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Il capro espiatorio e la logica dell’emergenza
di Alessandro Ugo Imbriglia e Italo Di Sabato
“Un buon capro espiatorio vale quasi quanto una soluzione”
(A. Bloch)
L’ossessione infinita per i numeri del contagio ha schiacciato le timide proteste per il divieto di cortei, ma ha anche oscurato l’assetto non più solo poliziesco ma marcatamente militare precipitato su Roma in occasione del G20. Il conflitto sociale, dunque, viene gestito a partire da una logica preventiva e la militarizzazione del territorio diventa ordinaria. Del resto in Italia l’allarmismo emergenziale ha una lunga storia (lotta al terrorismo, alla droga, alla mafia, alle tifoserie violente, ai migranti). Di certo quanto avviene mostra la profonda crisi di legittimità dello Stato, che non solo scarica sui cittadini le difficoltà della gestione sanitaria, ma cerca legittimazione alimentando la propria bulimia di controllo. “L’agire del potere risponde, anzitutto, a una necessità assoluta: legittimare la propria espansione – scrivono Alessandro Ugo Imbriglia e Italo Di Sabato -, e, conseguentemente, garantire la propria esclusiva conservazione…”
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L’11 novembre, la ministra dell’Interno Luciana Lamorgese, come noto, ha emanato una direttiva per limitare le manifestazioni pubbliche. La ministra, nelle dichiarazioni che hanno accompagnato il provvedimento, ha detto che il disagio causato alle attività commerciali nei centri storici motivasse ampiamente il divieto dei cortei. Per i prossimi mesi, il governo Draghi vieterà, nei centri urbani, i cortei, tutti i cortei. Chiunque voglia manifestare la propria indignazione, nei confronti delle misure adottate dalle forze governative, non potrà farlo nei centri delle città, né a ridosso dei cosiddetti obiettivi sensibili, i quali, tra l’altro, corrispondono, il più delle volte, ai responsabili che hanno determinato le condizioni per cui si manifesta.
Il conflitto sociale viene gestito a partire da una logica preventiva. Non c’è alcuna soglia di tolleranza per le lotte sociali.
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Identikit del No-Vax o del come costruire un capro espiatorio
di Andrea Zhok
Tra le operazioni più sconcertanti avvenute in questi ultimi mesi si distingue per infamia la costruzione mediatica della categoria “No Vax”, che è stata estesa fino ad abbracciare tutti coloro i quali sono restii a sottoporre sé o i propri figli alle attuali inoculazioni anti-Covid.
Ora, la categoria “No Vax” era emersa in passato con riferimento a vaccini tradizionali, e, a torto o a ragione, era stata utilizzata dai media per identificare individui genericamente avversi alla pratica della vaccinazione in quanto tale. Essendo difficilmente dubitabile che varie vaccinazioni in passato, a partire dall’antivaiolosa, abbiano dato un importante contributo alla salute pubblica, si è costruita così un’idea del “No Vax” come un soggetto irrazionale, che si muove secondo un’agenda antiscientifica.
Nella fase più recente è avvenuto un salto di qualità nell’utilizzo della categoria, che si è trasformata in un termine pesantemente denigratorio e sprezzante, rivolto a persone che a questo punto non erano semplicemente definite dalla loro “ignoranza” ed “antiscientificità”, ma anche dal loro “egoismo”, perché, si diceva: non vaccinandosi mettevano a repentaglio l’immunità di gregge; o non vaccinandosi avrebbero diffuso il virus; o non vaccinandosi avrebbero occupato le terapie intensive. Che la prospettiva dell’immunità di gregge sia svanita da tempo, che anche i vaccinati diffondano il virus, e che anche i vaccinati occupino letti di terapia intensiva sono fatti che non sembrano aver sortito alcun effetto sull’opinione pubblica, la quale, aizzata quotidianamente, ha creato uno stigma feroce nei confronti dei non vaccinati, secondo il classico canone dell’“untore”.
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Accelerazione e alienazione nell’epoca del distanziamento
di Simone Lanza
La velocità è una caratteristica della modernità che David Harvey ha descritto con la categoria di compressione spazio-temporale: “Gli orizzonti temporali del processo decisionale privato e pubblico si sono avvicinati, mentre le comunicazioni via satellite e i minori costi dei trasporti hanno reso possibile e sempre più agevole la diffusione immediata delle decisioni in uno spazio sempre più grande e variegato”. A causa della compressione spazio-temporale viviamo in un mondo sempre più piccolo proprio perché sempre più veloce: oggi è possibile viaggiare da Londra a New York in otto ore anziché in tre settimane. Il mondo del cavallo è stato sostituito prima da quello delle navi a vapore e poi da quello degli aerei.
Questa idea delineata nel saggio La crisi della modernità (1989) non ha trovato molti sviluppi se non recentemente, nei contributi del sociologo tedesco di ispirazione francofortese Hartmut Rosa, in particolare in Accelerazione e alienazione (2010). La tesi di Rosa è semplice ma saggiamente e sinteticamente argomentata: la vita moderna è in costante accelerazione; “la società moderna non è regolata e coordinata da regole e normative esplicite, ma dalla silenziosa forza normativa delle leggi temporali, che si manifestano nella forma di scadenze di consegna, scansioni e confini temporali (…) le forze dell’accelerazione sebbene inarticolate e completamente depoliticizzate, tanto da sembrare date dalla natura stessa, esercitano una pressione uniforme sui soggetti moderni che sfocia in qualcosa di simile a un totalitarismo dell’accelerazione”.
Si può parlare di accelerazione in tre sensi: accelerazione tecnologica, accelerazione sociale e accelerazione della vita. L’accelerazione tecnologica è la compressione spazio-temporale dovuta alla velocizzazione di trasporti, internet e nuove tecnologie, etc.
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Come «spiegare» il popolo neoliberale. La politica al tempo della sua polverizzazione
di Fabrizio Capoccetti
[…] come nello Judo la migliore risposta ad una mossa dell’avversario non è mai quella di rifiutare il contatto ma di riprenderlo a nostra volta, di riutilizzarlo a nostro vantaggio come base d’appoggio per la mossa seguente (Michel Foucault, 1975)
In alto, invece, l’anima canta la gloria di Dio, percorrendo le sue stesse pieghe senza mai giungere a svilupparle interamente, «poiché esse vanno all’infinito» (Gilles Deleuze, Leibniz et le Baroque, 1988)
Se si vuole avere ragione del neoliberalismo bisogna smettere di contrapporsi ad esso: ciò non significa convalidare il noto detto thatcheriano «There is no alternative», quanto piuttosto denunciarne l’assoluta mendacità, non più, però, da un punto di vista morale (spesso scambiato per politica, quella stessa politica ridotta a morale che rappresenta il più riuscito successo del neoliberalismo[1]), ma da un punto di vista dell’azione che perverte il discorso, che agisce parlando un altro linguaggio senza cambiare discorso, che parla facendo dire allo stesso discorso cose diverse. Non si tratta, dunque, di abbandonarsi all’ordine neoliberale come se non ci fosse nulla da fare, ma di fare in modo che il neoliberalismo non abbia più nulla da dire su quello che lo si costringerà a fare rendendolo disfunzionale.
Occorre concepire il terreno ontologico della lotta politica come la sostanza riletta da Deleuze che interpreta il pensiero di Leibniz[2]. La sostanza è infinita, ma è infinita in due modi, o meglio, vi sono due infiniti: quello della materia e quello dell’anima: la sostanza è fatta di pieghe, ed è sempre una piega a dividere i due infiniti.
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Complotti!
di Leonardo Bianchi*
Dai Protocolli dei Savi di Sion alla pandemia, passando per QAnon e l’assalto al Congresso degli Stati Uniti. “Complotti!” di Leonardo Bianchi costruisce un quadro organico delle teorie del complotto, spiegando come e perché nascono e si diffondono, cosa rivelano della società in cui viviamo
L’idea generale sul complottismo è che si tratti di un fenomeno estremamente marginale, alimentato da un manipolo di pazzoidi. Una convinzione che conforta la maggior parte delle persone: noi non siamo come loro. Ma la realtà è un’altra, che i complottismi affondano le loro radici in un lontano passato e le dispiegano nella contemporaneità a un livello più trasversale di quanti si pensi. Chiunque – in una o più fasi della sua vita – ha creduto ad almeno una favola cospirazionista: in gergo, è finito «nella tana del Bianconiglio».
Già autore di La Gente (Minimum Fax, 2017), Leonardo Bianchi – uno degli indagatori più autorevoli sul tema, una delle voci più credibili del giornalismo italiano per rigore e capacità d’analisi – in Complotti! Da QAnon alla pandemia, cronache dal mondo capovolto (Minimum Fax, 2021) costruisce un quadro organico delle teorie del complotto scavando a fondo e decostruendo in superficie, per spiegare come e perché nascono e si diffondono. Soprattutto: cosa rivelano della società in cui viviamo.
Su gentile concessione di autore e casa editrice, che ringraziamo, pubblichiamo di seguito un estratto da Complotti!
Il libro inoltre sarà presentato dall’autore insieme a Christian Raimo martedì 7 dicembre h.18 presso la Sala Venere di Più Libri Più Liberi (la Fiera Nazionale della Piccola e Media Editoria che si terrà a Roma, al Convention Center - La Nuvola di viale Asia 40, dal 4 all’8 dicembre 2021).
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Introduzione: dentro la tana del Bianconiglio
Sebbene le definizioni si sprechino, ormai il campo è stato sufficientemente circoscritto in decenni di studi e pubblicazioni.
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Quattro righe e due versi per l’operaismo, una memoria di poca Storia
di Paolo Rabissi
Tra memoria e Storia il resoconto di un 'quadro intermedio' della nascita di Potere operaio, 1969-1970
…se poi mi chiedi che sorte ha avuto la mia scrittura in versi nel periodo della nostra partecipazione a ‘La classe’ e alla nascita di ‘Potere Operaio’, la risposta è molto semplice, quella della talpa ( decisamente contestuale al ‘ben scavato…’, assunto dagli operaisti!). E come altrimenti? Non credere che io l’abbia sotterrata subito. Vero è che Oreste[1], appena sbarcato a Milano e appena conosciuti i miei (tiepidi) tormenti letterari in prosa, mi propose di aggiustare la faccenda con un semplice “… dopo i tuoi Proust Musil Kafka Joyce ecc che romanzi si possono ancora scrivere?” Ma lui veniva dalla rivista “Quindici” dove con Balestrini la decostruzione dei linguaggi compresi quelli poetici, era sin troppo avanzata. Il mio vero tormentone era in realtà quello dei versi. Sicché in una delle occasionali riunioni a casa nostra, più o meno primavera ’69, approfittando di un momento favorevole, ho letto davanti a tutti quelli che c’erano dei versi di cui non ricordo quasi nulla tranne di averci prospettato una sorta di molteplicità dei percorsi che ritenevo avessimo davanti a rivoluzione imminente. L’accoglienza fu tiepida, Sergio[2] col quale avevo un po’ più di confidenza, abbozzò un sorrisino. Toni invece non ebbe alcuna esitazione e mi rispose argomentando intorno alla sua decisa simpatia verso l’Uno e non verso il molteplice. Tanto bastó, dopo quell’exploit la mia scrittura in versi l’ho davvero sotterrata. So quando è riemersa. Quando mi resi conto che il progetto che mi aveva legato direttamente all’operaismo milanese per me era concluso, dopo una stagione non brevissima, alla fine del 1970.
La riassumo qui oggi, a ottantun’anni suonati, per tanti di quei motivi che non ha senso provare ad enumerarli. Scelgo però il più vicino nel tempo. E’ stata la storia di Potere operaio dello storico, ex-militante di Potere operaio, Marco Scavino,[3] consigliatomi da Sergio, a spingermi a scrivere. Delle memorie personali, si sa, occorre avere la giusta diffidenza, il tempo sovrappone e sovrappone. Personalmente godo però di due vantaggi. Anzitutto quanto scrivo è filtrato anche dalla memoria di Adriana, mia compagna dal ’66. Inoltre ho conservato e salvato dalle vicende una delle mie agende del ’69-’70.
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No pass, fascismo, fascisti
di Nicola Casale
Riceviamo e pubblichiamo molto volentieri queste dense riflessioni di Nicola, già autore degli Appunti sulla maledizione pandemica, usciti in tre puntate anche sul nostro sito. Benché egli usi linguaggio e categorie diversi dai nostri, le sue riflessioni si segnalano per la pregnanza (e la salutare controtendenza) con cui colgono la natura radicale, inedita e totale del terreno su cui si gioca la scommessa rivoluzionaria oggi. Buona lettura
Tra i motivi più gettonati nella sinistra antagonista per prendere le distanze dal movimento contro il green pass (Gp) è che si tratta di un movimento egemonizzato dai fascisti, oppure di essere destinato a esserlo. La prima è semplicemente falsa, e chi abbia solo incidentalmente messo il naso nelle manifestazioni ha potuto verificarlo agevolmente. La seconda rientra, ovviamente, nel novero delle possibilità, al pari di altre di carattere diverso e persino antitetico. Che le mobilitazioni abbiano, in particolare dal 15 ottobre, un carattere prevalentemente proletario, con lavoratori di ogni settore, dipendenti o autonomi, apre, oggettivamente, alla possibilità che prevalga al loro interno un indirizzo classista, ma ciò non è un predestinato automatismo autoavverantesi per il semplice dato della composizione sociale. Dipende da un insieme di fattori, interni ed esterni al movimento, sui quali anche i fascisti possono, a determinate condizioni, giocare un proprio ruolo attingendo all’esperienza storica del mussolinismo e alla sua capacità di inquadrare il proletariato in quanto produttore, alla pari del capitalista nazionale, con un suo preciso ruolo nel sostegno della nazione e della sua economia (e adeguati riconoscimenti economico-sociali e politici).
È utile, perciò, ricordare i presupposti su cui il fascismo costruì il suo consenso anche in consistenti settori del proletariato, ma, non di meno, è necessario chiedersi se determinati processi sono destinati a riprodursi con le stesse modalità. E, primieramente, è necessario chiedersi cosa fu il fascismo.
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Ancora sul problema della trasformazione...
di Jehu
Nel 2013, Michael Heinrich ha scritto un saggio su quello che lui considerava fosse l'errore di base della teoria del valore del lavoro di Marx:
«Nella prima metà del XIX secolo, era diventato chiaro che le crisi economiche periodiche fossero una componente inevitabile del capitalismo moderno. Nel Manifesto Comunista, esse venivano considerate come una minaccia all'esistenza economica stessa della società borghese. Le crisi assunsero per la prima volta uno speciale significato politico per Marx nel 1850, quando egli tentò un'analisi più approfondita delle rivoluzioni fallite del 1848-1849. In quel periodo, egli considerava la crisi del 1847-1848 come il processo decisivo che aveva portato alla rivoluzione, e da questo trasse la conclusione per cui: "Una nuova rivoluzione è possibile solo come conseguenza di una nuova crisi. Essa è ad ogni modo altrettanto certa di questa crisi".
Negli anni successivi, Marx attese con ansia una nuova crisi profonda, che finalmente arrivò nel 1857-1858: tutti i centri capitalistici sperimentarono una crisi. Mentre Marx osservava attentamente la crisi e la analizzava in numerosi articoli per il New York Tribune, allo stesso tempo tentava anche di elaborare la sua critica dell'economia politica, che aveva progettato da anni. Il risultato di tutto questo fu il manoscritto senza titolo che è conosciuto oggi come i Grundrisse.
Nei Grundrisse, la teoria della crisi porta l'impronta dell'atteso "diluvio" di cui Marx scriveva nelle sue lettere. In una prima bozza della struttura del manoscritto, le crisi arrivano alla fine dell'introduzione, dopo il capitale, il mercato mondiale e lo stato, laddove Marx crea una connessione diretta con la fine del capitalismo: "Crisi. Dissoluzione del modo di produzione e della forma di società basata sul valore di scambio".
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Una riflessione su Panzieri e Tronti
di Marco Cerotto
Su Panzieri e Tronti si è scritto molto, così come su quella straordinaria esperienza rivoluzionaria che prende il nome di operaismo e che ha avuto in «Quaderni rossi» una decisiva fase di incubazione. Tuttavia, è importante – non solo dal punto di vista storiografico, ma anche per il presente – ripercorrere ancora una volta i passaggi teorici e le scelte strategico-politiche che hanno definito quella stagione seminale, che ha coniugato una radicale rilettura di Marx con dei nuovi cicli di lotta. È il complesso compito che si assume in questo saggio per «Machina» Marco Cerotto, studioso in particolare della biografia teorico-politica di Raniero Panzieri.
«Le affinità incominciano a diventare interessanti nel momento in cui producono delle separazioni»
(J. W. Goethe, Le affinità elettive)
L’incontro di due anime diverse per un nuovo corso teorico-politico
Bisogna riconoscere che oramai su Panzieri e Tronti si è scritto in abbondanza, soprattutto sulle assonanze teoriche che li hanno condotti alla fondazione della prima rivista del neomarxismo italiano, i «Quaderni rossi» (1961), ed è stata quindi enfatizzata l’attenzione sui contributi teorici che hanno indagato l’evoluzione del neocapitalismo italiano, della nuova classe operaia e delle prospettive che sollecitavano a intraprendere delle importanti scelte politiche. Si è scritto tanto anche sulle dissonanze teorico-politiche tra i due, quando, dopo la rivolta di piazza Statuto nel 1962, Tronti e il suo gruppetto, quello dei «filosofi», in sintonia con quello «interventista», furono protagonisti della rottura della redazione dei «Quaderni rossi» per fondare «Classe operaia» (1964).
Eppure, risulta di straordinaria importanza ripercorrere ancora una volta i passaggi teorici e le scelte strategico-politiche che hanno definito quella florida stagione del neomarxismo italiano, la cui eredità teorica è rintracciabile in quell’immensa produzione critica e in quelle precise indicazioni politiche che hanno concorso a influire e a influenzare le successive pratiche di lotta sperimentate dalla galassia della sinistra italiana durante gli anni Sessanta e Settanta.
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L’ecologia di Marx (alla luce della Mega-2)
di Alain Bihr
Il libro di K. Saito, La nature contre le capital. L’écologie de Marx dans sa critique inachevée du capital (La natura contro il capitale. L’ecologia di Marx nella sua critica incompiuta del capitale), appena uscito per le edizioni Syllepse e Page Deux (in traduzione dall’originale in lingua tedesca delle Edizioni Campus Verlag, 2016), è un libro importante. Perché consente di fare piena luce su quello che fino ad una ventina d’anni fa era considerato un ossimoro: appunto l’ecologia di Marx. Non si contano, infatti, le critiche rivolte al Moro per avere assorbito dal pensiero borghese un vero e proprio “feticismo delle forze produttive” e del loro sviluppo, per aver dato prova di un “prometeismo antropocentrico” contenente uno sguardo strumentale e un’attitudine dominatrice nei confronti della natura. Accuse che non sono del tutto prive di fondamento se riferite a singoli aspetti o momenti dell’indagine di Marx, ma risultano alla fine contraddette e smentite in modo decisivo dal filo rosso che Saito (dopo Burkett, Foster ed altri) ricostruisce con grande rigore, a partire dai Manoscritti economico-filosofici del 1844 per arrivare all’enorme massa dei “cahiers de lecture de Marx consacrés aux sciences de la nature” (biologia, chimica, botanica, geologia, mineralogia, etc.) redatti in buona parte negli ultimi dieci-quindici anni della sua vita e resi finalmente pubblici grazie alla nuova edizione delle opere complete di Marx ed Engels in corso (la cd. MEGA-2). Ne viene fuori la dimostrazione che la critica ecologica di Marx, progressivamente affinata sulla base dei contributi di Liebig, Fraas e di altri studiosi della natura, in quanto comporta l’analisi delle correlazioni tra le forme economico-sociali e il mondo materiale concreto, è parte integrante della sua critica dell’economia politica e del modo di produzione capitalistico. E che tale critica mette capo alla convinzione che la natura nel suo insieme, come mondo fisico-materiale, oppone resistenza al capitale, alla immodificabile pretesa del capitale di accumulare indefinitamente profitti saccheggiando al tempo stesso il lavoro vivo e la natura non umana.
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Fascismo in America?
di Giancarlo Scarpari
Robert Kagan, uno dei “falchi” della destra repubblicana, nel 2004 aveva spiegato all’Europa, poco convinta della scelta fatta dal suo paese di promuovere una nuova guerra contro l’Iraq, che l’America aveva invece tutto il diritto di farla, perché era stata minacciata dal terrorismo internazionale e perché Saddam Hussein aveva tentato di dotarsi di armi di distruzione di massa.
Sorvolando sulle premesse, Kagan aveva illustrato nel suo libro (Il diritto di fare la guerra, Milano, Mondadori, 2004) i fondamenti della dottrina Bush sulla legittimità della guerra preventiva, dottrina che lui stesso aveva elaborato nella primavera del 2000, un anno prima dell’attacco alle Torri gemelle, in un saggio scritto in collaborazione con William Kristol (Present Danger). In quel libro, l’autore aveva ricordato, a chi sosteneva che il diritto internazionale vietava questo tipo di guerra, che nel nuovo disordine mondiale il sistema vestfaliano non aveva più alcuna ragione di esistere («la proliferazione di armi di distruzione di massa ha reso troppo rischioso il temporeggiare»); e aveva, anzi, manifestato il proprio stupore per le reazioni che quella dottrina aveva suscitato nel «paradiso geopolitico europeo», visto che quell’idea non era affatto nuova: già Kennedy, al tempo della “crisi dei missili”, aveva minacciato un attacco preventivo contro lo Stato cubano e, negli anni ottanta, dopo l’attentato di Beirut nei confronti di una caserma di marines, il segretario di Stato Schultz aveva invocato, questa volta pubblicamente, la necessità di promuovere un’azione preventiva contro il terrorismo internazionale; e nessuno in Europa, in quelle occasioni, aveva avuto nulla da ridire.
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Un trionfo triste
di Il Pedante
Apprendo che in Alto Adige, dove già la primavera scorsa si sperimentava un «Corona pass» in anteprima nazionale, da oggi si applicheranno regole molto più stringenti alle famiglie che scelgono formare i propri figli secondo i principi dell'istruzione «parentale». Cittadino anch'io dell'epoca che giura di non muover dito senza i conforti delle «evidenze» scientifiche, ho cercato nella ragguardevole letteratura sul tema a quali gravi tare culturali, affettive e sociali andrebbero incontro i piccoli homeschooler. Ma non ho trovato nulla del genere, anzi. In compenso ho letto negli stessi giorni una raffica di titoli-fotocopia sulle scuole «clandestine» in cui troverebbero rifugio «soprattutto famiglie no mask» e che starebbero proliferando in tutto il Paese, con in testa l'ex provincia asburgica.
Quanti sono i pargoli così barbaramente «tolti dalla nostra società»? A occhio e croce, meno degli articoli in cui se ne parla. Nella provincia autonoma dove il fenomeno è più diffuso si tratterebbe di 544 (cinquecentoquarantaquattro) bambini: lo 0,7% della popolazione scolastica. Ma la deputata bolzanina e totiana Michaela Biancofiore non ha dubbi: è un «boom» a cui «stiamo assistendo inermi», un proliferare di azioni «che minano la cultura, la coesione sociale, l’ordine pubblico (sic) e la salute». Su che basi lancia queste accuse, quali le fonti, le testimonianze? Non lo dice. L'«involuzione culturale» degli scolari «sottratti alla socializzazione» è «evidente» a lei - e tanto ci basti.
In un'altra era geologica del nostro sentire avremmo apprezzato l'ironia di multare chi definisce «clandestini» le persone che si introducono illegalmente nel nostro Paese e di accettare invece che lo si dica di chi esercita un'attività prevista dalla legge, nel rispetto della legge. Ma oggi sembra tutto normale. Sarebbe legale anche occupare le piazze per manifestare il proprio dissenso, ma da quando lo fanno anche i «no green pass» sono diventate «sempre più tossiche per la nostra democrazia», spiega un senatore orgogliosamente antifascista.
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Il Problema
Breve compendio critico dell'ideologia neoliberale
di Enrico Gatto, 30 dicembre 2018
Tenerli sotto controllo non era difficile. Perfino quando in mezzo a loro serpeggiava il malcontento (il che, talvolta, pure accadeva), questo scontento non aveva sbocchi perché privi com’erano di una visione generale dei fatti, finivano per convogliarlo su rivendicazioni assolutamente secondarie. Non riuscivano mai ad avere consapevolezza dei problemi più grandi.
George Orwell, 1984 (1949)
Il neoliberismo, che è la base economica del moderno capitalismo assoluto (speculativo- finanziario), va necessariamente compreso per inquadrare le attuali dinamiche socio-politico- economiche – soprattutto occidentali ma che si ripercuotono ovunque – e poiché è la scaturigine del cosiddetto Pensiero Unico (che sostiene, precipuamente, il primato dell'economia sulla politica).
In parole povere si tratta della dottrina economica (cui corrisponde, ovviamente, un'inscindibile ideologia politica: il neoliberalismo) all'origine di tutti i nostri problemi. Semplificando, altro non è che la coronazione di un progetto di restaurazione del potere da parte della "classe dominante" (una rivoluzione passiva detta con Gramsci) risalente già agli anni venti del novecento (fondamentale fu, successivamente, il colloquio Walter Lippmann) ma iniziato ad attuarsi negli anni settanta (dal memorandum di Powell); è la reazione delle élite alla minaccia bolscevica e alla perdita di potere e ricchezza subita nell'età contemporanea e soprattutto nei trenta gloriosi quando le Costituzioni "socialiste" – apertamente avversate nel 2013 da JP Morgan – associate alle politiche economiche keynesiane avevano portato benessere ai popoli e forza alle democrazie (tanto che nello studio Crisi della Democrazia del 1975 commissionato dalla Trilaterale – della quale fecero poi parte Draghi, Prodi, Monti, Letta – si parlava della necessità di apatia e spoliticizzazione delle masse e di indebolimento del sindacato a causa di un pericoloso "eccesso di democrazia" da risolvere anche con l'introduzione di tecnocrazie).
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L’opera aperta di Marx: un pensiero della totalità che non si fa sistema
di Fabio Ciabatti
Paolo Favilli, A proposito de “Il Capitale”. Il lungo presente e i miei studenti. Corso di storia contemporanea, Franco Angeli, Milano 2021, Edizione Kindle, pp. 535, € 35,99
Marx non può essere considerato un classico. Sono troppe le passioni che ancora suscita la lettura dei suoi scritti per la radicalità della loro critica al sistema capitalistico. Ma c’è di più. Marx rimane un nostro contemporaneo per il carattere aperto della sua opera che, ancora oggi, ci consente di dipanare il filo dei suoi ragionamenti in molteplici direzioni utili per indagare le radici del nostro presente, anche al di là degli originari programmi di ricerca del rivoluzionario tedesco. Per comprendere questo carattere di apertura, sostiene Paolo Favilli nel suo ultimo libro A proposito de “Il capitale”, bisogna prendere in considerazione il rapporto tra la teoria marxiana e la storia, in un duplice senso. Da una parte bisogna comprendere fino in fondo la “fusione chimica” tra due dimensioni teoriche, quella economica e quella storica, che si intrecciano profondamente nella sua opera e in particolare ne Il capitale; dall’altra occorre capire come le vicende storiche concrete, e in particolare quelle del movimento operaio, abbiano inciso sulla ricezione, l’interpretazione e l’utilizzo del testo marxiano.
Per quanto riguarda il primo punto, bisogna partire dal fatto che per Marx dietro a ogni categoria, anche la più astratta, c’è sempre una realtà concreta storicamente determinata, mai una realtà universale e eterna. La ricerca della logica specifica dell’oggetto specifico non può prescindere da un’incessante messa a punto degli strumenti concettuali che, per essere adeguati, devono con continuità consumare produttivamente una grande quantità di dati empirici.
D’altra parte Marx non è certo un empirista. Il capitale è, senza dubbio, un lavoro pensato attraverso la categoria di totalità anche se, ed è questo il punto su cui insiste l’autore, non si chiude mai nella costruzione di un sistema. L’opera del rivoluzionario tedesco è un “non finito” che combina Prometeo e Sisifo.
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Vaccini anticovid in bambini e adolescenti
La doverosa analisi dei benefici, paragonati ai rischi
di Panagis Polykretis*
Per vaccinarsi contro il covid-19 i cittadini devono firmare un modulo di consenso informato. Tuttavia mi chiedo quanto il consenso sia veramente informato, quando i mass media continuano a mostrare solamente un lato della medaglia. Uno degli aspetti che mi ha inquietato maggiormente durante questa pandemia, è stato proprio il potere mediatico di persuasione delle masse. Da questa influenza non sono sfuggite neanche molte persone appartenenti all’ambiente scientifico, che considerano i mass media come un’entità superiore e inconfutabile, una specie di “bocca della verità” capace di fargli dimenticare quello che hanno imparato sui testi. Questo può diventare estremamente pericoloso, perché come diceva Platone: “Chi racconta le storie, governa la società”.
Mi è capitato di ascoltare alla radio un famoso giornalista italiano, co-conduttore di una trasmissione che conta milioni di ascoltatori. Egli continuava a ripetere che i vaccini contro il covid-19 hanno meno effetti collaterali dell’aspirina e canzonava con fare disgustoso tutti coloro che esitano a vaccinarsi. L’opinione di questa persona (senza alcuna formazione nel campo medico-scientifico), come di tante altre come lui, può influenzare una grandissima quantità di cittadini. Lo scopo di questo articolo dunque, è quello di presentare dati provenienti da studi scientifici che i mass media non riporterebbero facilmente, affinché il consenso del soggetto che si sottopone a vaccinazione sia pienamente informato. Invito i lettori a documentarsi il più possibile da fonti attendibili e verificare qualsiasi notizia essi ricevano, perché solo quando si ha una visione completa e non unilaterale, si riesce a valutare con criterio.
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Gli strange days di Trieste contro il green pass, terza e ultima puntata
Come il potere ha reagito a una lotta sbalorditiva
di Andrea Olivieri*
La prima puntata è qui; la seconda qui
Ed eccoci all’ultima puntata del reportage di Andrea Olivieri, dove il racconto della lotta si protende fino all’oggi. Qui Olivieri descrive tre diversi cospirazionismi – uno solo potenziale, gli altri due pienamente operativi e in apparenza opposti ma complementari – e intanto racconta la reazione delle autorità a una lotta che le ha colte alla sprovvista, la controffensiva ideologica a difesa della narrazione dominante sulla pandemia, e soprattutto la campagna diffamatoria – martellante e violenta – secondo cui sarebbe stata la mobilitazione contro il green pass a far risalire la curva dei contagi.
Questa campagna non era fondata su evidenze scientifiche bensì su pesanti omissioni, ed è servita a giustificare provvedimenti che hanno limitato drasticamente il diritto di manifestare. Già. Tutto accade talmente in fretta da rendere necessario fare memoria storica dopo poche settimane. È partita da Trieste – dalla controinsurrezione preventiva di cui Andrea ci racconta – la reazione a catena che ha portato prima a vietare i cortei, poi al «supergreenpass» e ai nuovi obblighi e restrizioni di questi giorni. Ma la terza puntata non si limita a mostrare questo: prima di congedarsi da lettrici e lettori, Olivieri mette insieme importanti spunti su quel che la lotta triestina dice riguardo alle tendenze in atto e, plausibilmente, ai conflitti futuri. Infine, complici i gruppi Nicoletta Bourbaki e Alpinismo Molotov, dalla città si sale in Carso, per sentieri che ricordano lotte più antiche, tanto “spurie” al proprio inizio quanto ispiranti nei loro sviluppi e fondative nei loro esiti. Buona lettura [WM].
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17. Golpe
I complotti esistono, e io ci credo. Come ci credono tutti.
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Hic Rhodus hic salta, il bivio dell’imperialismo europeo
di Mauro Casadio - Rete dei Comunisti
Il Forum della RdC che si è tenuto a Bologna il 20 e 21 Novembre ha cercato di focalizzare l’evoluzione che sta avendo L’Unione Europea, da quello che abbiamo definito a suo tempo un “polo” imperialista, cioè una forma inedita di relazioni in Europa che si basava sostanzialmente su un’area economico finanziaria, che oggi sta mutando la propria funzione.
Abbiamo detto da “Polo a Superstato” proprio per delineare un percorso che non è definibile a priori e che, rispettando obiettivi e funzioni di un’effettiva area imperialistica moderna, sta dandosi una strutturazione storicamente originale in rapporto a quelli che sono gli Stati europei affermatisi tra l’800 ed il ‘900 in modo esplicitamente imperialista.
Il percorso e l’analisi a cui abbiamo fatto riferimento nelle nostre elaborazioni non è quello che si manifesta periodicamente in momenti di conflitto o di omogeneità tra gli Stati della UE, a causa delle loro differenze di storia, dimensione e di peso politico, ma le tappe che nell’andare del tempo si sono consolidate e che sono oggi alla base degli ulteriori possibili balzi in avanti che questa inedita costruzione istituzionale può fare.
L’accordo di Maastricht nel ‘92, la nascita dell’Euro ai primi anni del 2000, il superamento della crisi finanziaria del 2007/2008, l’uscita dell’Inghilterra come “longa manus” degli USA in Europa, il ruolo attivo della BCE di Draghi con i Quantitative Easing, l’attuale Recovery Fund come ristrutturazione industriale continentale sono i pilastri di una costruzione sui quali è difficile pensare che si possa tornare indietro nonostante le difficoltà, comunque sempre contingenti, data anche la nuova condizione nelle relazioni internazionali.
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La riforma fiscale del Governo Draghi: cambiare poco per cambiare male
di coniarerivolta
Da mesi ormai si parla con toni da grande attesa dell’imminente riforma fiscale studiata dal governo Draghi. Nel suo discorso programmatico in Senato del 17 febbraio scorso, Mario Draghi spese parole enfatiche, ma assai vaghe nei contenuti, per annunciare le intenzioni di intervenire in modo energico sul fisco: “in questa prospettiva” affermava Draghi, “va studiata una revisione profonda dell’Irpef con il duplice obiettivo di semplificare e razionalizzare la struttura del prelievo, riducendo gradualmente il carico fiscale e preservando la progressività”.
Delle intenzioni trasformatrici espresse durante il discorso di insediamento cosa troviamo nell’attuale legge finanziaria in via di approvazione? Sostanzialmente nulla e sicuramente nulla di buono. La proposta, più o meno definita nei contenuti generali, è quella di andare a limare lievissimamente uno o due aliquote Irpef ed andare a ridurre l’Irap per le imprese, per un costo complessivo di circa 8 miliardi di euro. Per capire la direzione degli interventi proposti occorre fare un passo indietro e capire da dove veniamo.
Anni e anni di riforme involutive dagli anni ’80 ad oggi hanno portato ad una diminuzione continua del carico fiscale sui redditi da capitale e in generale sul reddito dei più ricchi. Una tendenza che si è articolata lungo due direzioni: da un lato la riduzione delle tipologie di reddito incluse nella base imponibile Irpef (Imposta sul reddito delle persone fisiche), con la previsione di regimi separati e agevolati per una parte cospicua dei redditi da capitale (reddito delle società di capitali, rendite finanziarie, rendite immobiliari); dall’altra una drastica riduzione della progressività in seno all’Irpef. Quest’ultima imposta, che ormai colpisce quasi esclusivamente redditi da lavoro e da pensione e solo in piccola parte i redditi da capitale (profitti della piccola e talvolta media impresa), è passata dai 32 scaglioni del lontano 1974 ai 5 attuali, con un differenziale ridottissimo tra prima e ultima aliquota e tra primo scaglione e ultimo scaglione di reddito ad esse associati.
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György Lukács, Dialettica e irrazionalismo
Recensione di Sabato Danzilli
György Lukács, Dialettica e irrazionalismo. Saggi 1932-1970, a cura di A. Infranca, Edizioni Punto Rosso, Milano pp. 200, € 18, ISBN 9788883512537
Questa raccolta di saggi di György Lukács curata da Antonino Infranca ha il merito di riunire testi poco noti e finora difficilmente reperibili dedicati a uno dei temi fondamentali del pensiero lukacsiano: la contrapposizione tra pensiero dialettico e filosofia irrazionalistica. Com’è noto, Lukács dedica nel 1954 all’argomento un’opera quale La distruzione della ragione. Qui il filosofo ungherese combatte le tendenze della filosofia borghese post-hegeliana che fanno del movimento storico oggettivo una categoria secondaria e subordinata rispetto alla coscienza soggettiva. Si tratta di una descrizione necessariamente generica, che racchiude però il moto di pensiero che sta alla base dell’opera e della stessa categoria di «irrazionalismo» nelle sue declinazioni storiche.
Il testo curato da Infranca è composto da nove saggi, tutti precedenti l’ampio volume del 1954, con l’eccezione dell’ultimo. Il motivo di questa collocazione cronologica non è casuale ed è spiegato bene dalla prefazione del curatore: se nel periodo giovanile di Lukács l’affermazione del carattere progressivo della dialettica, contrapposta, come in Storia e coscienza di classe, alle «antinomie del pensiero borghese», riguarda essenzialmente il problema dell’attualità della rivoluzione, gli scritti degli anni ’30-’40 sono inseriti nel contesto completamente mutato della resistenza all’avanzata nazifascista. Infranca pone l’accento sul carattere politico ed etico di questa lotta, che viene intesa come una vera e propria battaglia per il futuro dell’umanità. La rivendicazione del carattere progressivo della filosofia dialettica assume il significato di una difesa di tutte le conquiste sociali e culturali del movimento che si richiama a questa grande tradizione.
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Pluriverso
di Sergio Messina
Ecologie della trasformazione, rubrica a cura di Emanuele Leonardi
Una delle sfide più importanti dell’umanità contemporanea è quella di sapersi orientare in un mondo a crescente complessità. Ancor più difficoltoso risulta definire linee di azione e di trasformazione comuni che facciano capo a differenti contesti geografici ed esistenziali, i quali tuttavia condividono o possono condividere orizzonti di ricerca-azione trasversali.
Uno degli strumenti basilari che consente di porre in essere tale impegnativo percorso (che investe tanto il piano individuale, quanto quello collettivo) è l’individuazione di parole-chiave sia per il presente, sia per l’avvenire. Parole-chiave che sono state spesso dispiegate attraverso la costruzione di un dizionario, il quale si differenza dalle enciclopedie perché mentre queste ultime assumono una funzione teorica e conoscitiva per una determinata branca del sapere o dello stesso sapere universalmente inteso, il primo costituisce una cassetta degli attrezzi immediatamente operativa.
Ciò che di primo acchito balza agli occhi è che Pluriverso (Orthotes Editrice) è un dizionario elaborato sulla falsariga di precedenti lavori (ad esempio il Dizionario dello sviluppo, curato da Wolfgang Sachs, Staying Alive: Women, Ecology and Development di Vandana Shiva, sulla decrescita progettato da Giacomo D’Alisa, Federico Demaria e Giorgio Kallis, ecc.) ma con la differenza che esso rappresenta ancor più marcatamente un quadro non solo di concetti in senso lato ma anche di realtà viventi, di azioni e strategie collettive, di risorse valoriali e politiche che si pongono in alternativa allo spazio-tempo liscio e atonale del neoliberismo.
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Tre anni dopo cosa resta dei “gilet gialli”
di Joseph Confavreux e Fabien Escalona
Francia, perché l’impennata dei prezzi non porta a un’esplosione sociale? Non c’è un legame meccanico tra un contesto e una mobilitazione. Inchiesta di Mediapart
La primavera sarà calda, l’autunno sarà turbolento, l’inverno sarà incessante… Così come la retorica militante ha spesso cercato di mobilitare le sue truppe annunciando in anticipo movimenti che non sempre si sono verificati, sembra difficile spiegare l’assenza di mobilitazione quando il contesto sembra prestarsi ad essa.
La coincidenza tra i prezzi della benzina più alti che mai e il terzo anniversario della rivolta dei “gilet gialli” solleva domande sulle ragioni dell’attuale apatia sociale: la prospettiva delle elezioni presidenziali e il confronto elettorale? Specificità della mobilitazione delle rotonde troppo inedite? La portata della repressione è stata realizzata? Assenza strutturale di correlazione tra mobilitazioni sociali e condizioni socio-economiche? Effetti di coda lunga dell’epidemia di coronavirus?
Quando, il 17 novembre 2018, il movimento dei Gilet Gialli è emerso, ha colto di sorpresa gli osservatori e le autorità. Questi ultimi riuscirono a spegnerlo solo dopo molti mesi, ricorrendo contemporaneamente a un’intensa repressione e a varie procedure pseudo-deliberative. All’epoca, l’annuncio di un aumento della tassazione sul carburante ha fornito la scintilla per la mobilitazione, che è stata originale nella sua forma, nella sua sociologia e nei suoi metodi di azione. Più in generale, la questione dei vincoli di spesa è stata al centro della conversazione nazionale.
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Prefazione al volume I delle opere di Costanzo Preve
di Carlo Formenti
Costanzo Preve: Opere di Costanzo Preve. Vol. 1: Il nemico principale, Inschibboleth , 2021
In questa Prefazione mi occuperò del primo dei testi riuniti in questo volume, (Finalmente! L’atteso ritorno del nemico principale. Considerazioni politiche e filosofiche). Nella parte iniziale di tale testo leggiamo la seguente citazione: “Il nemico principale è sempre quello che è insieme più nocivo e più potente. Oggi è il capitalismo e la società di mercato sul piano economico, il liberalismo sul piano politico, l’individualismo sul piano filosofico, la borghesia sul piano sociale, e gli Stati Uniti d’America sul piano geopolitico”. Il brano è tratto da un articolo del filosofo francese di destra Alain de Benoist. Una scelta che appartiene al repertorio di gesti provocatori che ha caratterizzato l’ultima stagione produttiva di Costanzo Preve.
Non ho mai avuto modo di conoscere Preve di persona, né di parlargli. L’unico rapporto che ho avuto con lui è stato nelle vesti di caporedattore del mensile “Alfabeta”(ruolo che ho svolto negli anni Ottanta), quando Preve ci venne proposto come collaboratore da Francesco Leonetti. Non sono quindi in grado di stabilire se le provocazioni in questione nascessero dall’irritazione e dal disgusto nei confronti di una sinistra in avanzata fase di decomposizione sul piano politico, ideologico e filosofico (per cui Preve gioiva malignamente nell’evidenziare che, per leggere certe verità, si era ormai costretti a rivolgersi altrove), oppure se – almeno nel caso in questione – il fatto di potersi rispecchiare in una serie di affermazioni che riteneva condivisibili prevalesse sull’appartenenza ideologica del loro autore.
Sciogliere questo dubbio mi sembra francamente secondario rispetto a un dato di fatto: i detrattori di Preve si sono concentrati esclusivamente sulla fonte della citazione, ignorandone completamente il contenuto (per tacere del modo in cui Preve lo interpreta e approfondisce).
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Il senso della scienza per il dominio di classe
di Sebastiano Isaia
Joachim Sauer, marito della Cancelliera tedesca Angela Merkel e chimico quantistico di fama internazionale, si dice «dispiaciuto di quella parte di popolazione tedesca che semplicemente ignora la realtà per ragioni illogiche, come chi non crede nei vaccini», e non riesce a capire perché così tante persone «non vogliono dare retta alla razionalità scientifica, non trovano l’ingresso nel mondo razionale» (La Stampa). Ma non è che è proprio la realtà della società capitalistica (mondiale, non solo tedesca o europea) a essere palesemente e grandemente illogica e irrazionale, nonostante il larghissimo uso che essa fa della scienza e della tecnica? Non è che siamo in presenza di una scienza e di una tecnologia al servizio, fondamentalmente, del Capitale e non dell’Umanità? E ancora, chi ci assicura che lo “zoccolo duro” di chi continua a non fidarsi della scienza, nonostante «lo sviluppo dei vaccini rappresenti», sempre secondo il nostro chimico quantistico, «una grande vittoria della scienza», non sia in realtà l’espressione, una delle tante e certamente oggi quella più eclatante e difficile da accettare per la massa dell’opinione pubblica, di una sfiducia assai più diffusa nei confronti della Civiltà capitalistica? Una sfiducia, beninteso, istintiva, “a pelle”, ossia non elaborata concettualmente e non compresa nelle sue reali cause.
Queste domande interrogano, io credo, soprattutto l’anticapitalista, il quale oggi si trova nella tristissima condizione, che peraltro ha radici storiche e sociali tutt’altro che misteriose e incomprensibili (vedi la catastrofe stalinista e le continue rivoluzioni economico-sociali capitalistiche), di non avere alcun tipo di influenza nemmeno sulla parte più disagiata e offesa dell’umanità, quella che da una rivoluzione sociale avrebbe tutto da guadagnare e nulla o pochissimo da perdere.
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Che cos’è il «Rifiuto del Lavoro»? Mario Tronti
di Leo Essen
Nel 1962, sul numero 2 dei Quaderni Rossi, Tronti scrive un saggio destinato a fare epoca: La fabbrica e la società. In esso sono generalizzate alcune indicazioni contenute nei capitoli 13 e seguenti del primo libro del Capitale.
Nel capitolo sulle Macchine, Marx dice che la rivoluzione nel modo di produzione di una sfera dell’industria porta con sé la rivoluzione del modo di produzione nelle altre sfere. Questo vale in primo luogo per quelle branche dell’industria che sono sì isolate a causa della divisione sociale del lavoro, cosicché ognuna di esse produce una merce indipendente, ma tuttavia s’intrecciano l’una con l’altra come fasi d’un processo complessivo. Così la filatura meccanica rese necessaria la tessitura meccanica, e l’una e l’altra insieme resero necessaria la rivoluzione chimico-meccanica della candeggiatura, della tintura e della stampatura dei tessuti. Così d’altra parte la rivoluzione nella filatura del cotone rese necessaria l’invenzione del gin per la separazione delle fibre del cotone dal seme, con il che divenne possibile finalmente la produzione su larga scala com’è ora richiesta. La rivoluzione nel modo di produzione dell’industria e dell’agricoltura rese necessaria, in ispecie, anche una rivoluzione nelle condizione generali del processo sociale di produzione, cioè nei mezzi di comunicazione e di trasporto. Come i mezzi di comunicazione e di trasporto di una società il cui pivot erano la piccola agricoltura con la sua industria domestica ausiliaria e l’artigianato urbano, non potevamo più soddisfare affatto le necessità produttive del periodo manifatturiero con la sua divisione allargata del lavoro sociale, la sua concentrazione di mezzi di lavoro e operai, e i suoi mercati coloniali, e quindi vennero di fatto rovesciati; così i mezzi di comunicazione e di trasporto tramandati dal periodo della manifattura si trasformarono presto in impacci insopportabili per la grande industria, con la sua febbrile velocità di produzione, con la sua produzione su vastissima scala, con il costante lancio di grandi masse di capitale e di operai da una sfera all’altra della produzione e con i nuovi nessi da essa creati sul mercato mondiale.
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Probabilità e dogmatismo aggressivo
di Andrea Zhok
Nell'intento di mantenere forme di confronto civile in una situazione che sta travalicando da tempo civiltà e decenza, propongo di riflettere sull’attuale vicenda della strategia pandemica a partire dal problema generale dell’idea di probabilità.
È possibile, almeno in parte, descrivere le attuali divergenze tra chi accondiscende all’inoculazione, per sé e/o per i propri figli, e chi non lo fa, in termini di diversità nella valutazione di probabilità.
In una valutazione costi-benefici relativi ad una certa azione noi siamo chiamati a giudicare alcuni scenari possibili, attribuendovi un valore, e poi a considerare la probabilità che questo scenario si presenti.
La questione che dobbiamo affrontare innanzitutto è: esiste un modo in cui possiamo fissare queste probabilità in modo definito ed obiettivo?
Per fissare le idee è utile rimandare alle tre principali concezioni esistenti della probabilità (versione un po’ semplificata, non me ne vogliano matematici e statistici).
In primo luogo abbiamo la concezione classica o logicista della probabilità, definita come rapporto tra casi positivi (realizzazioni) e casi possibili. Questa definizione è perfettamente chiara e idealmente predittiva: di principio un dado ideale a sei facce ha una probabilità di 1/6 che ciascuna faccia appaia verso l’alto in ciascuno lancio.
Il problema di questa concezione è che funziona in modo rigoroso solo nei limiti in cui abbiamo a che fare con entità ideali, con enti matematici, ma nel mondo reale non fornisce nessuna garanzia. Nessun dado reale è davvero perfettamente uniforme dal punto di vista dell’omogeneità del peso, dei materiali, degli attriti, e per verificare se davvero un certo dado materiale sia all’altezza del dado ideale l’unica cosa da fare è svolgere un gran numero di lanci, controllando se la distribuzione delle occorrenze delle diverse facce sia equilibrata.
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