione iniziata il 19 novembre col primo Forum. Ci auguriamo che l’interesse dei compagni sia rimasto vivo e per questo ci aspettiamo altri interventi sull’argomento prima che inizi la preparazione del secondo Forum su “I comunisti e la situazione internazionale” che si terrà alla fine di gennaio e della cui preparazione vi daremo conto.
* * * *
L’interrogativo va posto in modo assolutamente onesto e oggettivo non solo valutando i risultati dei ‘comunismi’ che si sono espressi nel nostro paese dopo lo scioglimento del PCI, che sono quelli che conosciamo, ma partendo dal dato degli effetti nella società italiana, e in particolare sui ceti di riferimento del partito comunista. Questo non vuol dire abbandonarsi a un pessimismo senza sbocchi, ma prendere atto della realtà e partire da questa per capire il Che fare?
In una società come quella italiana, in cui l’egemonia del PCI sul movimento dei lavoratori e sui ceti democratici e di sinistra è stata costante per decenni, la mutazione genetica del partito ha prodotto effetti devastanti. Per milioni di uomini e donne che avevano il partito come riferimento, la denuncia degli ‘errori e degli orrori’ del comunismo, l’azione propagandistica della borghesia e dei suoi organi di informazione, il venir meno del ruolo di difesa sociale del sindacato di classe, hanno fatto sì che la parola ‘comunista’ sia diventata qualcosa di estraneo. Se non si fanno i conti con questa realtà, che pesa come un macigno, si riesce solo a smuovere i cocci dei fallimenti registrati finora, ma non si fanno passi in avanti.
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Un test chiamato Gaza – Dal fronte umano (III)
di Collettivo Terra e Libertà
Riprediamo da terraeliberta.noblogs.org, il nuovo “Dal fronte umano”, dedicato al laboratorio-Israele, con uno sguardo specifico sulle collaborazioni delle università e delle fondazioni tecno-scientifiche trentine con il sistema israeliano. Ciò che si sperimenta contro la popolazione di Gaza (e della Cisgiordania) peserà a fondo sulle nostre vite. In tutti i sensi.
Il vasto movimento internazionale contro il genocidio di Gaza e in solidarietà con gli oppressi palestinesi, benché ancora insufficiente a porre fine al massacro in corso, contiene diversi aspetti positivi e alcuni caratteri in parte inediti. Il primo è senz’altro il protagonismo di immigrate e immigrati, per i quali oggi «Gaza è il cuore del mondo» e la Palestina «la patria di tutti gli sfruttati», mentre le complicità occidentali con la pulizia etnica condotta dallo Stato di Israele rappresentano qualcosa di incancellabile e senza ritorno. Da questo deriva la consapevolezza di doversi fare carico direttamente di spezzare le collaborazioni ideologiche, economiche, tecnologiche e militari con il colonialismo israeliano. Ecco allora le tante iniziative di lotta e le azioni contro multinazionali, banche, fabbriche di armi e logistica di guerra: dai blocchi ferroviari a quelli dei porti, dai picchetti fuori dalle aziende belliche alle incursioni o sabotaggi contro Amazon, McDonald’s, Carrefour, H&M, Axa Assurances. Ancora più inedita è la messa in discussione della neutralità della ricerca accademica e universitaria da parte di studentesse e studenti. La crescente indistinzione tra civile e militare, che trova nel sistema israeliano il proprio paradigma, ha reso sempre più stretti i rapporti tra i laboratori universitari, le varie fondazioni tecno-militari e l’industria bellica. «Fuori la guerra dall’università» è uno slogan che sta accompagnando occupazioni, blocchi della didattica, cortei di denuncia dentro e fuori degli Atenei. Il limite di tali importanti iniziative è la consapevolezza ancora scarsa sul fatto che l’intero apparato tecnologico è ormai una potenza di guerra (agli oppressi, alla natura, alla variabile umana e conflittuale). Un modo per avanzare nella critica teorica e pratica è quello di cogliere quanto ciò che Stati e capitalisti di mezzo mondo forniscono allo Stato d’Israele torni indietro affinato e testato sul campo, pronto all’uso per le città e le campagne smart in costruzione anche alle nostre latitudini.
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Il laboratorio del capitale. Metafisica delle competenze e controriforma scolastica
di Marco Maurizi
In cammino verso l’Oltre-Scuola
È sintomatico che l’intervento del Ministro Valditara alla Presentazione del Programma Nazionale “Suola e competenze 2021-2027”[1] sia passato relativamente inosservato. Dalle parti degli “ultra-pedagogisti” di sinistra[2] che lo avevano subito bollato come fascistissimo rappresentante di una scuola passatista, gentiliana e dal pugno duro non si è levato suono. Si capisce il perché. Non avrebbero saputo cosa dire.
Non tanto perché nel giro di un anno il Ministro ha imbellettato il proprio profilo, passando dalla “pedagogia dell’umiliazione” a farsi improbabile paladino di una scuola dell’inclusione, della lotta al sessismo e dell’educazione all’affettività, ma, ciò che più conta, perché la sua amministrazione del PNRR esprime perfettamente le linee ideologiche che da sempre accomunano i desiderata dell’UE e quelli della pedagogia sedicente “progressista”.
Queste ultime convergono nel sottrarre ogni autonomia al lavoratore docente attraverso una sussunzione del suo operato in schemi produttivi, “efficienti”, para-aziendalistici, asservendolo al contempo sempre più a compiti eteronomi di soddisfazione dell’utente-cliente scolastico, con particolare attenzione alle sue esigenze psicologico-emotive e “creative”[3].
Valditara e la pedagogia di sinistra marciano all’unisono, il cammino verso l’oltre-scuola, la Überschule del futuro, è ormai già segnato: i volti e lo stile di chi si avvicenda al MIUR sono relativamente indifferenti rispetto a un’agenda già scritta che esprime tendenze oggettive, di lungo periodo.
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Mes e patto di stabilità. Il problema è l’Unione Europea
di Ascanio Bernardeschi*
Dopo tanti contorcimenti l’Italia ha approvato la brutta riforma del patto di stabilità, ricacciandosi così nelle politiche di austerità prepandemiche. Una nuova eventuale recessione ci troverà privi di strumenti per affrontarla. Il vero problema è l’Unione Europea
Il Patto di Stabilità e Crescita, stipulato nel 1997, mirava al controllo delle politiche di bilancio pubbliche degli Stati membri dell’Unione Europea per impedire, secondo le affermazioni ufficiali, la lievitazione dei disavanzi e dei debiti pubblici e per ricondurli ai parametri stabiliti nel trattato di Maastrich: un deficit pubblico non superiore al 3% del Pil e un debito pubblico al di sotto del 60% del Pil. Per i Paesi aventi parametri al di sopra di quei limiti veniva stabilito un percorso di rientro fatto di “avvertimenti preventivi”, di “raccomandazioni” per abbattere il rapporto deficit/Pil (leggasi tagli alla spesa pubblica e privatizzazioni) e sanzioni per chi non osserva tali raccomandazioni nella forma di deposito infruttifero che viene trasformato in ammenda dopo due anni di persistenza del deficit eccessivo. I Paesi che superavano la soglia del 60% del debito pubblico rispetto al Pil dovevano invece impegnarsi in un percorso di riduzione del debito, che prevedeva un taglio della parte eccedente il 60% nella misura del 5% all’anno, di modo che in 20 anni ogni Stato sarebbe rientrato nel parametro.
L’Italia ha attualmente un debito pubblico del 140%. L’applicazione della misura prevista dal patto avrebbe comportato tagli dell’ordine dei 75 miliardi l’anno per vent’anni, cioè un disastro sociale infinito, tanto che lo stesso Romano Prodi, non certo un antieuropeista, definì questa misura “patto di stupidità”. Infatti né il nostro Paese né altri sono riusciti a centrare l’obiettivo di quel taglio.
Nel 2020 e fino alla fine del 2023, a seguito delle difficoltà generate dalla pandemia, il patto venne sospeso. La sua riattivazione a partire da quest’anno peserà come un macigno anche se vengono proposte da parte della Commissione Europea (costituita da un membro indicato da ciascun governo) alcune modifiche volte ad attenuarne certe rigidità.
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La nuova governance economica europea
di Orizzonte48
Il ritorno dell'austerità espansiva tra triloghi e crescente de-costituzionalizzazione del processo legislativo nazionale
1. Dalla mail di EIR- Strategic Alert n.1/2024, del 4 gennaio 2024, riceviamo il sotto riportato commento alla nuova governance dell'Unione europea, a buon punto di adozione dopo il Consiglio del 20 dicembre 2023; lo riproduciamo ponendovi delle ulteriori note a illustrazione più approfondita del complesso insieme di fonti che compone tale riforma del Patto di Stabilità e Crescita.
Avvertiamo che, sulla scorta della premessa che andremo brevemente ora a svolgere (è breve rispetto alla portata dell'argomento sul piano giuridico-costituzionale), non entreremo nel merito della complicatissima serie di previsioni transitorie di cui tutt'ora si discute nei "triloghi".
2. Quello che ora interessa evidenziare è la sostanza "a regime" della nuova disciplina e come, ancora una volta, ci troviamo a subire, - senza alcuna possibilità concreta di influire sulla sua sostanza regolatoria, della massima importanza nelle nostre vite quotidiane e, in proiezione collettiva, della nostra esistenza democratica -, una disciplina inesorabile e distruttiva, sia dal punto di vista occupazionale, quantitativo e qualitativo, che della nostra capacità industriale, e delle connesse prospettive demografiche, SENZA AVERLA MAI CONCEPITA ALL'INTERNO DI UN DIBATTITO CONFORME AI PRINCIPI FONDAMENTALI DELLA NOSTRA COSTITUZIONE E A QUALSIASI ESPRESSIONE DELLA VOLONTA' POPOLARE RILEVABILE NELLE ELEZIONI POLITICHE.
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Angelo Calemme, La Questione meridionale dall’Unità d’Italia alla disintegrazione europea
Recensione di Ciro Schember
In cambio della riforma del premierato e, in subordine, di quella della riduzione dei poteri del Parlamento e del Presidente della Repubblica, in altre parole, in cambio dell’approvazione del Ddl Casellati, Roma pensa di dare il via libera al Senato per il Regionalismo differenziato ovvero per la realizzazione ulteriore del progetto leghista della “secessione senza secessione”, precisamente della legale separazione socio-economica del Mezzogiorno italiano senza rinunciare all’Unità (politica) del Paese: il 16 gennaio si discuterà, quindi, non solo della riforma per l’elezione diretta del Presidente del Consiglio dei Ministri, ma, anche e soprattutto, della definitiva separazione fiscale di regioni centro-settentrionali come Emilia-Romagna, Lombardia e Veneto, con ciò aggravando ancor di più lo scambio ineguale (subcoloniale) tra Centro-Nord e Sud. A conferma di questa tesi giunge la nota dell’Ufficio parlamentare di Bilancio relativa ai tagli previsti al Fondo perequativo infrastrutturale per gli anni 2024, 2025 e 2026, la quale informa che il Mezzogiorno sin da quest’anno perde 281,1 milioni di euro, 264,2 milioni l’anno prossimo e 300 tra due anni.
Per chi non ne fosse a conoscenza, il Fondo perequativo infrastrutturale è lo strumento costituzionale (introdotto dalla L. Cost. 3/2001, che ha sostituito l’Art. 119 della Cost.) che, all’interno del quadro normativo previsto dal Federalismo fiscale prima e del Regionalismo asimmetrico poi, deve compensare eventuali squilibri (asimmetrie?) fra le entrate tributarie delle regioni italiane e consentire agli enti preposti di erogare i servizi di loro competenza a livelli omogenei su tutto il territorio nazionale.
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Palestina, i diritti negati
Alba Vastano intervista Michele Giorgio
Alba Vastano: Prima di entrare nel tema dell’intervista, possiamo fornire ai lettori brevi informazioni su come è avvenuto che la tua storia professionale si è intrecciata con la storia della Palestina?
Michele Giorgio: Mi sono recato a Gerusalemme per motivi di lavoro, per qualche periodo alla fine del 1989 per conto di un agenzia di stampa. Nel periodo successivo sono andato e tornato varie volte. Vivevo tra Roma e Gerusalemme. Un momento importante è stato nel periodo della guerra del Golfo del ‘91quando sono venuto qui per scoprire quello che accadeva nei territori occupati palestinesi e in Israele durante quella guerra. Poi ho cominciato a collaborare con “il Manifesto”. Sono diventato poi il corrispondente da Gerusalemme. Ho effettuato vari viaggi di lavoro per “il Manifesto” in vari paesi del Medio oriente, nel Nord Africa e in Asia centrale. Nel 2021 ho fondato con altri colleghi una rivista che si chiama “Pagine esteri.it”, rivista di approfondimento politico e culturale sugli Esteri.
AV: Su quanto accaduto il 7 ottobre i media continuano a ribadire che la scintilla che ha scatenato il conflitto con Israele l’ha accesa Hamas con l’attentato definito di matrice terroristica. Qual è la tua opinione, ma soprattutto, qual è la verità sul conflitto in corso e sulle dinamiche dell’escalation?
MG: Sicuramente a Gaza è avvenuta una grossa rappresaglia, da parte di Israele, che ha causato la morte di molti civili innocenti. Non lo affermo sulla base di un mio convincimento personale, ma sulla base di quello che sono le notizie, soprattutto sulla base di quello che riferiscono le agenzie umanitarie più importanti.
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Siria, Libano, Iran, Iraq: escalation di attentati e attacchi in Medio Oriente
di Roberto Iannuzzi
Una serie impressionante di attacchi, attribuiti a Israele, all’ISIS e agli USA, e rivolti invariabilmente contro l’asse iraniano in Medio Oriente, accresce i rischi di destabilizzazione regionale
Negli ultimi dieci giorni, a cavallo fra il vecchio e il nuovo anno, una progressione sconcertante di attentati ha colpito obiettivi legati all’asse iraniano in Medio Oriente. La serie ha avuto inizio con l’uccisione del generale iraniano Radhi Mousavi lo scorso 25 dicembre a Damasco, in Siria. Il 2 gennaio, un attacco missilistico (probabilmente compiuto da un drone) ha ucciso Saleh al-Arouri, uno dei principali esponenti del movimento islamico palestinese Hamas, insieme ad altri uomini del gruppo, nel sobborgo meridionale di Beirut, considerato la roccaforte del gruppo sciita libanese Hezbollah. Il giorno dopo, una doppia esplosione nei pressi della tomba del generale Qassem Soleimani, a Kerman, in Iran, ha mietuto quasi cento vittime fra i presenti giunti a commemorare il comandante assassinato quattro anni fa dagli USA in Iraq. Infine, proprio in Iraq gli Stati Uniti hanno ucciso, ancora una volta tramite un drone, il leader di una milizia filo-iraniana il 4 gennaio.
Questa sanguinosa serie di episodi infiamma ulteriormente un panorama mediorientale già profondamente scosso dal terribile conflitto in corso a Gaza e dalle sue ramificazioni regionali, fra le quali spiccano lo scontro militare fra Israele e Hezbollah (fino a questo momento limitato a reciproci bombardamenti lungo il confine libanese), e le tensioni nel Mar Rosso causate dagli attacchi alle navi mercantili dirette verso Israele da parte della formazione sciita yemenita di Ansar Allah (meglio nota come movimento degli Houthi, dal nome del suo fondatore).
Attacco al cuore del potere iraniano a Damasco
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La scelta della guerra civile
di Christian Laval, Haud Guéguen, Pierre Dardot, Pierre Sauvêtre
Il testo che segue è un estratto dall'Introduzione al volume La scelta della guerra civile. Un'altra storia del liberalismo, di Christian Laval, Haud Guéguen, Pierre Dardot, Pierre Sauvêtre, edito da Meltemi
1. Le strategie di guerra civile del neoliberalismo
Il neoliberalismo muove sin dalle sue origini da una scelta effettivamente fondativa, la scelta della guerra civile. Questa scelta continua ancora oggi, direttamente o indirettamente, a comandare gli orientamenti e le politiche neoliberali, anche quando questi non implicano l’uso di mezzi militari.
È questa la tesi sostenuta da un capo all’altro del libro: attraverso il ricorso sempre più manifesto alla repressione e alla violenza contro le società, ciò che si sta realizzando oggi è una vera e propria guerra civile. Per comprendere correttamente questo fenomeno, conviene innanzitutto tornare su questa nozione. È molto diffusa l’idea che vede la guerra civile come guerra interna opporsi alla guerra interstatale come guerra esterna. In virtù di questa opposizione, la guerra civile si fa tra cittadini di uno stesso Stato. Mentre la guerra esterna è una questione di diritto, alla quale tutti i soggetti belligeranti sono sottomessi, la guerra interna è rigettata nella sfera del non-diritto. Alla rivendicazione di Courbet nell’aprile del 1871 in favore di uno statuto di belligeranti per i comunardi, che invocava “gli antecedenti della guerra civile” (la guerra di Secessione del 1861-1865) è stato opposto che “la guerra civile non è una guerra ordinaria”1. A questa antitesi bisogna aggiungerne una seconda, che raddoppia la prima, quella della politica e della guerra civile: mentre la politica è la sospensione della violenza attraverso il riconoscimento del primato della legge, la guerra civile è dispiegamento sregolato della violenza, di una collera “che mescola indissolubilmente furore e vendetta”, per dirla con Tucidide2. Tutte queste antitesi, e altre ancora, ostacolano la presa in esame del neoliberalismo a partire dalla sua stessa strategia. Adottando questo punto di vista, apprendiamo che la politica può perfettamente far suo l’uso più brutale della violenza e che la guerra civile può essere combattuta attraverso il diritto e la legge.
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La guerra. Esperimento Terra
di Giovanna Cracco
L’impatto ambientale degli esperimenti nucleari. Documenti desecretati rivelano che tra il 1945 e il 1992 gli Stati Uniti hanno effettuato 1.051 test atomici esplodendo in totale 180 megatoni, pari a 11.250 bombe di Hiroshima; 12 test hanno contemplato il lancio di razzi fino a 700 km di quota, nella magnetosfera, con l’obiettivo di verificare se la struttura stessa del sistema Terra potesse essere utilizzata come arma. Quali sono state le conseguenze a lungo termine sull’equilibrio terrestre e sul clima?
Quando si imputa alle attività umane la responsabilità del cambiamento climatico, una di esse gode di un unanime e trasversale occultamento: l’attività militare. L’economia, la politica, i principali think tank, le grandi agenzie sovranazionali... nessuno ne fa citazione nei dettagliati e accalorati documenti che auspicano, o impongono, innovazioni green e transizioni ecologiche. L’industria della guerra, dalla produzione alle esercitazioni ai conflitti in giro per il pianeta, è esclusa sia dall’elenco delle cause che da quello delle soluzioni. La sua incidenza sull’ambiente è innegabile, ma la difficile quantificazione per mancanza di dati, come mostra il Report di Scientists for Global Responsibility e Conflict and Environment Observatory qui pubblicato a pag. 34, la porta, per restare nel campo semantico, ‘fuori dai radar’ della discussione.
D’altra parte, la guerra è morte e distruzione della biosfera e della vita; è bombardamenti e agenti chimici; è aviazione, carri armati, proiettili, gas... come si potrebbe discutere di rendere ecologicamente sostenibile una simile attività umana? Siamo davanti a un nonsense.
Non è l’unico. Se i danni da gas serra sono almeno conosciuti e riconosciuti, ve ne sono altri tuttora ignoti.
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La montagna della UE e il topolino del nuovo patto di stabilità
di Domenico Moro
Con la pandemia di Covid-19 e la forte crisi economica a essa connessa, il Patto di stabilità, basato sui vincoli del 3% al deficit e del 60% al debito, era stato sospeso fino alla fine del 2023. In circa 20 anni in cui sono stati in vigore, i vincoli al debito e al deficit hanno dato una pessima prova di sé, contribuendo a determinare la stagnazione dell’economia della Ue. La crescita europea è stata talmente risicata da determinare la perdita di posizioni economiche a livello mondiale nei confronti dei Paesi emergenti, in particolare della Cina. Ad esempio, la Ue a 27 è scesa, tra 2003 e 2022, dal 19,1% al 13,8% delle esportazioni mondiali, mentre la Cina è salita dal 7,6% al 18,3%[i].
Consci di questa situazione di decadenza economica, dovuta non solamente ma certamente almeno in parte a come era stato congegnato il Patto di stabilità, la Commissione europea e molti paesi hanno colto al balzo l’occasione della sospensione del Patto di stabilità per chiederne una modifica sostanziale. Il fronte della riforma è composto dai Paesi con maggiori difficoltà debitorie pubbliche, specialmente quelli con debito superiore al 100%: Grecia (160,9%), Italia (139,8%), Francia (109,6%), Spagna (107,5%), Belgio (106,3%) e Portogallo (103,4%). Come si può facilmente osservare si tratta di una fetta molto ampia della popolazione della UE, che comprende la seconda, la terza e la quarta economia europea. Non proprio una bazzecola. A contrastare il fronte della riforma si è eretto il solito fronte dell’austerity e della severità di bilancio, che è rappresentato dalla Germania, unica tra le grandi economie, e dai suoi satelliti, i cosiddetti “frugali”, in particolare l’Olanda, la Danimarca, l’Austria e la Finlandia.
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Salvare l’economia da sé stessa
Jacopo Caja intervista Steve Keen
L'economista australiano Steve Keen, intervistato da Jacobin, propone una visione alternativa a quella dell'economia neoclassica che domina da cinquant'anni, per fronteggiare le disuguaglianze e scongiurare il collasso climatico
La politica economica dei paesi avanzati negli ultimi anni ha mostrato tutti i suoi limiti ed è sempre più in discussione. Da quasi cinquant’anni, l’economia è dominata dalla visione neoclassica che presuppone la razionalità degli individui e ignora il ruolo della moneta, escludendola dai modelli di previsione. Questa semplificazione, nata con l’idea di rendere più «maneggevole» l’economia, ha prodotto effetti profondi nel mondo reale, aprendo alla deregolazione dei mercati finanziari e alle politiche di austerità.
Steve Keen, professore di economia alla Western Sydney University e all’University College di Londra nel libro L’economia Nuova, da poco uscito in Italia per Meltemi, evidenzia la necessità di un’alternativa a questa visione prevalente. Un’alternativa che tenga conto delle complessità per fronteggiare realmente le disuguaglianze e scongiurare il collasso climatico.
* * * *
Lei è da sempre uno studioso del mercato monetario e del ruolo del debito privato. Ed è stato uno dei pochi economisti ad aver previsto la crisi del 2008. Come mai, invece, non l’hanno prevista gli economisti mainstream?
Gli economisti neoclassici hanno sempre sostenuto che il denaro non abbia importanza per l’economia reale. Pensano che il governo controlli l’offerta di moneta: se quest’ultimo crea troppa moneta, produce inflazione. In questa visione, i fattori monetari non influenzano il livello reale della produzione. E questo è categoricamente sbagliato. Al contrario, il denaro creato dalle banche diventa sia parte del reddito aggregato che della spesa aggregata. Quindi, il denaro ha effetti reali.
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Un mondo multipolare non sarà automaticamente un mondo nuovo
di Monica Cillerai
L’ordine mondiale geopolitico regolato dal Washington Consensus, l’equilibrio internazionale figlio della Seconda guerra mondiale, è finito. L’ordine mondiale dei commerci, stabilito dagli accordi di Bretton Woods, non funziona più: già ammalato da tempo, si è indebolito in pandemia e sta ricevendo l’estrema unzione con la guerra in Ucraina. Da qualsiasi punto si guardi la faccenda globale, gli USA stanno perdendo il loro ruolo di capo e poliziotto del mondo. L’egemonia a stelle e strisce, già in declino da anni, sta definitivamente tramontando. Nuovi Stati chiedono voce in capitolo e reclamano potere. Pretendono istituzioni internazionali meno orientate verso gli Stati Uniti e i privilegi occidentali, esigono la fine del dominio del dollaro, reclamano ruoli guida ai tavoli in cui si decidono le politiche globali. Le crisi non sono la fine di tutto, sono momenti necessari di rottura per arrivare a un nuovo ordine, dopo una fase di caos. Oggi siamo nel momento del disordine. I fatti in Ucraina hanno semplicemente reso visibile a tutti la tracimazione di un vaso colmo da tempo. Gli USA cercano storicamente anche così, attraverso guerre esportate e per procura, di stabilizzare il loro potere e la loro egemonia. È dalla Cina e da numerosi Paesi ancora considerati in via di sviluppo, i famosi BRICS (Brasile, Russia, India e Sud Africa), che arriva la richiesta di un nuovo ordine internazionale. L’attacco militare da parte della Russia verso l’Ucraina e l’impossibilità di operare da parte del Consiglio di Sicurezza dell’ONU a causa del veto imposto da Mosca hanno rimesso sul tavolo la questione di una necessaria riforma del sistema delle Nazioni Unite. Unione Europea e USA si sono impegnate nel lancio di numerosi pacchetti di sanzioni economiche contro la Russia, che hanno finito per ricadere sugli interscambi commerciali tra Mosca e varie altre economie a essa connesse, in primis quelle dei BRICS.
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Globalizzazione delle disuguaglianze e delle ingiustizie
di Michele Blanco*
Negli anni Ottanta del secolo scorso si descriveva il futuro prossimo della globalizzazione come di una età di crescita del benessere diffuso per tutta l’umanità, in tutti i paesi del mondo, ma «Oggi, invece, la crescente disuguaglianza non ha prodotto alcun conflitto di classe che minacci il sistema capitalistico, e ciò sebbene nelle economie avanzate questa si sia accompagnata con la deindustrializzazione e la schiavitù del debito.
È in questo contesto politico che una nuova generazione di miliardari ha abbracciato la filantropia. … non si può più fare affidamento sullo Stato per affrontare le ingiustizie sociali e le povertà. Al contrario la società si rivolge alle briciole filantropiche che cadono dalla tavola del padrone; bruscolini che cadono solamente lì dove i super ricchi decidono di farli cadere … ma guardando bene, esso appare un disegno complesso, volto a garantire che il sistema che ha generato le diseguaglianze, per le quali la filantropia è un unguento, permanga del tutto invariato», in Carl Rhodes, Capitalismo woke. Come la moralità aziendale minaccia la democrazia, Roma, Fazi, 2023, pp. 251 e 254.
La globalizzazione oggi è certamente e identificata come causa di ingiustizie e tensioni sociali. Nel mondo contemporaneo possiamo parlare di tanti tipi di disuguaglianze, ma certamente, da un punto di vista economico, si può parlare della disuguaglianza tra tenori di vita, distinguendo fondamentalmente tra due tipi di tali disuguaglianze, quella mondiale (tra le nazioni) e quella all’interno delle singole nazioni. Quando si dice ad esempio che il 10% più povero ha un tenore di vita pari a un decimo del 10% dei più ricchi ovviamente non ha lo stesso significato in India e in Svizzera. Conviene allora aggiungere una regola generale quando si valuta la disuguaglianza: stabilire una soglia assoluta di povertà e il valore più utilizzato oggi è quello di circa un euro al giorno pro capite.
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A proposito di gestazione per altri
di Aligi Taschera
Il 22 marzo scorso Giulia Abbate postava sulla chat di Resistenza Radicale un tweet di Marco Cappato, che diceva: “Ci sono donne che hanno perso l’utero a causa di una malattia, ma che potrebbero crescere un figlio grazie alla gestazione per altri solidale. Vietarlo è violenza da Stato Etico”.
Avevo pubblicamente promesso nella chat che avrei provato a chiarire perché il modo di Cappato di affrontare questo problema è inadeguato, come sostenuto da Domenico Spena (punto su cui, evidentemente concordo con lui), sostenendo che mi pareva una buona occasione per chiarire al pubblico le questioni etiche e politiche connesse; se poi questo chiarimento riuscisse a fornire qualche spunto di riflessione anche a Cappato, tanto meglio.
Proviamo dunque a districare il complesso groviglio di questioni che pone il tweet di Cappato, e di affrontare le questioni a una a una.
Partirò dal fondo, cioè dal concetto di stato etico.
Bisogna ricordare che il concetto di Stato Etico proviene dalla filosofia di G.G.F. Hegel ed è da essa inscindibile, come ben sapevano sia Giovanni gentile che Benito Mussolini. Tentare di spiegare in modo esauriente e comprensibile in un numero ragionevole di righe è un’impresa temeraria. Hegel, infatti, sosteneva che “Il vero è l’intero”. Di modo che tutti i momenti del reale (che è esso stesso pensiero) acquisiscono il loro senso e la loro conoscibilità nella loro relazione con la totalità di cui fanno parte (l’Assoluto).
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La pedagogia naturalistica e i suoi problemi
di Paolo Di Remigio
Siamo lieti di pubblicare questo interessante intervento dell'amico Di Remigio (M.B.)
Il fallimentare modello scolastico americano
Si dice spesso che la scuola italiana non funzioni e che occorra innovarla per metterla al passo con i tempi. Chi lavora nella scuola non può non concordare con la prima affermazione; la seconda appare invece sospetta di conformismo e fuori dalla realtà. Infatti negli ultimi trent’anni ogni ministro dell’istruzione ha innovato; in particolare, nel 1997 l’autonomia scolastica ha aperto gli istituti al territorio e li ha incoraggiati ad avventurarsi in ogni sorta di iniziative; nel 2015 la riforma Renzi ha reso obbligatorie sperimentazioni ardite come la scuola-lavoro oppure il CLIL (lo studio in lingua straniera di una disciplina studiata di solito in italiano), ha inoltre fatto dell’innovazione didattica la preoccupazione principale degli insegnanti e il titolo con cui accedere alla premialità, qualunque ne fosse il risultato.
Che dopo 26 anni di riforme innovative la scuola resti disfunzionale, suggerisce l’ipotesi che proprio le riforme la rendano tale. L’ipotesi è confermata da un indizio: le riforme parlano in un gergo anglosassone (inquiry learning, cooperative learning, skill, metacognitive skill, problem solving, lifelong learning – da cui il nome TreeLLLe, l’associazione che ispira da decenni il ministero), consistono dunque nell’imporre in Italia e in Europa la pedagogia dominante negli Stati Uniti. Delle scuole statunitensi l’opinione pubblica sa soprattutto che vi avvengono stragi efferate di alunni e insegnanti. Di fatto sa anche un’altra cosa. I giornali parlano spesso di «fuga dei cervelli» dall’Italia. Vista dall’altra parte dell’Atlantico, questa fuga non può che prendere il nome di importazione dei cervelli. Dalle notizie della stampa l’opinione pubblica può giungere dunque a due conclusioni: 1) le scuole americane sono pericolose per chi le frequenta; 2) istruiscono così male che, per popolare le loro celebrate università, gli Stati Uniti devono importare studenti istruiti altrove.
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Socialismo cinese e Lunga Marcia
di Salvatore Bravo
Il percorso che porta al comunismo inizia con il lavoro comune per sovvertire le condizioni di sfruttamento delle classi subalterne. Emancipare dallo sfruttamento significa non solo soddisfare i bisogni materiali, ma anche educare alla partecipazione politica. Senza categorie valide per decodificare lo sfruttamento e progettare un diverso modo per gestire struttura economica e sovrastruttura non vi è comunismo. La parabola di Mao Tse- tung1 è da leggersi nella Cina divorata da decenni di invasioni e sfruttamento e che ha conosciuto due guerre dell’oppio (la prima dal 1839 al 1842 e la seconda dal 1856 al 1860) e la rivolta dei Taiping (1851-1864). Decine di milioni di morti è stato il risultato dello sfruttamento e del razzismo del liberismo dell’Inghilterra e degli Stati Uniti, in primis, a cui si sono affiancate le potenze europee minori tra cui l’Italia verso la Cina. Nelle guerre dell’oppio e nella violenza con cui le potenze europee hanno sostenuto lo sterminio della rivolta dei Taiping vi è la verità del capitalismo non ancora riconosciuta. In questo contesto la Lunga Marcia del comunismo conclusasi con la presa del potere il primo ottobre 1949 e gli errori e le tragedie conseguenti erano, purtroppo, inevitabili: sollevare seicento milioni di persone da uno stato di miseria secolare e da una condizione di subalternità non poteva che comportare nella cornice storica della Guerra fredda il rischio del tragico. Tragedie vi furono, ma assieme a esse, secondo la lezione marxiana, il comunismo è da realizzarsi non necessariamente secondo lo sviluppo stadiale, ma esso deve essere progetto politico che tenga in gran conto le circostanze storiche reali. Pensare il comunismo significa pensare la storia. Il discorso di Mao Tse- tung del 1957 dimostra la capacità teoretica e pratica del comunismo cinese.
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Tesi sul cybercapitalismo
di Liberiamo l’Italia
Questo importante documento analizza le profonde trasformazioni del sistema capitalistico e indica quale potrebbe essere il suo eventuale punto di approdo. Esso venne approvato nel novembre 2021 dalla II. Conferenza nazionale per delegati di Liberiamo l’Italia.
Il tornante storico
- 1. Con il crollo dell’Unione Sovietica l’élite americana (sia neocon che clintoniana) scatenò un’offensiva a tutto campo per trasformare l’indiscussa preminenza degli U.S.A. nei diversi campi — economico, finanziario, militare, scientifico, culturale — in supremazia geopolitica assoluta. L’offensiva si risolse in un fiasco. Invece del nuovo ordine monopolare sorse un disordinato e instabile multilateralismo.
- 2. La grande recessione economica che colpì l’Occidente, innescata dal disastro finanziario americano del 2006-2008, fu un punto di svolta dalle molteplici conseguenze. Indichiamo le principali: (1) il “capitalismo casinò” — contraddistinto dalla centralità della finanzia predatoria: accumulazione di denaro attraverso denaro saltando la fase della produzione di merci e di valore — dimostrava di essere una mina vagante per il sistema capitalistico mondiale; (2) il modello economico neoliberista, quello che aveva consentito la metastasi della iper-finanziarizzazione, esauriva la sua spinta propulsiva; (3) la globalizzazione liberoscambista a guida americana giungeva al capolinea sostituita da una “regionalizzazione” delle relazioni economiche mondiali e dalla rinascita di politiche protezionistiche; (4) la Cina, uscita dallo sconquasso come principale motore del ciclo economico mondiale, occupava il ruolo di nuovo alfiere della globalizzazione; (5) una profonda scissione maturava in senso alle élite occidentali: la crisi di egemonia delle frazioni mondialiste alimentava il fenomeno del populismo. Così ci spieghiamo la vittoria di Donald Trump negli Stati Uniti, l’avanzata dirompente di nuove forze politiche “sovraniste” in diversi paesi europei (Italia in primis), la Brexit.
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Siamo noi i cattivi?
Il sostegno occidentale al genocidio a Gaza significa che la risposta è sì
di Jonathan Cook
La disperata campagna diffamatoria volta a difendere dei crimini di Israele mette in luce la miscela tossica di menzogne su cui si regge da decenni l’ordine democratico liberale
In un popolare sketch comico britannico ambientato durante la Seconda guerra mondiale, un ufficiale nazista vicino alle prime linee si rivolge a un collega e, in un momento di improvviso – e comico – dubbio su se stesso, chiede: “Siamo noi i cattivi?“.
A molti di noi è sembrato di vivere lo stesso momento, prolungato per quasi tre mesi, anche se non c’è stato nulla da ridere.
I leader occidentali non solo hanno appoggiato retoricamente una guerra genocida da parte di Israele contro Gaza, ma hanno fornito copertura diplomatica, armi e altra assistenza militare.
L’Occidente è pienamente complice della pulizia etnica di circa due milioni di palestinesi dalle loro case, nonché dell’uccisione di oltre 20.000 persone e del ferimento di molte altre decine di migliaia, la maggior parte delle quali donne e bambini.
I politici occidentali hanno insistito sul “diritto di difendersi” di Israele, che ha raso al suolo le infrastrutture critiche di Gaza, compresi gli edifici governativi, e ha fatto crollare il settore sanitario. La fame e le malattie stanno iniziando a colpire il resto della popolazione.
I palestinesi di Gaza non hanno dove fuggire, dove nascondersi dalle bombe di Israele fornite dagli Stati Uniti. Se alla fine gli sarà permesso di fuggire, sarà nel vicino Egitto. Dopo decenni di sfollamento, saranno finalmente esiliati in modo permanente dalla loro patria.
E mentre le capitali occidentali cercano di giustificare queste oscenità incolpando Hamas, i leader israeliani permettono ai loro soldati e alle milizie di coloni, sostenuti dallo Stato, di scatenarsi in Cisgiordania, dove non c’è Hamas, attaccando e uccidendo i palestinesi.
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Alain Badiou e la rivoluzione
di Antiper
Questo intervento è una lettura di un testo di Alain Badiou sulla rivoluzione russa dell’ottobre 1917, tratto da Alain Badiou, Pietrogrado, Shangai. Le due rivoluzioni del XX secolo, Mimesis, 2023
Di recente è uscita [1] una piccola raccolta di interventi del filosofo francese Alain Badiou dedicati alle due principali rivoluzioni del ‘900: la rivoluzione russa (d’ottobre) e la rivoluzione cinese.
In questi interventi Badiou rivendica integralmente il carattere progressivo per l’umanità di questi “eventi” (per usare un termine del suo arsenale teorico) e anche solo il fatto che un importante filosofo prenda posizione in modo così netto a favore delle rivoluzioni comuniste è una cosa che, di per sé stessa, riveste una grande importanza, in questi tempi di pensiero debole, anzi insulso. In questo intervento vogliamo entrare in dialettica con il breve saggio sulla Rivoluzione d’Ottobre analizzando alcuni passaggi che ci sono sembrati meritevoli di approfondimento.
L’esordio di Badiou è suggestivo e istituisce una linea di continuità rivoluzionaria tra la rivolta degli schiavi guidati da Spartaco e le rivoluzioni del ‘900
“Spartaco, Thomas Müntzer, Robespierre, Saint-Just, Toussaint Louverture, Varlin Lissagaray e gli operai in armi della Comune: tanti “dittatori” calunniati e dimenticati, che Lenin, Trockij o Mao Zedong hanno trasformato in quello che sono stati: eroi dell’emancipazione popolare, punti fermi dell’immensa storia che orienta l’umanità verso il governo collettivo di se stessa.”
Colpisce l’affiancamento di Trockij a Lenin (neppure Trockij, a cui certo non mancava l’autostima, avrebbe osato tanto dopo il 1917); i ruoli di Lenin e di Trockij, infatti, stanno su piani davvero molto diversi. Per intendersi (e sicuramente schematizzando), senza Lenin non ci sarebbe stata alcuna Rivoluzione d’Ottobre e se fosse stato per Trockij non ci sarebbe stato neppure alcun partito bolscevico. Encomiabile, certo, che dopo 15 anni di lotta senza quartiere Trockij, a 1917 inoltrato, si sia avvicinato ai bolscevichi e si sia allontanato dai classici alleati menscevichi, ma da qui ad accoppiare Lenin e Trockij ce ne passa.
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Antonio Negri, un uomo che voleva assaltare il cielo alzandosi sulle punte dei piedi
di Carlo Formenti
Nel momento in cui l'intero patrimonio di idee, teorie, tradizioni e pratiche politiche del marxismo sembra evaporare nei Paesi Occidentali, mentre rinasce in forme inedite in Asia e America Latina, due eventi distanziati di pochi mesi l'uno dall'altro accentuano la sensazione di vivere la fine di un ciclo storico: mi riferisco alle morti dei due "grandi vecchi" dell'operaismo italiano, il novantaduenne Mario Tronti, deceduto lo scorso agosto, e il novantenne Toni Negri, spentosi poche settimane fa. Commentando la prima su queste pagine (https://socialismodelsecoloxxi.blogspot.com/2023/08/che-cosa-ho-imparato-da-mario-tronti.html) titolavo "Che cosa ho imparato da Mario Tronti", per commentare la seconda ho scelto, per ragioni che chiarirò più avanti, di titolare "Un uomo che voleva assaltare il cielo alzandosi sulla punta dei piedi". Qui non troverete parola in merito al disgustoso luogo comune su Negri "cattivo maestro", che i media di regime hanno prevedibilmente rilanciato, perché le critiche che potrei fare alle sue scelte degli anni Settanta sono marginali rispetto a quelle che intendo rivolgergli qui, riferite piuttosto al suo ruolo - per citare un azzeccato titolo del "Manifesto" - di "attivo maestro". Non troverete nemmeno i ricordi di un rapporto di amicizia ormai lontano nel tempo (negli ultimi decenni ci siamo incontrati in rarissime occasioni). Non troverete nemmeno valutazioni relative alla sua opera strettamente filosofica, compito che delego agli accademici. Qui discuterò solo del Negri teorico del conflitto sociopolitico e dell'influenza che ha esercitato sulle sinistre radicali post comuniste.
Parto con una affermazione provocatoria: contrariamente a quanto da lui rivendicato (1), penso che Toni Negri non sia stato un comunista (nel senso storicamente riconosciuto del termine).
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