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La dottrina della verità senza la dottrina della città
Per una critica della teoria heideggeriana della tecnica
di Roberto Finelli
1. La de/formazione heideggeriana della «questione della tecnica»
Proporre visioni del mondo e dell’essere umano a partire dalla categoria o dal principio dell’Essere significa, come insegnava quel grande maestro di filosofia antica e di laicismo che è stato Guido Calogero, riproporre questioni improponibili ed arcaiche, che muovevano da metafisiche antiche legate alla transustanziazione ed ipostasi del verbo «essere», ossia di una parola, in un presunto fattore di realtà1.
Non a caso la storia della metafisica dell’Essere e della sua trascendenza si conclude con la filosofia moderna, specificamente con la Critica della ra- gion pura di Kant e la sua riduzione della realtà dell’essere all’esistenza, cioè alla percezione di un alcunché che si dà attraverso il modificarsi dell’apparato sensibile del corpo. Ma appunto, proprio a partire dall’estinzione del problema e della tematica dell’essere nella modernità e dalla sua riduzione a fantasma di antiche metafisiche e religioni, si può assai meglio intendere la poderosità dell’operazione culturale compiuta da Martin Heidegger nella prima metà del Novecento con la riproposizione del principio dell’Essere a principio di senso dell’intera realtà, umana e non umana, e insieme l’intento di far valere tale rinnovata dottrina dell’Essere come la massima espressione egemonica della filosofia dell’intero Novecento.
Com’è ben noto, Heidegger ha potuto compiere la sua gigantesca impresa, non attraverso una mera riproposizione dell’antico, bensì attraverso la sua partecipazione, a livelli assai rigorosi di acquisizione, alla fenomenologia di Husserl da un lato, quale teoresi moderna più avanzata sulla struttura della soggettività, e dall’altro alla tradizione della filosofia scolastica e del suo impianto ontologico, anche qui secondo modalità di studio e di conoscenza di grande estensione e profondità. Né v’è dubbio alcuno che la genialità del pensatore di Messkirch sia consistita proprio nella capacità di mediare queste due aree di competenza filosofiche, così lontane ed eterogenee tra loro, e di concepire in tal modo, prima, una originalissima fenomenologia ontologica della soggettività con Sein e Dasein e, poi, una metafisica della storicità dell’Essere nella seconda fase del suo pensiero.
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Bilancia dei pagamenti e squilibri nell’eurozona: cosa occorrerebbe fare
di Rosaria Rita Canale
Abstract: In this article the divergences within the euro area are examined in the light of balance-of-payments imbalances recorded in the TARGET2 balances of the individual countries. It emerges that countries with positive values of the target balances (surpluses) have lower interest rates than the Euro area average and countries with negative values (deficits) have higher than average rates. Furthermore, an inverse relationship also emerges between balance of payments balances and poverty. The centralized measures of monetary policy and quantitative easing, together with fiscal restrictions for countries in deficit seem not to have resolved these differences and a new strategy is proposed to reduce divergences. This strategy, inspired by the post-war Keynes plan, should include expansionary measures for the creditor countries, such as: 1) fiscal expansion; 2) increase in money wages and 3) direct foreign investment in countries in difficulty.
Dalla crisi economica ad oggi si sono registrati all’interno della zona Euro squilibri preoccupanti fra i paesi che sembrano non poter essere colmati dalle straordinarie misure espansive di politica monetaria condotta a livello centralizzato dalla BCE. Come è noto poi la politica fiscale – che è affidata ai singoli stati -non può essere usata come strumento di stabilizzazione, se non da quei paesi che rispettano le regole fiscali imposte dai trattati e che quindi non ne hanno un gran bisogno.
Queste differenze fra i singoli paesi sono evidenti negli squilibri della bilancia dei pagamenti. La zona Euro è assimilabile ad un insieme di paesi legati fra loro da un tasso di cambio irrevocabilmente fisso. Tuttavia, dal momento che esiste solo una moneta, in alternativa all’acquisto e alla vendita di riserve in valuta estera è stato concepito un meccanismo di compensazione di nome TARGET[1] – evolutosi nel novembre 2007 in TARGET2 (T2). Con T2 i paesi con un surplus della bilancia dei pagamenti ricevono, attraverso la banca centrale nazionale, il credito netto derivante dal deficit della bilancia dei pagamenti degli altri paesi. Il costo del debito dei paesi in deficit è rappresentato dal tasso di rifinanziamento sulle operazioni principali fissato attualmente dalla BCE allo 0,25%. Perciò questo meccanismo di compensazione agisce come una sorta di linea di credito concessa ai paesi che stanno vivendo una crisi della bilancia dei pagamenti che rende l’Eurozona più resiliente come unione valutaria rispetto al gold standard o ai più tradizionali sistemi di ancoraggio al dollaro (Klein 2017).
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Strappare nuovamente il possibile all’oblio
di Andrea Cerutti
Recensione a L’operaismo politico italiano di Gigi Roggero (DeriveApprodi)
L’operaismo politico italiano, appena uscito per la collana Input di DeriveApprodi, è composto dalla trascrizione di sei lezioni sull’operaismo dalle origini sino alle diramazioni più recenti – una, interamente dedicata alla figura di Romano Alquati, tenuta da Guido Borio, le altre da Gigi Roggero – e termina con un’utile intervista riepilogativa dell’autore curata da Davide Gallo Lassere.
Le lezioni sono rivolte a giovani militanti politici. Lo stile è quindi diretto senza fronzoli, fedele allo “stile operaista” e, sin dalle prime pagine, traspare l’intento – in linea con l’indicazione di Walter Benjamin – “di strappare nuovamente la trasmissione del passato al conformismo che è sul punto di soggiogarla”; il conformismo dei vincitori che vogliono relegare il passato dei vinti all’eterno oblio o alla neutralizzazione accademica affinché smetta di disturbare il racconto delle magnifiche sorti e progressive.
Questo passato è l’operaismo, ovvero l’ultimo ed estremo tentativo di cui si ha notizia di usare il pensiero di Marx secondo una prospettiva pratico-rivoluzionaria e non come sistema teorico atto ad interpretare il funzionamento del sistema capitalistico.
Si parte opportunamente dalle genealogie dell’operaismo: Danilo Montaldi, Galvano Della Volpe, il gruppo francese di «Socialisme ou barbarie». Con una giusta avvertenza: «quello che … ci interessa evidenziare è il carattere di transizione degli anni Cinquanta. Attenzione, però: solo ex post possiamo attribuire un carattere storicistico e teleologico al termine transizione. Ex ante, nel vivo di quella fase, con lenti normali avremmo visto smarrimento, caoticità, rassegnazione … la transizione non ci viene consegnata dalla Storia; la transizione viene conquistata da un agire contro la Storia» (pp. 19-20). Roggero vuole dirci che lo stesso smarrimento, la medesima rassegnazione in cui siamo immersi può essere ribaltata, «è proprio nelle fasi in cui sembra non accadere nulla che va agita la capacità di anticipazione e giocata la scommessa rivoluzionaria.
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Il “declino” in Italia
di Sergio Bologna
Relazione presentata a Torino il 1.12.2018 in occasione della presentazione del numero speciale di “Primo Maggio” (cfr. Altronovecento n.36).
Quando inizia la letteratura sul “declino” in Italia?
Sarebbe interessante fare una ricerca ad hoc, perché – se non ricordo male – non è stata una qualche corrente “riformista” ad iniziare questo percorso, sono stati ambienti culturali contigui a Confindustria. Un percorso che poi si è incamminato su un terreno dove il tema del “declino” è diventato quasimainstream al punto da condizionare lo sguardo all’indietro (come dimostra l’Annale Feltrinelli dello scorso anno intitolato l’Approdo mancato). Senza riuscire a temperare tuttavia lo slancio cieco dell’onda mediatica che esaltava le magnifiche sorti e progressive del modello neoliberale e pretendeva piena, incondizionata fiducia in esse.
La classe capitalistica, la cui inettitudine viene continuamente messa in luce dalla letteratura sul “declino”, persevera nella sua autoreferenziale esaltazione della propria missione di classe dirigente, scaricando tutte la responsabilità del “declino” sulla politica.
Ma né gli uni né gli altri, né gli storici o gli analisti del “declino” né il padronato nel suo complesso s’interrogano se sia o meno il caso di rivedere il giudizio dato sui comportamenti antagonistici di classe degli Anni 70, anni di emancipazione e di produzione d’intelligenza operaia.Suquel ciclo di lotte continua invece a pendere il giudizio di condanna come un momento di follìa collettiva, d’insensatezza. Io credo che la lettura di quegli anni dovrebbe rivalutare come chiave interpretativa quella battuta di Mario Tronti, che tanto fece sorridere allora quando fu pronunciata, e cioé che “la lotta operaia impone lo sviluppo capitalistico”. La vicenda Fiat dal 1980 al 2002 è la controprova della giustezza di quella affermazione: là dove la lotta operaia tace, là dove il suo silenzio si fa prolungato, il capitalismo s’infogna in una crisi mortale. Sconfitti gli operai nell’ottobre 1980 e dopo ventidue anni di pace sociale, la Fiat e con essa l’industria italiana dell’auto, erano a terra.
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I retroscena delle grandi manovre geopolitiche ed economiche nello scacchiere internazionale
intervista a Demostenes Floros
Mysterion si arricchisce di un nuovo spazio di approfondimento che affronta le più importanti questioni geopolitiche ed economiche odierne. L’intervista che segue è stata rilasciata qualche settimana fa (prima delle elezioni europee) ad un giornale tedesco, il “Deutsche-wirtschafts-nachrichten”, dall’esperto di geopolitica Demostenes Floros, il quale l’ha gentilmente concessa al nostro blog. In Italia soltanto la nostra rubrica e la pagina Facebook di Pandoratv.it di Giulietto Chiesa pubblicano questa preziosa intervista (l’originale in tedesco si può trovare attraverso il seguente link: https://deutsche-wirtschafts-nachrichten.de/2019/06/12/peking-wird-sich-dem-druck-des-weissen-hauses-nicht-beugen/). Senza rivelare i particolari dell’articolo mi permetto di fare una breve e personale considerazione sul tema qui sotto discusso in rapporto alle grandi manovre storiche che si stanno sviluppando, e delle quali questo contributo può offrire una chiara, lucida e importante chiave interpretativa dei rapporti di forza all’interno dello scacchiere internazionale, e inoltre anche un utile spunto di riflessione. L’oggetto di questa intervista, a mio avviso, va inserito in un contesto più ampio che tenga conto dell’importantissimo mutamento tecnologico a cui sta andando incontro il Pianeta e in particolare l’Occidente, e va legato ad uno scenario più strettamente militare molto pericoloso che ha fatto rinascere una nuova corsa agli armamenti nucleari. Per farla breve, stiamo attraversando una crisi gravissima e senza precedenti e alcuni delle riflessioni e dei fatti riportati sotto possono aiutarci a capire in che direzione e verso stiamo andando. Buona lettura.
* * * *
Gli Stati Uniti d’America hanno vietato a tutti gli altri paesi di acquistare petrolio iraniano. Quale leva hanno gli USA per far rispettare tale divieto?
In primo luogo, è opportuno precisare che le sanzioni comminate all’export di greggio iraniano a partire dal 5 novembre 2018 sono misure imposte unilateralmente dagli Stati Uniti e non dall’ONU quindi, non rispecchiano le norme del diritto internazionale.
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Che cos'è la verità? Questione d'immaginazione
di Roberto Paura
Nel Vangelo di Giovanni, durante l’interrogatorio di Ponzio Pilato, Gesù dichiara di essere venuto al mondo “per rendere testimonianza alla verità”, specificando che chiunque lo ascolti è dalla parte della verità. La risposta non sembra colpire il governatore romano, che si limita a rispondere con una domanda retorica: “Che cos’è la verità?”. A quella domanda Gesù non risponde, almeno secondo l’evangelista, né Pilato sembra attendersi una risposta. Probabilmente l’ha rivolta a sé stesso, lui che dev’essere stato educato allo scetticismo di Pirrone, al relativismo di Protagora, al nichilismo di Gorgia nelle scuole filosofiche di Roma: eccolo, quest’uomo presuntuoso che, come tutti gli ebrei, pretende di possedere la verità, di poter persino annunciare – è di nuovo Giovanni a mettergli in bocca queste parole – di essere via, veritas et vita.
Una domanda ancora attuale
Riletto ai giorni nostri, questo passaggio è più attuale che mai: Pilato è lo scettico nichilista postmoderno, che ha imparato nei suoi lunghi studi che la verità è sempre relativa, dipendente dal contesto, dalla cultura, dall’epoca e così via; Gesù il dogmatico metafisico che annuncia ostinato l’esistenza di un’unica, sola verità. Ma se fino a poco tempo fa questi diverbi potevano interessare solo i filosofi o i teologi, oggi il problema della verità è diventato addirittura un “rischio esistenziale”, a voler dar retta alle analisi del World Economic Forum, che inserisce il problema della postverità, neologismo entrato nei dizionari anglosassoni nel 2016, nel suo annuale rapporto sui rischi che corre la nostra civiltà (WEF, 2017).
Addirittura? Sembra un po’ eccessivo. Dopotutto, le bugie di Pinocchio non hanno mai fatto male a nessuno; lo scetticismo di Pilato, certo, ha mandato a morte Gesù, mettendo a rischio il progetto di salvezza di Dio (hai detto niente), ma qui siamo di fronte a un problema più triviale e più attuale, che riguarda questo mondo. Cosa sta succedendo?
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Quando la Socialdemocrazia tedesca tradì se stessa
Bad Godesberg e il ripudio della democrazia economica
di Alessandro Somma
Nel 2019 ricorrono due importanti anniversari tondi che i tedeschi stanno celebrando con una certa enfasi: cento anni fa veniva promulgata la Costituzione di Weimar, la prima in Europa a parlare di diritti sociali e di democrazia economica, mentre settant’anni fa vedeva la luce la Costituzione di Bonn, l’unica nata dalla sconfitta del fascismo a non menzionare i diritti sociali e la democrazia economica.
Un altro anniversario tondo è stato invece tenuto un poco in sordina. Sessant’anni or sono il Partito socialdemocratico tedesco (Spd) varava il Programma di Bad Godesberg che formalizzava l’accettazione dell’economia di mercato e con ciò il ripudio della democrazia economica come suo orizzonte programmatico.
Democrazia economica
La democrazia economica è stata a lungo un cavallo di battaglia dei Socialdemocratici tedeschi, che coniarono l’espressione ai tempi della Repubblica di Weimar nell’ambito del movimento sindacale[1], per indicare una forma di risocializzazione dell’economia non ridotta alla mera richiesta di un primato della politica. Quel primato era per molti aspetti una realtà: all’epoca i Paesi capitalisti avevano in massima parte riconosciuto la pianificazione come ineludibile[2], motivo per cui occorreva impegnarsi per renderla un’attività frutto di decisioni partecipate. Di qui il primo fondamento della democrazia economica: l’individuazione attraverso il circuito democratico delle scelte produttive complessive e di lungo periodo (Gesamtwirtschaftsplan)[3].
Non si trattava di superare il capitalismo. La pianificazione comportava il coinvolgimento del Parlamento nelle scelte complessive circa il «cosa produrre», per realizzare l’interazione tra meccanismo concorrenziale e meccanismo democratico. Il «come produrre» restava invece ancorato ai fondamenti che contraddistinguono il capitalismo: esso «può e deve essere affidato all’economia di mercato, che presumibilmente si muoverà in modo sensato e proficuo fondandosi sulla libera concorrenza»[4].
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A cento anni dal biennio rosso
I moti per il caro-viveri
di Domenico Moro
Lo studio della storia del movimento operaio e rivoluzionario è importante non solo per ricordare le proprie radici e affermare la propria identità ma anche e soprattutto come ammaestramento per le scelte politiche tattiche e strategiche per l’oggi e per il futuro.
Proprio in questo inizio di estate 2019 cade il centenario dell’inizio del biennio rosso (1919-1920), che rappresenta uno dei momenti di più alta tensione rivoluzionaria delle classi subalterne italiane degli ultimi cento anni, sia per la profondità sia per la diffusione delle lotte sul territorio nazionale. Per certi aspetti, molto probabilmente il biennio rosso rimane superiore anche rispetto agli altri due altri grandi movimenti delle classi subalterne, sia quello sviluppatosi durante la Resistenza, che fu limitato al Centro-Nord e con caratteristiche anche di lotta di liberazione nazionale oltre che di lotta di classe, sia quello che ebbe luogo tra il 1969 e il 1977-80, cioè tra l’Autunno caldo e l’occupazione della Fiat.
Il biennio rosso si articola in una serie di eventi, che hanno inizio nel giugno-luglio 1919 con i moti per il caro-viveri e proseguono con la lotta per la terra, con l’ammutinamento dell’Esercito e culminano con l’occupazione delle fabbriche nel 1920. Dedichiamo questo primo articolo ai moti per il caro-viveri, ma prima è necessario chiarire i precedenti e il contesto in cui nasce il biennio rosso.
Il contesto generale e la Prima guerra mondiale
Così come in Russia la rivoluzione del 1917 fu preceduta dalla sua “prova generale” del 1905, anche in Italia i sommovimenti del biennio rosso furono preceduti, prima dello scoppio della Prima guerra mondiale, da un importante moto insurrezionale, la cosiddetta settimana rossa (1914). La stessa entrata in guerra dell’Italia fu contrassegnata da una importante opposizione da parte popolare, in cui la lotta alla guerra si unì alla lotta per il pane. Di particolare importanza furono gli avvenimenti accaduti durante la guerra, nel 1917.
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Dopo il disastro
Note su A Sinistra di Giorgio Cesarale
di Marco Gatto
I.
Al lettore italiano mancava una sintesi puntuale delle traiettorie teoriche in campo a sinistra. Non mi riferisco a semplici mappe da fruire per uno sterile aggiornamento disciplinare, ma a un tentativo molto complesso di restituzione di un universo filosofico e critico assai vario, la cui multiformità è essa stessa un problema su cui interrogarsi. Giorgio Cesarale, nel suo A Sinistra. Il pensiero critico dopo il 1989 (Roma-Bari, Laterza, 2019), lo fa con grande acume e propone una chiave di lettura assai netta, suggerendoci in che modo interpretare i percorsi della riflessione radicale più recente.
Prima di illustrare la prospettiva messa in campo dall’autore, mi permetto di indugiare sullo stato dell’arte. Più di un decennio fa, uno studioso brillante come Göran Therborn, in un libro dilemmatico dal titolo From Marxism to Post-Marxism?,1 aggiornava le tesi storiografiche di Perry Anderson (il cui noto resoconto de Il dibattito nel marxismo occidentale, datato 1977, rappresentava un tentativo di analizzare il grande turning point che avrebbe condotto alla crisi politica del marxismo) e constatava che il pensiero critico di matrice materialistica stava approssimandosi a una fase di mutazione molto consistente, nel corso della quale avrebbe interrogato la sua effettiva validità interpretativa. In Therborn poteva leggersi, fra le righe, la convinzione che il post-marxismo (ormai divenuto l’involucro del pensiero antagonistico tout court) si fosse ormai arreso all’evidenza di una postmodernità che ne aveva trasformato le modalità analitiche, relegandolo a una delle infinite possibili ermeneutiche del contemporaneo. E, in effetti, se il marxismo tradizionale è divenuto una sorta di “bene culturale” da conservare nei manuali di filosofia, la tradizione novecentesca – chiamiamola pure del marxismo occidentale – ha impresso una spinta a questa sterilizzazione politica, conducendo spesso il discorso politico verso ambiti assai ristretti, a volte solo e soltanto culturali.
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Sviluppi della “teoria della dipendenza”
di Alessandro Visalli
Nell’arco di quasi quattro anni sul blog sono state prodotte molte letture in qualche modo riconducibili allo sviluppo storico della “teoria della dipendenza”, una complessa tradizione che matura tra gli anni cinquanta e sessanta e si concentra sulle relazioni tra i paesi in sviluppo (o “sottosviluppati”) e quelli dominanti (o “imperialisti”), la forma sociale capitalista è letta in tutto il suo sviluppo in chiave di interconnessione mondiale, ma con una significativa evoluzione nel tempo.
Gli autori centrali che abbiamo letto sono stati chiamati a volte “la banda dei quattro”, per la forte comunione di intenti che li caratterizzava, pur entro significative differenze. Della “banda” non è presente Immanuel Wallerstein (ma rimedieremo) e c’è l’inserimento di un autore meno centrale come Hosea Jaffe, ma, soprattutto di un libro decisivo nella costruzione di almeno parte delle radici intellettuali, quello di Baran.
Chiaramente si tratta di un lavoro in itinere, del tutto incompleto e parziale, che richiederà almeno il completamento di altre letture di Jaffe, della linea interpretativa di critica del ‘capitalismo monopolistico’ (scuola marxista americana), con altri testi di Baran, ma anche di Sweezy e O’Connor, e di qualche altro libro secondario di Samir Amin e dello stesso Giovanni Arrighi, ma anche Leo Huberman, Gunnar Myrdal e Terence Hopkins.
In ordine cronologico bisognerebbe partire dalla lettura del saggio di Paul Baran, “Il surplus economico”, del 1957, che si inserisce a pieno titolo in una linea genealogica di autori e saggi marxisti sull’imperialismo che vede superare ed inglobare l’analisi marxiana del colonialismo (che pure anticipa molti temi) con le analisi di Lenin, “L’imperialismo, fase suprema del capitalismo”, del 1916, anticipate da John Hobson, “Imperialism, a study”, del 1902, Rudolf Hilferding, “Il capitale finanziario”, del 1910, e Rosa Luxemburg, “L’accumulazione del capitale”, del 1913. Si può ricordare anche il libro di Henryk Grossmann “Il crollo del capitalismo”, 1929, che tra le controtendenze equilibranti indica il mercato mondiale, ovvero la “ricostruzione della redditività con il dominio del mercato mondiale”, e quindi la “funzione economica dell’imperialismo”.
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Marx "populista''
Costruzione di un giallo fantapolitico
di Alessandro Mantovani
Nel fantapolitico di Diego Gabutti Un'avventura di Amadeo Bordiga (Milano, Longanesi, 1982), ambientato nel primo dopoguerra, il rinvenimento di una lettera comprovante mercanteggiamenti tra Marx e Bismarck getta sbalordimento e scompiglio nell'ambiente dell'appena nata Internazionale Comunista: la lettera deve rimanere segreta, altrimenti tutta la narrazione su cui i comunisti fondano la loro costruzione crollerebbe come un castello di carte. La satira di Gabutti sbeffeggia così, d'un sol colpo, tanto il vezzo dei marxologi per gli inediti che ribalterebbero, di tempo in tempo, l'interpretazione di Marx, quanto il filisteismo dell' ''ortodossia marxista'', alla quale, come noto, lo stesso Marx, di fronte alle dilettantistiche semplificazioni con cui alcuni suoi zelanti discepoli avevano schematizzato il suo pensiero, si era sempre ironicamente sottratto, giungendo sarcasticamente ad affermare: «io non sono marxista».
Ho il sospetto che per immaginare la sua esilarante storia, Gabutti si sia ispirato, oltre che al ritrovamento, dopo la rivoluzione russa, della famosa Confessione di Bakunin allo zar, anche alla scoperta, nel 1923, di una lettera di Marx a Vera Zasulič sul destino della comune rurale russa. Il giallo consisterebbe, in questo caso, nel fatto che la missiva sarebbe stata niente po' po' di meno che occultata dai cosiddetti fondatori del marxismo russo, Georgi Plechanov, Vera Zasulič e Pavel Axelrod, per i motivi che vedremo appresso.
La storia è già nota da tempo1, ma ogni tanto alcuni marxologi la ripropongono, secondo la sequenza: Marx distante dal ''marxismo'', Engels dogmatizzatore dello stesso, Plechanov discepolo di Engels e maestro di Lenin, Lenin allievo di Plechanov e padre di Stalin; ed ogni volta che succede, qualche sprovveduto critico del bolscevismo, ignaro fino a quel momento, si mette a far grancassa2.
La questione, come si vedrà, non è meramente storiografica, anzi, ha un preciso valore politico. Ma torniamo alla storia della lettera scomparsa. Per narrarla, dobbiamo fare un passo indietro.
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Le scienze umane a Bibbiano
di Paolo Di Remigio
(Pubblichiamo volentieri questa riflessione dell'amico Paolo Di Remigio, che parte dai fatti di Bibbiano per discutere su ciò che sono oggi le scienze umane. M.B.)
1.
A Bibbiano, ma in precedenza al ‘Forteto’ vicino Firenze e poi in provincia di Modena, i bambini sono stati strappati ai loro genitori tramite accuse infamanti in particolare nei confronti dei padri e, dopo un lavaggio del cervello perché si rassegnassero al trauma, ma anche senza che si rassegnassero, affidati a nuovi nuclei familiari o a istituti prezzolati. Psicologi, assistenti sociali, giudici hanno calunniato adulti e rubato bambini, per realizzarne le peggiori angosce, per sacrificare le vite di tutti sull'altare del denaro e degli appetiti perversi. L’ampiezza delle reti di complicità, di reticenza e di disattenzione che permette queste spaventose vicende e vi stende il velo dell’omertà dimostra l’esistenza di potenti forze destabilizzanti, animate da un’ideologia che razionalizza l’odio nei confronti dell’istituzione familiare e il cui terreno di coltura è in certi settori delle ‘scienze umane’ – le scienze delle intenzioni: psicologia, sociologia, antropologia.
Poiché rappresentano un costo sociale, le scienze devono giustificare la loro esistenza. Esse dimostrano di meritare i finanziamenti allargando il campo della conoscenza con scoperte utili. Mentre le scienze della natura fanno scoperte utili e non meno utili si mostrano gli strumenti che le hanno consentite, le scienze dell’uomo sono in una situazione molto più difficile. All'uomo l’uomo è molto più trasparente della natura ed è molto difficile aggiungere qualcosa di nuovo e insieme intelligente dopo l’etica di Platone e Aristotele. La ricerca del nuovo si è diretta innanzitutto verso popoli sconosciuti; ma questo campo è essenzialmente esaurito già nel rinascimento; in seguito saranno disponibili soltanto società sempre più piccole, sempre più semplici, e ormai non ce ne sono più da scoprire[1]. La possibilità di scoperta resta invece intatta nell'ambito dell’eccezione, dell’anormalità, della malattia; qui si apre un campo effettivamente sconfinato per la ricerca, perché nel campo dell’umano si danno infinite eccezioni. Le scienze umane più gravide di conseguenze hanno uno stretto legame con le terapie.
Ne deriva una situazione ambigua. La scienza è conoscenza universale: concerne, secondo la determinazione di Aristotele, ciò che accade sempre o per lo più.
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Valentino Gerratana: il filosofo militante che ci ha ridato Gramsci
di Antonio Floridia
“L’uomo che ci ha ridato Gramsci”, così Guido Liguori, presidente della International Gramsci Society, nell’intervento conclusivo del convegno che ha ricordato, nel centenario della nascita, la figura di Valentino Gerratana, e che si è tenuto a Modica, città di origine dello studioso, il 15 e il 16 giugno.
Il convegno modicano, organizzato da una “scuola di formazione politica” intitolata alla memoria di Virgilio Failla (storico leader e a lungo deputato del Pci nel ragusano, in quella che a lungo è stata la “provincia rossa” della Sicilia), in collaborazione con l’Istituto Gramsci siciliano e quello nazionale, nonché con la Gramsci International Society, ha avuto il merito di collocare la figura di Gerratana nel contesto della sue radici (a partire dalla relazione di Giancarlo Poidomani, storico dell’università di Catania, su “la costruzione del Partito nuovo nella provincia iblea”) e di illuminare passaggi della biografia di Gerratana che sono rimasti a lungo poco conosciuti, quasi oscurati dall’imponente lavoro per l’edizione critica dei Quaderni di Gramsci, a cui il nome di Gerratana rimarrà indubbiamente legato.
Un momento culminante, e anche molto toccante, del convegno si è avuto con una lunga video-intervista di Emanuele Macaluso. Lo storico leader del PCI ha ricordato i suoi rapporti con Valentino Gerratana, conosciuto in Sicilia nei primi anni del Dopoguerra, quando Macaluso era segretario della Cgil siciliana e Valentino – inviato in Sicilia dal partito per affiancare Calogero Li Causi – era il direttore, di fatto, de “La voce della Sicilia”, il quotidiano voluto dal Pci per sostenere la battaglia politica durissima di quegli anni per la democrazia e la “terra ai contadini”. La testimonianza di Macaluso ha sottolineato, tra l’altro, la grande stima che Togliatti aveva maturato nei confronti del giovane intellettuale siciliano.
L’amicizia con Giaime Pintor
La relazione generale introduttiva del sen. Concetto Scivoletto ha ricostruito l’intero percorso biografico di Gerratana.
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Carola Rackete, migranti, spoliazione e l'illusione dei muri
di Carlo Lozito
Quella capitalistica è la società dell'apparenza in cui la realtà si presenta sempre trasfigurata. Per la questione dei migranti, non si tratta del capovolgimento mistificante dei rapporti tra gli uomini trasformati in rapporti tra cose, insito nei rapporti di produzione borghesi, ma di un atto ideologico col quale dissimulare la realtà, fatto di affermazioni, azioni e leggi che violano addirittura le stesse norme nazionali e internazionali borghesi. Il ministro dell'interno Salvini ha inaugurato, e quotidianamente rafforza, la stagione della calunnia, della piegatura dei fatti al mero scopo propagandistico, dell'uso della forza pubblica a proprio uso, dell'uso spregiudicato dei media per il proprio interesse.
Poco importa che tanto spiegamento di forze vada a colpire solo i deboli, quelli che nulla o poco possono fare per difendersi e lascino indisturbati i criminali veri, quelli dai poteri forti, quelli che scorrazzano quotidianamente nelle città e campagne italiane liberi di commettere qualsiasi illecito, difesi da mille cavilli giuridici spesi ad arte da un esercito di avvocati quando non totalmente impuniti. Così, Carola Rackete, comandante della nave impiegata nel soccorso ai migranti in mare, è stata arrestata, accusata dai più alti rappresentanti del governo italiano, ma non solo, di essere una criminale.
Una piega di vita, quella in corso, che riduce la politica a beceri insulti e volgari argomentazioni estranee a qualsiasi obiettività che mirano a solleticare e a far presa sugli istinti più beceri dell'essere umano, istinti mai sopiti e pronti a rigurgitare, rinvigoriti dall'incancrenirsi di una situazione economica che produce insicurezza e incertezza, precarietà, rabbia, risentimento che, per la mancanza di idee altre e più proprie alla necessità di liberazione e solidarietà umane, possono essere facilmente depistati contro il diverso e il debole, il migrante appunto. La volgarità e l'ipocrisia in questo regnano sovrani: si brandisce il manganello con una mano, appunto contro gli indifesi, mentre con l'altra si agita il crocefisso per dire che lo si fa in nome della santità.
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Agostiniani e Paolini
di Bazaar
La sovranità costituzionale, la dissonanza cognitiva e un concilio di Nicea allo stadio
«Diffidate di quei cosmopoliti che vanno a cercare lontano nei loro libri i doveri che trascurano di svolgere nel loro ambiente. Quel tale filosofo ama i tartari per non essere costretto ad amare i suoi vicini.» Jean-Jacques Rousseau, Émile
Mentre l’Unione Europea – espressione del capitalismo delle potenze egemoniche occidentali, lentamente, come un boa, stritola l’Italia e gli italiani – fenomeni macroscopici, per le dimensioni dell’impatto sociale o mediatico, dividono, spaccano, l’opinione pubblica in due.
La polarizzazione, nonostante gli sforzi dei media per creare dialettiche falsate, tesi e antitesi solo fintamente contrappositive che lasciano al governo materiale delle forze economiche proseguire la propria agenda politica al di là degli interessi generali e «al riparo del processo elettorale», si articola da un lato in un pubblico più o meno incosciente che però resiste – e che si ritiene, per ironia farsesca della Storia, perlopiù “conservatore” – e un pubblico che, a questa agenda politica, presta invece direttamente o indirettamente sostegno. Quest’ultimo si ritiene perlopiù progressista, e sulla sua “consapevolezza” sarà interessante riflettere.
Entrambe le fazioni portano avanti ideologicamente, di fatto, un pensiero (neo)liberale, nonostante la stragrande maggioranza delle persone, in particolar modo nella fazione resistente e conservatrice, rivendichi politiche e necessità di chiara matrice socialista: intervento dello Stato al fine di aumentare le assunzioni nel pubblico impiego, ripresa della crescita salariale nell’amministrazione pubblica, espansione della servizio sanitario nazionale, diminuzione dell’età pensionabile, supporto dello Stato alla famiglia e altre, sacrosante, battaglie socialiste i cui obiettivi furono perentoriamente iscritti in Costituzione e che questa inderogabilmente prescrive.
Dall’altra parte della barricata c’è quel blocco sociale guidato dalla borghesia che vive nelle zone urbane centrali, tendenzialmente di area liberal e progressista, che ha avuto perlopiù vantaggi dall’agenda politica eurounionista, o che ancora non ha subito le conseguenze di quello che è a tutti gli effetti uno strangolamento finanziario volto alla deindustrializzazione dell’Italia, alla grande espropriazione dei patrimoni dei ceti medi e alla definitiva mezzogiornificazione della penisola. Nota: all’espropriazione economica consegue l’esproprio della sovranità democratica.
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La storia della terza rivoluzione industriale
4. L’ultima crociata del liberalismo
di Robert Kurz
Pubblichiamo il quarto capitolo della sezione VIII dello Schwarzbuch Kapitalismus (“Il libro nero del capitalismo”) di Robert Kurz
La terza rivoluzione industriale ha definitivamente precluso ogni possibilità di soluzione per l’autocontraddizione capitalistica. Esauritasi la sua dinamica compensatoria, perfino il pace-maker keynesiano applicato al decrepito sistema-feticcio non poteva che fallire. Il dogma di una forma sociale totalitaria, ben decisa a sottomettere l’umanità con immutata durezza alla legge della valorizzazione e al giogo dei mercati del lavoro, doveva allora assumere il carattere di una crociata contro la realtà.
Il ritorno ad una prospettiva radicalmente microeconomica equivale ad una politica dello struzzo che infila la testa nella sabbia: si liquida nuovamente il livello di riflessione macroeconomico, conquistato con tanta fatica e solo all’interno delle categorie capitalistiche, per dissolvere integralmente la società nei calcoli individuali degli atomi sociali e, in questo modo, rendere la crisi invisibile. Non c’è più nessuna autocontraddizione oggettiva del capitalismo, né alcun problema sociale, visto che apparentemente non fanno altro che obbedire tutti alla propria volontà autoresponsabile: «La disoccupazione può essere spiegata con una libera opzione per il tempo libero in un calcolo di ottimizzazione individuale»1 – questo almeno secondo la «teoria» dell’economista statunitense Robert Lucas. Per simili trovate oggi si vince il premio Nobel (il turno di Lucas è arrivato nel 1995). Con la sua effettivamente «semplice scoperta» secondo cui i liberi calcoli individuali non si lasciano impressionare e dirigere da misure macroeconomiche (di politica sociale), ma le rendono inefficaci con le loro «aspettative razionali» conformi al mercato – così recita la laudatio universale – egli avrebbe «rivoluzionato il pensiero politico-economico».2
Una riflessione grossolana quale quella della «teoria delle aspettative razionali» ci fa comprendere quale sia la strada che ha deciso di intraprendere la crociata neoliberale contro la realtà: l’«economia dell’offerta» («supply side») di Say deve essere applicata una volta per tutte anche ai mercati del lavoro. Chi è costretto a vendere la sua forza-lavoro deve comportarsi civilmente e in maniera altrettanto «conforme al mercato» di chi vende pomodori, mine anticarro o preservativi – ossia secondo la «legge della domanda e dell’offerta» sui mercati anonimi.
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Grandi opere e devastazione ambientale
di Giorgio Nebbia
È morto due giorni fa, all’età di 93 anni, Giorgio Nebbia, uno dei padri dell’ambientalismo non solo italiano, coerente e inascoltato sostenitore della necessità scientifica di porre dei limiti alla crescita: non per ragioni ideali ma per la decisiva ragione che il mondo e la materia non sono infiniti. Portò la sua battaglia anche in Parlamento, come indipendente eletto nelle fila del Pci negli anni dal 1983 al 1992. Senza successo, come ebbe a scrivere 25 anni dopo: «Nel 1992 è finita una maniera di vivere la politica. Ricordo una delle ultime iniziative del mio mandato parlamentare, in Puglia. Fui invitato a parlare in una discoteca, unica volta in cui vi ho messo piede: naturalmente nessuno ascoltava. Mi resi conto che un partito che, per adeguarsi, teneva i comizi in discoteca rappresentava un mondo finito […]. Era finita anche per me. Nascevano altre associazioni, altre persone si affacciavano nel movimento e ormai ero un “vecchio”, talvolta benignamente definito ancora come “padre” dell’ambientalismo, ma ingombrante residuo di un altro mondo. Nasceva l’ambientalismo scientifico: non bisogna sempre dire no, bisogna pure fare qualcosa e io come vecchio contestatore, un po’ anarchico, non servivo più. L’ambientalismo sembrava, ai miei occhi, occasione per ottenere assessorati e cariche pubbliche, ricerca di sovvenzioni e sponsorizzazioni. Si era passati dalla critica e dalla contestazione all’omologazione».
In suo ricordo – e a nostra memoria – riportiamo qui, per gentile concessione dell’editore, uno stralcio di uno dei suoi ultimi scritti, il libro intervista con Valter Giuliano Non superare la soglia. Conversazioni su centocinquant’anni di ecologia (Edizioni Gruppo Abele, 2016).
* * * *
Da qualche tempo ci sono due argomenti che animano il dibattito: la costruzione della galleria di base attraverso le Alpi per la linea ad alta velocità Tav Torino-Lione e la costruzione del Ponte di Messina, che periodicamente ritorna nelle agende dei vari governi.
Alle due opere vengono rivolte varie obiezioni di carattere sociale, ambientale, tecnico eccetera. La galleria del Tav in Valle di Susa potrebbe incontrare molteplici difficoltà tecniche, arrecherebbe alterazioni ambientali nella valle e via seguitando; il ponte sullo Stretto di Messina potrebbe essere difficile da realizzare, passerebbe in territori esposti a sismicità, richiederebbe vie di accesso dalla parte calabrese e siciliana con profonde alterazioni del territorio.
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L’umanesimo nell’Occidente è stato sostituito dall’umanismo
di Salvatore Bravo
L’umanesimo nell’Occidente è stato sostituito dall’umanismo: quest’ultimo è funzionale ai bisogni del capitalismo assoluto. L’umanismo recide i legami con ogni fondazione possibile della verità, con ogni oggettività formulata attraverso il logos, predilige l’individuo astratto rispetto all’essere umano concreto e comunitario.
Marx – nella lettura di Costanzo Preve – non può essere relegato nella nomenclatura degli umanisti, poiché non consegna l’essere umano alla contingenza della storia, non riduce il pensiero a nominalismo, ma si pone nell’ottica dell’universale, dell’umanità intera. Il materialismo storico è il mezzo attraverso il quale denuncia l’umanità offesa. Ricostruisce attraverso i modi di produzione l’alienazione (Entfremdung), i processi di negazione della natura umana, la sua riduzione ad appendice del sistema produttivo. Nel conflitto sociale che muove la storia, nelle sue contraddizioni, la condizione umana concreta si dispone al suo interno secondo prospettive e responsabilità differenti: la responsabilità di un magnate è differente rispetto alla responsabilità di un lavoratore salariato. La grandezza di Marx è aver sistematizzato le condizioni che provocano l’alienazione. Ma, nello stesso tempo, non si è limitato a costruire una narrazione ideologica, e dunque parziale: ma la sua opera è finalizzata all’emancipazione dell’umanità, perché il sistema produttivo borghese, il capitalismo, offende e nega la natura umana.
Nell’operaio legato alla catena della macchina e del plusvalore si rende lapalissiana la miseria umana nella fase del capitalismo. L’operaio è negato nella sua natura individuale e comunitaria, è il portatore sano di relazioni sociali errate; la controparte, il capitalista, vive una condizione materiale privilegiata dietro cui agiscono processi di alienazione che nell’immediato non appaiono. In realtà, dietro la maschera del benessere materiale, si scopre il soggetto alienato nella sua natura. Per Preve quindi, Marx è un iperumanista, poiché la sua teoretica è finalizzata a superare le scissioni che impediscono di concettualizzare la natura umana e di valutare attraverso di essa la condizione umana.
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La balcanizzazione dell’Italia
di Renato Caputo
Il pensiero unico neoliberista mira a indebolire la sovranità popolare e a tal fine, per dare il colpo definitivo alla Costituzione italiana “troppo democratica”, favorisce la balcanizzazione del paese
La netta vittoria nelle ultime elezioni politiche del qualunquista – programmaticamente né di destra, né di sinistra – Movimento 5 stelle rischiava di mettere in discussione un elemento chiave della Seconda repubblica, ovvero della restaurazione liberista, il bipolarismo fra due diverse fazioni dello stesso partito: i liberali progressisti e i liberali conservatori.
Tale bipolarismo faceva particolarmente comodo ai dirigenti del centro-destra e del centro-sinistra che potevano godere di una notevole rendita di posizione assicurata dal voto utile. Era anche la soluzione più confacente al pensiero unico neoliberista che voleva togliere la possibilità alle classi non possidenti di ottenere una parziale redistribuzione a loro favore di rendite e profitti mediante il suffragio universale. Non potendo eliminare quest’ultimo, se non mettendo a serio rischio la loro capacità di egemonia sui subalterni, il modo migliore per renderlo inoffensivo era svuotarlo dall’interno, riproducendo il modello dello Stato liberale italiano dalla nascita alla Prima guerra mondiale dove appunto si confrontavano due diverse tendenze dello stesso partito e, a scanso di equivoci, dominava permanentemente il trasformismo, visto che non essendoci differenze essenziali e contendendo essenzialmente per la conquista del centro i politicanti erano pronti a tutto pur di mantenere le loro poltrone nelle istituzioni.
Bisogna anche riconoscere che fra i principali responsabili della politica politicante della messa in discussione di tale modello troviamo il Pd, con i governi Letta, Renzi e Gentiloni che si sono spostati talmente a destra da far perdere qualsiasi significato al termine centro-sinistra. In particolare Renzi ha fatto di tutto per coinvolgere nel proprio governo il centro-destra e mirava apertamente alla costruzione di un Partito della nazione, in grado di ricomprendere nel proprio trasformismo centrista tanto il centro-sinistra che il centro-destra. Tale politica non poteva che mettere in allarme i sacerdoti del pensiero unico neoliberista, in quanto veniva meno la finzione del bipolarismo e il ricatto del voto utile e questo finiva per lasciare spazio al risorgere della sinistra.
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Venezuela, a proposito di tortura e dintorni
di Geraldina Colotti
Verso le ore 11 del 28 gennaio 1982, le forze speciali di polizia fanno irruzione in un appartamento di via Pindemonte, 2 a Padova dov'è tenuto prigioniero il generale USA James L. Dozier. Il generale è stato sequestrato qualche tempo prima a Verona dalla guerriglia marxista delle Brigate Rosse, attiva in Italia dagli anni '70. Dozier viene liberato e i cinque brigatisti arrestati vengono ferocemente torturati per giorni con modalità tante volte descritte nelle testimonianze dei sopravvissuti alle dittature del Cono Sur. Due anni dopo, un prudentissimo rapporto di Amnesty International registra un “allarmante aumento di denunce di maltrattamenti” da parte di arrestati nei primi tre mesi dell'82. Le denunce – scrive l'organizzazione – si riferiscono ai casi di tortura o maltrattamenti che sono avvenuti nell'intervallo tra l'arresto e il trasferimento in carcere, in commissariati di polizia, caserme di polizia e in altri posti che presumibilmente non possono venire identificati perché i fermati erano incappucciati o bendati.
I metodi di tortura riferiti ad Amnesty includono “percosse prolungate e il costringere gli arrestati a bere grande quantità di acqua salata. Sono state denunciate anche bruciature con mozziconi di sigaretta, getti di acqua ghiacciata, torcimento dei piedi e dei capezzoli, strappo dei capelli, strizzatura dei genitali e l'impiego di scariche elettriche”. Altre testimonianze con altrettanti riscontri medici, parlano di torture di natura sessuale subite da alcune guerrigliere. E si denunciano finte esecuzioni, dentro e fuori le carceri speciali, dove pestaggi, maltrattamenti e deprivazioni psico-sensoriali sono all'ordine del giorno, soprattutto in quell'anno.
Nel luglio dell'83, quattro ufficiali di polizia che erano stati oggetto di queste denunce, vengono riconosciuti colpevoli di “abuso di autorità” commesso durante gli interrogatori. Saranno condannati a pene da un anno a 14 mesi, con la condizionale. Un quinto viene prosciolto perché nelle elezioni politiche di giugno era stato eletto deputato, beneficiando così dell'immunità parlamentare. In Italia, a tutt'oggi non esiste il reato di tortura e quei poliziotti verranno poi prosciolti in appello. Il brigatista Cesare di Leonardo che, nonostante le torture non si è pentito, sta ancora scontando una condanna all'ergastolo in un carcere speciale, uno di quelli istituiti, con un semplice decreto ministeriale, a maggio del 1977.
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Il diritto al futuro contro il capitalismo della sorveglianza
di Roberto Ciccarelli
Il plusvalore estratto dalla forza lavoro nel capitalismo delle piattaforme ha meccanismi che arrivano a condizionare l’identità personale. Analisi critica del libro, ancora non tradotto, di Shoshana Zuboff: “The Age of Surveillance Capitalism. The fight for a human future at the new frontier of power”.
Shoshana Zuboff ha scritto un libro importante di filosofia politica e critica dell’economia politica digitale: The Age of Surveillance Capitalism. The fight for a human future at the new frontier of power (Profile Books. pp. 691; L’epoca del capitalismo di sorveglianza: la lotta per un futuro umano sulla nuova frontiera del potere). È un libro necessario che racconta la storia terribile e urgente di cui siamo protagonisti e offre strumenti contro il nuovo potere. Considerato il fatto che non è stato ancora tradotto in italiano, propongo una guida al libro e una lettura critica delle cinque tesi principali.
0. Che cos’è il capitalismo della sorveglianza
1. Un nuovo ordine economico che configura l’esperienza umana come una materia prima gratuita per pratiche commerciali nascoste di estrazione, predizione e vendita;
2. una logica economica parassita nella quale la produzione delle merci e dei servizi è subordinata a una nuova architettura globale della trasformazione comportamentale degli individui e delle masse;
3. una minaccia significativa alla natura umana nel XXI secolo così come il capitalismo industriale è stato per il mondo naturale nel XIX e XX secolo;
4. una violenta mutazione del capitalismo caratterizzata da una concentrazione della ricchezza, conoscenza e potere senza precedenti nella storia umana; (…);
5. l’origine di un nuovo potere strumentale che afferma il dominio sulla società e presenta una sfida impegnativa alla democrazia di mercato (corsivo mio); (…)”. (p.1).
1. Il capitalismo della sorveglianza è un nuovo ordine economico che configura l’esperienza umana come una materia prima gratuita per pratiche commerciali nascoste di estrazione, predizione e vendita.
Il capitalismo di sorveglianza trasforma l’esperienza in “materiale grezzo gratuito”. Tale materiale è estratto da un corpo, descritto come una “carcassa”, è raffinato, reso intelligente e trasformato in dati comportamentali.
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Il populismo socialsciovinista bianco, l’Europa e la ricolonizzazione del mondo
L’emergere di una democrazia bonapartista postmoderna e plebiscitaria e la rivolta “sovranista” contro la Grande Convergenza
di Stefano G. Azzarà (Università di Urbino)
Presento qui la postfazione a un’antologia di testi di Domenico Losurdo dal titolo Imperialismo e questione europea, curata da Emiliano Alessandroni e in uscita presso La scuola di Pitagora. Ringrazio “Dialettica e Filosofia” per avermi consentito di anticiparlo e diffonderlo in Open Access
Abstract
Il mito transpolitico di un superamento epocale delle categorie di destra e sinistra copre in realtà l’esito ultimo di un gigantesco processo decennale di concentrazione del potere che ha determinato la fine della democrazia moderna e l’avvio di una fase di sperimentazioni di forme postmoderne di democrazia. Analogamente, la rivolta populista dei ceti medi e della piccola borghesia, che risponde a una crisi di legittimazione delle “caste” politiche, economiche e culturali europee, è in primo luogo la copertura di una furibonda guerra interna alle classi tra élites stabilite liberoscambiste e élites outsider protezioniste, le quali ultime contestano il consensus universalista e liberaldemocratico imponendo un nuovo consensus particolarista e riconducendo il liberalismo alle proprie origini conservatrici. Questa rivolta è però anche la reazione alla Grande Convergenza del mondo ex coloniale e a quel catastrofico management della crisi (l’Austerity per i poveri) attraverso il quale il capitalismo in Occidente ha scaricato sulle classi subalterne i costi della redistribuzione globale del potere e della ricchezza, scatenando risposte xenofobe indotte e un socialsciovinismo di massa che sta finendo per erodere quanto rimaneva della sinistra novecentesca.
* * * *
1. Una gigantesca concentrazione di potere neoliberale nel solco del bonapartismo postmoderno
È stato notato come l’Italia abbia spesso svolto il ruolo di un laboratorio capace di anticipare tendenze che si sarebbero manifestate in seguito anche in altri paesi, segnando a volte un’intera epoca storica.
Lo è stata e forse lo è ancora sul piano intellettuale, come ha rivendicato Roberto Esposito già negli anni Ottanta e di nuovo più di recente, rinviando ai nomi di Machiavelli e Vico e a una costante spinta di mondanizzazione resasi infine esplicita nel concetto di biopolitica1. Ma possiamo dire che lo sia stata e lo sia anche sul piano politico in senso stretto e cioè su quello delle forme della governance e, ancor prima, delle forme del conflitto.
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Immigrazione: una navigazione tra bassa criminalità, calcolato cinismo, falsità e ipocrisia
di Michele Castaldo
Un nuovo fatto di ordinaria criminalità compiuto nei confronti degli immigrati, quello di utilizzare l’episodio della “forzatura del blocco navale” da parte di Carole Rachete con la Sea Watch 3, per attaccare gli immigrati con una violenza pari alle forze politiche di destra, che Salvini ben sintetizza.
Nessuna meraviglia, ci mancherebbe, se una Meloni invoca l’affondamento della nave incriminata; quando si dice che l’animo femminile è più sensibile, più umano, perché materno, ovvero la quota rosa della carognata. Non che ci voglia molto per provare disprezzo per Salvini, Meloni et similia. Qualche domanda andrebbe posta anche al M5S, ma è tempo perso, sono troppo stretti nella morsa che il potere, quello vero, dell’economia del paese, gli ha stretta al collo.
È perfettamente inutile disquisire sulle leggi dei mari e dei porti, sui diritti territoriali o umani, non è mestiere di chi è di parte, da entrambe le parti: tra chi difende comunque il diritto dei più deboli contro chi si affanna a sputare su di essi, a vivere della loro miseria, del loro sfruttamento, del loro lavoro.
Trafficanti di esseri umani?
Si. Ha ragione Salvini: c’è un traffico di esseri umani. Cui prodest? A chi giova l’immigrazione, non certamente agli operai, che si ritrovano un concorrente in casa; non giova ai disoccupati per la stessa ragione. Giova al capitalismo nel suo insieme e ai capitalisti italiani di tutta la scala piramidale: piccoli, medi e grandi di tutti i settori in modo particolare di quelli in crisi. Questa semplice verità non viene mai messa in luce perché è troppo complicato spiegare che molti paesi africani sono stati invasi per decenni e rapinati delle loro risorse e oggi si cerca di scaricare la crisi, che l’Occidente sta attraversando, ancora su di essi alimentando, come in Libia, guerre fratricide con lo scopo di continuare, da un lato, a rapinare il petrolio e, dall’altro lato, favorire l’emigrazione in massa verso i lidi europei in cerca di fortuna. Lungo il cammino di loro vita, per raggiungere il sospirato Occidente, l’Europa o gli Usa, incrociano quelli che si prestano al lavoro sporco di caricarli su barconi di fortuna e arrivare sulle coste più vicine all’”Eldorado” e una parte di essi trova la morte senza mai raggiungere una riva.
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Rosa Luxemburg e la sinistra
di Salvatore Bravo
Destra e Sinistra
La differenza tra destra e sinistra di governo si assottiglia fino a renderle perfettamente speculare, per cui la sinistra annaspa e si lascia strumentalizzare dalla destra in una pericolosa e complice relazione biunivoca. Porre il problema della differenza significa rendere palese la paralisi programmatica e politica, ed il congelamento nella storia attuale. La sinistra è flatus vocis, siamo in pieno nominalismo, la sinistra di governo risponde alla funzione del capitale, anzi lo blandisce, non è solo dimentica di sé, si lascia colonizzare, diviene parte attivo del dispositivo anonimo del capitalismo assoluto.
La presenza puramente formale della sinistra, nella storia occidentale attuale, ha la sua causa “principale-immediata” nella caduta del muro di Berlino (1989), dopo la caduta dei paesi a socialismo reale non vi è stato che un lungo frammentarsi per adattarsi al capitale, per rendersi visibile e spendibile sul mercato del voto. La sconfitta storica ha palesato un’altra verità: il progressivo emergere del nichilismo economicistico delle sinistre. La sconfitta è l’effetto della verità profonda della sinistra, ovvero il progressivo svuotarsi di un progetto, dell’umanesimo per un accomodarsi curvato sull’economia della sola quantità, per cui l’avanzamento della cultura liberista ha trovato un mondo simbolico già disposto all’economicismo, al verticismo del potere, all’antiumanesimo. Il capitalismo di stato dei paesi a socialismo reale non è stato antitetico, ma competitivo al capitalismo liberista, le destre del capitale sono avanzate su un terreno già arato, pronto a prediligere la quantità sulla qualità, la propaganda all’attività soggettiva consapevole.
Non tutta l’esperienza è stata nefasta, ma il “tradimento culturale” rispetto ai grandi propositi teoretici ed ideologici ha indotto gli elettori a scegliere l’autentico (capitalismo liberista) rispetto all’imitazione (capitalismo di stato).
Per poter riaffermare la differenza tra destra e sinistra mediata dalla condizione storica attuale, non è sufficiente affermare che destra e sinistra sono categorie vetuste, dovrebbero essere riformulate con nuovi contenuti, è necessario l’esodo dagli steccati ideologici. Ricostruire le posizioni ideologiche è operazione lenta e faticosa nella quale lo strato teoretico incontra la prassi.
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Vorrei poter chiedere a Pasolini
di Norberto Natali
La mancanza di Pasolini mi pesa sempre di più quando sento, per esempio, parlare Saviano. Due figure opposte.
Il grande poeta friulano sapeva farci misurare con i nostri punti di vista con l’abilità -direi da grande artista- di ricorrere alla provocazione graffiante, mai banale né fuorviante, con un sapiente uso del paradosso e dell’iperbole. Riusciva sempre a non lasciarci assopire sugli stereotipi accomodanti verso cui voleva indirizzarci il moderno potere borghese, riusciva a farci domandare cosa ci fosse veramente dietro le apparenze superficiali (e che futuro preparassero).
Come dimenticare l’imprevedibile difesa dei poliziotti figli dei contadini meridionali (quindi della disoccupazione e della povertà provocate dal fascismo e non risolte dalla DC) o certi discorsi “corsari” i quali, apparentemente, sembravano snobbare l’antifascismo ma in realtà servivano ad evitare che questo divenisse un comodo alibi per il potere.
Soprattutto non posso dimenticare la lezione di “Petrolio” e quando diceva (dovremmo ricordarcene tutti, oggi) di sapere che i criminali fossero al potere pur senza averne le prove.
Ovviamente, bisogna utilizzare questa sua eredità sapendo che si tratta degli interventi rapidi ed “educativi” di colui che era, in primo luogo, un grande poeta e come tale ci parlava della realtà. Sarebbe un errore interpretare alla lettera quelle sue incursioni morali, come fossero una posizione o, peggio, un programma politico: è evidente che egli fosse contro la repressione e la sua violenza, così come era un antifascista degno fratello di un partigiano ed un sostenitore convinto e fermo -lo è sempre stato- del PCI.
Lui scrisse una toccante cronaca -da par suo- dei funerali di Di Vittorio che era, in realtà, un tributo alla grande folla di lavoratori, di poveri ed emarginati che si erano radunati per l’ultimo saluto al “capo” della CGIL, in un certo senso un loro eroe.
Chissà se Pasolini confermerebbe (come vuole oggi parte importante della stampa e degli intellettuali, anche della politica) che la “capitana” tedesca protagonista delle cronache di queste settimane, là nella terra di Pio La Torre e Rosario Di Salvo, può essere considerata una specie di eroina della causa dei poveri e degli oppressi, della lotta contro la prepotenza e la corruzione degli sfruttatori.
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