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Cosa ci porta una presidenza Biden/Harris? NATO first, Make NATO great again
di Luigi Ambrosi
Premesso che la partita elettorale negli USA non si è ancora conclusa considerate le denunce in corso per frodi elettorali, la nomina di Biden alla Presidenza è per ora solo una forzatura dell'apparato mediatico globalista, la reale e legale nomination avverrà non prima del 6 gennaio allo stato attuale delle cose; Biden per ora è solo un Presidente mediatico, anche se sta accelerando la formazione della nuova governance per cercare di imporre la sua presidenza come fatto compiuto.
Biden Presidente è "altamente probabile" ma non ancora certo.
Se poi i Repubblicani conservassero il controllo del Senato (5 gennaio), la eventuale presidenza Biden sarà quella di una anatra zoppa; altrimenti se i Democratici riuscissero a conquistare anche il Senato, le forze globaliste avrebbero strada libera, ma dovrebbero pur sempre fare i conti con gli USA profondamente divisi. Di altamente certo è che la società americana è e resterà a lungo profondamente divisa, quindi più debole nella sua governance locale e mondiale, per la felicità dei popoli del mondo; per questo la prima insistenza di Biden è di presentarsi vanamente conciliante come il Presidente di tutti.
Occorre riconoscere la potenza di fuoco raggiunta dalle forze globaliste mondiali, intendendo le grandi multinazionali occidentali (e le loro Agenzie di controllo e di propaganda) che sono riuscite a condizionare e ribaltare gli esiti elettorali nella sede della principale potenza mondiale.
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La moneta digitale cinese cambierà la finanza
di Giacomo Marchetti
In calce un articolo di China Daily sull'argomento
Diana Choyleva, economista-capo di Enodo Economics, in un articolo sul Financial Times dal titolo illuminante – “Il Renmimbi si rafforza mentre la Cina si rafforza” – afferma che:
«la Cina spera particolarmente nell’adozione di una nuova valuta digitale, ora in fase di sperimentazione avanzata, da parte di altri paesi. Mantenere alta la fiducia nel renminbi “analogico” sarà fondamentale per ottenere molti ‘convertiti’ al suo gemello digitale».
La sfida di Pechino è parte integrante di una strategia a tutto tondo per affermare un nuovo benchmark anche in quella terra di mezzo tra il massimo grado di sviluppo tecnologico e le tecniche finanziarie, continuando ad attrarre porzioni crescenti di capitale internazionale – tra cui i big di Wall Street -, tutto però sotto il ferreo controllo politico della direzione economica complessiva.
Si tratta di vincere la guerra digitale e quella monetaria, in uno scontro a tre tra titani, con Pechino che però sta ora disponendo di un differenziale strategico notevole grazie alla maggiore capacità dimostrata nella gestione dell’emergenza pandemica.
Come ha platealmente mostrato la “sospensione” della più grande IPO della storia finanziaria (prevista per il 5 novembre, ma stoppata pochi giorni prima) per la Ant, il più grande operatore privato di pagamenti digitali al mondo, che il miliardario Jack Ma sognava nelle borse cinesi (Shangai e Hong Kong).
Pechino non intende correre rischi e mostra che mentre il mondo economico naviga a vista in un mare in tempesta, lei tiene saldamente il timone ed segue la rotta che verrà formalizzata nel 14° Piano Quinquennale.
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Una critica agli accelerazionisti
di Bollettino Culturale
Introduzione
Dalla sua comparsa nel 2013, il Manifesto accelerazionista ha provocato un'agitata discussione nei circoli politici di sinistra proponendo un quadro di riferimento alternativo al modello tradizionale di classe e di partito, motivato dalle sfide che le correnti poststrutturaliste e post-marxiste hanno posto al marxismo. In opposizione a quella che gli autori accelerazionisti considerano "folk politics", di orientamento particolare, reattiva al cambiamento, la proposta accelerazionista esige il recupero di un orizzonte strategico, di orientamento universale. Si tratterebbe di unire il pensiero di sinistra con una posizione favorevole al progresso tecnico, nella concezione del cambiamento tecnologico come una sorta di trampolino di lancio per una pratica politica globale finalizzata alla costruzione di un orizzonte sociale post-capitalista. In questa prospettiva, gli accelerazionisti pensano che la sostituzione del lavoro umano con l'automazione della produzione è un processo inevitabile e desiderabile e propongono un'utopia del post-lavoro come nuovo asse di articolazione della politica.
Questo articolo discute le possibili implicazioni di questo modello post-lavorista nelle politiche di emancipazione. Sulla base di una revisione della letteratura economica sulla disoccupazione tecnologica, viene proposta un'ipotesi alternativa: che la narrativa della “fine del lavoro” costituisca una rappresentazione errata delle tendenze attuali del capitalismo. L'eccessiva attenzione che gli autori accelerazionisti prestano all'offerta di fattori contrasta con i grandi problemi contemporanei che l'economia eterodossa si propone di discutere: crescente disparità di reddito, domanda insufficiente e deregolamentazione commerciale e finanziaria. In questo modo, l'accettazione acritica della premessa della "fine del lavoro" potrebbe portare l'accelerazionismo a diventare una forma di legittimazione dell'attuale ordine neoliberista.
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Recovery Plan: restaurazione o ravvedimento?
di Paolo Cacciari
Le aspettative intorno ai fondi Ue sono alte quasi quanto quelle per il vaccino. Due cose sono certe: il Patto di stabilità è stato improvvisamente sospeso, l’austerity sembra un brutto ricordo; il market system è capace di fare cose che, per dirla con l’androide Roy di Blade Runner, noi umani nemmeno sappiamo immaginarci. Intanto assistiamo a un gran fermento di ricerche e discussioni, con proposte non prive di trabocchetti, appare evidente come, per far fronte alla sempre più grave crisi climatica e alla devastante crisi economica, il Recovery end Relience Plan andrebbe strappato dalle mani degli economisti. Sui rischi, le contraddizioni e le opportunità che riguardano i fondi Ue, è difficile trovare un articolo più dettagliato, comprensibile e utile come questo di Paolo Cacciari
1. La strategia Next Generation Eu varata un anno fa dalla nuova Commissione europea e il suo principale strumento operativo, il Recovery and Resilience Facility da 672,5 miliardi di euro, tra sovvenzioni a fondo perduto e prestiti a tassi contenuti e rimborsabili a lunga scadenza, entro il 2058, hanno aperto speranze e aspettative, pur permanendo ancora molte incertezze sulle modalità concrete di erogazione.
Il combinato disposto tra le necessità di fronteggiare la crisi sanitaria (attraverso il Programma anti-pandemico della Banca centrale europea Pandemic Emergency Purchase Programme, PEPP) e il riscaldamento climatico (con il piano di investimenti dell’European Green Deal) ha scardinato l’impianto teorico del neoliberismo e il suo dogma monetarista. Si chiude un lungo ciclo quarantennale di politica economica codificato in Europa dal Trattato sull’Unione di Maastricht del 1992. Il Patto di stabilità è stato “sospeso”, l’austerity sembra un brutto ricordo e la Banca centrale europea è stata autorizzata a creare moneta attraverso l’acquisto dei titoli del debito pubblico degli stati e l’erogazione di “stimoli monetari” “non convenzionali”, inaugurati già da Mario Draghi con il Quantitative Easing.
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Chi paga la crisi? Come nasce l’attacco agli stipendi pubblici
di coniarerivolta
Negli ultimissimi giorni, da pulpiti diversi e in salse varie, ci è capitato di ascoltare e leggere lo stesso inquietante ritornello: tutti devono contribuire a pagare la crisi da Covid, gli effetti nefasti della pandemia non devono ricadere solo su quella parte di popolazione che ne subisce direttamente le conseguenze. Per scongiurare il pericolo che la diffusione del virus e le misure di contenimento colpiscano solo una parte della società, occorrerebbe dunque togliere qualcosa a chi ancora non è stato toccato da questa crisi. Benissimo, diremmo: andiamo a prendere i soldi dagli sciacalli e dai profittatori che in questi mesi hanno visto le loro ricchezze crescere ancora. E invece no: chi ci propina questa solfa suggerisce di andare a mettere le mani nelle tasche dei dipendenti pubblici e, più in generale, di chi ha un lavoro garantito, per poi redistribuire verso coloro che davvero soffrono le conseguenze economiche delle chiusure.
C’è chi, come il commentatore de ‘Il Foglio’ Camillo Langone, dedica al tema un contributo dal titolo emblematico, “Togliere al pubblico per dare al privato: ecco la vera unità nazionale”. Chi, come il Professore di Economia Riccardo Puglisi, redattore de ‘La voce.info’, si augura che nel nuovo lockdown paghino anche i dipendenti pubblici. C’è anche Massimo Cacciari, che, intervistato a Piazza Pulita sui provvedimenti del Governo per il contrasto all’epidemia, si lascia sfuggire un: “non è possibile tenere la gente a zero euro al mese o a 700 euro al mese. Voglio dire ai miei colleghi dello Stato e del parastato, prima o dopo arriveranno a voi, per forza. E io spero che ci arrivino presto, perché è intollerabile che questa crisi la paghi metà della popolazione italiana”. Insomma, serpeggia l’idea per cui se la crisi morde su alcuni settori in particolare, chi ancora non è stato morso è ora che venga colpito dalla scure di tagli, sacrifici e austerità per fare giustizia.
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Che importa chi parla? Manifesto per l'anonimato intellettuale
di Anonimo
[Questo è un manifesto-proposta per l’anonimato intellettuale. L’idea è semplice: almeno in questo ecosistema – nei blog, nelle riviste online, nei social –, ma forse anche fuori di qui, l’autore non è affatto in declino, né morente, pace Roland Barthes. Forse il lettore è autore, qui più che altrove. Forse questa è la fabula dove regna incontrastato il lector, sotto forma di like. Eppure, se è così, il lettore è inevitabilmente irretito nelle maglie dell’autore – della sua celebrità, del ruolo che ha, del pulpito da cui parla. E anche chi autore non può essere nel senso classico, cioè l’individuo qualunque, qui – in questo ecosistema – spesso come autore si atteggia sin da subito. La funzione-autore foucaultiana si esercita a tutto spiano in certi ambiti della Rete, fagocitando tutto il resto. Fagocitando soprattutto le idee e il merito delle argomentazioni. Allora, la proposta è mettere l’autore fra parentesi, dare uno spazio a chi accetterà di prenderselo – a certe condizioni, naturalmente – senza volerlo occupare con la propria identità, ma solo con la propria voce. Potrebbe non accettare nessuno; potrebbero essere troppi i favorevoli alla proposta. Lo vedremo. La rubrica inaugurata da questo intervento, e curata dal suo autore anomimo, sarà lo speaker’s corner per chi, parte del General Intellect, vorrà sfuggire dalla logica che rende la produzione intellettuale un altro ambito della produzione di ricchezza, che fa della comunicazione umana una fra le altre merci. Testi collettivi, testi irregolari, testi provocatori, testi marginali: voci della moltitudine potranno apparire qui, sotto le mentite spoglie dell’anonimato e grazie allo scudo che esso garantisce.]
* * * *
Si può immaginare una cultura dove i discorsi circolerebbero e sarebbero ricevuti senza che la funzione-autore apparisse mai. Tutti i discorsi, qualunque sia il loro statuto, la loro forma, il loro valore e il trattamento che si fa loro subire, si svolgerebbero nell’anonimato del mormorio.
M. Foucault, Che cos’è un autore?
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"Critica" tra Hegel e Marx
di Roberto Fineschi1
Abstract: Marx fa largo uso del termine “critica”, che è presente nel titolo di varie sue opere. In questo articolo cercherò di ricostruire lo sviluppo e i cambiamenti di significato di questo termine nelle diverse fasi dell’indagine di Marx. Mi concentrerò sulle fonti dirette, come il dibattito “critico” tedesco durante il Vormarz, e su autori come Straufi, Bruno Bauer, Feuerbach. Certamente Hegel è un punto di riferimento privilegiato dell’approccio filosofico di Marx. Mostrerò come Marx si sia spostato lentamente da un significato specifico del termine “critica” che era predominante durante il Vormarz per approssimarsi alla posizione hegeliana
È noto che Marx fa largo uso del termine “critica”. Esso è presente nel titolo di varie sue opere e non è quindi un caso che l’attenzione si sia concentrata su di esso. In questo articolo si cercherà di contribuire alla ricostruzione della sua storia interna e della sua origine nella tradizione filosofica anteriore. Essendo Hegel uno dei filosofi di riferimento privilegiati di Marx, si indagherà anche in questo autore il significato del termine per vedere a quale uso specifico di critica Marx si avvicini di più. Si vedrà del resto come il ruolo e la funzione della critica cambino nel corso della sua maturazione teorica.
1. Critica è un termine dall’uso diffusissimo nel dibattito intellettuale dall’illuminismo in poi. Qui fa da generale ed emblematico punto di riferimento la ricca, articolata e programmatica voce “Critique” nella Encyclopédie di Diderot e D'Alembert scritta da Marmontel (1754, vol. IV, pp. 490a-497b). Riviste critiche, biografie critiche, approcci critici, per non parlare ovviamente del criticismo kantiano, inondano la produzione letteraria e pubblicistica al punto che non è affatto semplice individuare un significato univoco del termine. Il tema è così complesso che non può certo essere oggetto di questo saggio; ci si limiterà in questa sede a indicarne alcune interpretazioni specifiche che reputo rilevanti per Marx ed il suo rapporto con Hegel.
Vediamo la lista di titoli significativi di pugno di Marx in cui compare il termine “critica”:
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Non esistono rivoluzioni innocenti. Il comunismo critico di Rossana Rossanda
di Alessandro Barile
La morte di Rossanda – straordinaria figura testimoniale del comunismo italiano – invita, anzi costringe a pensare ancora alla storia del nostro paese, all’impresa comunista nazionale e agli accidenti della rivoluzione. Contro le scemenze desideranti di insurrezioni «felici», Rossanda ci percuote con la sua verità, l’unica plausibile: la rivoluzione è un atto di sofferenza. Non si entra innocenti e se ne esce devastati. Umanamente, politicamente. Perché dovrebbe essere altrimenti? È un atto di vendetta per le generazioni passate e di sacrificio per quelle future. «Siate indulgenti», invoca Brecht, perché di ogni crimine ci saremo macchiati, e non verremo assolti. Quei crimini, di cui parla a cuor leggero una malandata etica della convinzione comunista, sono crimini verso noi stessi, non verso gli altri, famigerati “nemici di classe” su cui scaricare i necessari orrori della storia e della nostra coscienza. Siamo noi che veniamo compromessi, noi che ci macchieremo dei tradimenti e delle conversioni. Eppure si dovrà fare, è stato fatto: l’inazione giudicante non preserva dall’innocenza, è anzi una colpa ben maggiore.
La lunga, lunghissima riflessione di Rossanda si muove entro questi limiti. I limiti di una persona che si è scontrata direttamente con questi problemi, e che ha capito. A cui ha dato risposte molteplici, profonde, disorientanti. Su cui si può essere d’accordo e in disaccordo, come normale, ma riconoscendo le domande giuste, le uniche possibili, che si chiedono direttamente del travaglio umano che porta con sé ogni rivoluzione. Non esistono rivoluzioni innocenti. Un monito.
Rossanda ha scritto tanto, dagli anni Cinquanta ad oggi. Meriterebbe di essere letto tutto, soprattutto ciò che scrisse durante la sua militanza nel Pci, soprattutto durante il suo ruolo dirigente alla Federazione di Milano, prima, e alla Sezione culturale del partito, dopo.
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Ascesa e crisi della tecnoscienza del capitale
di Franco Piperno
Con questo contributo proseguiamo la riflessione sul percorso «Iperindustria» della rubrica Transuenze. Il testo che segue è la trascrizione, rivista dai curatori, di un intervento di Franco Piperno, fisico accademico e intellettuale militante che su queste pagine non dovrebbe richiedere ulteriori presentazioni, alla summer school organizzata da Machina alla fine della scorsa estate. Piperno, in modo inevitabilmente sintetico, entra nel merito di alcuni nodi profondi del tardo capitalismo, che trae potenza dalla sottomissione e funzionalizzazione della scienza alla tecnica, nell’impoverimento delle capacità cognitive sociali e dello stesso sapere scientifico. Il trionfo della tecnoscienza coincide tuttavia con una crisi profonda e conclamate dei suoi medesimi presupposti epistemologici. Le implicazioni di questa riflessione sulla natura del capitalismo iperindustriale, o tecnologico come lo chiama l’autore contrapponendolo a «cognitivo», e su molti dei temi che vorremmo approfondire (innovazione, qualità del lavoro, vecchia e nuova divisione sociale del lavoro, necessità di una critica radicale e non oscurantista del progresso tecnologico), ci sembrano evidenti, e anche imprescindibili.
* * * *
Fino al Rinascimento si può dire, schematizzando, che scienza e tecnica procedano separatamente. La scienza è solo uno dei saperi del mondo antico, quello teorico che, appunto, ha il fine in se stesso e lascia intatto il suo oggetto; la scienza deve rispettare delle procedure di produzione: risolversi nello svelamento delle «essenze»; dispiegarsi a partire da pochi principi fondamentali rispettando l’ordine logico; essere ad un tempo mezzo e fine – la scienza è disinteressata, non invasiva, nel senso non si propone di cambiare il mondo ma solo di conoscerlo contemplandolo.
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La paura americana (e occidentale)
di Michele Castaldo
Alla fine di una estenuante e assordante campagna elettorale vince il candidato che i sondaggisti davano favorito, e così il mondo democratico occidentale che aveva tifato e sperato nella sconfitta di Trump tira un sospiro di sollievo, e finalmente: habemus papam: Joe Biden.
Il “mite” e consumato personaggio politico già vice di Barak Obama sul quale si riversano le speranze occidentali indicandolo come Salvatore della patria, in nome dell’unità di tutti gli americani.
Quando è apparsa chiara la sua elezione sono scoppiate manifestazioni di giubilo un po’ in tutti gli Stati come a esorcizzare lo scampato pericolo di una nuova permanenza alla Casa Bianca di Trump, personaggio ritenuto più un fenomeno da baraccone che il presidente della nazione più potente del mondo libero, ma proprio per questo più pericoloso.
I media si sono spesi a ricostruire biografie del nuovo presidente e della sua vice, Kamala Harris, senatrice dello Stato della California, che ovviamente non ci risulta essere stata in piazza a scontrarsi con la polizia bianca nei giorni successivi all’uccisione di G. Floyd e che ha sposato un ebreo in età adulta e ricopre ruoli istituzionali di tutto rispetto. Poi c’è la ben nota ruffianeria italica, alla ricerca delle origini messinesi dell’attuale moglie del presidente, e via di questo passo.
La nostra impressione è che in Europa si pregava il padreterno perché vincesse Biden, perché il personaggio Trump, ormai inviso alle establishment del vecchio continente, avrebbe potuto determinare una destabilizzazione negli Usa, con ricadute preoccupanti sulla nostra economia, lacerando così i nostri già labili rapporti sociali. Pericolo scampato, dunque.
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L’infondata leggenda del Recovery Fund
di Leonardo Mazzei
La leggenda secondo cui il Recovery Fund avrebbe cambiato l’Europa, ponendo fine all’austerità per iniziare un nuovo periodo di espansione economica, è una clamorosa bufala. Una gigantesca fake news, per chi ama gli anglicismi. Chi scrive non ha mai avuto dubbi sul punto, ma adesso ci giunge in aiuto un’attenta analisi del professor Gustavo Piga sulla Nota di Aggiornamento del Def (Nadef).
Premesso che in tempo di Covid i numeri contenuti nei documenti previsionali valgono quel che valgono, cioè quasi nulla, resta però interessante lo schema di ragionamento che il decisore politico ha posto come cornice al quadro previsionale. Mentre i numeri sono destinati ad essere smentiti, riaggiornati e rismentiti, quello schema di ragionamento resta invece la traccia indelebile di una precisa impostazione politica: quella degli euroinomani impenitenti, che scrivono di “espansione” anche quando sanno benissimo che avremo invece la solita austerità. Tra questi adoratori del “Dio Europa” il ministro Gualtieri non è l’ultimo arrivato.
Ecco così la sua Nadef 2020, come sempre co-firmata col Presidente del consiglio Giuseppe Conte. Su di essa il giudizio di Gustavo Piga è stroncante.
Diamo la parola a Piga
«La manovra economica del governo che pare espansiva e invece non lo è», questo il titolo chilometricamente liquidatorio del suo articolo. E non lo è – spiega Piga – proprio perché il tanto sbandierato Recovery Fund verrà utilizzato in tutt’altro modo. Probabilmente perché, questo lo aggiungiamo noi, non potrebbe essere diversamente proprio in virtù delle clausole previste da quel fondo, tanto decantato dai media quanto volutamente sconosciuto nei suoi meccanismi essenziali.
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Contronarrazioni. La crescita illimitata è irrinunciabile?
di Alberto Ziparo
Le risposte che la realtà fornisce alla domanda posta nel titolo – si può rinunciare alla crescita illimitata? – appaiono inequivocabili anche alla luce della pandemia in atto: non solo si può, ma si deve abbandonare il paradigma della crescita illimitata.
La crescente accelerazione della crisi climatico-ambientale e i disastri conseguenti, basterebbero da soli a significare un drastico mutamento di rotta. Ad essi tuttavia sono da aggiungere altri «guai di fase»: guerre, povertà e iniquità sociale, nuove migrazioni epocali, degrado e distruzione di quote crescenti di territorio, dissesti ecologici diffusi, invivibilità delle iperurbanizzazioni, riapparizione di problemi socio-culturali già sconfitti dalla storia del novecento – fascismi, razzismi, paura del diverso, disagi diffusi collettivi ed individuali. Il tutto è aggravato dalla profonda crisi delle forme politico-istituzionali che erano emerse nel novecento: se il «comunismo realizzato» è stato sconfitto innanzitutto dalle proprie rigidità e chiusure e dalle sue applicazioni burocratizzate, degenerate spesso in potere assoluto, imperiale e devastante; le democrazie liberali sono state via via stravolte dal loro degradarsi in iperliberismo, ulteriormente aggravato dalla pervasività dell’attuale finanziarizzazione globalizzata, che ha fagocitato nel tempo economia e politica.
Fino a una situazione paradossale in cui un numero limitatissimo di reali e consistenti apparati dirigenti – le direzioni delle grandi agenzie finanziarie, costituite spesso da un numero limitatissimo di soggetti gratificati – sono in grado di controllare e determinare scelte e strategie di istituzioni economiche e politiche a livello planetario. E quindi di imporre direttive generalizzate di portata globale che ricadono e condizionano i diversi contesti. Ciò comporta enormi benefici economici e sociali per i pochissimi controllori; ma i problemi ricordati in apertura per il resto della società.
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Lotta alla povertà e alla disuguaglianza in Cina. Una risposta a Thomas Piketty
di Gianni Cadoppi
Introduzione
Si tratta di un insieme di saggi scritti nel corso degli anni e solo parzialmente aggiornati ma il cui senso rimane a mio avviso intatto. Spesso la questione della disuguaglianza in Cina è affrontata con metodologie parziali che non tengono conto dell’insieme dello sviluppo economico e sociale del grande paese asiatico e della sua unicità dal punto di vista dell'estensione territoriale e come paese più popoloso del mondo. A volte il saggio risulterà abbastanza ripetitivo perché i singoli capitoli sono stati scritti in maniera autonoma. Credo che il saggio sia tornato di attualità dopo le critiche di Thomas Piketty alla Cina sul tema delle disuguaglianze. Questi saggi sono stati scritti originariamente prima del libro di Piketty e il berseglio erano coloro che nella sinistra occidentale sostenevano l’inesorabile deriva capitalistica della Cina.
Per Thomas Piketty le società post-comuniste in toto sono le più fedeli alleate dell'ipercapitalismo. L’economista francese nel suo ultimo saggio parla del «disastro comunista» così grande da mettere in ombra anche i danni causati dalle ideologie schiavistiche, colonialiste e razziste oscurando i forti legami tra queste ideologie e quelle dell'ipercapitalismo.
Il presidente cinese Xi Jinping aveva dimostrato invece interesse per il suo best seller Il capitale nel XXI secolo (2014).
Nel suo discorso del 2015, Xi ha affermato che il libro di Piketty ha suscitato un acceso dibattito nella comunità accademica internazionale e che le sue argomentazioni sull'impatto del "capitalismo incontrollato" sulla disuguaglianza di ricchezza erano degne di considerazione. Xi infatti scriveva:
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I veri responsabili della pandemia e delle sue drammatiche conseguenze
di Alessandra Ciattini e Aristide Bellacicco
Stiamo vivendo in una situazione assurda e drammatica, chiediamoci chi ci ha portato a questo punto
Siamo tutti i giorni informati e allertati sull’andamento della pandemia, che è certamente un fatto innegabile e che mette a rischio soprattutto coloro che per vivere debbono uscire di casa ogni giorno, lasciando alla cura di qualcuno (la scuola?) i loro figli. Nonostante questa gran mole di informazioni, spesso contraddittorie e confuse, che suscitano stati d’ansia e di forti preoccupazioni, nulla ci viene detto, a parte la famosa favola della zuppa di pipistrello, sulle origini del virus. Eppure sappiamo che questi virus, il cui arrivo del resto era stato annunciato almeno dal 2003, si producono a causa dell’allevamento intensivo degli animali, da cui si ricava la cattiva carne di cui ci nutriamo. A ciò bisogna aggiungere la deforestazione e la conseguente estinzione di specie animali e vegetali, l’urbanizzazione disordinata che ha provocato l’addensamento abitativo in dimore insalubri e inadeguate; fenomeni questi che hanno fatto saltare le barriere protettive tra mondo umano e mondo animale, dal quale derivano questi virus che trasformandosi colpiscono l’uomo.
Nessuno può affermare che le misure prese dai vari governi abbiano tentato di incidere su questo aspetto, limitandosi questi a blaterare di vaccini che risolveranno tutti i problemi, quando invece, se la complessiva spoliazione della natura continua in questo modo, nuove pandemie si ripresenteranno e saranno necessari sempre nuovi vaccini, nell’attesa dei quali la gente si ammalerà e in alcuni casi morirà. Né per ora ci si è preoccupati di risanare il servizio sanitario nazionale che, come mostrano queste situazioni di emergenza, deve essere completamente ristrutturato per adeguarlo alle necessità attuali, né si sono presi provvedimenti adeguati a rendere pienamente sicure le scuole e le università, i luoghi di lavoro, affidando agli stessi lavoratori – i maggiori interessati – il controllo dell’efficacia delle misure e la loro piena applicazione.
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“La lezione della sincerità”
Contro la frammentazione comunista
di Luca Ricaldone
L'anno prossimo cadrà il trentennale della scomparsa del più grande filosofo italiano del novecento, Ludovico Geymonat. Egli, poco prima di morire, osservava come fossimo di fronte ad un grave arretramento della cultura e come il marxismo venisse esposto solo in modo dogmatico.
Ancora non esistevano i social. Oggi la realtà virtuale è divenuta il dominio incontrastato dell'idealismo, il luogo dove la maggior parte di noi confonde i propri sogni, le proprie aspirazioni con il mondo reale. Il luogo dove si è ciò che si dice di essere; in cui vige il principio: affermo, dunque sono.
Come consigliava Ludovico Geymonat, se vogliamo ricostruire un partito comunista nel nostro paese dobbiamo saper guardare in faccia la realtà e farla emergere, senza aver paura di esporla per quanto dura e difficile possa essere o essere stata. Per questo, ci diceva, è necessaria una “lezione di sincerità”, una lezione di coraggio morale, scientifico, politico che, unito all'azione, deve essere la base per la ricostruzione del partito comunista, che non può nascere su equivoci di sorta.
Ed è proprio da questa considerazione che sarebbe necessario partire quando si affronta il problema dell'unità fra i comunisti.
Il fenomeno della “frantumazione” ha trovato nel nostro paese delle condizioni particolarmente favorevoli, anche se esso si manifesta internazionalmente in ogni paese, avendo la sua origine nell'influenza dell'ideologia borghese tra le file degli stessi comunisti.
E probabilmente è proprio anche a causa di questa influenza nefasta che scontiamo la mancanza di un'analisi critica della storia dei comunisti che non riguardi solo quella del Pci (che pure è stata sviscerata a fondo nel corso dei decenni) ma anche di quello che lo ha seguito, a cominciare da Rifondazione, nonché di tutto quello che c'era alla “sinistra” del Pci e che oggi compone la “sinistra” comunista.
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Scendete dal taxi e prendete la limousine!
di Piotr
Questo articolo viene pubblicato in contemporanea anche su Megachip
«Il Presidente Trump è solo il conducente di un taxi che porta i passeggeri che ha accettato di far salire – Pompeo, Bolton e i Neoconservatori con la sindrome dell’Iran – dovunque gli dicano di andare. Vogliono fare una rapina, e viene utilizzato come guidatore per la fuga (e lui accetta completamente il suo ruolo)»
Michael Hudson
Un'amica di sinistra mi ha suggerito di leggere un articolo sulle presidenziali statunitensi scritto da Nadia Urbinati per il quotidiano “Domani”, il giornale di De Benedetti. Cosa che ho diligentemente fatto.
Nadia Urbinati è docente di scienze politiche alla Columbia University, una studiosa che da brava signora liberal newyorchese si pone il problema teorico se il Bolivarismo sudamericano (tout-court definito “populismo”) sia fascismo. La risposta è negativa (il Bolivarismo è addirittura ossessionato dalla necessità di elezioni – però, ahi ahi, anche per ottenere conferme plebiscitarie), ma già il dilemma posto conferma che la coscienza di classe e l'ideologia sono dettate dall'essere sociale, come aveva perfettamente intuito György Lukács. Io semmai mi porrei il problema se il Bolivarismo sia socialismo. Mi porrei cioè, nel suo senso più generale, un problema di rapporti sociali.
E qui entriamo nel vivo.
L'articolo accenna alla questione razziale e ripete le usuali accuse a Trump suggerendo che con Biden e la Harris le cose cambieranno.
In realtà quello che dice l'articolo può essere riferito pari pari anche ai Democratici. È noto, ad esempio, che sotto i due mandati di Obama si è toccato un numero record di neri uccisi dalla polizia (record rinnovato sotto Trump) e molti osservatori liberal hanno registrato l'incapacità o impossibilità da parte di Obama di, non dico migliorare, ma almeno fermare il peggioramento delle condizioni economiche e sociali degli afroamericani.
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Approfondimento: le elezioni americane, il Covid e le rivolte razziali
di Aldo Giannuli
Normalmente, in un’ elezione qualsiasi quello che conta è chi ha vinto e chi ha perso, ma in queste elezioni presidenziali americane la cosa mano importante è se vincerà un candidato o l’altro. Certo Trump è un orrore, ma anche se dovesse vincere quel pesce lesso di Biden, non è che ci sarebbe da mettersi a ballare. Qui quello che conta è che America sta venendo fuori da queste elezioni e questo è già chiaro come il sole.
a. un paese spaccato esattamente a metà, su precise coordinate geografiche (coste contro l’interno) con due metà che si odiano come mai nella storia del paese
b. con una corrente politica come il trumpismo che non è cosa di breve durata e che ha sostituito il vecchio partito repubblicano
c. che si avvia ad una crisi istituzionale senza precedenti e si avvia ad una conflittualità interna senza precedenti, perché segnata dallo scontro fra due integralismi che hanno travolto il tradizionale pragmatismo americano.
d. nel quale sono totalmente saltate le regole del far play istituzionale mettendo a nudo un sistema elettorale demenziale
e. un paese nel quale il Covid, prima e le rivolte razziali dopo, hanno fatto da molla alla rivincita democratica e, più in generale, alla crisi del sistema.
Il primo dato è la divisione a metà su aree geografiche abbastanza omogenee: le coste ai democratici, il centro del paese ai repubblicani (salvo qualche sporadica eccezione da un lato e dall’altro).
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Il Tempo è Denaro
di Leo Essen
Le persone che nell’Occidente medievale, tra il XII e il XV secolo, possedevano un cultura rimproveravano al mercante che il suo guadagno presupponeva un’ipoteca sul tempo che appartiene solo a Dio.
Guglielmo d'Auxerre, nella sua Summa aurea, composta tra il 1215 e il 1220, dice che l’usuraio agisce contro la legge naturale universale, perché vende il tempo che è comune a tutte le creature. Agostino dice che ogni creatura è obbligata a far dono di sé. Il sole è obbligato a far dono di sé per illuminare. La terra è obbligata a far dono di tutto ciò che può produrre, e lo stesso l’acqua. Ma niente più del tempo fa dono di sé in maniera più conforme alla natura. Volente o nolente, dice Guglielmo d'Auxerre, le cose hanno il tempo. Poiché dunque l’usuraio vende ciò che appartiene necessariamente a tutte le creature, egli lede tutte le creature in generale, anche le pietre, da dove risulta che, anche se gli uomini tacessero davanti agli usurai, le pietre griderebbero se potessero. Ed è una delle ragioni per le quali la Chiesa perseguita gli usurai. È contro di loro che Dio dice: «Quando riprenderò il tempo, cioè quando il tempo sarà in mia mano in modo tale che un usuraio non potrà venderlo, allora giudicherò conformemente alla giustizia».
Stefano di Borbone, uno dei primi inquisitori, tra il 1223 e il 1250 scrisse una Tabula Exemplorum, ripresa da Bernardo Gui nel suo Manuale dell’inquisitore, dove dell’usuraio si dice che non vende che la speranza del denaro, cioè il tempo, vende il giorno e la notte. Ma il giorno, dice, è il tempo della luce, e la notte il tempo del riposo. Vende dunque la luce e il riposo. Perciò non sarebbe giusto che godesse della luce e del riposo eterni.
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Vite di commessi elettori. Le elezioni americane e la «middle class»
di Sarah Jones
Recensione del volume «The Sinking Middle Class» di David R. Roediger
«Per una volta in vita mia vorrei possedere qualcosa interamente prima che si rompa» dice Willy Loman, il protagonista di Morte di un commesso viaggiatore di Arthur Miller. È una frase che per David R. Roediger, autore di The Sinking Middle Class (OR Books, 2020) descrive bene la condizione della classe media che vive acquistando costantemente a credito. Ma a ben pensarci è la condizione stessa della classe media a essere in bilico, a non essere mai «posseduta interamente» ma sempre in modo precario e parziale, a essere «sempre già rotta».
È la costante minaccia di perdere il proprio status sociale, il «sinking» nel titolo del libro: la minaccia di affondare nella classe operaia, di naufragare nella proletarizzazione. E anche se si resta a galla nella classe media, quello status non sarà mai pienamente proprio. Lo status della classe media pretende la messa a lavoro non solo del corpo ma anche dell’anima. La maggior parte del tempo della vita è trascorso a lavoro e nel poco tempo restante si è tormentati dall'ansia, dalla depressione e dalle dipendenze, «sempre già rotti», prendendo in prestito sempre più soldi nella speranza che qualcosa di nuovo tappi i buchi. Il sogno della classe media si compra a credito.
Pur sostenendo che si tratta di una condizione ampiamente diffusa, Roediger afferma che l'estensione della classe media negli Stati Uniti è grossolanamente sopravvalutata. Per «middle class» sia i democratici che i repubblicani intendono tutte le persone che guadagnano meno di 250.000 dollari, ovvero il 96% degli americani. Il sogno americano resta quello ottocentesco: un paese di «contadini, liberi professionisti e negozianti», un ceto medio artefice del proprio destino, senza padroni né resti di feudalesimo contro cui combattere.
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Disuguaglianze e crisi ambientale. Alle origini del Covid-19*
Èlia Pons intervista Joan Beach
Traduciamo e pubblichiamo questa intervista al dottor Joan Beach, che parte dalla situazione in Catalogna e Spagna ma presenta dei dati e delle valutazioni estremamente interessanti anche per noi. In particolare questo approccio consente di uscire dalla polemica sterile tra autoritarismo sanitario e negazionismo, riportando al centro della discussione i veri temi delle disuguaglianze nella salute, della difesa della sanità pubblica e dell’ambiente (red.)
Parliamo con Joan Benach, ricercatore in sanità pubblica all’Università Pompeu Fabra e direttore del Gruppo di Ricerca sulle Disuguaglianze nella Salute – Employment Conditions Network, sull’impatto della pandemia nei gruppi più vulnerabili della popolazione, le carenze del sistema sanitario pubblico e l’effetto del capitalismo e delle attività umane nell’emersione di pandemie.
* * * *
Qual’è la situazione e l’evoluzione attuale della pandemia? Conosciamo davvero tutti i sui effetti?
In realtà ignoriamo come sarà l’evoluzione della pandemia a breve e medio termine. È prevedibile che la situazione peggiori in inverno, ma invero sono tutte speculazioni. Abbiamo ancora una visione superficiale e molto incompleta dei cambiamenti e degli effetti della pandemia sulla salute collettiva e le disuguaglianze nella salute. A metà ottobre il numero ufficiale globale di morti nel mondo ha superato il milione di persone, delle quali ufficialmente circa 34.000 sarebbero morte in Spagna. Ma sappiamo che c’è un “eccesso di mortalità” (cioè il numero di decessi che ci saremmo aspettati di vedere in condizioni ‘normali’ rispetto agli anni precedenti) che si avvicina ormai a 60.000 decessi (la situazione appare molto peggiore in Paesi come Russia, Perù o Ecuador). Questo non vuol dire che tutti i decessi siano per covid-19 però molti si verificano per il contesto sociale e sanitario in cui sono inseriti: malati diagnosticati e trattati tardivamente con malattie oncologiche, polmonari, di salute mentale o altre. In mancanza di una valutazione profonda, credo che ci siano tre temi importanti che bisogna considerare: la debolezza dei sistemi informativi e di vigilanza epidemiologica e di sanità pubblica esistenti, che rende molto difficile confrontare gli indicatori tra i paesi e al loro interno; l’uso di parte e poco trasparente che molte istituzioni e governi fanno dei dati e degli indicatori come dimostra il caso della Comunità di Madrid per esempio; e la stessa difficoltà scientifica di comprendere tutti gli impatti psicosociali e sanitari (decessi, malattie, problemi cronici, sofferenze ecc.), in gruppi e luoghi diversi.
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Pietra d'inciampo
di Salvatore Bravo
Sei ancora capace di scandalizzarti come Karl Marx? La "pietra d'inciampo" ("Scandalum") è anche qualcosa che rende presente il tuo cammino. Pensa allora allo scandalo del denaro e del possesso, pensa alla tua, e altrui, libertà interiore
Se vuoi godere dell’arte, devi essere un uomo artisticamente educato; se vuoi esercitare qualche influsso sugli altri uomini, devi essere un uomo che agisce sugli altri uomini stimolandoli e sollecitandoli realmente. Ognuno dei tuoi rapporti con l’uomo, e con la natura, dev’essere una manifestazione determinata e corrispondente all’oggetto della tua volontà, della tua vita individuale nella sua realtà. Se tu ami senza suscitare una amorosa corrispondenza, cioè se il tuo amore come amore non produce una corrispondenza d’amore, se nella tua manifestazione vitale di uomo amante non fai di te stesso un uomo amato, il tuo amore è impotente, è un’infelicità.
Karl Marx
Lo scandalo del denaro
I Manoscritti economico-filosofici del 1844 di Marx e pubblicati nel 1932, sono giudicati un’opera “giovanile”. In realtà i manoscritti sono fondamentali per riscontrare – in un periodo di passaggio tra le opere giovanili e le opere della maturità – il nucleo profondamente umanistico del pensiero marxiano. Per umanistico si intende la centralità dell’essere umano nella storia e nel sistema sociale e politico, che può essere giudicato positivamente, se risponde all’essenza generica e sociale dell’essere umano.
L’umanesimo marxiano pone al centro della storia l’essere umano. Non si tratta di un essere umano astratto ed idealizzato, ma colto nella concretezza della sua realtà materiale. L’umanesimo marxiano riporta il male ed il dolore alle condizioni storiche che ne determinano la genesi, per trascenderlo. Il male non ha realtà ontologica, ma alligna nei rapporti sociali ed economici. Marx è nello stesso solco di autori come Spinoza e Rousseau, i quali hanno smascherato il male metafisico per riportarlo a quella che è realmente la sua dimensione all’interno delle relazioni sociali. Il male è l’epifenomeno dei sistemi che negano la natura sociale dell’essere umano. L’essere umano che soffre è spesso il portatore infetto di relazioni sociali sbagliate, innaturali.
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Per un nuovo socialismo
Leo Essen intervista Gennaro Scala
Dopo tre decenni di maledizione per ogni discussione sui fondamenti del modo di produzione capitalistico, e dunque anche sul suo necessario superamento, sembra indispensabile alzare lo sguardo oltre l’immediato e confrontarsi ex novo con i “massimi sistemi”.
La crisi sistemica più che decennale – anche a voler fare data dal 2007-2008, pur se in realtà risale ormai agli anni ‘70 – ha avuto un’accelerazione formidabile con la pandemia. Si è passati in pochi mesi da una prospettiva di “stagnazione secolare” (un mascheramento molto pudico dell’”esaurimento della spinta propulsiva” del capitalismo) a una caduta verticale da cui nessuno sa dire quando e se si uscirà mai.
Chi ci prova fa wishful thinking, non analisi scientifica.
Per di più, la gestione della pandemia ha fatto vedere in azione modelli operativi molto diversi.
Quello classicamente neoliberista è stato egemone in tutto l’Occidente, in cui la priorità è stata ed è ancora “non fermare la produzione”, con una pallida distinzione tra il “convivere con il virus” (la maggior parte dei paesi europei) e “negare la pericolosità del virus” (Usa, Gran Bretagna, Brasile, ecc). Un approccio che dopo qualche mese si è rivelato sostanzialmente simile, e che ha portato all’”invidiabile risultato” di moltiplicare la dimensione di contagi e morti affossando al contempo l’economia.
All’opposto, è esplosa in modo solare l’efficacia complessiva dell’approccio fondato su pianificazione e programmazione, normalmente associato con il pensiero socialista. Chi ha agito in questo modo, mettendo esplicitamente come priorità la lotta al virus, e dunque la salute della popolazione, è riuscito non solo a ridurre a quasi nulla l’impatto dell’epidemia, ma sta ora raccogliendo i frutti anche in termini di crescita economica, occupazionale, di prospettiva.
Questo è ormai un dato empirico, verificato e indiscutibile.
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“Dipendenza”
di Alessandro Visalli
A settembre 2020 è uscito il libro “Dipendenza. Capitalismo e transizione multipolare”[1]. Un libro che si può leggere in tre modi: racconta una storia che si sviluppa dal New Deal ad oggi, mostrando un andamento ciclico ed interconnesso di periodi di disordine sistemico, di espansione e di destabilizzazione; individua una teoria che con questa storia reagisce; presenta la sconfitta politica di un generoso tentativo.
Il primo piano si concentra sulla concatenazione di crisi che aprono sempre alla successiva, con un meccanismo (descritto nella teoria) mosso dalla tendenza del capitalismo alla concentrazione e (quindi) al sottoinvestimento. E descrive quindi le controtendenze che la tengono sotto controllo: guerra fredda, cetomedizzazione, esportazione di capitale, dipendenza interna ed esterna. Ne deriva anche una spiegazione interna della crescita della classe media nel “trentennio” e della ‘società del benessere’ non come confutazione della tesi marxiana (delle “due classi”) ma come sua estensione[2]. Ma ne deriva anche il “teorema di impossibilità” che Baran e Sweezy enunciano con la loro “legge della crescita del surplus”[3], e quindi il tentativo di investire le periferie (e non il centro) del compito della rivoluzione.
Questa è l'ipotesi politica della dipendenza che cade quando le periferie sono sussunte (o sono disperse) nell’inversione degli anni ottanta. Di qui nasce la “teoria dei sistemi mondo” che sposta l'attenzione più avanti nello spazio e nel tempo.
Per descrivere analiticamente il testo.
Un primo blocco teorico descrive le posizioni di quegli autori che convergono nella creazione dell’assiomatica di base. Almeno dei principali: sono Paul Baran negli anni cinquanta, Paul Sweezy negli anni sessanta, Gunnar Myrdal e Francois Perroux.
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Pandemia, economia e crimini della guerra sociale
Stagione 2, episodio 1: la schiuma
di Sandro Moiso, Maurice Chevalier e Jack Orlando
“L’unico attore sociale che ancora mancava nella crisi più clamorosa della modernità è dunque arrivato in scena, presentandosi a Napoli: è il ribellismo che scende in piazza […] contro tutto, la Regione, il governo, le regole, la prudenza, la paura, in quanto è fuori dal sistema, alla deriva in un luogo sconosciuto della politica dove anche il contratto tra lo Stato e i cittadini pare non avere più valore […] Come Napoli ha anticipato, qualcuno fa i conti con il costo di questa emergenza infinita, questa precarietà permanente, questa instabilità costante, scopre che il costo è alto almeno quanto il rischi del contagio, e presenta il saldo al potere. Ognuno ha il suo conto privato da protestare sul tavolo del governo, non c’è al momento una cambiale nazionale da far scadere in piazza, dunque non c’è un disegno unitario capace di raccogliere i diversi reclami, trasformandoli in una ‘causa generale, quindi in un’occasione politica. […] Così i ragazzi che pedalano sulle biciclette delle consegne a domicilio si trovano accanto in piazza i pizzaioli che temono la chiusura, i disoccupati dei Bassi, le badanti, i venditori di souvenir a cui hanno chiuso i banchetti nei vicoli: ognuno con una rabbia distinta di categoria, con una rivendicazione peculiare di mestiere, con un credito di lavoro specifico, in una collezione di risentimenti separati uniti soltanto dal momento della ribellione. […]
Un elemento unificante in realtà esiste, ed è la delusione generale per i buchi che ognuno scopre ogni giorno nella copertura sanitaria di base […], oltre ai mezzi pubblici sovraffollati che trasportano infezione. La sensazione è quella dell’abbandono per il cittadino lasciato solo, […] mentre il potere pubblico – Stato e Regioni – ha sprecato l’estate in uno scaricabarile di responsabilità che è un’altra conferma della scomposizione del Paese, a partire dal potere pubblico”.
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La vita non essenziale
di Cristina Morini
«Le attività non essenziali»: passerà alla storia questa dizione legata alla pandemia Covid-19 a definire tutto ciò che non attiene alla sfera delle attività ufficialmente immesse nel processo di produzione capitalistico e non formalmente retribuite. Per essere più chiari essa prova a definire quegli atti che non sono «condizioni oggettive del lavoro» della «forza-lavoro viva», quindi, marxianamente, non fanno parte «dei mezzi di sussistenza e dei mezzi di produzione» [1]. O, più semplicemente ancora, circoscrive tutto ciò che non può dirsi «occupazione retribuita, considerata come mezzo di sostentamento e quindi esercizio di un mestiere, di un’arte o di una professione» [2].
Si tratta perciò della sfera ibrida delle azioni umane improduttive che hanno a che vedere con il relazionarsi con gli altri, con i legami sociali, con aspetti che impegnano le nostre vite e il loro mantenimento in una rete di rapporti molteplici con altri esseri viventi, al di fuori dal tempo del lavoro produttivo certificato come tale. L’affermazione del governatore Toti di tenere a casa i non indispensabili non fa che ribadire ulteriormente il principio ispiratore degli apparati decisionali di fronte all’emergenza sanitaria. Un piano tutto ordinato intorno al ruolo essenziale del profitto che va accettato in una sorta di sottomissione collettiva ritualizzata. A fare resistenza rispetto alla narrazione dominante, governata attraverso lo strumento velenoso della paura mediatica, sono state soprattutto le donne.
Affermo una volta per tutte, per l’ennesima volta, che il problema dell’emergenza sanitaria è grave e reale, soprattutto perché il sistema si è dimostrato incapace di reggerne l’urto. Le disposizioni governative che abbiamo visto succedersi fino ad ora hanno messo in luce un modello atto soprattutto a preservare le attività esplicitamente economiche (pubblico-produttive) e a limitare tutte quelle correlate alle relazioni umane (privato-improduttive).
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