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Modello Kadima
di Rossana Rossanda
Il Partito democratico non ha finito di stupire anche i più smagati di noi vecchi. Dei tremila delegati (non si sa da chi, perché non c'è uno statuto) ne sono venuti la metà, l'altra avendolo scordato o avendo supposto che era inutile. Ci avevano avvertito che la metà presente era una base furente, uno tsunami di rifiuto che avrebbe gridato: tutti a casa, ci avete rotto, si ricomincia da zero. La valorosa Anna Finocchiaro ha dovuto reggerne l'onda financo alzando la voce che cinque parlassero per le primarie e congresso subito, e cinque per un interim fino a ottobre. Tutti i dieci si sono educatamente espressi; il più terribile è stato Arturo Parisi. Ben di più, una voce di protesta s'è levata dalla platea. Ha vinto l'interim per alzata mano. Intervallo per colazione. Indi voto. 1.047 hanno votato compatti Dario Franceschini, auspicato da Veltroni in partenza. Novantadue hanno votato Parisi, un po' meno di uno su dieci. La base eversiva forse non c'era.
Dario Franceschini aveva preparati il discorso e anche il tono. Decisionale. Non sarò il signor nessuno. Ha azzerato sul colpo il governo ombra. Navigherà da solo fino a ottobre quando, ha detto, si potrà fare il congresso, il Pd non è come il Pdl, una cosa arrangiata a cena o sul predello di un automobile. Franceschini è un giovane di buone maniere, che per età non è compromesso con la vecchia Dc e ne presenta la faccia gradevolmente moderata (in tutte le accezioni). Si ispira alla Resistenza, alla Costituzione nonché all'onesto Zaccagnini, fulminato dalla maledizione di Moro. Vuole l'unità dei sindacati. Applausi e via. C'è voluto più tempo per decidere quale era la migliore canzone a Sanremo che il segretario del Pd nella tempesta.
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La terza fase della crisi è in periferia
Domenico Moro
Dopo il crollo del sistema finanziario in Usa e in Ue e dopo la sovrapproduzione industriale, si apre una nuova stagione di difficoltà economica che investe i paesi emergenti portando allo scoperto la fragilità della loro crescita fondata su un esagerato indebitamento. Rispetto al pericolo di insolvenza e di bancarotta statale di queste nazioni, che sono soprattutto dell'Est, i più esposti sono i creditori dell'Europa Occidentale, tra cui l'Italia
Di recente si sono verificati due fatti significativi della situazione in cui versa la Ue ed in particolare il suo nocciolo duro, l'eurozona. Il primo è il calo dell'euro sul dollaro del 22% rispetto al picco raggiunto nel luglio del 2008, dopo un lungo periodo di crescita. Il secondo è l'approvazione da parte del governo tedesco di una legge che consente allo Stato l'espropriazione delle banche che versano in una situazione di grave difficoltà.
Si tratta di una novità epocale, perché la Legge fondamentale tedesca, a differenza di altre Costituzioni europee, prevede limiti specifici all'esproprio, e perché in questo modo si vengono a negare i principi di economia liberista su cui la Repubblica Federale Tedesca si è fondata sin dagli anni 50 in contrapposizione alla socialista Repubblica Democratica Tedesca.
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Nell'inferno del nuovo caporalato
Apartheid sul lavoro
di Alessandro Leogrande*
Una moderna schiavitù sta diventando funzionale ai bisogni delle società occidentali. Nei luoghi di segregazione i migranti sono controllati da padroni pronti a punire ogni tentativo di fuga. I caporali stranieri hanno preso il posto dei caporali italiani
(Da Il Mese di febbraio 2009) Oggi non è più una forzatura giornalistica parlare di schiavi del lavoro. Sono le direzioni distrettuali antimafia di molte città italiane, da Nord a Sud, a farlo. Sono alcuni dei nostri migliori magistrati che operano nell’ombra, lontani dalle inchieste sugli intrecci tra politica & affari, sui Ricucci e sui Romeo, a dirci che il reato di “riduzione in schiavitù” si sta pericolosamente estendendo nel mondo del lavoro. Le vittime sono lavoratori stranieri: quasi sempre stagionali dell’Europa dell’Est che costituiscono l’ultimo anello, il più povero, della catena migratoria dai loro paesi; o sans papiers enormemente ricattabili perché “clandestini” e quindi avviati verso un sottobosco di emarginazione legale che produce emarginazione sociale. Siamo di fronte a un nuovo apartheid, ai bordi della società e del mondo del lavoro. Il primo sfruttamento che subiscono i nuovi schiavi è esercitato da caporali, spesso della loro stessa nazionalità, anch’essi stranieri. Sono storie di miseria, violenza, degrado, brutalità quelle che le inchieste della magistratura rivelano. Ed è impressionante notare come, in una conversazione intercorsa tra due caporali polacchi operanti nel foggiano, e intercettata dai carabinieri, i due interlocutori si chiamassero – scherzando – “kapò”. A loro modo avevano tradotto la parola italiana “caporale” in “kapò”, e la utilizzavano tranquillamente per definire il proprio lavoro... Tuttavia, nel descrivere questo sottomondo che si sta estendendo, non bisogna lasciare il minimo spazio a interpretazioni xenofobe. Queste storie non si ripetono perché i loro attori sono “stranieri”; bensì perché – in una società come la nostra, in cui gli ultimi sono non-italiani - è proprio nel sottomondo delle migrazioni più deboli, privo di diritti e argini materiali, che ritorna il medioevo lavorativo. Pochi criminali fanno soldi sulla fatica e sul sudore di tanti altri, ma ciò che va messa in luce è una domanda più profonda: a chi giova tutto questo?
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Contro lo statalismo liberista
di Emiliano Brancaccio
General motors e Chrysler reclamano 40 miliardi di dollari dall’Amministrazione Obama per non fallire, e proprio al fine di ottenere gli agognati fondi pubblici annunciano quasi 50.000 tagli ai posti di lavoro, la più grande ondata di licenziamenti nella storia americana. E’ proprio il caso di dire che viviamo in tempi gattopardeschi, nei quali il liberismo viene messo sotto accusa solo dalla cintola in su.
Da un lato viene ormai da più parti invocata la protezione statale di singoli settori produttivi o addirittura il passaggio da mani private a mani pubbliche di pezzi importanti del capitale finanziario e industriale. Ma dall’altro lato non abbiamo assistito al minimo ripensamento riguardo ai processi di erosione dello stato sociale o alla completa soggezione alle leggi del mercato nelle quali versa la grande maggioranza dei lavoratori subordinati. Senza nemmeno accorgercene, siamo insomma piombati nell’epoca dello statalismo liberista, un ossimoro niente affatto rassicurante con il quale saremo costretti a misurarci per un tempo non breve.
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Dissesto geopolitico globale
La quinta fase della crisi economica: il dissesto geopolitico globale
Rilasciato ieri il GEAB numero 32: è il report mensile del gruppo Europe2020. Chi ne sentisse parlare per la prima volta, puo’ approfondire qui.
Il nuovo report, che anticipa le tendenze geopolitiche per il quarto trimestre del 2009, non è dei più confortanti. Lo scenario tratteggiato dagli esperti di Europe2020 è a tinte fosche.
Ne pubblichiamo, come sempre, ampi stralciin italiano.
Nel Febbraio 2006 il report stimava che la crisi economica si sarebbe articolata in quattro fasi principali:
- avvio
- accelerazione
- impatto
- decantazione
A causa della incapacità dei leader globali di comprendere la portata della crisi in corso (vista la loro determinazione nel curare le conseguenze anzichè le cause della crisi), la crisi sistemica globale entrerà nel quarto trimestre del 2009 in una quinta fase: la fase del dissesto geopolitico globale.
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Fallimento strategico
Luigi Cavallaro e Riccardo Realfonzo
Le dimissioni di Walter Veltroni da segretario del Partito democratico hanno un significato eminentemente politico, ma segnano anche un punto di svolta nella contesa tra paradigmi alternativi di politica economica. Esse ratificano infatti un percorso fallimentare che sarebbe ingeneroso attribuire alla sola volontà del segretario dimissionario, ma che questi ha comunque perseguito con tenacia: la rescissione di ogni legame fra gli eredi del Partito comunista italiano e quella tradizione, che potremmo definire “solidaristico-keynesiana”, che aveva ispirato la redazione delle norme fondamentali della nostra “costituzione economica”.
Quali esse siano è ben noto. L’art. 41 Cost., che – dopo aver affermato che l’iniziativa economica è libera – stabilisce che essa non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da ledere la sicurezza, la libertà e la dignità umana e demanda alla legge il compito di definire i “piani e programmi” opportuni perché l’iniziativa pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali. L’art. 42, che enuncia il diritto di proprietà solo per attribuirgli una funzione sociale e disciplinarla in modo da renderla accessibile a tutti. L’art. 43, che riserva alla proprietà pubblica (ed eventualmente a “comunità di lavoratori”) la produzione e distribuzione di servizi pubblici essenziali o di beni in regime di monopolio naturale o che abbiano preminente interesse generale. L’art. 44, che disciplina la proprietà terriera prevedendo obblighi e vincoli che assicurino equi rapporti sociali.
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Cure omeopatiche per la crisi
Pierre Carniti
Come fanno gli omeopati, si sta tendando di tamponare un disastro scatenato dai debiti facendo altri debiti, ma non servirà se si lascia immutato tutto il resto. In Italia, poi, non si fa neanche questo. Pochissime risorse e disperse, invece di canalizzarle in tre direzioni precise
Più passa il tempo e più un aspetto diventa chiaro. La crisi economica non è stata prevista e le misure intraprese per contrastarla, se va bene, possono frenare la caduta, ma non costituiscono una convincente “exit strategy”. La ragione è presto detta. Non si va molto lontano reagendo come se si dovesse affrontare una normale crisi congiunturale legata cioè all’andamento del ciclo economico. Magari, solo un po’ più grave, più profonda e verosimilmente più prolungata delle altre.
Che è più o meno la reazione che ha inizialmente preso piede negli Stati Uniti, dove la crisi è fragorosamente esplosa un anno fa. In effetti l’amministrazione Bush ha pensato di poterla contrastare mettendo sul piatto un pacchetto di 160 miliardi di dollari di “stimoli all’economia”. Nel giro di pochi mesi si è però capito che la cura non funzionava. Ed, invece di valutare meglio le cause e quindi i più appropriati rimedi, si sono semplicemente aumentate le “dosi”. Nell’illusione che bastasse contrastare i sintomi anziché che curare la malattia. Lo stanziamento è stato così elevato prima a 700 miliardi, poi a circa 800, per arrivare infine (con la presidenza Obama) a più di 1000 miliardi. Che potranno lievitare fino a 2000, con la costituzione di un “fondo con i privati” per i titoli tossici. Ammesso che riesca ad avere un futuro la proposta formulata dal segretario al tesoro Geithner.
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Visioni della crisi/Crisi “nel” o ”del” capitalismo?
di Osvaldo Pesce
L’attuale crisi economica mondiale mette in discussione la globalizzazione – attuata nel corso degli ultimi dieci anni dagli USA, seguiti dall’Europa - che non può più essere perseguita. Il meccanismo di crescita dell’economia si è inceppato, i vari paesi vengono a turno stravolti dai crack finanziari e coinvolti nella stagnazione produttiva, e per evitare che la crisi si riversi su di loro questi devono “chiudersi” in parte all’esterno e cercare soluzioni proprie
Oggi si prospettano tre diverse opzioni dei governi per far ripartire l’economia:
1. aumentare il debito pubblico nei vari paesi;
2. rispondere alla crisi con la guerra;
3. sviluppare blocchi continentali.
Prima strada: debito pubblico.
Il debito pubblico è già considerevole in USA (circa il 65% del PIL); i fondi federali vengono utilizzati per “salvataggi” che puntellano le attività finanziarie (banche) e alcune industrie decotte (i colossi automobilistici), lasciando tuttavia la situazione sostanzialmente invariata.
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Una formula per questa crisi
Giorgio Gattei*
1. In macroeconomia c’insegnano che i consumi sono funzione dei redditi delle famiglie. E se poi si approssimano i redditi delle famiglie alle retribuzioni dei lavoratori, allora i consumi risultano funzione inversa dei profitti dei capitalisti. La relazione è corretta, ma insufficiente. Infatti, quando i redditi e le retribuzioni superano un certo livello diventa possibile per le famiglie, oltre che consumare, acquisire un patrimonio di beni immobili e titoli mobiliari.
Nemmeno questa relazione è però sufficiente perché in epoca di finanziarizzazione sia i consumi che il patrimonio possono essere alimentati anche dal ricorso al credito, che è debito D per le famiglie. Ne risulta così che i consumi C e il patrimonio P delle famiglie sono alimentati dai redditi Y e dall’indebitamento D. Per sintetizzare si può scrivere:
C + P = f (Y, D)
Ovviamente la sostenibilità dell’indebitamento dipende dal tasso d’interesse che viene praticato dalle banche, con un doppio effetto di retroazione positivo se il tasso d’interesse diminuisce. Infatti da un lato aumenta la facilità di ricorso al credito che alimenta la costituzione di maggiori consumi e patrimoni, dall’altro cresce il valore del patrimonio già posseduto (essendo il valore del patrimonio in funzione inversa del saggio d’interesse) che consente un ulteriore ricorso al credito.
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Dovrei, ma non posso
Maurizio Donato
Nel corso di una intervista realizzata per conto di ABC news, è stato chiesto al Presidente Obama che cosa ne pensasse dell’opinione di molti economisti secondo cui gettare risorse in banche praticamente fallite è un errore. Perché non nazionalizzarle? chiede Terry Moran.
La risposta di Obama(1). Guardi, è interessante quest’argomento. In effetti abbiamo l’esempio di due paesi che hanno conosciuto grandi crisi finanziarie nell’ultimo decennio: uno è il Giappone, che non è nemmeno riuscito a conoscere con esattezza l’ammontare delle perdite del suo sistema bancario. C’è stata una specie di ripresa quando il governo di Tokyo ha pompato moneta nel sistema, ma non è accaduto nulla dal punto di vista della crescita. In Svezia, al contrario, dove si è presentato un problema analogo, il governo ha nazionalizzato le banche, eliminato le attività finanziarie tossiche, rivenduto le banche, e in un paio di anni queste si sono riprese.
Sicché si potrebbe pensare: hanno fatto bene, è un buon modello, ma – vede – il problema è che la Svezia ha qualcosa come cinque banche, noi [gli Usa] ne abbiamo migliaia, la dimensione del mercato è diversa e poi noi abbiamo una tradizione differente in questo paese.
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L'intera strategia del salvataggio è inadeguata?
Un articolo di J. Stiglitz e la risposta di R. Cook di Globalresearch
***
Ripensiamoci prima che sia troppo tardi
di Joseph Stiglitz
La recessione americana sta entrando nel suo secondo anno, e la situazione sta solamente peggiorando. La speranza che il Presidente Obama sia in grado di tirarci fuori dai guai è affievolita dal fatto che la distribuzione di centinaia di miliardi di dollari alle banche non è riuscita a rimetterle in sesto, e nemmeno a ridare vita al flusso dell’erogazione dei prestiti.
Ogni giorno ci fornisce una prova ulteriore che le perdite sono superiori a quanto ci si aspettasse e che ci sarà bisogno di sempre più denaro.
Alla fine viene posta la domanda: forse tutta l’intera strategia è inadeguata? Forse quello di cui c’è bisogno è un ripensamento sostanziale. La strategia Paulson-Bernanke-Geithner era basata sulla constatazione che il mantenimento del flusso del credito fosse essenziale per l’economia. Ma era anche basata sull’incapacità di comprendere alcuni dei mutamenti fondamentali nel nostro settore finanziario avvenuti dalla Grande Depressione, addirittura negli ultimi vent’anni.
Per qualche tempo c’è stata la speranza sarebbe bastato abbassare a sufficienza i tassi di interesse, inondando l’economia di denaro; ma settantacinque anni fa, Keynes spiegava perché, in una flessione analoga a questa, la politica monetaria è probabilmente inefficace, un’azione di scarsissimo effetto.
Poi c’è stata la speranza che se il governo fosse stato pronto ad aiutare le banche con sufficiente denaro – e per sufficiente s’intende molto – la fiducia sarebbe stata ristabilita, e con il ristabilimento della fiducia i prezzi dei beni sarebbero aumentati e si sarebbe ristabilita l’erogazione dei prestiti.
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Se il Re dollaro non fosse più moneta di riserva
Marcello De Cecco
Nel panorama della crisi mondiale sembrano riprodursi le condizioni che esistevano immediatamente prima della fine del sistema di Bretton Woods, nel 1971. Le aspettative sul cambio del dollaro, in particolare, assumono un rilievo e un ruolo che non è possibile sottovalutare. Il cambio del dollaro appare, come allora, la chiave di volta dell’intero sistema. Ma il contesto attuale è assai diverso da quello del 1971. Non foss’altro perché allora si chiudeva un’era di cambi fissi mentre oggi siamo, da decenni, in regime di cambi flessibili, anche se alcuni ancoraggi da parte di monete al dollaro o ad altre valute chiave come euro e yen, resistono da parecchi anni.
Non si tratta quindi, oggi, di aspettarsi o meno una svalutazione o rivalutazione del dollaro, ma di stabilire se siamo alla vigilia di un cambio di regime. Se, ad esempio, ci apprestiamo a vedere la fine del ruolo del dollaro come principale moneta di riserva.
Rispetto al 1971, altre differenze importanti esistono. Allora l’inflazione indotta dalla politica monetaria americana era aperta ed elevatissima, sia negli Stati Uniti che nella gran parte degli altri paesi. Oggi, al contrario, veniamo dagli anni della "great moderation" sul fronte dell’inflazione e invece che sull’indice generale dei prezzi la politica monetaria e fiscale espansiva degli Stati Uniti ha determinato, negli anni scorsi, solo l’inflazione dei beni patrimoniali, e quindi una fondamentale rivoluzione nei prezzi relativi, mentre l’indice generale è cresciuto modestamente.
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Animal spirits
Matteo Pasquinelli, Animal spirits: a bestiary of the commons, Rotterdam, Nai Publishers/Institut of Network Cultures, pp. 240, euro 23,50
Se nel passato il dominio mondiale si giocava nel controllo dei mari e del commercio internazionale, oggi la chiave dei rapporti di potere ruota attorno al controllo dello spazio e del yberspazio, ovvero dei commons globali: questa è una delle tesi del Project for the New American Century del 2000. I neocon non hanno compreso, però, che nessuna linea di continuità può essere istituita: il «capitalismo 3.0», per citare il volume dell'uomo d'affari Peter Barnes recentemente tradotto dalla casa editrice Egea, si alimenta non dell'organizzazione, bensì della cattura della produzione del comune. Qui prende corpo il parassita, una delle «bestie» cui allude il sottotitolo del prezioso libro di Matteo Pasquinelli.
Spostare il focus della critica alla knowledge economy dalla proprietà intellettuale ai rapporti di produzione: questa è la riuscita scommessa dall'autore. Muovendosi agilmente tra Bataille e Serres, tra le distopie di Ballard e Agamben, Pasquinelli passa al filo di un'analisi intelligentemente acuminata vari obiettivi polemici, tra cui Baudrillard, Zizek o Florida, nonché i troppo facili entusiasmi che suscitano nei movimenti concetti come «classe creativa» o le retoriche della rete. Tra queste spiccano il movimento Free Culture e il «digitalismo», che dipingono la comunicazione come uno spazio per natura orizzontale, libero dallo sfruttamento e dai rapporti capitalistici.
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Obama: Rotazione di regime
di Nafeez Mosaddeq Ahmed
L'avvento dell’amministrazione Obama non modificherà sostanzialmente il corso dell’espansione militare acceleratosi durante l’era Bush. Le origini di queste politiche non si basano unicamente sull’ideologia neoconservatrice. Mentre l'elezione del presidente Obama potrebbe offrire nuove opportunità alle forze progressiste per circoscrivere i danni, il loro spazio di manovra alla fine sarà ridotto da radicate pressioni strutturali che cercheranno di sfruttare Obama al fine di ristabilire l’egemonia imperiale americana, anziché trasformarla.
Infatti, la radicalizzazione dell’ideologia politica angloamericana rappresentata dall’ascesa dei principi neoconservatori e dai processi di militarizzazione della 'Guerra al Terrore', ha costituito una risposta strategica alle crisi sistemiche globali, sostenuta dalle classi imprenditoriali americane. Le stesse classi, riconoscendo la misura in cui Bush ha screditato questa risposta, si sono mobilitate in favore di Obama. Pertanto, all’intensificarsi della crisi globale, questa risposta in termini di militarizzazione è suscettibile di subire un'ulteriore radicalizzazione, invece che un significativo cambiamento di rotta. Le principali differenze saranno nel linguaggio e nel metodo, non nella sostanza.
Obama e la sicurezza nazionale: "È il petrolio, stupido!"
Questo è diventato sempre più chiaro via via che divenivano note le nomine dell’amministrazione di Barack Obama: persone le cui posizioni politiche e ideologiche sono in gran parte corrispettive con gli ideali neoconservatori, specialmente in materia di sicurezza, e le cui connessioni sociali e intellettuali le allacciano ai think-tank e ai responsabili politici neoconservatori.
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Tettamanzi, Stigliz e la terapia per la crisi
Valerio Selan
E' singolare che sulla diagnosi concordino personaggi anche molto diversi. Il governo annaspa e ribatte alle critiche affermando che nessuno ha proposte alternative. Non è vero: ne facciamo qui una breve rassegna
La maggioranza, alle critiche dell'opposizione per quanto concerne le scelte (o le non scelte) del governo di fronte alla crisi economica, replica che la minoranza non offre indicazioni alternative né per quanto concerne la diagnosi né le terapie da applicare. Ciò è inesatto. Il PD ha presentato alle Camere - nel silenzio tombale dei media - proposte articolate; altre indicazioni significative sono state delineate su questa rivista (Lettieri, 23/12/2008; Rossi, 19/01/2009).
E' singolare il fatto che sulla diagnosi della crisi - che condiziona, com'è intuitivo, la terapia - concordino il Cardinale Tettamanz, il Nobel Stiglitz e l'economista obamiano Paul Krugman. Essi ritengono che le cause profonde di questa crisi risiedano in un forte squilibrio nella distribuzione dei redditi, che la finanza facile ha offuscato, accentuandolo fino alle più estreme conseguenze.
Può essere comunque utile tentare di individuare, a livello esplorativo - non avendo il supporto tecnico dei centri studi della banca centrale e (speriamo.....) del governo - alcune linee strategiche di intervento. Anche perché la nostra classe dirigente sembra impegnata in una fuga dalla realtà: si occupa infatti di una riforma federale da attuare in sette anni; del Ponte di Messina realizzabile nel 2016; di piani nucleari entro il prossimo decennio e, più recentemente, della costruzione di "new towns" intorno a centri di provincia...; e un piano carceri per detenzioni "soft" (una precauzione per il futuro?).
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L'errore di puntare sui Fondi pensione
Felice Roberto Pizzuti
La crisi economica e finanziaria, più che rattoppi alle politiche previdenziali affermatesi negli ultimi decenni, dominati dall’eccessiva fiducia nei mercati e dall’illusionismo finanziario, ne impone un profondo ripensamento. Il ruolo essenziale va lasciato alla previdenza pubblica: quella complementare può essere, appunto, solo accessoria
Come era inevitabile, la profonda crisi finanziaria in atto in tutto il mondo sta manifestando i suoi effetti distruttivi di risparmio anche sui bilanci dei Fondi pensione privati.
In Italia, oramai da diversi mesi, i dati progressivamente resi noti dai Fondi, dalle associazioni di categoria e dalla Covip segnalano che il confronto tra i rendimenti offerti dalla previdenza complementare e quelli maturati dal Tfr lasciato in azienda volge a favore di questi ultimi. Nel corso del 2008, la media ponderata dei rendimenti maturati da tutti i comparti operanti nell’insieme dei Fondi negoziali (gestiti da rappresentanti delle imprese e dei lavoratori) è stata negativa; e stato annullato il 5,9% del risparmio previdenziale ad essi affidato. I risultati dei Fondi aperti (gestiti da istituti finanziari), che si affidano maggiormente agli investimenti azionari e comunque più rischiosi, registrano una perdita superiore, pari all’8,6%. Il Tfr lasciato nelle aziende si è invece rivalutato del 3,1% (2,7% al netto del prelievo fiscale). Se dai dati medi si passa a quelli dei singoli comparti di ciascun Fondo, mentre i più prudenti registrano risultati positivi (ma solo quelli “garantiti” e non tutti), le linee che includono investimenti azionari hanno raggiunto perdite massime del 28% tra i Fondi negoziali e del 39% tra i Fondi aperti.
A fronte di questi dati, diversi commentatori e operatori del settore della previdenza complementare si soffermano sulla considerazione che, nonostante i terribili andamenti dei mercati finanziari, l’adesione ai Fondi pensione risulta ancora conveniente perché consente ai lavoratori di acquisire i contributi aziendali e i vantaggi fiscali che invece non avrebbero lasciando il Tfr in azienda.
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Cu cu ... e il denaro non c'è più!
Giovanni Mazzetti
Il fondo-sermone di Sartori, «L'idea dei soldi come manna», pubblicato qualche tempo fa dal Corriere della sera sembra essere la ripetizione dell'anatema di Brunetta: «Sgobbate gente, sgobbate ... perché solo la fatica e la sottomissione vi salveranno dal castigo economico». A voler essere benevoli, si può invece individuare un maldestro tentativo di abbozzare una morale. La tesi è semplice: siamo «peccaminosamente incappati nella crisi» perché, invece di confrontarci col problema di come si produce la ricchezza, abbiamo coltivato l'illusione che «i soldi cadessero come manna dal cielo». «L'economia come scienza avrebbe infatti cominciato a deragliare con la sua politicizzazione di sinistra che l'avrebbe indotta a anteporre il problema della distribuzione della ricchezza al problema della creazione della ricchezza, e a confondere i due». Ora, nessuno può negare che ci sia stata una sinistra (ma anche un centro e una destra!) che ha fatto del problema della redistribuzione del reddito il suo cavallo di battaglia. Ma era una frangia minoritaria, mentre la stragrande maggioranza di coloro che si dichiaravano di sinistra si è scervellata su un problema diverso: quello dei limiti propri del modo di produrre capitalistico e di come spingersi al di là di essi. E per esplorare questo spazio ha dovuto riflettere sul ruolo che il denaro ha avuto e ha nel favorire o nell'ostacolare il processo di soddisfazione dei bisogni. E' vero che, con il profilarsi della crisi del keynesismo, negli anni '80, e col crollo dei paesi comunisti nei '90, la maggior parte di quelle riflessioni sono finite su un binario morto; ma non è la prima volta nella storia che, per procedere sulla via dello sviluppo, si deve recuperare un sapere del quale si credeva di poter fare a meno.
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Il valore reale del lavoro non c'è più
Massimo Roccella*
Il modello contrattuale doveva essere riformato per affrontare una situazione che, da più parti, veniva definita in termini di «emergenza salariale», ma evidentemente l'obiettivo, strada facendo, dev'essere stato perso di vista o forse i firmatari dell'accordo hanno ritenuto opportuno mutarlo senza darsi la pena di avvertire esplicitamente del cambiamento di rotta. Alla fine, tuttavia, non si può dire che essi non siano stati sinceri, se è vero che l'accordo quadro siglato a Palazzo Chigi sancisce che «obiettivo dell'intesa è il rilancio della crescita economica, lo sviluppo occupazionale e l'aumento della produttività», senza neanche un cenno all'esigenza di difendere (non diciamo di incrementare) il valore reale dei salari. Vero è che sviluppo economico e crescita occupazionale dovrebbero essere sostenuti da una «efficiente dinamica retributiva»: che però è concetto ambiguo, sicuramente non omologabile a quello di difesa del potere d'acquisto dei salari. Dal punto di vista delle imprese, ad esempio, la dinamica retributiva potrebbe apparire efficiente quanto più contribuisca a mantenere basso il costo del lavoro; altri potrebbe aggiungere che la compressione salariale è una necessità ineludibile se si vuol sperare in un incremento dell'occupazione.
Andiamo al merito. Al contratto collettivo nazionale si attribuisce la «funzione di garantire la certezza dei trattamenti economici e normativi comuni per tutti i lavoratori del settore». Non si dice però quale sia il livello del trattamento certo o, per meglio dire, non si esplicita con la dovuta chiarezza che d'ora in avanti si firmeranno contratti nazionali che non garantiranno neppure l'obiettivo minimo della salvaguardia del potere d'acquisto. I salari, anzi, a livello nazionale dovranno essere negoziati sulla base di un parametro previsionale (elaborato da un fantomatico soggetto terzo, che l'accordo neppure ha individuato) depurato della cosiddetta inflazione importata, legata alle variazioni dei prezzi dei beni energetici, e dunque a priori non coincidente con il tasso d'inflazione effettiva; perché l'indice previsionale sarà applicato non sull'intera retribuzione, ma su un valore convenzionale da individuarsi, a quanto pare, nei singoli settori.
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La destra "fa società" con la paura. La sinistra non c'è
di Massimo Ilardi
«Saremo inflessibili nei confronti di chi non rispetta le regole»: lo hanno gridato continuamente sia Rutelli che Alemanno duranta la campagna elettorale dello scorso anno per l'elezione del nuovo sindaco di Roma. Su questo l'inciucio è stato perfetto. E seguita ad esserlo. Divieti, controlli, ossessione sulla sicurezza, demonizzazione del conflitto: oggi è solo così che si tenta di ricreare quei legami sociali spezzati da una società del consumo e da un paese diviso atavicamente in fazioni e che ha nel suo Dna l'assenza di senso dello Stato. Eppure il vecchio sistema dei partiti e la sua classe dirigente, nati dentro una guerra civile, avevano trovato gli antidoti per combattere la frantumazione sociale: producevano politica, organizzavano opposizioni reali, sapevano rappresentare il conflitto.
Il fatto è che all'avvento del primato del mercato non ha corrisposto una generazione politica all'altezza della prova: mantenere la politica al suo posto di comando. Qui e solo qui sta il declino italiano. Il "fare società" attraverso la scorciatoia del proibizionismo delle norme, che si pretende tra l'altro di erigere a comportamento morale, è l'ultimo ritrovato di una classe politica che ha drammaticamente fallito nel suo compito di governare il paese perché non possiede né autorità, né prestigio. Da qui il primato dell'economia e del diritto sulla politica che tende a scomparire: dove tutto è normalizzabile tutto è governabile. E così mentre, a livello nazionale, si cerca il modo di tornare a proibire o a ridimensionare la legalità dell'aborto, a fare ancora qualche pensierino sulla cancellazione del divorzio, a ripristinare nelle scuole il primato del voto di condotta, a prendere le impronte digitali alla popolazione Rom, a organizzare ronde militari per la città e a vietare di fumare, andare liberamente allo stadio, farsi gli spinelli, prendere la residenza senza un lavoro, praticare il nomadismo e il commercio di strada; a Roma, oltre a tutto questo, si impedisce agli immigrati di lavare i vetri delle macchina, si nega di vendere la sera alcolici da asporto, si propone di mettere telecamere nelle scuole e sui mezzi pubblici, si studia come organizzare una centrale di vigilanza e di controllo su tutta la città.
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Distribuzione del reddito e diseguaglianza: l’Italia e gli altri
Stefano Perri*
Scriveva Keynes, nelle Conseguenze economiche della pace, che il processo di formazione del capitalismo industriale si è fondato su un “doppio inganno”. Da una parte i lavoratori si appropriavano di una piccola parte della torta che avevano contribuito a produrre, mentre i capitalisti ne ricevevano “la miglior parte”, con la tacita condizione di non consumarla, ma di destinarla prevalentemente all’accumulazione del capitale.
Dopo la crisi del ’29 e la seconda guerra mondiale, il processo di sviluppo è sembrato invece basarsi su una graduale diminuzione delle diseguaglianze che ha stimolato la domanda aggregata. Tuttavia, dagli anni settanta, le diseguaglianze sono tornate a crescere, con l’aggravante che nei paesi sviluppati la “miglior parte della torta” ha alimentato prevalentemente la speculazione piuttosto che gli investimenti reali. In molti hanno scambiato questa restaurazione del “doppio inganno”, che con la crisi attuale mostra tutte le sue contraddizioni, con la via maestra della modernizzazione.
In questo quadro il governo italiano ha varato una manovra del tutto inadeguata. Avendo appreso l’idea che le aspettative si auto-realizzano dalle storielle che è uso raccontare, Berlusconi sembra ritenere che bastino le sue esortazioni a consumare per ristabilire la fiducia. Soprattutto non sembra rendersi conto che la spesa per il consumo dipende dal reddito delle famiglie e che l’ insufficienza della domanda aggregata è il risultato del mutamento nella distribuzione del reddito che ha caratterizzato in modo fondamentale l’ultima fase economica nei paesi sviluppati.
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Non scherziamo col default
Mario Rossi
I dati sul fabbisogno 2008, doppio rispetto al 2007, hanno fatto cadere le inibizioni a parlare apertamente di un argomento fino ad ora tabù, con fantasiose ipotesi di ripudio del debito e uscita dall'euro per essere liberi di stampare carta moneta. Coronando così con una catastrofe la disastrosa politica fiscale del governo
In un intervento ospitato su questo sito qualche mese fa (L'Europa e la deriva secessionista della destra, del 09/07/08, prima della grande crisi di autunno) azzardavo qualche previsione sugli effetti che sarebbero potuti derivare dal progressivo ampliarsi della distanza – in politica ed in economia – tra Italia e Europa con Berlusconi alla guida del paese (e Tremonti alla guida del governo). In definitiva, esprimevo il timore che la campagna anti-europea che in quei mesi si stava orchestrando (non tanto quella sguaiata di parte leghista, quanto quella colta e boriosa di Tremonti e co.) servisse a precostituire gli argomenti e gli alibi, sul piano politico-ideologico, per preparare il terreno alla ben più clamorosa e dirompente rottura con l’Europa che il paese sarebbe stato costretto a gestire sul piano economico, nel giro di un biennio, per la allegra (e dissennata) politica economica che il governo avrebbe portato avanti, in linea con i disastri del quinquennio 2001-2006.
La tempesta finanziaria e la recessione economica hanno mutato non poco il contesto: è cambiato tutto, così nell’economia come nella politica. In che misura le analisi di metà 2008 restano attuali all’inizio del 2009?
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Senza conflitto dalla crisi si esce a destra
di Emiliano Brancaccio
Da un secolo e mezzo ad oggi, questa è la prima crisi del capitalismo che esplode nel pressoché totale silenzio politico del lavoro e nell’assenza del conflitto di classe di cui un tempo le organizzazioni operaie si facevano portatrici. Nelle epoche passate lo scontro di classe suscitato dal movimento operaio agiva profondamente sul corso degli eventi storici, ed interveniva in modo più o meno diretto su quelle fondamentali emergenze rappresentate dalle crisi economiche. Non solo la minaccia sovietica ma la stessa morsa dei fascismi costituivano gli estremi riflessi del protagonismo politico del lavoro e delle istanze di emancipazione di cui esso si faceva portatore, soprattutto nei momenti di crisi. Un fantasma insomma si aggirava davvero per l’Europa e per il mondo. E quel fantasma, soprattutto durante i terremoti economici, aveva molte carte decisive da giocare.
Oggi invece viviamo l’esperienza inedita di una crisi che si dispiega nel silenzio del lavoro e nella conseguente assenza del conflitto di classe. Quali sono allora le implicazioni principali di questa crisi senza conflitto? La prima implicazione è che in mancanza del contrappeso rivendicativo del lavoro lo stato è lasciato in balia degli interessi del capitale, e tende quindi a scimmiottarne anche i comportamenti più destabilizzanti e autodistruttivi. A questo riguardo sappiamo che un’azione razionale dal punto di vista del singolo capitale può risultare disastrosa a livello di sistema.
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Yehoshua: un insulto a sei milioni di martiri
di Paolo Barnard
(commento alla lettera di Abrham B. Yehoshua, pubblicato dalla Stampa del 18/01/2009)
Abrham. B. Yehoshua. “Caro Gideon,
negli ultimi anni ... Quando ti pregai di spiegarmi perché Hamas continuava a spararci addosso anche dopo il nostro ritiro tu rispondesti che lo faceva perché voleva la riapertura dei valichi di frontiera..."
Hamas continua a sparare razzi anche e soprattutto perché Gaza è la più grande prigione a cielo aperto del mondo, definita nel 2007 dal sudafricano John Dugard, Special Rapporteur per i Diritti Umani in Palestina dell'ONU, "Apartheid... da sottoporre al giudizio della Corte Internazionale di Giustizia dell'Aja". Perché nell'agosto del 2006 la Banca Mondiale dichiarava che "la povertà a Gaza colpisce i due terzi della popolazione", con povertà definita come un reddito di 2 dollari al giorno pro capite, che è il livello africano ufficialmente registrato. Perché appena dopo le regolari e democratiche elezioni del gennaio 2006 con Hamas vittoriosa, Israele inflisse 1 miliardo e 800 milioni di dollari di danni bombardando la rete elettrica di Gaza e lasciando più di un milione di civili senza acqua potabile. Perché nel 2007 l'ex ministro inglese per lo Sviluppo Internazionale, Clare Short, dichiarò alla Camera dei Comuni di Londra "sono scioccata dalla chiara creazione da parte di Israele di un sistema di Apartheid, per cui i palestinesi sono rinchiusi in quattro Bantustan, circondati da un muro, e posti di blocco che ne controllano i movimenti dentro e fuori dai ghetti (sic)". Ecco perché. Perché sono 60 anni che Israele strazia i palestinesi con politiche sanguinarie, razziste e fin neonaziste.
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Marx, il gran ritorno
Regolare la finanza o superare il capitalismo?
di Lucien Sève*
Trascurati dai partiti socialisti europei in quanto «vecchie teorie semplicistiche» che sarebbe bene abbandonare, detronizzati nelle università dove furono a lungo insegnati come base dell'analisi economica, i lavori di Karl Marx suscitano di nuovo grande interesse. Del resto, è stato proprio il filosofo tedesco ad analizzare a fondo la meccanica del capitalismo, i cui soprassalti disorientano gli esperti. Mentre gli illusionisti pretendono di «moralizzare» la finanza, Marx ha cercato di mettere a nudo i rapporti sociali
Erano quasi riusciti a farcelo credere: la storia era finita, il capitalismo, con generale soddisfazione, costituiva la forma definitiva dell'organizzazione sociale; la «vittoria ideologica della destra», parola di primo ministro, si era ormai compiuta, solo alcuni incurabili sognatori agitavano ancora lo spettro di non si sa quale diverso futuro. Lo spettacolare terremoto finanziario dell'ottobre 2008 ha spazzato via di colpo questo castello di carte. A Londra, il Daily Telegraph scrive: «Il 13 ottobre 2008 resterà nella storia come il giorno in cui il sistema capitalistico britannico ha riconosciuto il suo fallimento (1).» A New York, davanti a Wall Street, i manifestanti brandiscono cartelli con la scritta: «Marx aveva ragione!». A Francoforte, un editore annuncia che la vendita del Capitale è triplicata. A Parigi, una nota rivista, in un dossier di trenta pagine, analizza, a proposito di colui che si diceva definitivamente morto, «i motivi di una rinascita» (2). La storia si riapre...
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Neoliberismo, interventismo, keynesismo
Duccio Cavalieri*
La crisi economica globale del sistema capitalistico, oggi in atto, deve indurre gli economisti teorici ad interrogarsi su quanto sta accadendo e a cercare di prevederne i prossimi sviluppi e gli esiti. Uno dei compiti storici della scienza economica è infatti la spiegazione e la previsione di quanto avviene nella realtà.
Un primo punto sembra sufficientemente chiaro. Si tratta di una crisi che ha avuto inizio nel mondo della finanza e che ha poi contagiato l’economia reale. E’ emersa la forte instabilità di un sistema di intermediazione finanziaria che anziché incoraggiare il risparmio delle famiglie e assicurare che esso affluisse senza ostacoli agli investimenti delle imprese e agli impieghi delle amministrazioni pubbliche, è stato utilizzato per finanziare pericolose operazioni speculative compiute sul mercato dei capitali e su quello dei cambi. Questo è avvenuto in un contesto di bassi livelli dei salari reali e in presenza di una politica dell’amministrazione repubblicana degli Stati Uniti che ha alimentato nei lavoratori una forma inedita e sottile di illusione monetaria, consentendo alle banche e ad altre istituzioni finanziarie di concedere loro ampio credito e mutui ipotecari a condizioni molto facili (i subprime mortgages a tassi variabili) per indurli ad acquistare di più e consumare di più, nonostante i bassi salari.
Una situazione di questo tipo non può durare indefinitamente. Quando le banche cominciano a incontrare delle difficoltà nel rientro dei capitali prestati e vengono a trovarsi a corto di liquidità per l’insolvenza dei debitori, il flusso del finanziamento bancario alle imprese di produzione tende necessariamente ad interrompersi. Per allontanare nel tempo questa evenienza, le banche hanno fatto ricorso a strumenti innovativi di ingegneria finanziaria allo scopo di attuare una strategia finanziaria tutt’altro che nuova: quella della Ponzi finance, efficacemente descritta da Hyman Minsky. Hanno infatti cercato di trasformare i crediti in sofferenza in fonti di nuove rendite finanziarie, facendo ricorso a operazioni di cartolarizzazione (securitization) e successiva inclusione dei crediti frazionati in prodotti finanziari derivati, con l’intento di arrivare a disperdere il rischio individuale.
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