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Sul protezionismo
Antitesi n.6
La guerra commerciale è parte della guerra imperialista
“Gli Usa stanno aprendo il fuoco sul mondo”. Così recitava, a inizio luglio, il comunicato del ministero del commercio della Cina, in riferimento ai dazi varanti da Trump contro Pechino. Effettivamente, le misure protezioniste varate dall’attuale presidenza degli Usa hanno decisamente rappresentato una svolta nelle relazioni economiche internazionali, aggravando la contraddizione tra potenze imperialiste, in primis quelle tra Washington e Pechino, e ponendo in discussione come non mai negli ultimi decenni la concezione globalista e liberoscambista del capitalismo.
Infatti, secondo l’ideologia neoliberista, affermatasi a partire dalla fine degli anni settanta del secolo scorso come ispiratrice delle agende economiche delle principali potenze imperialiste, la libera circolazione di merci e capitali aldilà delle frontiere degli Stati è alla base dello sviluppo capitalistico mondiale e delle singole nazioni. Si tratta di un dogma che rientrava in quella sorta di “pensiero unico” liberista diventato definitivamente egemone sopratutto dopo il crollo dell’Urss e l’affermazione degli Usa come incontrastata potenza globale. In realtà, il liberoscambismo rientrava in una svolta delle strategie economiche capitalistiche, resa necessaria dalla fase di crisi apertasi all’inizio degli anni settanta e al fallimento, nel contrastarla, delle politiche keynesiane. [1] Attraverso la libera circolazione di merci e di capitali a livello globale, abbattendo limiti, tariffe e regolamentazioni, la borghesia imperialista si riproponeva il conseguimento di più ampi margini di valorizzazione del capitale, conquistando nuovi mercati, nuova forza lavoro e aprendo spazi alla circolazione finanziaria, via via più deregolamentata, per ottenere remunerazione fittizia dei capitali nella fase in cui il plusvalore e il profitto nell’economia reale tendevano a cadere.
Il protezionismo alle origini del capitalismo
Non sempre, però, il liberoscambismo ha contrassegnato il procedere dell’economia capitalistica. Fin dagli albori del capitalismo, la libera circolazione di merci e capitali si è alternata a misure per limitarla, di modo che i capitalisti di un singolo paese (cioè una singola formazione capitalistica nazionale), potessero tutelare i propri profitti a danno degli altri.
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Cosa accadrà adesso?
di Leonardo Mazzei
Cresce in Europa l'interesse per le vicende italiane dopo le elezioni europee. Cosa accadrà adesso? Ci saranno elezioni anticipate? Quali sono le vere intenzioni del governo giallo-verde riguardo all'Unione europea? Davvero saranno lanciati i MiniBoT? Reggerà l'alleanza M5s Lega? Di che natura è il populismo di Salvini? A queste ed altre domande poste dal sito in lingua tedesca EUREXIT risponde Leonardo Mazzei del Comitato centrale di P101. L'intervista è di Wilhelm Langthaler.
* * * *
Le elezioni europee hanno rovesciato i rapporti di forza nel governo populista. Perché è avvenuto?
I rapporti di forza interni si sono invertiti, ma la maggioranza giallo-verde ha perfino guadagnato consensi. Alle elezioni politiche del 2018 aveva il 50,03% dei voti, alle europee ha ottenuto il 51,40%. Considerato che per il governo non è certo stato un anno facile, si tratta di una differenza minima ma significativa.
Credo che il rovesciamento dei consensi sia da attribuirsi a tre fattori. In primo luogo la Lega ha potuto incassare molti consensi grazie allo stop all'immigrazione clandestina nel Mediterraneo. In secondo luogo, mentre il Reddito di cittadinanza ha prodotto una forte delusione nell'elettorato M5S, l'intervento sulle pensioni — "Quota 100" — voluto in primo luogo dalla Lega, ha spinto molti lavoratori a votare per la prima volta questo partito. In terzo luogo, non bisogna dimenticarsi del ruolo dei media, che per un anno intero hanno fatto ricorso ad ogni argomento per attaccare i Cinque Stelle ancor più che il governo nel suo insieme.
Come se non bastasse, Di Maio ha sbagliato tutto nell'ultima parte della campagna elettorale quando, per dimostrare la propria autonomia da Salvini, ha operato una sorta di "svolta a sinistra". Purtroppo questa sterzata includeva anche un profilo assai più europeista di quello tradizionale del movimento. Una mossa pagata nelle urne.
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Iran: è guerra all’Eurasia
Stranamore, stranammorati, stranamorini
di Fulvio Grimaldi
Hannibal ante portas? Non è più procurato allarme
Ne va della potenza egemonica, dell’eccezionalismo, del “Destino manifesto”, della globalizzazione a direzione unica, del governo mondiale, della controffensiva colonialista fondata su migrazioni che svuotano di energie umane e professionali il Sud da predare. Il Golfo Persico è il pettine al quale questi nodi vengono. E quando gli scienziati nucleari mettono l’orologio dell’Apocalisse a due minuti da mezzanotte, più o meno dove stava nell’immediato post-Hiroshima e Nagasaki, c’è stavolta poco da parlare di procurato allarme.
Chi segue meticolosamente le uniche fonti di notizie e analisi affidabili, che ormai sono quasi solo in rete (finchè dura e Facebook chiude un occhio), legge e vede da almeno un paio di lustri l’annuncio dell’imminente terza e ultima guerra mondiale. Giulietto Chiesa, addirittura, annunciava l’imminenza del conflitto totale fin dai primi anni del nuovo millennio. Al punto che, ripetuta in conferenza su conferenza, intervista su intervista, la funesta certezza decadeva in giaculatoria a cui più nessuno dava peso. Una specie di al lupo al lupo che si inseriva inconsapevolmente in una strategia della paura, anzi del panico, che pian piano sfiancava e distraeva da ogni altro fronte di lotta. Tipo il capitalismo. Un po’ come la questione climatica da GretaThunberg universalizzata in minaccia globale, peraltro priva di responsabilità identificate, che tutte le altre riassume (e annulla) in sé. Qualcuno ha parlato di nuovo oppio dei popoli, come quello, che mai si è cessato di fumare, della religione.
False Flag, la bandiera dell’Occidente
Tuttavia, a partire dalle micce posate nel Golfo Persico da chi conduce guerre e genocidi, e ne campa, da trecento anni a queste parti, il tema ha acquistato una pregnanza senza precedenti, anche perché si appoggia ad accadimenti analoghi che in molti casi alla guerra guerreggiata hanno portato. Parliamo di provocazioni, oggi dette “False Flag”, messe in atto onde vantare davanti all’opinione pubblica un buon, anzi un irrinunciabile, motivo per commettere qualche grossa efferatezza, altrimenti impossibile da giustificare. A molti verranno in mente le nostre stragi di Stato, da Piazza Fontana, attribuito ad anarchici, a Moro fatto far fuori alle BR, e agli attentati della “trattativa”, con manovalanza mafiosa e, a monte, Gladio, servizi nostri e atlantici, la cupola anti-Urss.
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Come l’euro alimenta la divergenza tra i paesi europei
di Domenico Moro
Relazione all’assemblea “Ue e euro: dalle promesse di pace e stabilità alla realtà dei trattati e dell’austerità”, presso l’Istat, il 12 giugno 2019
L’integrazione economica e valutaria europea (Uem), secondo i suoi artefici, avrebbe dovuto condurre alla convergenza tra le economie dell’Europa ed essere di aiuto nell’affrontare le crisi economiche. In realtà, a distanza di vent’anni dall’introduzione della moneta unica, le divergenze tra i Paesi europei si sono accresciute. Inoltre, a più di dieci anni dallo scoppio della crisi economica si è dimostrato come le economie europee siano ancora stagnanti e anzi sempre pronte a ripiombare nella crisi. Di recente, infatti, l’Istat ha valutato come probabile una nuova contrazione del Pil italiano nel secondo semestre dell’anno in corso1.
Tutti gli indicatori più importanti ci mostrano come la divergenza tra Germania, da una parte, e gran parte dei Paesi dell’area euro si sia accresciuta. Di particolare evidenza è la divergenza tra Germania e Italia. Per quanto riguarda il Pil pro capite, calcolato a prezzi costanti e a parità di potere d’acquisto, la differenza, che nel 1998 era minima, nel 2018 è più che decuplicata. Infatti nel 1998 il Pil pro capite italiano rappresentava il 119,2% del Pil pro capite della Ue mentre quello della Germania era il 121,7%, con una differenza di poco più di due punti percentuali. Nel 2018, invece, il Pil italiano rappresentava appena il 93,7% del Pil Ue, mentre quello tedesco di attestava al 120,8%, con una differenza di 27 punti (Graf.1).
Graf. 1 – Confronto Italia Pil Pro capite a prezzi costanti e a parità di potere d’acquisto (in % su Pil pro capite Ue; Fonte: nostre elaborazioni su dati Oecd)
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Keynes, il costo morale del rischio
di Massimo De Carolis
Avere presagito, fin dall’alba, il tramonto del neoliberalismo riporta all’attualità la «Teoria generale dell’occupazione» del grande economista inglese, ora in un Meridiano con testi inediti
All’indomani di una crisi economica globale, tuttora lontana dall’aver esaurito la sua spinta destabilizzante, non può sorprendere che un’opera come la Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta torni oggi alla ribalta, accendendo di nuovo l’interesse non solo degli economisti di professione, ma di chiunque si sforzi di capire cosa stia succedendo nel mondo. Dopotutto, il trattato di Keynes era nato a sua volta sull’onda della grande depressione, quando il dissesto dell’economia globale e l’avanzata dei totalitarismi avevano reso non solo legittimo, ma addirittura urgente un programma di completo rivoluzionamento delle teorie economiche e delle politiche di stampo liberale.
Per Keynes erano almeno due i mitologemi da cui il pensiero economico andava rapidamente affrancato: da un lato, la fiducia cieca nella «mano invisibile» del mercato e nella sua supposta capacità di autoregolazione; dall’altro la certezza dogmatica che non potesse esistere una disoccupazione del tutto involontaria, perché il sistema tenderebbe in ogni caso a stabilizzarsi al livello ottimale, nel quale tutte le risorse sono utilizzate al meglio. In quegli anni di crisi, questi due pregiudizi erano platealmente smentiti dai fatti. Entrambi erano però talmente radicati nell’edificio dell’economia di mercato, che solo un ripensamento sistematico dell’intero castello, compresa la sua «cittadella» centrale, poteva consentire di sfatarli senza dover rinunciare a ogni forma plausibile di razionalità economica e senza rischiare, così, di spingere il liberalismo verso la bancarotta.
Rimosso negli anni ’80
Sotto il profilo teorico, la Teoria generale fu l’apice di un percorso lungo e articolato, di cui il Meridiano Mondadori appena uscito (Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta, a cura di Giorgio La Malfa e Giovanni Farese, pp. 1328, euro 80,00) offre un panorama completo, grazie alla preziosa ricostruzione introduttiva di Giorgio La Malfa e all’ampio corredo di testi brevi, che precedono e seguono l’opera maggiore, molti dei quali inediti in lingua italiana. Sotto il profilo invece strettamente pratico, i frutti della rivoluzione keynesiana non maturarono che nel Dopoguerra, nei trent’anni «gloriosi» durante i quali, in tutto l’Occidente, i parametri economici registrarono un balzo in avanti senza precedenti.
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Con le elezioni sconfitta la politica europea
di Antonio Lettieri
I risultati elettorali testimoniano il fallimento della linea adottata negli ultimi dieci anni. Un cambiamento radicale è richiesto e possibile. Ma rimane incerto
Uno dei meriti più evidenti di un regime democratico è che il periodico svolgimento delle elezioni consente di definire la continuità o l'alternanza dei governi. Ciò è particolarmente evidente nel sistemi bipartisan come negli Stati Uniti e, con alcune variazioni, in Giappone e, fino in tempi recenti, in Germania nel Regno Unito, dove uno dei due partiti principali può, da solo o in coalizione con un secondo partito, formare un nuovo governo.
Nel caso dell'Unione europea, la maggioranza del Parlamento europeo è stata stabilmente formata, nel corso di 40 anni, da due partiti dominanti: il conservatore e il socialdemocratico. La novità è che con le elezioni di maggio questi due partiti per la prima volta non hanno più la maggioranza assoluta. Una svolta storica importante. Ma che non impedisce la creazione di una nuova maggioranza, ricorrendo a uno o due partiti collaterali su una piattaforma comune sostanzialmente orientata alla continuità della vecchia politica europea.
Tomasi di Lampedusa, autore del "Gattopardo", avrebbe potuto ribadire, riferendosi alle elezioni europee di maggio, che "se vogliamo che le cose rimangano come sono, le cose dovranno cambiare".
Qualche interrogativo
Ma i risultati elettorali ci forniscono effettivamente un quadro in grado di avvalorare una prospettiva di pura continuità? Se diamo uno sguardo ai principali quattro paesi dell’Unione europea, che da soli comprendono la maggioranza della sua popolazione, i colori diventano molto più sfumati e il futuro molto meno certo.
Per cominciare, in Gran Bretagna il Brexit Party di Nigel Farage ha stravinto la prova elettorale col 31 per cento dei voti. Non sappiamo se l'uscita della Gran Bretagna dall'UE sarà decisa entro il prossimo autunno o se sarà aperto un nuovo negoziato. Ma qualcosa di nuovo è già successo: i Laburisti e i Conservatori, da oltre mezzo secolo tra i protagonisti della politica europea, escono dalla prova elettorale con la più grave sconfitta della loro storia.
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Giochi di specchi ed equivoci: il caso della Lega
di Alessandro Visalli
Il 4 marzo 2018 una improvvisa slavina si è staccata dal ghiacciaio della sinistra che da lungo tempo rimandava sinistri scricchiolii. In una elezione che sperimentava non a caso un sistema elettorale più vicino al proporzionale abbandonato da decenni tutti i partiti della “seconda repubblica” sono arretrati di schianto. Sia i partiti di centro, vagamente colorati a sinistra o a destra più che altro per estetica, sia i partiti della anemica sinistra ‘radicale’. Tutta la sinistra è arrivata a qualcosa come il 15% degli elettori e alcune parti non sono entrate neppure in parlamento.
Si è trattato di una molla che si stava caricando almeno da dieci anni, mentre parte maggioritaria della popolazione italiana veniva respinta sul margine del sistema economico e perdeva ogni possibilità di controllare le proprie vite. È scivolata verso il basso almeno il 20% della popolazione italiana, in soli dieci anni e quindi in modo assolutamente percepibile, cosa che ha condotto i tranquilli e garantiti ad essere per la prima volta da decenni la minoranza del paese.
La rivolta degli elettori (Spannaus, 2016) che ha portato nel mondo alla Brexit, alla vittoria di Trump, all’esito delreferendum che ha interrotto la carriera politica di Renzi, ed ancora prima aveva fornito l’avvertimento inascoltato dell’avanzata del M5S nel 2013, le elezioni francesi con la dissoluzione dei socialisti e la contrapposizione élite/popolo rappresentata dallo scontro al ballottaggio tra Macron e Le Pen (con France Insoumise vicina all’impresa), era in movimento.
Dal 2016 il sistema politico europeo, insomma, è entrato in una fase di instabilità che è disponibile ad esiti diversi per piccoli spostamenti di umore. A “botta calda” Carlo Formenti parlò di rabbia delle ‘periferie’ in particolare verso le sinistre che si sono rifugiate nella difesa dei vincenti. Ovvero delle classi colte e benestanti che vedono la mondializzazione come un destino ed un progresso semplicemente perché ne traggono cospicui benefici.
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“Il demone della politica. Antologia di scritti (1958-2015)” di Mario Tronti
di Giulio M. Cavalli
Recensione a: Mario Tronti, Il demone della politica. Antologia di scritti (1958-2015), a cura di Matteo Cavalleri, Michele Filippini e Jamila M. H. Mascat, Il Mulino, Bologna, 2017, pp. 656 (scheda libro)
La recensione che qui presentiamo inaugura una collaborazione con Prospettive italiane, gruppo di ricerca promosso da alcuni studenti di filosofia dell’Alma Mater Studiorum-Università di Bologna. Questa recensione traccia, seguendo le diverse sezioni dell’antologia in questione, un profilo complessivo del percorso filosofico-politico di Mario Tronti. Sarà successivamente integrata da una serie di articoli che approfondiranno le diverse fasi del suo pensiero, qui delineate nelle loro linee generali.
* * * *
Ospitata nella collana «XX secolo» diretta da Carlo Galli e Alberto De Bernardi per i tipi del Mulino, Il demone della politica è la prima antologia ragionata e sistematica degli scritti di Mario Tronti (Roma, 1931), uno tra i maggiori intellettuali italiani del secondo Novecento. L’antologia, curata da Matteo Cavalleri, Michele Filippini e Jamila M. H. Mascat, dal punto di vista editoriale ha il grande merito di fornire per la prima volta una panoramica completa dell’evoluzione del pensiero trontiano fin dai primi interventi nel dibattito marxista italiano (1958-1959), raccogliendo in tutto ventinove testi, molti dei quali difficilmente reperibili perché sparsi in riviste e collettanee, attentamente annotati e preceduti da un’utilissima introduzione a sei mani.
I curatori hanno opportunamente suddiviso gli scritti in quattro sezioni, che seguono un ordine cronologico che è anche tematico, e che si configurano quindi come le quattro principali tappe evolutive del pensiero di Tronti. La sezione più ampia è dedicata agli scritti immediatamente successivi alla stagione operaista, quasi a voler ricordare al lettore che Tronti non è stato soltanto «il padre nobile dell’operaismo italiano» (p. 11), ma un filosofo a tutto tondo, tanto radicale – come si vedrà – da mettere più volte in questione le sue stesse idee con estrema lucidità. Quando ci si trova davanti a un percorso intellettuale così complesso e tortuoso è allora quanto mai opportuno, come dichiarano in apertura i curatori, «offrire un’immagine quanto più completa possibile dell’itinerario dell’autore, segnalandone continuità e discontinuità, senza per questo pretendere una coerenza assoluta della traiettoria trontiana o, inversamente, sviluppare una critica serrata di ogni suo passaggio» (p. 11).
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Le asimmetrie della zona euro. Ci vuole più Europa e meno Europa?
di Sergio Farris
Il processo di aggregazione dei paesi europei è il portato dell’ideologia del libero mercato, condotta ai suoi estremi. L’unificazione monetaria rappresenta l’apice di tale processo.
La storia che ha condotto all’euro è una storia tutta incentrata su tentativi di ricostituire un accordo di cambio valutario dopo la cessazione del sistema di Bretton Woods, avvenuta nel 1971. Risiede alla sua base il postulato che – innanzitutto – l’integrazione dei mercati incentivi gli scambi internazionali e rechi vantaggi generalizzati; oltreciò, tale risultato si otterrebbe tramite l’abolizione di fattori di impedimento o di incertezza per gli scambi commerciali e la circolazione finanziaria.
L’euro, in particolare, è il risultato di diverse esigenze, condensate in un compromesso: da un lato la Germania – da sempre titubante per via della propria concentrazione sul pericolo dell’inflazione -, la quale ha acconsentito all’istituzione della moneta unica dopo varie proposte avanzate nei decenni, da parte francese. Pare che, alla fine, la Germania abbia acconsentito all’istituzione della moneta unica con l’occhio rivolto alla possibilità di difendersi dalle svalutazioni competitive dei vicini e, si dice, anche per ottenere il via libera alla riunificazione. Dall’altro lato la Francia, con le sue mire rivolte a contenere il potere del marco e altri paesi – come l’Italia – preoccupati dell’inflazione, dovuta anche alle svalutazioni e alle fluttuazioni dei tassi di cambio (oltre che mossa dalla richiesta padronale di frenare la dinamica salariale).
Ne è emerso un modello fondato sull’esasperazione della concorrenza e sull’ossessione per l’inflazione (i sistemi di cambio valutario fisso hanno infatti – quale costante giustificazione, il timore per l’inflazione e per i presunti danni che l’incertezza derivante dalle oscillazioni del cambio arrecherebbe alle relazioni di mercato).
Nell’ambito del mercato comune è, come si sa, consentito il libero movimento di capitali, lavoro, beni e servizi. La politica monetaria è unica, è cioè valida per l’intera unione.
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Nemico (e) immaginario. La morte, l’oblio e lo spettro digitale
di Gioacchino Toni
Il sopraggiungere della morte comporta per ogni essere umano un, più o meno lento, scivolamento nell’oblio. Per certi versi ciò che sembra spaventare maggiormente gli esseri umani, per dirla con Antonio Cavicchia Scalamonti, è «la morte in quanto oblio»1 e, proprio per differire l’oblio, nel corso del tempo l’umanità ha tentato in ogni modo di costruire una memoria duratura.
Anche a causa dell’entrata in crisi delle promesse religiose, almeno in Occidente, il rischio di scivolare nell’oblio velocemente pare essere percepito dall’essere umano con crescente inquietudine. Risulta pertanto particolarmente interessante, in una società iperconnessa come l’attuale, interrogarsi circa il significato che assume il concetto di “immortalità” sul web.
Spunti di riflessione su tali questioni, ed in particolare sulla Digital Death, sono offerti da alcuni episodi di Black Mirror (dal 2011), produzione audiovisiva seriale ideata da Charlie Brooker che, scrive Alessandra Santoro nel libro collettivo dedicato alla serie curato da Mario Tirino e Antonio Tramontana,2 con acume e lucidità disarmante sembra «portare iperbolicamente all’esterno le paure, le dissonanze, le ferite aperte e le crepe di un mondo dominato da una crescente deriva tecnologica. Deriva che riflette non tanto una società governata dai media, quanto un futuro distopico e pessimista dominato dagli uomini attraverso i media» (p. 157).
Affrontando nel volume il lemma “Morte”, scrive Santoro: «la cultura digitale, oggi, sembra […] impegnata nel tentativo di mettere in discussione la stasi che deriva dall’interruzione che la morte porta nello scorrere del tempo, e lo fa offrendo la possibilità concreta di accumulare tracce con l’intento di conservare una memoria digitale (o eredità digitale) di quello che siamo stati e, in alcuni casi, si propone di rielaborare l’insieme dei tratti accumulati nel corso dell’esistenza nel tentativo di realizzare una sorta di immortalità digitale: far sopravvivere i defunti sotto forma di “spettro digitale”, fornendo tecnologicamente un’autonomia vivente ai nostri dati, i quali, sottratti dalla sostanza corporea che li animava e incarnando la nostra identità personale, proseguirebbero la vita, in versione digitale, che la morte ha spezzato» (pp. 159-160).
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Simmel e il denaro
di Salvatore Bravo
Filosofia e pensiero radicale
Il pensiero filosofico dev’essere radicale, ovvero deve cogliere il fondamento del movimento fenomenico, solo con tale lavoro concettuale la filosofia raggiunge con lo scandaglio della filosofia la verità immanente della storia. La filosofia per sua disposizione cognitiva è amica della verità: verità eterna nella storia, e verità nella contingenza, nella congiuntura storica in cui gli esseri umano sono situati. La filosofia relativista è una contraddizione epistemologica, perché essa cerca la verità nelle sue espressioni polimorfe, nelle sue forme storiche, la insegue per il orientamento gestaltico di cui l’umanità ha sempre bisogno. La filosofia vive con gli esseri umani, è eterna come la verità, perché gli esseri umani cercano la verità, la abbattano, la fondano, la trascendono, ma l’umanità vive in tensione con la verità, dunque dove vi è filosofia, vi è umanità e verità.
Il mercato come religione dello spavento
L’attuale congiuntura storica caratterizzata dal capitalismo assoluto vorrebbe sostituire la verità e l’esercizio della ragione con il mercato, sostituire la ricerca della verità con la ricerca del mercato e per il mercato significa rompere gli ormeggi con la tradizione, per consegnarsi alla tempesta di un’impossibile navigazione. A tal fine il mercato dev’essere velato dal velo di Maya dell’ignoranza. Si dev’essere servi, e per servire il padrone è necessario renderlo incomprensibile, ipostasi, altare su cui sacrificare il logos e la verità in nome del PIL. L’imperativo categorico del mercato impone di vivere da stranieri-migranti, da creature marginali, servi che adulano il mostro che potrebbe divorarli. Il mercato per velarsi si pone come religione cosmica e pagana: tempo ciclico in cui il futuro è assente, ma l’attimo ritorna eternamente nella forma della quantità come qualità sottratta, e timore reverenziale verso il dio sconosciuto che tutto può ed a cui tutto si deve. La religione dello spavento è la condizione del mercato a briglia sciolta, la deregulation è il ricatto a cui i popoli sono sottoposti.
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Paradigma della Tecnica e paradigma del Capitale
Editoriale del n. 6 di Consecutio rerum
di Roberto Finelli*
Il numero 6 di «Consecutio rerum» è dedicato a Techne, Tecnica, Tecnologia, con lo scopo di riaprire un discorso di antropologia critica sulla nostra contemporaneità, alla luce della gigantesca rivoluzione digitale che sta connotando sempre più il nostro vivere sociale e individuale.
A proposito di questa tematica va ricordato che alla fine degli anni ’70 del secolo scorso il marxismo e gli studi su Marx scomparvero improvvisamente e improvvidamente dall’ambito degli insegnamenti e delle ricerche universitarie italiane e, di conseguenza, dal dibattito culturale e politico dell’intero paese. Le cause di quella decadenza ed estinzione di quella che era stata una vera e propria Weltanschauung, una organica visione del mondo, nella cui koinè di valori, di linguaggio, di costumi e pratiche, una certa parte, più avanzata e civilmente più impegnata, della popolazione italiana si era riconosciuta, sono state di diversa e complessa natura.
Nel nostro ambito, che è quello di una rivista filosofica, oltre alle insufficienze del marxismo storicistico italiano, che da Antonio Labriola in poi si era voluto troppo autosufficiente e in sé concluso, e dello stalinismo democratico che limitava profondamente il dibattito delle idee nel PCI, vale ricordare due di quelle cause, più propriamente teoretiche e filosofiche: da un lato l’estenuazione della scuola dellavolpiana, insidiata fin dal suo sorgere da una troppo semplicistica riduzione della tradizione dialettica e della filosofia di Hegel a una presunta tematica occultamente religiosa e arcaicamente neoplatonica, e dall’altro, per quello che qui maggiormente c’interessa, dalla repentina sostituzione delle analisi di Marx, sull’organizzazione moderna del lavoro di fabbrica e sulla tecnologia nella sua intrinseca dipendenza dall’accumulazione del Capitale, con la teoria della tecnica, avanzata da Martin Heidegger, come rivelazione e destinazione dell’Essere.
Già l’incapacità di elaborare criticamente i limiti e le aporie della tradizione dialettica aveva spinto buona parte dell’intellettualità di sinistra durante la prima metà degli anni ’70, a gettarsi nelle braccia di L. Althusser, senza avere la chiara consapevolezza di quanto lacanismo ci fosse alle spalle del pensatore francese e senza ben comprendere quanto il processo senza soggetto e la critica strutturalista alla totalità dialettica di L. Althusser implicasse una rinuncia definitiva a intendere il Capitale come Soggetto Unitario della modernità e la sua destinazione strutturale a generare processi di totalitarismo sociale.
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Lettera aperta a Roberto Fico, presidente della camera dei deputati
di Fulvio Grimaldi
“Se libertà significa qualcosa, significa il diritto di dire alla gente ciò che non desidera sentire”(George Orwell)
Caro Presidente Roberto Fico,
Ti scrivo da elettore e sostenitore dei 5 Stelle, sperando nel grado di credibilità che mi potrebbero conferire sessant’anni di professione giornalistica, con oltre 150 processi per reati di stampa in regime democristo-pidino, e che Alessandro Di Battista ha avuto la generosità di accreditare inserendomi in un elenco di “giornalisti liberi”.
Molti, nell’attuale temperie di neolingue e di capovolgimento di molti termini lessicali, ti definiscono “il Cinque Stelle rosso”, quello di sinistra. Credo che, provenendo da fonti che di sinistra sanno quanto un Aglianico del Cilento sa di patata irlandese, o da altre che il rosso hanno iniziato, ere or sono, a confonderlo con l’arcobaleno a stelle e strisce, anche tu nutra qualche riserva sul cappello messoti in capo.
Tanto più che tue parole e tuoi fatti all’origine di quell’abbaglio nei tanti che campano la vita affetti da compulsione ossessiva di sbattere fuori dall’universo mondo il Movimento a cui appartieni, ma salvando te, di sinistro o rosso nel senso incontaminato, museale, del termine, a me pare non abbiano niente. A dispetto del pugno chiuso, oggi spesso simbolo dei golpe striscianti Usa (vedi Otpor).
Rottura tra Camera italiana e Camera egiziana
Paradosso? Forse che sì, forse che no. Vediamo. Il tuo gesto di maggiore risonanza, accanto alla cauta discrezione osservata dai tuoi amici e colleghi, è stata la rottura dei rapporti tra la Camera che presiedi e il parlamento egiziano. Non so se un tale gesto di portata geopolitica spettasse alle tue competenze. Forse, prevaricava opinioni difformi di qualche eletto. In ogni caso spostava da una Camera di eletti, la tua, su un’altra camera di eletti materia di esclusiva attinenza giudiziaria. Cosa c’entrano i deputati egiziani con il caso Regeni, se non in termini puramente pubblicitari e demagogici?
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Fca-Renault: gli attori palesi e quelli occulti
di Roberto Romano, Vincenzo Comito
La creazione di un gigante dell’auto avrebbe favorito un’Europa che rischia ora un grave ridimensionamento economico e politico. Ma oltre ai ritardi tecnologici, all’inazione italiana ammantata di iperliberismo, al nazionalismo autodistruttivo francese, ci sono due attori occulti nell’affare mancato: Stati Uniti e Germania
La vicenda FCA-Renault presenta molti aspetti, alcuni dei quali, probabilmente non dei meno importanti, si sono forse risolti dietro le scene.
Qualcuno, come il ministro dell’economia francese, Bruno Le Maire,ora auspica, o fa finta di auspicare, che FCA e Renault si rimettano di nuovo al tavolo delle trattative, cosa che dal punto di vista economico avrebbe una sua logica, ma che ci sembra un’ipotesi inverosimile, almeno nel breve termine, mentre l’auspicio sembra forse solo servire a mascherare i grossolani fallimenti dello stesso ministro.
Comunque, le due impreseprotagoniste della vicenda hanno a suo tempo sottovalutato,come ha affermato ad esempio il professor Giuseppe Berta (Franchi, 2019), gli aspetti geopolitici dell’intesa, che oggi sono nel mondo in generale più importanti di quelli dell’economia e della sua logica. Gli Stati sono tornati, per molti versi, a dettare le loro condizioni.
A tale proposito appare opportuno in effetti ricordare che, accanto alle quattro imprese del settore in qualche modo coinvolte nell’affare, ci sono altri attori presenti sulla scena del dramma, gli Stati. Essi sono ufficialmente tre, ma dietro le quinte si intravedono almeno altri due protagonisti parecchio ingombranti.
Ricordiamo in ogni caso che il tutto si svolge mentre le case dell’auto cercano faticosamente di adattarsi ad un settore che appare sotto assedio (Ewing, 2019), tra guerre commerciali, spostamento dell’asse geografico del settore, preoccupazioni climatiche, innovazione tecnologica, nuovi modi di utilizzo delle vetture.
Gli attori palesi
-L’Italia
Per quanto riguarda il nostro paese è molto semplice riferire quanto è accaduto. Il governo italiano e i suoi rappresentanti, con un comportamento del tutto opposto a quello francese, stando almeno alle dichiarazioni ufficiali non hanno sostanzialmente espresso alcuna volontà, non hanno emesso alcuna dichiarazione ufficiale su di una questione che riguardava quella che è ancora oggi la più grande impresa industriale operante in Italia, che poi, con tutto il settore della componentistica e dei servizi che si trascina dietro, impiega centinaia di migliaia di persone.
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Interventi su Machiavelli
di Carlo Galli
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Non ci resta che Machiavelli
Che sia stato il consigliere del Male (Old Nick, il vecchio Nicolò, era il diavolo), oppure l’eroico suscitatore di energie politiche nazionali o sociali (da De Sanctis a Gramsci), Machiavelli ha scoperto il campo della politica moderna come un magma ribollente di energie e di sfide, di crisi e di catastrofi. Dopo la sua morte, nel 1527, che coincide con il tracollo del sistema politico italiano, il conflitto per l’egemonia europea tra Francia, Spagna e Impero diviene un susseguirsi di guerre di religione da cui l’Europa inizierà a uscire solo alla metà del XVII secolo. La via dell’ordine sarà allora il razionalismo individualistico, la teoria del contratto, la politica dei diritti e della rappresentanza, la sovranità dello Stato nazionale. Sarà il liberalismo, la democrazia, il socialismo. E il pensiero adeguato a questo sforzo di ordine sarà, oltre alla filosofia costruttiva dell’illuminismo, quella progressiva e rivoluzionaria del marxismo, e, più vicino a noi, la scienza politica, capace di misurare e catalogare le istituzioni, i partiti, i sindacati, la partecipazione; di decifrare il funzionamento dei rapporti tra pubblico, sociale, privato; di studiare i nessi fra economia, psicologia di massa, politica.
È questo ordine liberale del mondo a essere oggi in crisi, con le sue certezze, le sue ideologie, le sue previsioni. Tramontata la filosofia dialettica della rivoluzione e del progresso, anche il pensiero liberale e democratico ha sempre meno presa sugli sviluppi reali della contemporaneità. La scienza politica, poi, è più a suo agio davanti ai normali processi delle istituzioni democratiche che non nella fase della loro crisi.
Sta qui il vero significato dell’attenzione a Machiavelli, oggi. Con lui e attraverso di lui si retrocede al momento magmatico in cui la politica moderna si è presentata in tutta la sua potenza, prima che prendessero forma le soluzioni ordinative che hanno costituito l’ossatura della storia degli ultimi trecento anni, e che oggi vacillano.
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Per una teoria materialistica dell’errore, degli opposti e della soggettività
di Eros Barone
Parvus error in principio magnus est in fine.
Tommaso di Aquino, De ente et essentia.
Io fui già di opinione di non vedere, col pensare assai, più di quello che io vedessi presto; ma con la esperienza ho cognosciuto essere falsissimo: per che fatevi beffe di chi dice altrimenti. Quanto più si pensano le cose tanto più si intendono e fanno meglio.
Francesco Guicciardini, Ricordi.
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“Errare humanum est”
Nell’introdurre un problema schiettamente dialettico, qual è quello dell’errore, conviene senz’altro premettere una sintetica esposizione del modo in cui tale problema è stato affrontato e risolto nel corso della storia del pensiero filosofico. La distinzione concettuale da cui è opportuno prendere le mosse è quella tra errore pratico ed errore teoretico. Tralasciando il primo tipo di errore, a cui sarà riservata essenzialmente la trattazione svolta in questo scritto, va preso in considerazione il secondo tipo, cioè l’errore teoretico, che consiste nel ritenere vera una proposizione falsa o falsa una proposizione vera, laddove questo tipo di errore concerne l’assenso che viene dato al giudizio e collega, quindi la volontà e l’intelletto. 1
La filosofia greca, ispirandosi prevalentemente all’identità, posta da Socrate, tra scienza e virtù, ha in generale identificato l’errore etico e quello teoretico, talché nessuno erra volontariamente, poiché, come afferma Platone, la conoscenza della verità è la condizione della felicità individuale (cfr. Gorgia ed Eutidemo). Fondamentale nella storia del pensiero dialettico, oltre che nella ricerca filosofica sulla genesi dell’errore, sarà poi, in polemica sia con la scuola eleatica che affermava l’impossibilità di dire e di pensare ciò che non è, sia con i sofisti che riducevano il vero e il falso a un effetto dell’arte retorica, la scoperta platonica del concetto di “non essere” (o differenza) in senso relativo, che sta al centro del Teeteto e del Sofista.
Dal canto loro, Aristotele e le scuole filosofiche dell’età ellenistica, fra le quali per l’acume e la profondità manifestate nell’analisi della questione dell’errore merita di essere citato lo scetticismo, imposteranno tale questione collegandola prevalentemente con il problema se siano i sensi o l’intelletto (oppure entrambi, secondo quanto dimostrato nei tropi scettici) 2 a determinare giudizi falsi.
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La fine della «società del lavoro» e della «società del denaro»
di Boaventura Antunes
Introduzione al dibattito sul libro di Yuval Noah Harari, "Sapiens. Da animali a dèi. Breve storia dell'umanità"
Buona sera a tutte le persone presenti. Prima di passare alla discussione circa le idee che si trovano alla base del libro di Harari, vorrei introdurre il tema. In tre parti. Per primo, una breve presentazione dell'autore. In secondo luogo, quelle che sono le linee essenziali dell'opera. E, per finire, un abbozzo di apprezzamento critico.
Yuval Noah Harari nasce nel 1976 in Israele, nei pressi di Haifa, in una famiglia di ebrei laici con ascendenti in Libano e nell'Europa orientale. Si è sposato a Toronto, in Canada, in quanto in Israele non è possibile sposarsi con una persona dello stesso sesso, sebbene poi lo Stato riconosca questi matrimoni che sono avvenuti all'estero. Vive insieme al marito nei pressi di Gerusalemme in un "Moshav" (comunità agricola e residenziale simile al Kibbutz, ma che ammette la proprietà privata della terra, in lotti uguali). Egli ritiene che il suo orientamento sessuale minoritario possa averlo aiutato a mettere in discussione le conoscenze e le idee circa la vita, il mondo e l'umanità che vengono date per scontate. Pratica la "Vipassana", medita due ore al giorno e compie un ritiro annuale di almeno un mese l'anno. Ha aderito al veganesimo, asserisce, in virtù dei suoi studi sui maltrattamenti inflitti dagli esseri umani agli animali. Dal mese di gennaio di quest'anno ha deciso di fare a meno dello smartphone. Del marito, e suo manager, dice che è il suo «Internet di tutte le cose».
Avendo iniziato i suoi studi di storia specializzandosi in storia militare e in storia medievale, si è poi dedicato alla storia mondiale ed ai processi di Macrostoria [N.d.T.: Per macrostoria si intende il lavoro di storiografia che analizza gli avvenimenti storici prendendo in considerazione gli elementi di un contesto più ampio, come l'ambiente geografico, l'economia, le ideologie e la cultura]. Ha conseguito il dottorato ad Oxford, ed è attualmente professore nell'Università Ebraica di Gerusalemme. Il suo libro "Sapiens. Da animali a dèi. Breve storia dell'umanità" ha avuto un seguito in "Homo Deus. Breve storia del futuro" ed in "21 lezioni per il XXI secolo" [N.d.T.: tutti editi in Italia da Bompiani].
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Berlinguer, se questo è un comunista
di Vincenzo Morvillo
“Ce ne fossero di uomini come lui! Un comunista vero! Un uomo mai dimenticato! Ha lasciato un vuoto incolmabile! Un dolore tremendo, la sua morte! Un comunista equilibrato, che si opponeva al neofascismo e al centrosinistra! Un gigante, rispetto ai politici di oggi!”
Orbene, sono solo alcune delle tante dichiarazioni melense, celebrative, ai limiti dell’agiografia, che, nei giorni scorsi, si sono potute leggere sui social, per ricordare il segretario del Pci, Enrico Berlinguer. Morto l’11 giugno del 1984. Trentacinque anni or sono, dunque.
E tranne l’ultima affermazione, con cui, più o meno, si può concordare (come per tutti i politici dell’epoca rispetto agli attuali), per il resto ci permettiamo di dissentire su tutta la linea.
Berlinguer, infatti, al netto di infantili accenti romantici e malinconici, o di memorie preda di canagliesche nostalgie adolescenziali, fu colui che portò a termine quel lento processo disnaturamento socialdemocratico del Partito Comunista Italiano, cominciato, a dire il vero, già immediatamente dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, con Palmiro Togliatti.
E lo fece, Berlinguer, sulla pelle della classe operaia e nella maniera più brutale e meschina possibile, per un comunista. Venendo, cioè, a patti con Chiesa e padroni. Patti che presero, com’è noto, l’altisonante nome di Compromesso Storico. Ma anche piegandosi alle ragioni dell’Imperialismo Usa. Ci ricordiamo tutti la dichiarazione sconcertante sull’Ombrello della Nato, alla cui ombra l’Enrico si sarebbe sentito “più sicuro”!
Comunque, non vogliamo nasconderci e ben sappiamo che simili giudizi severi, su un uomo tanto amato, seppur contraddittorio, non sono condivisi da tutti e possono suscitare qualche polemica. Crediamo, tuttavia, che, specie in questi anni così complicati per la sinistra e il movimento comunista tutto, ci sia bisogno di fare chiarezza. Di essere divisivi, almeno nella memoria. Non unitari. Schiettamente e anche duramente divisivi. Perché, se la sinistra ha imboccato la china di una sconfitta storica che ha, ormai, toccato forse il fondo, lo si deve anche a uomini come Berlinguer. E a quel Pci statolatra e statalista, fattosi, poi, esso stesso Stato. Senza cambiarne una sola virgola.
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Il digital labour all’interno dell’economia delle piattaforme
Il caso di Facebook
di Andrea Fumagalli, Stefano Lucarelli, Elena Musolino, Giulia Rocchi
La versione originale inglese di questo saggio è stata pubblicata sulla rivista Sustainability, giugno 2018. Effimera.org ringrazia gli autori per la traduzione in italiano del testo
1. Introduzione
Nonostante lo scoppio della bolla Internet alla fine degli anni ’90, la diffusione delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione (ICT) continua a segnare gli anni 2000. Soprattutto negli ultimi anni abbiamo assistito ad una significativa accelerazione tecnologica. Diversi settori sono stati colpiti. Si tratta di industrie che hanno sempre più a che fare con la gestione della vita umana (ad esempio, lo Human Genome Project, iniziato nel 1990 e conclusosi nel 2003, ha aperto enormi spazi nella possibilità di manipolazione della vita individuale e della sua procreazione [1]). Come sottolineato da Robert Boyer “questo tipo di modello di crescita è un’estensione della continua trasformazione che è proseguita a partire dalle potenzialità dell’economia dell’informazione” [2]. Se il paradigma tecnologico dell’ICT ha colpito duramente i livelli occupazionali nell’industria manifatturiera, la nuova ondata biotecnologica rischia di avere effetti ancora maggiori sui settori terziari tradizionali e avanzati, che negli ultimi decenni hanno svolto un ruolo compensativo contro la perdita di posti di lavoro nei settori tradizionali.
Lo sviluppo di algoritmi di seconda generazione [3] permette un processo di automazione senza precedenti nella storia dell’umanità. Applicati alle macchine utensili, attraverso le tecnologie informatiche e le nanotecnologie, sono in grado di trasformarle in strumenti e mezzi di produzione sempre più flessibili e duttili. Gli algoritmi di seconda generazione si differenziano dalla prima generazione per la loro natura cumulativa di auto-apprendimento, configurando così un nuovo rapporto tra uomo e macchina. Infatti, dopo la prima fase di implementazione e creazione, grazie al comportamento umano, sono in grado di operare in una condizione quasi totale di automazione (machine learning). Le tecnologie attuali, tuttavia, non possono operare senza l’accelerazione (rispetto al recente passato) del grado di raccolta e manipolazione di una grandissima quantità di dati in spazi sempre più ristretti e con una velocità sempre maggiore. Già nel 2011, una ricerca del McKinsey Global Institute ha esaminato lo stato dei dati digitali e ha riconosciuto il grande potenziale di valore economico che questi possono creare:
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Il mondo mistico del Capitale: scienza, critica e rivoluzione in Lucio Colletti
di Gianluca Pozzoni*
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1. Introduzione
Nel 1984, la University of California Press dava alle stampe il saggio Marxism and Totality di Martin Jay, storico delle idee a Berkeley e già autore di una imprescindibile biografia della Scuola di Francoforte intitolata L’immaginazione dialettica (1973, pubblicata in italiano nel 1979: Jay 1979). In Marxism and Totality, Jay metteva a tema, come dichiarato nel sottotitolo, le avventure di un concetto– quello di «totalità» – da Lukács a Habermas: per l’autore, la centralità di questo concetto all’interno dell’elaborazione teorica costituiva il tratto più distintivo del cosiddetto “marxismo occidentale”. Come notava già Perry Anderson (1979) nel testo che ha dato popolarità al termine[1], il “marxismo occidentale” era rappresentato prevalentemente da esponenti di estrazione borghese – con l’unica eccezione di Gramsci – la cui produzione intellettuale era caratterizzata da un taglio per lo più accademico e non rivolto immediatamente a quella “classe operaia” in cui il marxismo tradizionalmente identificava il potenziale soggetto rivoluzionario[2]. Per Jay, proprio un tale distacco era l’elemento che forniva a questi teorici marxisti la libertà di pensiero e la spregiudicatezza necessarie ad avanzare la pretesa di poter raggiungere un punto di vista complessivo sulla totalità del reale, e sulla società in primis.
Ciò che a prima vista può stupire del testo di Jay è l’inclusione nella sua rassegna di un capitolo interamente dedicato a quello che viene definito marxismo scientifico dell’Italia postbellica, ossia alla rielaborazione originale dei fondamenti della teoria marxista fornita da Galvano Della Volpe e dal suo allievo Lucio Colletti (cfr. Jay 1984, 423-461). Per quanto riguarda il secondo, in particolare, l’inclusione stessa nel campo del “marxismo occidentale” è resa immediatamente problematica dalla critica esplicita che Colletti muove a questa tradizione, considerata affine più che alternativa al “marxismo orientale” in virtù di una comune – e aborrita – ascendenza hegeliana. Nella seconda parte de Il marxismo e Hegel (1969) si legge infatti a proposito di Lukács:
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La centralizzazione del capitale e la caduta del saggio di profitto
di Giordano Sivini
Il peso del capitale fittizio a partire dalle evidenze empiriche del Mckinsey Global Institute 14/6/2019
L’economia mainstream considera il sistema finanziario come creatore di ricchezza. Stavros Mayroudeas, economista greco, osserva che anche una parte degli economisti marxisti sono contagiati da questa tesi, e che il contagio viene espresso con molte sfumature slegando il profitto dal rapporto con la valorizzazione. “La tesi di base è che il capitalismo moderno ha subito una trasformazione radicale negli ultimi trent’anni. Il sistema finanziario, attraverso una serie di meccanismi innovativi, ha conquistato le posizioni di comando del capitalismo. È diventato indipendente dal capitale produttivo ed ha trasformato l’intero sistema secondo le proprie logiche”[1].
Questa tesi porta a concentrare l’analisi sul rapporto D-D’, dimenticando che, in qualsiasi interpretazione che si richiami al marxismo, il capitalismo non può che essere identificato con la produzione di plusvalore, risultato della relazione D-M-D’. La centralità dei processi di valorizzazione è essenziale, sia quando si intende, con Harvey, che il capitale si trasforma indefinitamente, sia quando, a partire da Kurz, si sostiene che si è arrestata la sua capacità di produrre valore. Da qui muove l'interpretazione del passaggio dalla valorizzazione alla finanziarizzazione come risultato di una crisi del capitale produttivo di merce che provoca l’inversione del suo rapporto con il capitale produttivo di interesse. Questo, non potendo accrescersi nel circuito D-M-D’, si riversa su D-D’ e produce capitale fittizio[2].
L’attuale inversione non è riconducibile alla teoria delle crisi segnate da temporanee inversioni nelle quali il credito contribuisce a riattivare il movimento di un capitale che continuamente si ridefinisce. Fino a quando di questa riattivazione non emergono almeno i sintomi, non si può scartare l’ipotesi che la crisi attuale vada collocata nella fase terminale del tempo lungo della caduta del tasso di profitto, una volta esaurita la capacità del capitale di produrre controtendenze.
A stimolare una riflessione in proposito arrivano i dati di un rapporto del McKinsey Global Institute (MGI)[3], multinazionale di consulenza manageriale che monitora il movimento del capitale globale. Presenta i risultati economici comparati delle più grandi società madri del mondo nel 2014-16 e nel 1995-97.
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Golunov, giornalista russo, martire. Assange, Assa… chi? .....
di Fulvio Grimaldi
Loro devono sapere tutto di noi, noi niente di loro. La “Polizia del Pensiero” settant’anni dopo Orwell
Per capire chi vi comanda basta scoprire chi non vi è permesso criticare”(Voltaire)
Una premessa non del tutto fuori tema
Si succedono i momenti di sconforto-sconcerto davanti a un “capo politico”, bravo ragazzo di provincia, sveglio, a suo modo geniale, onesto per carità, buona parlantina (anche perché di fronte gli capitano nullità fuffarole), ma incolto sul piano generale e specifico e quindi portato a scopiazzare dal tema degli altri, magari da uno più ignorante di lui. Ieri, invece, addiritturanel boudoir di Lilli Bilderberg Gruber, ho vissuto un’impennata di orgoglio e soddisfazione. C’era la solita combine dei tre pitbull, tra femmina e maschi,riuniti a sbranare qualunque ospite 5Stelle, o non conforme a coloro che in Bilderberg, in Quirinale e in Vaticano, fissano la dicotomia Bene-Male. Una trasmissione di gossipari, modello tabloid, con quesiti filosofici alla “chi butteresti dalla torre?” “Da uno a 10 quanto valuti Salvini?”.Stavolta, a dar man destra alla Gruber, che si raggrinza oltre la benevolenza delle luci spiananti quando ha di fronte un governativo del momento, c’era il debenedettiano Marco Da Milano, della coppia comica Zoro-Da Milano di “Propaganda Live”, che, collateralmente, dirige anche “L’Espresso”.
Morra, pane per i denti di Gruber
Di solito quella combinazione democratica del 3 a 1 risolve la partita per superiorità numerica. Ma stavolta ai nanetti da giardino si contrapponeva un gigante, Nicola Morra, 5Stelle delle origini, senatore, oggi un po’ in disparte come altri della nobile schiatta, ma inflessibile combattente a capo dell’Antimafia parlamentare. Morra insegna, sa di lettere, storia e filosofia e contro tale roccia di competenza, sicurezza, sorridente ed elegante imperturbabilità le punzecchiature velenose finivano come graffi sul marmo. Rivedetevelo quell’Otto e Mezzo, è ancora meglio del video dell’altra volta, in cui la Fraulein perdeva le staffe davanti a chi aveva menzionato Soros, grande timoniere e ufficiale pagatore delle Ong di mare e di terra.
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Alle origini delle riforme economiche cinesi
Raffaele Danna intervista Isabella Weber
Isabella Weber è Lecturer in Economics alla University of London, dove è anche Principal Investigator del progetto “What drives specialisation? A century of global export patterns”. Si occupa in particolare di politica economica cinese e storia del pensiero economico.
Questa intervista, a cura di Raffaele Danna, è nata in occasione di una presentazione di Isabella Weber al Research Network “The Politics of Economics”, organizzato, insieme ad altri, da Danna. Arianna Papalia ha contribuito alla formulazione delle domande e ha curato la traduzione italiana dell’intervista, qui la versione originale in lingua inglese. I temi affrontati in questo testo sono presentati in modo approfondito nel primo libro di Isabella Weber, in attesa di pubblicazione con Routledge.
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Qual è il ruolo della memoria della lunga storia cinese, così come dell’influenza occidentale, nella costruzione e nella narrazione della riforma cinese?
Isabella Weber: In realtà, non solo alla fine degli anni ‘70, ma ancora oggi, la lunga storia cinese è un tema ricorrente nei discorsi dei leader di Partito e degli intellettuali, soprattutto in un anno come il 2019 che celebra il settantesimo anniversario dalla fondazione della Repubblica Popolare Cinese. Ma anche al di là degli importanti anniversari politici, la storia è parte integrante del ragionamento politico cinese. Per esempio, durante il discorso che Xi Jinping ha tenuto alla sede UNESCO nel 2014, il presidente ha affermato: “Per ogni paese nel mondo, il passato porta con sé le chiavi del presente, e il presente affonda le sue radici nel passato. Soltanto sapendo da dove viene un paese è possibile capire quello che rappresenta oggi, e soltanto allora intuire verso quale direzione si dirige”. Fino ad oggi c’è stato un chiaro e costante riferimento a diversi aspetti e periodi della storia della Cina, anche per quanto riguarda le questioni di politica economica. Gli anni ‘70 furono un momento in cui gli intellettuali e i leader politici aprirono le loro menti al “mondo esterno” – come piaceva sostenere a Deng Xiaoping.
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Tra impotenza e ricostruzione di una egemonia: la sinistra intellettuale oggi
di Carlo Formenti
La maggior parte degli autori esaminati nel libro di Giorgio Cesarale (A Sinistra. Il pensiero critico dopo il 1989, Laterza, 2019), è priva di quella traducibilità politica che oggi serve per reinventare l'opposizione al neoliberismo. All'interno di questo panorama, l'unica via che prepara la ricostruzione del blocco sociale antagonista è quella di Laclau
Che ne è di una sinistra travolta da quella mutazione del capitalismo che, a partire dagli anni Ottanta del secolo scorso, 1) ha cessato di generare ricchezza per tutti, negando alla sua controparte sociale ogni spazio di contrattazione del reddito; 2) ha prodotto élite dominanti che non si assumono più responsabilità civili, diversamente dalla vecchia borghesia; 3) ha sostituito all’universalismo illuminista e dialettico l’universalismo della ragione liberale; 4) si è intestato i valori del progresso e del riformismo “scippandoli” all’avversario storico; 5) ha regalato ai partiti populisti l’egemonia politica sulle masse; 6) ha svilito la democrazia, non più associata al dissenso organizzato e di massa ma al mero riconoscimento dei diritti umani attribuiti ai singoli individui?
Partendo da tale interrogativo, Giorgio Cesarale costruisce un percorso (“A Sinistra. Il pensiero critico dopo il 1989”, Laterza) che, data per scontata l’impotenza delle sinistre tradizionali, incapaci di far fronte alle sfide sopra elencate, tenta di cogliere i sintomi del riemergere di un “pensiero critico” che, liberatosi di categorie, paradigmi e concetti obsoleti, esplora percorsi di emancipazione alternativi. In particolare, nei cinque capitoli del libro, l’autore esamina nell’ordine: le teorie che hanno ridisegnato l’immagine del capitalismo, svelandone i rapporti strategici con una serie di fattori esterni alla sfera dei rapporti produttivi (Wallerstein, Arrighi, Harvey, Streeck, Boltanski); i profeti della morte del potere sovrano e del suo luogo d’elezione, lo stato-nazione (Agamben, Negri); le nuove definizioni filosofiche della soggettività (Badiou, Žižek, Jameson); le vie d’una possibile rianimazione della democrazia (Balibar, Rancière, Laclau); la problematica generata dalla proliferazione delle identità (Butler, Fraser, Spivak).
Il risultato è un’opera difficile da recensire. In primo luogo perché Cesarale, immagino per scrupolo di obiettività (intesa come distacco scientifico dall’oggetto di indagine), limita al minimo lo spazio dedicato ai propri giudizi soggettivi sul pensiero degli autori trattati, il che, se da un lato consente al lettore di appropriarsi autonomamente degli “attrezzi” che ritiene più congeniali al proprio modo di approcciare la realtà, dall’altro non agevola l’individuazione di percorsi trasversali fra autori e campi teorici.
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Intersezionalità, identità e comunità: a che punto siamo a sinistra
di Mimmo Cangiano
“... anche quando tutto sembra perduto bisogna
mettersi tranquillamente all’opera
ricominciando dall’inizio” (Antonio Gramsci)
Identità
Poche settimane fa l’europarlamentare Eleonora Forenza (area di Rifondazione di Potere al Popolo) ha scatenato una piccola bagarre nel minuscolo stagno della sinistra italiana. Forenza ha bollato, su Twitter, la Brexit come “pasticcio di maschi”, non negando una certa solidarietà ‘femminista’ a Theresa May e alla gatta da pelare che i colleghi “maschi” le avrebbero rifilato. L’uscita infelice di Forenza non è cosa nuova (ma preoccupa che venga da una gramsciana). È parte integrante di un certo orientamento della sinistra diritto-civilista e culturalista, cioè di quella sinistra che, pur non escludendo le questioni legate al mondo del lavoro e della produzione, individua ormai nei diritti civili la principale chiave d’intervento sociale e, proprio a causa di tale scelta, si ritrova fatalmente irretita all’interno di un uso distorto del concetto di “identità”. Tale posizionamento (largamente maggioritario anche nel Partito Democratico) è stato spesso già portato a critica. Si è rilevato come si tratti di una soluzione da un lato assolutamente subalterna agli attuali vettori di organizzazione societaria (visto che ci è impossibile intervenire sulla struttura social-lavorativa ci rifugiamo nelle battaglie per i diritti civili e chiamiamo tale spostamento “rivoluzione”, come in una sorta di risarcimento psicologico), dall’altro pericolosa nel suo indiscriminato assegnare (è proprio il caso di Theresa May) patenti di “vittima” a figure sociali che solo mediante il misticismo delle identity politics possono apparire come tali, ché oggi, scriveva Natalia Ginzburg (aprile ’73), nessuno ama “essere nel numero dei privilegiati e tutti desiderano appartenere al numero degli oppressi”.
Si tratta infatti di un approccio che opera su due fronti di pensiero fra loro apparentemente in contraddizione: da un lato si dichiara nullo (anti-essenzialismo) il concetto di “identità” (abbiamo solo identità fluide, liquide, ecc.), dall’altro si ricorre ad un potenziamento di tale concetto, in questo caso il genere, per dare spiegazione ad alcuni fenomeni.
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