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Come il Neoliberalismo ha cambiato le città
Abitare in Italia e in Europa: un confronto
di Alessandro Coppola
La casa e quartieri, esiti e squilibri di un grande esperimento di neoliberalizzazione. Milano e l’Italia in un confronto europeo
Ricorre spesso in Italia una discussione sulla maggiore o minore pertinenza dell’uso della categoria del “neoliberalismo” nell’analisi della traiettoria delle politiche pubbliche degli ultimi trent’anni. Per alcuni c’è stato eccome, per altri si tratta invece di un inganno ideologico. Per i primi, le privatizzazioni, l’austerità, le esternalizzazioni di politiche e servizi pubblici sarebbero la riprova della pertinenza dell’uso di quel concetto. Per i secondi, il persistere di un livello elevato di spesa pubblica viceversa ne smentirebbe la pertinenza. Complessivamente, chi scrive concorda con chi – e sono molti, e autorevoli – pensa che il neoliberalismo non sia stato un progetto di mera de-statizzazione della società, bensì di profonda riarticolazione del ruolo dello stato, delle sue finalità come della sua strumentazione. E che quindi il permanere di una spesa pubblica elevata, o di un ruolo rilevante da parte dello stato, non siano di per sé dimostrazione della non pertinenza di quella categoria nell’analisi del caso italiano. Al di là di come ci si collochi in questa tenzone, è tuttavia possibile osservare come se c’è in Italia un ambito di politica pubblica dove si è potuta misurare una chiara ed inequivoca torsione neoliberale questo è la politica delle città, latamente intesa.
Tale torsione ha qui assunto una forma tradizionale di drastica riduzione del ruolo sia regolativo sia di intervento diretto dello stato e di contestuale apertura al mercato. A partire dagli anni 90, il trattamento pubblico di diversi oggetti che hanno a che fare con la vita delle città è stato ri-organizzato attorno al principio della preminenza dello scambio di mercato in una misura che, come vedremo, non ha sostanzialmente paragoni fra i paesi europei a noi più vicini.
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La governanza dell’Unione Europea
di Giuliana Commisso
L’incapacità rivelata
Nel discorso sullo Stato dell’Unione Ursula von der Leyen ha platealmente rivelato l’impotenza e l’incapacità politica sua e della Commissione europea di andare oltre i tentativi di gestione delle contingenze, chiedendo a Mario Draghi di disegnare un futuro “competitivo” per l’UE prescindendo dagli esiti della consultazione elettorale del 2024.
Qualche giorno prima dell’investitura a riformatore della governance sulle pagine dell’Economist Draghi rimarcava che “sarebbe deleterio tornare ai vecchi ‘paletti’ fiscali pre-pandemia”. Invocava la necessità di “nuove regole nell’Eurozona e di più sovranità condivisa” nonché “ingenti investimenti in tempi brevi, tra cui la difesa, la transizione verde e la digitalizzazione”[1]. Per farlo – rimarcava – occorre “superare quelle regole di bilancio e quelle norme sugli aiuti di Stato che limitano la capacità dei singoli Paesi di agire in maniera indipendente”. Durante la presidenza della BCE Draghi aveva coniato il termine “pilota automatico” per definire quell'insieme di strumenti di disciplina fiscale che avrebbero garantito la rigida applicazione dell’austerità e delle politiche neoliberiste in ciascun Paese membro dell’Unione Europea a prescindere dall'indirizzo politico del governo di turno. Ci sono buone ragioni per dubitare che possa rinunciare all'eredità ordoliberale nel disegnare ex novo una costituzione europea.
La vecchia dialettica tra Stato e mercato, fra statalismo socialista e mercato capitalista, e un loro compromesso social-democratico, non ha più ragione di essere da quando l’accumulazione capitalistica di valore si è definitivamente scollata dalle economie nazionali.
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A proposito del cosiddetto capitalismo woke
di Carlo Formenti
Carl Rhodes: Capitalismo woke. Come la moralità aziendale minaccia la democrazia, Fazi Editore, 2023
Leggendo il libro dell’australiano Carl Rhodes, esperto di teorie dell’organizzazione e docente dell’Università di Sidney (Capitalismo woke. Come la moralità aziendale minaccia la democrazia, Fazi editore) è difficile non rendersi conto di un paradosso: scritto con l’intenzione di denunciare i veri obiettivi politici che si nascondono dietro la svolta “progressista” di alcune grandi imprese multinazionali, finisce invece per svelare (sia pure involontariamente) le ragioni per cui la sinistra “politicamente corretta”, con la quale Rhodes si identifica, ha poche chance di contrastare gli obiettivi in questione.
Partiamo dal senso del termine woke, ormai di uso comune nel mondo anglofono ma che non tarderà a diffondersi in un’Europa sempre più “americanizzata”. Coniato dagli afroamericani nel contesto dei movimenti per i diritti civili degli anni Sessanta, e rilanciato nel corso delle mobilitazioni del movimento Black Lives Matter, nato per protestare contro gli assassinii a sangue freddo di cittadini neri ad opera di poliziotti bianchi (sistematicamente impuniti), è stato adottato anche dalle altre componenti della nuova sinistra Usa con il significato di essere attento, sensibile e ben informato rispetto a ogni genere di discriminazione e ingiustizia razziale o sociale (in particolare Rhodes elenca temi come sessismo, razzismo, ambientalismo, diritti LGBTQI+ e disuguaglianza economica, quest’ultima lasciata non a caso per ultima, ma su ciò tornerò più avanti).
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Oppenheimer: dal dilemma morale alla scienza di classe. Una recensione marxista del film di Nolan
di Domenico Cortese
«Ricorda quando temevamo che la costruzione della bomba avrebbe potuto mettere in moto una reazione a catena che avrebbe distrutto il mondo? Penso che lo abbiamo fatto». È la frase con cui Cillian Murphy, che interpreta Robert Oppenheimer, chiude la scena finale del biopic di Christopher Nolan, diventato in pochissimi giorni il film del noto regista più visto in Italia e che si considera già uno dei favoriti alla vittoria degli Oscar del prossimo anno. Oppenheimer ha la caratteristica di introdurre diversi quesiti, nel dibattito pubblico, circa la natura e la legittimità di determinate scelte nella ricerca scientifica una volta preso atto che essa è legata drasticamente a una certa linea politico-ideologica. Le risposte che il film trasmette allo spettatore, tuttavia, com’è evidente dalla citazione messa in apertura, hanno a che fare molto astrattamente con il dilemma morale soggettivo dello scienziato per aver inventato una tecnica di distruzione di massa e ignorano quasi del tutto l’evidenza dei conflitti sociali insanabili – sul piano nazionale e globale – che porteranno al primo utilizzo della bomba nucleare e al clima della guerra fredda, conflitti che pure hanno un ruolo importante nello sviluppo della narrazione sulla vita del protagonista.
Su questa contraddizione del film ci vogliamo oggi concentrare, focalizzandoci soprattutto su tre aspetti: l’approccio socialmente impegnato degli scienziati del circolo di Oppenheimer e l’idea di scienza che questo richiama, i limiti della resa cinematografica degli interessi personalistici che conducono all’accanimento su Oppenheimer e, di conseguenza, il non-detto del film sulle radici di classe del processo allo scienziato e della strategia atomica degli USA.
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Un anno di bugie sul Nord Stream
di Seymour Hersh
L'amministrazione Biden non ha riconosciuto la propria responsabilità nell'attentato al gasdotto né lo scopo del sabotaggio
Non so molto delle operazioni segrete della CIA - nessun estraneo può farlo - ma so che la componente essenziale di tutte le missioni di successo è la totale negabilità. Gli uomini e le donne americani che si sono mossi, sotto copertura, dentro e fuori la Norvegia nei mesi necessari per pianificare e portare a termine la distruzione di tre dei quattro gasdotti Nord Stream nel Mar Baltico un anno fa, non hanno lasciato alcuna traccia - nemmeno un accenno all'esistenza della squadra - se non il successo della loro missione.
La negabilità, come opzione per il presidente Joe Biden e i suoi consiglieri di politica estera, era fondamentale. Nessuna informazione significativa sulla missione è stata inserita in un computer, bensì digitata su una Royal o forse su una macchina da scrivere Smith Corona con una o due copie carbone, come se Internet e il resto del mondo online non fossero ancora stati inventati. La Casa Bianca era isolata dagli avvenimenti nei pressi di Oslo; i vari rapporti e aggiornamenti dal campo venivano forniti direttamente al direttore della CIA Bill Burns, che era l'unico collegamento tra i pianificatori e il presidente, il quale autorizzò la missione il 26 settembre 2022. Una volta completata la missione, i fogli dattiloscritti e i carboni sono stati distrutti, senza lasciare alcuna traccia fisica, nessuna prova che possa essere dissotterrata in seguito da un procuratore speciale o da uno storico presidenziale. Si potrebbe definire il crimine perfetto.
C'era una falla, un divario di comprensione tra coloro che hanno portato a termine la missione e il Presidente Biden, sul perché avesse ordinato la distruzione degli oleodotti quando l'ha fatto. Il mio rapporto iniziale di 5.200 parole, pubblicato all'inizio di febbraio, si concludeva in modo criptico citando un funzionario a conoscenza della missione che mi diceva: "Era una bella storia di copertura". Il funzionario ha aggiunto: "L'unico difetto era la decisione di farlo".
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Contro l’Imperialismo, anche se tricolore!
di Konrad Nobile
Due rivendicazioni di molti attuali movimenti italiani di “dissenso” sono l’uscita dell’Italia dalla NATO e la chiusura delle basi americane presenti da decenni sul suolo nazionale, tributo da pagare per la sconfitta nella seconda guerra mondiale (il tentativo della borghesia italiana voltagabbana di salire sul carro dei vincitori con l’armistizio dell’8 settembre 1943, pietra tombale della sovranità italiana, non ci esentò dal pagamento di tale tributo). Tali rivendicazioni sono sacrosante, essendo intollerabile ed umiliante pensare al fatto che la terra in cui viviamo sia sotto occupazione da parte di truppe forestiere in armi, che nei nostri cieli decollino velivoli stranieri portatori di morte, da noi [1] e soprattutto altrove [2], e che la penisola italica venga pericolosamente usata come grande deposito per le armi (anche nucleari [3]) della più grande potenza globale.
Se tuttavia abbondano astio e critiche alla presenza americana in Italia non altrettanto si può dire su un altro tema collegato e sul quale diffusamente si tace: l’imperialismo italiano.
Lo Stato Italiano, stando ai dati ufficiali, dispiega attualmente circa 7.300 suoi militari in 24 paesi [4], dando un enorme contributo attivo a quelle missioni internazionali che non sono altro che operazioni di occupazione e brigantaggio imperialista, retoricamente edulcorate con definizioni come “peacekeeping” o “missioni umanitarie”.
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Educazione e violenza: parliamone. Alcuni elefanti nella stanza
di Andrea Muni

La morale insegnata senza precauzioni diventa una cattedrale deserta che [gli educati] temono, e di cui spaccano le vetrate, in spregio a questa vita collettiva che li esclude
(F. Deligny)
Che sorpresa! La gente – repressa, isolata, stordita da droghe legali, inselvatichita dallo sfruttamento e da tre anni di reclusioni – è “tendenzialmente” più infelice e più violenta
Sembra difficile negare che dal presunto ritorno alla normalità post-covid gli episodi di violenza siano in drammatico ed esponenziale aumento. Dai dati Eurispes del 2022 sui crimini violenti a quelli di Federfarma sull’abuso diffuso di psicofarmaci (per tacere di alcol e droghe), arrivando fino alle aberranti notizie della recentissima attualità, sono fin troppi gli indicatori di una vera e propria escalation. Non si tratta di allarmismo, ma dell’urgenza di inquadrare un fenomeno che, purtroppo, non si esaurirà nel giro di qualche mese. La violenza di genere, purtroppo sempre in auge, è senza dubbio l’ambito in cui ne vediamo emergere il lato più spaventoso, frequente e giustamente mediatizzato. Un secondo importante ambito di esacerbazione della violenza riguarda invece la zona grigia delle lesioni personali – dai furti violenti alle estorsioni, dalla gelosia (non solo sentimentale, ma anche in famiglia, tra compagni di lavoro o tra amici) alle aggressioni per futili motivi, dalle risse al bar o in discoteca ai litigi tra vicini e automobilisti per precedenze o parcheggi “rubati”. In terzo luogo troviamo il dato sugli omicidi volontari e preterintenzionali rilasciati dal Viminale il 23 luglio di quest’anno, che segnala un incremento del 4%.
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Dialettica dell’irrazionalismo
di Enzo Traverso
Da Dialettica dell’irrazionalismo. Lukács tra nazismo e stalinismo, Ombre Corte, Verona 2022
Paradossalmente, ciò che manca ne La distruzione della ragione è l’irrazionalismo nazista. Dopo aver dedicato centinaia di pagine a spiegare come la maggior parte delle correnti della filosofia tedesca si fossero così profondamente allontanate dall’eredità dell’Aufklälrung, il libro non cerca di studiare la loro incorporazione in una nuova forma razzista e imperialista di irrazionalismo. Non dedica alcun capitolo alla Weltanschauung nazista, che viene quasi ignorata ad eccezione, come abbiamo visto, di alcune citazioni tratte da Der Mythus des zwanzigsten Jahrhunderts di Alfred Rosenberg. Lukács insiste fin dall’inizio sul fatto che, invece di seguire una dinamica interna e “immanente”, la storia dell’irrazionalismo dovrebbe essere messa in relazione con alcune tendenze strutturali del capitalismo tedesco, ma non sembra molto interessato ad analizzare il modo in cui nichilismo, anti-umanesimo, razzismo, nazionalismo e imperialismo siano infine confluiti in una nuova ideologia sincretica. Egli segue il percorso del razzismo europeo da Gobineau a Rosenberg, passando per Gumplowicz, Woltmann e Chamberlain, cioè da un razzismo contemplativo a un razzismo “rigenerativo” che accoglieva le istanze del darwinismo sociale, ma non esamina la nascita di una nuova teoria razziale fondata sul “nordicismo”, l’eugenetica e una nuova concezione geopolitica – biologista e vitalista – dello “spazio vitale” (Lebensraum). Così, i nomi di Hans Günther, il pensatore ufficiale del razzismo nazista (Rassenkunde), Karl Haushofer, il geografo che teorizzò l’espansionismo tedesco in Europa orientale, e Friedrich Ratzel, il geografo del XIX secolo che forgiò il concetto di “spazio vitale”, non appaiono nel libro di Lukács.
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Lezioni ucraine – 2
di Enrico Tomaselli
Ad oltre un anno e mezzo dall’inizio dell’Operazione Speciale Militare, una panoramica a volo d’uccello sul conflitto consente se non di fare un bilancio, certamente di metterne in luce taluni aspetti significativi. Come spesso capita, il senso di determinati avvenimenti, pur del tutto noti, si coglie infatti solo a distanza. Il tentativo, quindi, è di abbozzare delle lezioni che si possono trarre dalla guerra in corso, esaminandone l’excursus dapprima dal punto di vista ucraino, poi da quello russo. In questa seconda parte si esaminerà la guerra dalla prospettiva russa.
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In questa seconda parte delle Lezioni Ucraine [1], si proverà ad analizzare i cambiamenti strategici e tattici intervenuti nel conflitto, da parte russa, a partire dall’avvio della OSM sino ad ora. La prima, e più interessante osservazione da fare è che il punto di vista russo, in questa guerra – e proprio a partire dalla scelta di definirla inizialmente come una Operazione Speciale – è mutato considerevolmente; forse non sempre tempestivamente, ma certo con grande flessibilità. Del resto, basta osservare il quadro generale internazionale, e più specificatamente quello del conflitto nei suoi aspetti bellici sul campo, per comprendere con grande evidenza come la Federazione Russa abbia gestito le mutevoli dinamiche della guerra molto meglio di quanto non abbia fatto la NATO; e ciò nonostante a Washington questo conflitto lo si è preparato da quasi vent’anni.
Come già detto precedentemente, si vuole qui analizzare la condotta strategica e tattica delle forze avverse, senza entrare più del necessario nelle motivazioni politiche che le hanno determinate. Ma, indiscutibilmente, tutta la prima fase della OSM è stata eminentemente politica.
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L’ipocrisia delle grandi potenze nel discorso all’ONU di Vucic
di Chiara Nalli
“I principi non si applicano solo ai forti, si applicano a tutti. Se non è così, allora non sono più principi”.
Il primo estratto del discorso del presidente serbo Vucic davanti all'Assemblea generale dell'ONU è apparso sulla stampa serba intorno alle 17.00 di giovedì 21 settembre. Il principale quotidiano del Paese ha titolato “Dov'era il diritto internazionale quando avete attaccato la Serbia?”. E se il resoconto dei giornali nazionali è stato capace di suscitare un immediato entusiasmo, l’intero discorso, disponibile qui: https://www.youtube.com/watch?v=PXt1bBtHxVI - in inglese - può essere considerato, a pieno titolo, un intervento di portata storica. Tanto che la frase citata nel titolo è stata interrotta dagli applausi della sala.
In un consesso dominato dalle tematiche legate alla guerra in Ucraina, sgranellate dalla stampa con la consueta superficialità, il presidente serbo è intervenuto riportando al centro la vicenda del proprio Paese, sotto una duplice prospettiva: ricordando, da un lato, come le attuali situazioni di conflitto (con particolare riguardo all’Ucraina) siano in massima parte la conseguenza della violazione del diritto internazionale da parte delle grandi potenze, nell’ambito di un processo di espansione strategica avviato proprio con l’attacco NATO alla Serbia; dall’altro - denunciando l’attuale stato delle relazioni con il Kosovo, in cui le stesse superpotenze - USA e UE - coinvolte come meditatori, applicano sistematicamente “doppi standard” - capaci di portare alla cronicizzazione - o peggio l’inasprimento - del conflitto.
Vucic ha scelto di parlare del proprio Paese, con la consapevolezza della dimensione universale, profondamente politica e attuale, insita nella sua storia e nella sua posizione strategica:
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Il Nietzsche metafisico di Heidegger
di Gianni Vattimo*
Martin Heidegger, Nietzsche, Adelphi, Milano 1994, ed. orig. 1961, trad. dal tedesco di Franco Volpi.
Nei corsi universitari degli anni ‘36-40 e negli altri testi (degli stessi anni) che sono raccolti nel volume su Nietzsche Heidegger legge il pensiero di Nietzsche in maniera del tutto originale rispetto alle interpretazioni che ne erano state date nei decenni precedenti, e che, sebbene avessero colto in generale il significato globale e radicale della critica nietzscheana, non aveva mai preso così intensamente sul serio la “pretesa” del filosofo di rappresentare una svolta epocale nella storia dello spirito europeo. Espressioni come quella che fa da titolo a un capitolo di Ecce homo, “Perché io sono un destino”, il più delle volte erano arse da mettere sul conto dell’incipiente pazzia di Nietzsche. Heidegger le prende invece sul serio, a modo suo; e proprio per questo la sua lettura di Nietzsche innova profondamente rispetto a quelle precedenti, anche quando abbiano la densità speculativa dello studio di Jaspers (uscito nel 1936) o di quello di Alfred Baeumler (forse troppo ingiustamente messo da parte, oggi, come nazista, uscito nel 1931). Il punto è che Nietzsche era stato generalmente inteso, prima di Heidegger, come un critico della Zivilisation o, secondo l’espressione di Dilthey, come un Lebensphilosoph — che non significa anzitutto un “filosofo vitali, ma un pensatore “esistenziale”, che non crede più alla filosofia come metafisica, come teoria generale dell’essere, ma che la esercita come una riflessione personale, spesso di carattere saggistico, secondo un modello che risale a Montaigne o anche al pensiero della tarda antichità.
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L’economia di guerra oggi
di Andrea Vento – Gruppo Insegnanti di Geografia Autorganizzati
L’inizio dell’Operazione militare russa in Ucraina il 24 febbraio dello scorso anno, grave escalation del conflitto iniziato nel 2014, ha inevitabilmente innescato un’ampia gamma di effetti principalmente riconducibili a tre distinte sfere, seppur tra loro interconnesse e interdipendenti. Gli analisti hanno, infatti, registrato significativi mutamenti:
1. nelle relazioni geopolitiche e geoeconomiche,
2. nella dinamica dell’economia mondiale oltre che nella sua struttura produttiva
3. nel ciclo economico e nei bilanci statali in primis dei Paesi coinvolti direttamente nel conflitto, e, seppur in misura minore, anche nei cosiddetti cobelligeranti e, perfino in quelli, maggioritari per numero, che hanno mantenuto una posizione neutralista.
La frattura geopolitica e geoeconomica
Nel contesto delle relazioni geopolitiche si è determinata una profonda frattura interna all’Europa delimitata dai confini occidentali di Russia e Bielorussia provocata non tanto dalla votazione dell’Assemblea Generale dell’Onu del 3 marzo 2022 di condanna dell’invasione russa dell’Ucraina, approvata da 141 Paesi su 193, quanto dall’introduzione delle misure restrittive promosse dagli Stati Uniti ai danni di Mosca e adottate da parte di 37 Paesi (pari a solo il 19% del totale) appartenenti al cosiddetto Occidente globale, vale a dire i Paesi Nato e i loro più fidati “alleati” nei vari scacchieri regionali (carta 1).
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Saint-Simon, precursore di Keynes
di Leo Essen
Andate a rileggere «Moneta e crisi» di Sergio Bologna, prendete questo testo del 1974 – dice Negri nel 78 – e ci troverete tutto ciò che è Autonomia Operaia.
Cosa fa Bologna in questo testo? Inizia la decostruzione – sacrosanta – della differenza tra capitale industriale e capitale finanziario.
In Lotte di classe in Francia, Marx definisce l’aristocrazia finanziaria come la riproduzione del sottoproletariato alla sommità della società borghese, e, dunque, gli attribuisce tutte le caratteristiche del Lumpen (arretratezza, parassitismo, furto, infamia, eccetera).
In questo giudizio storico, dice Bologna, si trova tutto il Manchesterismo di Marx. Si trova quella partizione tra lavoro produttivo (industriali e proletari) e lavoro improduttivo e parassitario (finanza e sottoproletariato – e attaché di Stato).
Nel 50 Marx dice che l’aristocrazia finanziaria non esprime il momento core del capitale, ma solo un aspetto, per così dire, accessorio. Eppure, dice Bologna, nel 56 il punto di vista cambia e la banca diventa il punto di partenza per l’analisi dell’intera borghesia. Cos’è successo?
È successo che in Francia Emile e Isaac Péreire fondano il Crédit Mobilier e lanciano il socialismo bonapartista. Marx intuisce di trovarsi di fronte a un mutamento nei meccanismi di estrazione di plusvalore.
Bonaparte, dice Bologna, non poteva più contare su un controllo diretto dalla forza lavoro di fabbrica. Una classe operaia che aveva fatto il 48, dice, non si lasciava più sfruttare oltre certi limiti, pagare sotto certi limiti.
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Il rompicapo della ricomposizione dentro le rivolte della banlieue
Intervista ad Atanasio Bugliari Goggia
Frutto di una lunga ricerca sul campo, Atanasio Bugliari Goggia ha scritto, per i tipi di Ombrecorte, due importanti volumi sulle lotte e le organizzazioni politiche di banlieue. Dopo le rivolte di giugno è stato intervistato da diverse riviste e siti italiani, tuttavia abbiamo sentito ugualmente la necessità di interrogarlo per approfondire alcuni temi che ci sono sembrati trascurati e che invece riteniamo di primaria importanza: dal rapporto tra la composizione di classe delle rivolte e le organizzazioni politiche al problema della ricomposizione tra pezzi di proletariato metropolitano, separati da una linea del colore che alimenta le più feroci forme di razzismo. Nessuno possiede ed è in grado di praticare le soluzioni ai problemi discussi nell’intervista, tuttavia il nostro ospite ci offre un’importante indicazione: solo la forza delle lotte riesce a rendere appetibile la pratica della ricomposizione e a spezzare la linea del colore. Al contrario tutte le altre forme liberali di antirazzismo non fanno che confermare, anche se con un segno diverso, quella separazione che rappresenta il nostro principale problema politico. Con questa intervista inauguriamo, insieme alla sezione «vortex», un piccolo dossier sulla Francia in vista del dibattito con Louisa Yousfi, Houria Bouteldja e lo stesso Atanasio Bugliari Goggia, che si terrà a Bologna il 22 Settembre all’interno del «Festival Kritik 00» organizzato da Punto Input, Machina e DeriveApprodi.
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In altre interviste hai offerto una spiegazione delle rivolte inserendole nel quadro di crisi economica e sociale che ormai attanaglia da diversi lustri tutta l’Europa. È possibile individuare altri elementi che ci aiutino a comprendere il fenomeno? Ad esempio il tema dell’integrazione mi sembra un aspetto centrale, soprattutto in un paese come la Francia dove, tra le altre cose, esiste il diritto di suolo. Cosa ne pensi?
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Lezioni ucraine – 1
di Enrico Tomaselli
A oltre un anno e mezzo dall’inizio dell’Operazione Speciale Militare, una panoramica a volo d’uccello sul conflitto consente se non di fare un bilancio, certamente di metterne in luce taluni aspetti significativi. Come spesso capita, il senso di determinati avvenimenti, pur del tutto noti, si coglie infatti solo a distanza. Il tentativo, quindi, è di abbozzare delle lezioni che si possono trarre dalla guerra in corso, esaminandone l’excursus dapprima dal punto di vista ucraino, poi da quello russo. In questa prima parte si esaminerà pertanto dalla prospettiva di Kiev.
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Le lezioni che la guerra ucraina sta fornendo sono svariate, ed alcune anche molto interessanti. Il fatto che il conflitto si collochi in un passaggio cruciale della Storia, anzi che ne sia un importante fattore di accelerazione, rischia naturalmente di offuscarle, di renderle meno evidenti. Anche solo da un punto di vista strettamente militare, però, ci sarebbe molto da imparare – e per quanto è possibile vedere/sapere, dall’altra parte dell’Atlantico non sembra che stiano imparando molto. Eppure, nessuno più del Pentagono avrebbe interesse a trarre insegnamenti da questo conflitto.
In ogni caso, un tentativo di analisi merita di essere fatto, se non altro come contributo ad una possibile (ed auspicabile) riflessione generale sul tema.
Fermo restando che non c’è ovviamente paragone possibile, in termini di potenza strategica, tra Russia ed Ucraina, è però indubitabile che il 24 febbraio 2022 quello che si apre è sostanzialmente un conflitto simmetrico: le forze in campo sono complessivamente equiparabili, quanto meno nel senso che le varie disparità che le caratterizzano sono in qualche modo compensative.
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Monolite Barbie. Giudicare i film dai loro paratesti
di Antonio Casto
1. Introduzione: «L’hai visto? Dicono che…»
Vorrei dimostrare che già da alcuni anni è possibile spesso giudicare un film senza averlo visto, affidandosi tranquillamente ai suoi trailer, alla frequenza con cui spunta tra le sponsorizzazioni televisive o web, alla quantità di meme e mashup che lo riguardano che si riversano nei social, alla portata ed estensione del suo merchandising, alla diffusione nelle liste di «film dell’anno», alla proliferazione di tweet e articoli che ne parlano, alla visibilità che gli viene assegnata in critiche e recensioni, soprattutto all’intensità dei “l’hai visto?”, dei “che ne pensi?”, dei “devo ancora vederlo”, dei “dicono che” o “pare che” dei conoscenti: tutti segnali inequivocabili che il film (o se è per questo qualsiasi altro oggetto o fatto) è momentaneamente à la page, che «si porta», che è felicemente riuscito a trasformarsi in carrozzone virale su cui sarà obbligatorio arrampicarsi tutti come scalmanati per dire ognuno la propria, dal critico squisito alla casalinga di Voghera, prima che sia troppo tardi e il veicolo scompaia (per sempre) all’orizzonte (nel migliore dei casi entro qualche settimana).
Tutti questi elementi “intorno” al film non sono quasi mai fenomeni accessori e ausiliari, che emergono dal valore stesso dell’opera e si consolidano gradualmente nel tempo, ma piuttosto segnali appariscenti del fatto che la produzione ha efficacemente investito sul marketing più che sul prodotto. E perciò stesso abbiamo il diritto, mi sembra, di dare più valore ai contenuti del primo che a quelli del secondo.
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È l’imperialismo umanitario che ha creato l’incubo libico
di Chris Hedges* – Scheerpost
“Siamo venuti, abbiamo visto, è morto” ironizzò Hillary Clinton quando Muammar Gheddafi, dopo sette mesi di bombardamenti degli Stati Uniti e della NATO, fu rovesciato nel 2011 e ucciso da una folla che lo sodomizzava con una baionetta. Ma Gheddafi non sarebbe stato l’unico a morire. La Libia, un tempo il paese più prospero e uno dei più stabili dell’Africa, un paese con assistenza sanitaria e istruzione gratuite, il diritto per tutti i cittadini a una casa, elettricità, acqua e benzina sovvenzionate, insieme al tasso di mortalità infantile più basso e alla alta aspettativa di vita nel continente, insieme a uno dei più alti tassi di alfabetizzazione, si è rapidamente frammentata in fazioni in guerra. Attualmente ci sono due regimi rivali in lotta per il controllo della Libia, insieme a una serie di milizie canaglia.
Il caos che seguì l’intervento occidentale vide le armi degli arsenali del paese inondare il mercato nero, molte delle quali sequestrate da gruppi come lo Stato Islamico. La società civile cessò di funzionare. I giornalisti ripresero immagini di migranti provenienti dalla Nigeria, dal Senegal e dall'Eritrea picchiati e venduti come schiavi per lavorare nei campi o nei cantieri edili. Le infrastrutture della Libia, comprese le reti elettriche, le falde acquifere, i giacimenti petroliferi e le dighe, caddero in rovina. E quando ci sono piogge torrenziali come Storm Daniel – la crisi climatica è un altro regalo all’Africa da parte del mondo industrializzato – che ha travolto due dighe decrepite, muri d’acqua alti 20 piedi si sono precipitati giù per inondare il porto di Derna e Bengasi, provocando fino a 20.000 morti secondo Abdulmenam Al-Gaiti, sindaco di Derna e circa 10.000 dispersi.
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Una storia del conflitto politico
di Joseph Confavreux
Riceviamo e pubblichiamo volentieri la traduzione, a cura di Salvatore Palidda, di un recente articolo di Joseph Confavreux. Si tratta della recensione di «Une histoire du conflit politique», di Julia Cagé e Thomas Piketty, un libro ritenuto da più parti importante perché sfida la politologia con un approccio multidisciplinare assai poco praticato
Nelle librerie venerdì 8 settembre, Une histoire du conflit politique (Le Seuil), a cura di Julia Cagé e Thomas Piketty, è già ai vertici delle vendite di “saggistica”. Perché questa zona arida di geografia elettorale incontra un tale successo, anche se le sue conclusioni sono raramente controintuitive e la parte esigente del mondo della ricerca ne giudica molti degli elementi sintetizzati come già noti? La risposta è dovuta solo in parte alla notorietà dei suoi autori e ai meccanismi ben rodati di una promozione che riserva al gruppo Le Monde e a Radio France il diritto di rompere l’embargo prima della pubblicazione a cui sono chiamati a resistere altri giornalisti. Il successo di pubblico e mediatico del libro è dovuto soprattutto al fatto che sono pochi i ricercatori che sperano niente meno che trovare soluzioni concrete alle disfunzioni della democrazia francese, all’impasse della vita politica del paese e alle disuguaglianze che ne minano i contorni. Il lavoro estende spesso alcune analisi e proposte già sviluppate in Il capitale nel XXI secolo di Thomas Piketty (2018) e Il prezzo della democrazia di Julia Cagé (Baldini & Castoldi, 2020).
Ancora meno numerosi sono i ricercatori che sviluppano database tanto voluminosi quanto nuovi per supportare le loro dimostrazioni – pur disponendo delle risorse finanziarie e umane. Il lavoro di Cagé e Piketty, con il sito eccezionale per accessibilità ed esaustività ad esso allegato (unehistoireduconflitpolitique.fr), costituisce infatti uno strumento che talvolta va oltre quelli della statistica pubblica.
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Un'analisi della situazione attuale dello scontro armato tra NATO e Russia
di Sergey Slessarenko*
L’operazione militare russa in Ucraina dura ormai da più di 500 giorni; la maggior parte dei conflitti moderni che attraversano quel limite si protraggono. Dopo il 26 aprile 2022, quando presso la base aeronautica di Ramstein in Germania si è svolto il primo incontro dei rappresentanti di 40 paesi occidentali sulla questione delle forniture di armi all’Ucraina, questo conflitto si è trasformato in uno scontro armato tra Russia e Occidente. Di conseguenza, uno scontro così lungo si sta trasformando in una corsa di complessi militare-industriali e le sue prospettive possono già essere valutate.
Nel marzo di quest’anno, Michael McCaul, presidente della commissione per gli affari esteri della Camera dei rappresentanti degli Stati Uniti, ha affermato che dei quattro pacchetti di aiuti stanziati per l’Ucraina per 113 miliardi di dollari, circa il 60% è andato al complesso militare e militare-industriale degli Stati Uniti per modernizzare le scorte di armi e attrezzature militari. Sembrerebbe che dopo tali iniezioni la produzione del complesso militare-industriale avrebbe dovuto crescere come lievito, ma ciò non sta accadendo.
600 milioni di dollari sono andati direttamente alla Direzione delle Capacità di Produzione della Difesa del Pentagono. Di tale importo, 45,5 milioni di dollari sono andati ad Arconic per espandere la produzione di alluminio di alta qualità. Il fatto è che la Russia controlla oltre il 75% del mercato mondiale dell’alluminio di alta qualità, necessario per la produzione di aerei a reazione e varie attrezzature militari. Ora l’accesso degli Stati Uniti all’alluminio russo è limitato.
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L’Ucraina è in ginocchio e l’Europa alla canna del gas
Giorgio Monestarolo intervista il gen. Fabio Mini
La guerra in Ucraina continua senza che se ne veda la fine. Ma dal febbraio 2022, data di inizio di questa ultima cruenta fase, molto è cambiato, nei luoghi delle operazioni belliche e nello scenario internazionale. Ci sono, al riguardo, analisi critiche anche dall’interno delle forze armate impiegate nei combattimenti. In particolare negli Stati Uniti, ma non solo. Tra le altre spicca, in Italia, quella di Fabio Mini, generale di corpo d’armata a riposo, già capo di stato maggiore del Comando Nato per il Sud Europa e, dall’ottobre 2002 all’ottobre 2003, comandante delle operazioni di pace a guida Nato in Kosovo, nell’ambito della missione KFOR (Kosovo Force). Mini interviene nel dibattito pubblico da vent’anni (è del 2003 il suo primo libro, La guerra dopo la guerra. Soldati, burocrati e mercenari nell’epoca della pace virtuale, pubblicato da Einaudi) e collabora con varie testate, tra cui Limes, la Repubblica e il Fatto Quotidiano. Da ultimo ha pubblicato, per Paper First, Europa in guerra. Sulla situazione dell’Ucraina lo ha intervistato, per Volere la Luna, Giorgio Monestarolo.
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A un anno e mezzo dallo scoppio del conflitto in Ucraina, la guerra sembra essere contenuta a mezzi convenzionali. Secondo molti osservatori, significa che la “deterrenza” sta funzionando, cioè il timore di un conflitto nucleare sta effettivamente mantenendo la guerra entro una cornice gestibile. Nel suo libro, L’Europa in guerra, Lei ritiene invece che la deterrenza non funzioni e che il rischio di una escalation nucleare sia reale.
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Il ponte dell’estrattivismo
di Antudo
Berlusconi non ha fatto in tempo, non è riuscito a veder posare neppure la prima pietra. Eppure, a dirla con franchezza, se quell’onore – si fa per dire – a qualcuno sarebbe dovuto toccare, è solo per l'ennesima prova di giustizia persecutoria che quel qualcuno non potrà mai più esser lui, il primo tenore tra i cantori delle Grandi Opere per un Grande Paese. In una delle frequenti visite profetiche a Messina, nel lontano 2009, tra l’inaugurazione di un plastico e l’altro, l’Unto del Signore si spinse a dire: “Abbiamo mantenuto l’impegno preso con i siciliani, con i calabresi, con tutto il Sud. Il ponte sullo Stretto da oggi è legge e domani sarà realtà”. È davvero una sorte ria quella che vuole il cavallo di battaglia del cavaliere per antonomasia sia finito oggi nelle mani di una triviale controfigura del tutto incapace di far ridere. Certo, prova a spararle grosse anche lui, quel guitto di quart’ordine: il “ponte degli italiani” sarà “la più grande operazione anti-mafia”. Niente da fare. Dall’ex giovane padano non fuoriesce che una parodia patetica della vecchia inarrivabile canaglia di Arcore che, a suo modo, l’ossessione della gioventù ha cercato di coltivarla fino alla fine dei suoi giorni e che di mafia e antimafia sapeva, lui sì, vita, morte e soprattutto miracoli. In questo articolo, il movimento Antudo sottolinea il carattere estrattivista della grande truffa che Matteo Salvini oggi riprova a cavalcare, armato però solo della consueta rozza propaganda e della bieca retorica che serve a coprire la macchina del bluff di sempre con una dozzina di miliardi.
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L’estrattivismo è una forma di accumulazione del capitale finanziario attraverso l’appropriazione della natura e dei beni comuni per convertirli in beni di consumo. […]
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Gomblotto: come le fantasie di complotto alimentano il regime
di Luca Busca
Excusatio non petita, accusatio manifesta
Chiedo venia per l’uso, peraltro occasionale, della prima persona singolare. In un articolo giornalistico questo espediente finisce per svilire la presunta oggettività che l’esposizione di una notizia dovrebbe restituire. Scrivere in prima persona colloca immediatamente l’opera nel mondo immaginario della fantasia o in quello reale dell’espressione di un opinione. Il secondo caso si avvicina molto alla narrazione che segue, racconto che tecnicamente sarebbe stato difficile realizzare in modo impersonale. In secondo luogo, in considerazione della lunghezza quello che segue assomiglia più a un piccolo saggio che a un articolo.
Ciò premesso, questo lavoro costituisce l’epilogo di due articoli da me scritti per Sinistrainrete (divide-et-impera-il-grande-complotto e una-dissidenza-dissennata-dissipa-il-dissenso) in cui esprimevo una forte incredulità in merito a come una larga fetta del dissenso, creato dalla scellerata gestione della pandemia prima e della guerra poi, si perdesse dietro “complottismi” palesemente inesistenti, screditando e indebolendo la diffusione della ribellione. Mi risultava del tutto incomprensibile come si potesse ancora negli anni ’20 del terzo millennio negare l’esistenza di una questione ambientale o, in altri casi, escluderne l’origine antropica per poi imputarla alle scie chimiche chiaramente generate dall’uomo, cadendo nella trappola della reductio ad unum dei cambiamenti climatici. Non ero in grado di decifrare la permanenza del complotto giudaico massonico e del potere occulto del “Deep State” nell’area critica nei confronti del pensiero unico neoliberista. Né come potesse sopravvivere quest’aura destrorsa, conservatrice, tradizionalista e fortemente cattolica in un movimento che si definiva “anticapitalista”.
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Crisi e teoria critica. Qualche modesto appunto
di Alessandro Visalli
Abbiamo assolutamente bisogno di una nuova teoria critica, che non dimentichi le lezioni dei nuclei più alti della storia delle lotte per l’emancipazione (e per quanto mi riguarda di quelle della vasta e multiforme tradizione marxista, ma si potrebbe aggiungere altro come la lezione della psicoanalisi e le teorie del potere e del conflitto, le migliori riflessioni sulla liberazione, le esperienze anticoloniali, e via dicendo), ma che sia anche all’altezza delle sfide presenti (in primo luogo all’altezza della sfida della rottura di queste tradizioni e del fallimento dei tentativi di ‘mobilitazione liberale’[1]).
Ne abbiamo bisogno perché il mondo è in un agghiacciante labirinto e nessuno riesce a capire in che modo uscirne. Dalla fucina della storia è giunto al presente un groviglio inestricabile di problemi rinviati nel continuo equilibrio dinamico di un sistema sociale che non ha mai cessato di trasformarsi, in modo via via accelerato dalla rottura dell’Antico Regime, ma in realtà sin dall’allargamento commerciale del XV secolo. Nel continuo turbinio della lotta per l’affermazione di gruppi sempre diversi, e dello sviluppo materiale e tecnologico che ha tenuto in tensione costante le élite nazionali e i vari outsider, più o meno locali. Facendo un notevole salto temporale si può dire che, guardandolo con senno di poi, avevamo avuto un trentennio di “quasi calma” nell’immediato dopoguerra. Il compromesso sociale, scaturito dal ricordo delle mobilitazioni operaie e sociali del secolo precedente, e dai milioni di morti ed immani distruzioni delle due guerre, è però alfine crollato sotto la spinta di un mondo che cambiava troppo velocemente. Ancora non abbiamo compreso bene perché.
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Il Digital services act. Addio articolo 21 della Costituzione?
di Carlo Magnani
Il 25 agosto è entrato in vigore il Digital Services Act, per ora per le piattaforme online più grandi (quelle con più di 45 milioni di utenti), sino a che sarà applicabile a tutti gli operatori di servizi online a partire dal 17 febbraio 2024. I soggetti interessati sono tutti gli intermediari online, i motori di ricerca e le piattaforme di comunicazione sociale (mercati online, social network, piattaforme di condivisione di contenuti, app store e piattaforme di viaggio e alloggio online) che saranno soggetti a obblighi specifici e crescenti in ragione della dimensione della impresa.
Tanto i lavori preparatori di adozione che l’entrata in vigore sono stati accompagnati da una enfasi – la solita, quando si tratta di prodotti confezionati dalla Unione europea – che non ha lesinato toni entusiastici ed euforici. Finalmente nuove regole e nuovi diritti sul web, maggiore tutela per gli utenti per ciò che attiene la protezione da contenuti illegali (terrorismo, pornografia, truffe online, vendita prodotti pericolosi), dall’incitamento all’odio (ovviamente, immancabile), ma anche da contenuti non illegali ma qualificati come dannosi (la disinformazione).
Il metodo prescelto per attuare tali regole – che rimandano comunque alle legislazioni nazionali per ciò che va considerato illegale, cioè penalmente o amministrativamente rilevante – è quello della co-regolamentazione. Quindi, non una vigilanza esterna da parte di soggetti istituzionali terzi, ma il coinvolgimento diretto delle piattaforme attraverso procedure concertate con organismi tecnici dipendenti direttamente dalla Commissione europea.
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C’era una volta un chatbot
di Andrea Daniele Signorelli
Tra i tanti ruoli che ChatGPT ha rapidamente iniziato ad assumere nelle vite dei milioni di utenti che lo utilizzano su base quasi quotidiana, ce n’è uno probabilmente inatteso. Per molti, il sistema di OpenAI con cui è possibile conversare su ogni argomento, e spesso in maniera convincente, è diventato un amico, un confidente. Addirittura uno psicologo. Una modalità non prevista (almeno esplicitamente) da OpenAI, ma scelta da un numero non trascurabile di utenti, che si relazionano a ChatGPT come se davvero fosse un analista. Per impedire un utilizzo giudicato (per ragioni che vedremo meglio più avanti) improprio e pericoloso, OpenAI impedisce al suo sistema di intelligenza artificiale generativa di offrire aiuto psicologico, che infatti di fronte a richieste di questo tipo si limita a fornire materiale utile da consultare. Ciò però non ha fermato gli “utenti-pazienti” che, su Reddit, si scambiano trucchi e tecniche per sbloccare ChatGPT affinché fornisca loro consigli psicologici.
Joseph Weizenbaum e il suo chatbot ELIZA
Un risvolto che potrebbe sorprendere molti. Uno dei pochi che sicuramente non si sarebbe sorpreso e che avrebbe avuto moltissimo da dire sull’argomento è Joseph Weizenbaum, scienziato informatico e docente al MIT di Boston, scomparso nel 2008. Colui che già parecchi decenni prima della sua morte aveva preconizzato – o meglio, affrontato e approfondito in prima persona – molti degli aspetti che portano le persone a relazionarsi in maniera intima con le macchine e le cause di questo comportamento.
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