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L'itinerario teorico-politico di Mario Tronti
Andrea Cerutti intervista Massimo Cacciari
“Caro Mario, le stelle di quel pensiero critico che ti ha sempre ispirato, non brillano più in questa povera Italia annichilita da un pensiero unico che ha fatto strame di ogni criticità. Siamo stati sconfitti, ma non per questo ti sei, ci siamo arresi o peggio ancora passati al nemico”. Così Massimo Cacciari aveva salutato l’amico di decenni. In questa intervista si è cercato di ricostruire per cenni un lungo e articolato itinerario teorico-politico che è anche la storia di un’“amicizia stellare”, a distanza ma prossimi, senza perdersi mai.
* * * *
Quando vi siete conosciuti con Tronti?
Ci conoscemmo all’incirca con l’inizio dell’avventura di classe operaia. Il primo del gruppo che io conobbi fu Toni Negri, stava a Venezia ed era oltretutto fidanzato con la sorella del mio migliore amico. E attraverso Toni ho poi conosciuto Mario, Asor, Coldagelli e, insomma, tutti quanti.
Mario era iscritto al PCI, si era formato in quel contesto di sezione di partito.
Ma questo non appariva. Toni Negri si era già separato dal partito socialista in cui aveva militato a Padova. E anche negli altri, quando li conobbi, compreso Tronti, non si avvertiva affatto questa origine. L’elemento critico nei confronti della sinistra tradizionale, del partito comunista, era radicale, fortissimo. La mia simpatia per questi personaggi derivava anche da questo.
Operai e capitale, l’opera di Tronti, si poneva in forte contrapposizione con tutta la tradizione gramsciano-togliattiana del PCI.
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Anni ’70. Sconfitti sì, pentiti no
di Ennio Abate
Ho letto negli ultimi giorni varie reazioni alla presa di posizione della filosofa Donatella Di Cesare in occasione della morte di Barbara Balzerani.I E mi sono chiesto perché noi ex della nuova sinistra torniamo sull’argomento del lottarmatismo degli anni ’70, anche quando siamo fuori gioco rispetto all’attuale svolgimento della lotta politica.
E mi chiedo anche perché i commenti su quelle vicende non riescono ad andare, ancora oggi, oltre la demonizzazione dei brigatisti e l’assoluzione dei governanti d’allora. Mi ha colpito anche che quanti hanno difeso almeno il diritto d’opinione della Di Cesare diano per scontato il giudizio negativo sul lottarmatismo (o terrorismo) ma tacciano su come lo Stato lo abbia vinto e abbia vinto anche le formazioni politiche della nuova sinistra (Avanguardia Operaia, Lotta Continua, Pdup, MLS) che il lottarmartismo criticarono. E, cioè, non accennino più ai danni subiti dalla democrazia italiana proprio da quella vittoria dello Stato.ii Ancora nel 2024, dunque, il dibattito non può uscire dall’oscillazione: compagni criminali o compagni che sbagliarono. (E a sbagliare oggi sarebbe la Donatella Di Cesare).
Non è in questione la competenza di chi ha preso posizione sulla vicenda, di letture fatte o non fatte, di conoscenza della letteratura sul fenomeno. Ce n’è stata tanta. E l’abbiamo tutti più o meno macinata. Il blocco più che cognitivo mi pare emotivo.
Siamo tuttora bloccati di fronte a un tabù. Troppo influenzati o sottomessi alla interpretazione autoritaria dei vincitori.
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Il popolo russo, Putin, la democrazia
di Piero Bevilacqua
Pensare con idee ricevute
E’ davvero stupefacente leggere o ascoltare intellettuali e studiosi democratici e di sinistra, talora di sinistra avanzata o radicale (cioè di sinistra, ma il termine è stato infamato dal cosiddetto centro-sinistra) che ancora oggi, dopo due anni di guerra in Ucraina, dopo tutte le rivelazioni di fonti americane, le ricostruzioni storiche dei precedenti che hanno preparato quel conflitto, continuano a ripetere lo slogan << la brutale invasione russa>>, <<l’occupazione violenta della Crimea>>, ecc. Gli stessi stereotipi e retoriche si ripetono per il massacro in corso nella martoriata Gaza. I combattenti di Hamas sono terroristi perché hanno ucciso civili israeliani con il pogrom del 7 ottobre (cosa, ahimé, terribilmente vera e ovviamente da condannare, ma non bisognerebbe mai dimenticare la storia che la precede e predispone) mentre i soldati di Israele che di civili palestinesi, e soprattutto di bambini, ne hanno ucciso e ne vanno ammazzando un numero spaventosamente superiore, restano soldati.Intendiamoci, la guerra è sempre un errore, è l’ingresso al più grande degli orrori. Quindi condanniamo quella scelta di Putin. Ma chi non riconosce che la Russia è stata trascinata in quel massacro è persona non informata dei fatti.
Svolgo le considerazioni che seguono non solo per il dispiacere che provo a sentire anche tanti amici e studiosi di valore ripetere queste espressioni che sono il calco della vulgata occidentale, ma perché ovviamente tale subalternità interpretativa all’informazione corrente indebolisce gravemente l’opposizione politica all’atlantismo, che ci chiama alla guerra, all’involuzione antidemocraitca dell’UE, frena l’azione a favore delle trattative e della pace.
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La sinistra nel pantano dell’elettoralismo
di Marco Morra[1]
La crisi di Unione Popolare
Sono passati diciotto mesi da quando Unione Popolare (UP) fu lanciata dai partiti Democrazia e Autonomia (DeMa), Rifondazione comunista (PRC), Potere al popolo (PAP) e da Manifesta, la componente alla Camera delle ex deputate del M5S, Silvia Benedetti, Yana Chiara Ehm, Doriana Sarli, Simona Suriano. La coalizione, nata in occasione delle elezioni politiche del 2022, pretendeva di essere qualcosa di più dell’ennesimo cartello della sinistra radicale destinato a non sopravvivere all’ennesima sconfitta elettorale. Un progetto strategico capace di indicare, a partire da obiettivi politici e rivendicativi unificanti, una prospettiva di ricomposizione delle forze alla sinistra del PD.
È bastato poco, tuttavia, perché questa prospettiva mostrasse le prime crepe profonde. La proposta di una lista elettorale più attrattiva avanzata da Michele Santoro e Raniero Della Valle lo scorso settembre e diventata realtà il 14 febbraio. Una lista, o meglio, un movimento “per portare al centro della campagna elettorale per le europee la parola pace”, secondo le dichiarazioni di Santoro. «Pace, terra, dignità», poche, semplici parole d’ordine per unificare il campo pacifista e riavvicinare gli elettori delusi dalla politica, intorno a un tema, la guerra, considerato la radice di tutti i mali, dalle migrazioni alla crisi climatica alla mancanza di politiche sociali.
Il progetto ha sin da subito rapito l’attenzione di alcuni dei principali leader di Unione Popolare. Il suo portavoce, Luigi De Magistris, si è espresso a favore di una lista unitaria che potesse “superare la soglia di sbarramento”, impegnandosi nella ricerca di una mediazione soddisfacente per tutte le componenti di UP. Maurizio Acerbo, invece, segretario del PRC, ha operato una netta forzatura rispetto alle valutazioni ancora in corso nella coalizione, schierandosi a favore della più ampia convergenza tra le forze che hanno assunto “posizioni coerentemente contro la guerra”.
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Dal mondo unipolare verso un mondo multipolare
di Enrico Vigna*
Da alcuni anni il mondo è mutato e si stanno trasformando gli equilibri e le architetture geopolitiche, economiche e strategiche mondiali. Una mutazione veloce, quasi debordante, che procede tuttora a un ritmo incalzante. I vecchi equilibri/relazioni/alleanze fra le potenze mondiali e i rispettivi campi di influenza, vengono bruscamente rimessi in discussione sul piano militare, politico, economico, culturale e persino spirituale. Piaccia o meno, la storia ci presenta questa situazione. Come evolverà o si svilupperà o regredirà saranno, come sempre, la storia e i fatti a sancirlo. Ma negare ciò che sta avvenendo o sottovalutarlo equivale, oggettivamente, a vivere fuori dalla realtà o in dimensioni autoreferenziali dottrinarie; nel contempo, si tratta di non idealizzare o rendere idilliaco un processo che è storico e materiale, quindi suscettibile ed esposto, nei suoi passaggi, a continue modifiche, limiti, contraddizioni o reversibilità oggettive.
Dalla seconda metà del XX secolo fino al 1989, il mondo ha vissuto un’era bipolare, con due campi: da una parte l’Urss, i Paesi socialisti, ma in questo campo rappresentato dall’Urss, va ricordato, vi erano collocati, spesso in modo non formalizzato od organico, i tre quarti dell’umanità (movimento non allineati, i Paesi liberatisi dal colonialismo, i movimenti o fronti antimperialisti in lotta, o Paesi come la Francia che, in difesa della propria indipendenza, non aderiva alla Nato. Dall’altra parte, il blocco Usa/Nato con i Paesi subalterni atlantisti.
Questa fase storica si concluse con la distruzione e dissolvimento dell’Urss e del suo campo, a inizio anni ‘90, ed è stata, di fatto, un’era unipolare, esauritasi da poco.
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J.-P. Sartre e la tragedia di Oreste nel Novecento
di Fernanda Mazzoli
Una prima proposta di approfondimento rivolta a quanti – muovendo dalla lettura di «Les mouches» – siano interessati a sviluppare un dialogo per aprire un varco nell’odierna soffocante cappa culturale-politica che asfissia intelligenze e coscienze
Da Argo a Parigi la strada è lunga, gli inciampi numerosi e le deviazioni di percorso ancora di più. Gli dèi dell’Olimpo scompaiono, le vendette scolorano, madri e sorelle invecchiano, perdendo cupa grandezza e trepida pietà. Eppure, Oreste continua il suo viaggio, sospinto dalle Erinni e da troppi interrogativi irrisolti, e una sera del giugno 1943 calca le scene di un teatro parigino, vestendo i panni del protagonista nel dramma di Sartre Les mouches. Fuori, un altro dramma tiene avvinta la città: l’occupazione nazista.
Duemila anni e più di cammino lungo le vie della cultura occidentale lo hanno non poco segnato: ha perso qualche radice e non poche convinzioni e più che cercare gli assassini del padre sta cercando se stesso, ma per potere dire sono deve prima di tutto fare e dunque è alla ricerca di un’azione e dal momento che tutt’intorno e anche dentro il teatro ci sono i Tedeschi, allora non può che uccidere Egisto, usurpatore del trono di Agamennone.
È così che, nel quadro narrativo offerto dal mito, nell’opera sartriana filosofia e politica si mescolano e si compenetrano, lasciando aperte tante questioni che ancora oggi, anzi oggi più che mai, ci incalzano. La stessa impasse su cui si conclude il testo offre un fertile terreno alla ricerca.
La breve presentazione che segue non pretende di essere uno studio critico, e tanto meno esaustivo, della pièce del filosofo e scrittore francese, quanto, piuttosto, di stimolare l’approfondimento di alcuni temi che, a partire da Les mouches, investano diverse sensibilità culturali e campi del sapere.
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Cibernetica o barbarie!
di Stefano Borroni Barale*
Dal n. 6/2024 di “Collegamenti per l’organizzazione diretta di classe” pubblichiamo questo articolo di Stefano Borroni Barale con importanti proposte di lotta per il mondo della scuola
Rifiutare la formazione obbligatoria è un poderoso primo passo. Siamo pronti per il successivo?
“Noi vogliamo glorificare la guerra – sola igiene del mondo – il militarismo, il patriottismo, il gesto distruttore dei libertari, le belle idee per cui si muore e il disprezzo della donna. Noi vogliamo distruggere i musei, le biblioteche, le accademie d’ogni specie, e combattere contro il moralismo, il femminismo e contro ogni viltà opportunistica o utilitaria.” – Filippo Tommaso Marinetti, “Manifesto del Futurismo”, 1909
La transizione digitale (1) a marce forzate, iniziata con lo stanziamento l’anno scorso di 2,1 Miliardi di euro per l’acquisto di laboratori e aule “digitali” entra ora nel vivo, con un programma di formazione dei docenti mastodontico. È la fase che l’ex Ministro Bianchi aveva definito “riaddestramento” del corpo docente (2). Per fortuna questo passaggio sembra risvegliare almeno una minoranza di docenti dal loro torpore: giungono echi di ribellione da alcuni collegi docenti (quello del Liceo Socrate, così come dell’IIS Di Vittorio Lattanzio, a Roma), che fortunatamente hanno rigettato il programma di formazione al digitale previsto dal D.M. 66.
L’impressione, però, è che manchi ancora una visione d’insieme, anche tra queste minoranze critiche. Certo, abbiamo compreso che i piani di formazione ministeriali (Piano Nazionale Scuola Digitale – PNSD e Piano Scuola 4.0, per citare solo gli ultimi) hanno dell’innovazione tecnologica un’idea talmente antidiluviana che vi si possono scorgere elementi di una retorica “neo-coloniale”, quella che poneva al centro l’uomo bianco, maschio e cristiano pronto a salpare per conquistare e sottomettere la natura selvaggia e incolta grazie alla forza della tecnologia, portando –grazie a questa– la civiltà “in salsa digitale”.
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Il riarmo europeo tra contrasti fra paesi e crescita dell imprese belliche
di Domenico Moro
Sembra passato molto tempo da quando la transizione ecologica era al centro del dibattito della Ue, oggi le preoccupazioni green hanno lasciato il passo alla spinta a potenziare la difesa europea. Nel recente Consiglio europeo – il consesso che riunisce i capi di governo europei – l’attenzione è andata tutta alla questione militare e alla guerra.
Tuttavia, le spaccature sono evidenti tra i 27 Paesi che compongono la Ue, e che faticano a trovare una posizione unitaria specialmente sul finanziamento del riarmo ritenuto necessario per affrontare la Russia di Putin. Tale difficoltà è dovuta alla disomogeneità degli interessi nazionali, sui quali pesa la posizione geografica, più o meno vicina all’epicentro della crisi bellica, cioè all’Ucraina, ma anche l’orientamento politico generale. Ad esempio mentre Pedro Sanchez, primo ministro spagnolo, afferma che “non bisogna spaventare troppo i cittadini con discorsi di guerra”, l’omologa estone, Kaja Kallas, sostiene che “occorre prepararsi anche a una guerra sul terreno”, riecheggiando le recenti dichiarazioni del presidente francese, Macron, secondo il quale non è da escludere l’invio di truppe di terra in Ucraina.
La spaccatura non è solo sulla percezione della imminenza della guerra. Anche se quasi tutti i Paesi sono più o meno d’accordo sul potenziamento dei loro apparati bellici, sono però spaccati in due sulle modalità di finanziamento del riarmo. La spaccatura esiste anche tra la Commissione europea, guidata da Ursula von der Leyen, che propone di istituire un centro di spesa comune per acquisire munizioni e armi da inviare all’Ucraina, e Olaf Scholz, il cancelliere tedesco, che lo ritiene inutile.
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L’anarco-comunismo di Pietro Kropotkin
di Salvatore Bravo
Pietro Kropotkin1 con la sua storia e biografia di anarchico-comunista testimonia che la classe sociale di appartenenza non è un destino; non è la gabbia ideologica alla quale il soggetto umano deve necessariamente adattarsi e plasmarsi. L’essere umano è libero, può scorgere le contraddizioni che scuotono e muovono la totalità dell’assetto sociale per immaginare e ipotizzare, a partire dalle condizioni contingenti, un sistema sociale altro, in cui il soggetto umano non è un mezzo ma il fine. L’umanesimo è in tale centralità dell’essere umano, che con la prassi risolve le condizioni reificanti che umiliano la natura umana. In una realtà sociale segnata unicamente dal profitto, tale è il capitalismo, ogni soggetto umano rischia di diventare “il corpo doloroso” che vive e pone relazioni di violenza non riconosciute. L’anarchico e comunista russo Pietro Kropotkin al di là delle leggi che determinano la storia secondo la visione marxista, in primis, valuta eticamente e quindi politicamente il sistema capitalistico, per poter progettare il suo superamento con il metodo scientifico e marxista. Senza lo scandalo etico non c’è politica e non c'è pensiero, ma solo tatticismo e adattamento omologante.
Di nobili origine decise di abbandonare la propria condizione privilegiata nella Russia ottocentesca per progettare e pensare l’esodo dal capitalismo. Il dominio con le sue strutture gerarchiche nega la natura libertaria dell’essere umano. Il capitalismo con la sua struttura proprietaria improntata all’accumulo infinito di profitto è la “compiuta peccaminosità realizzata”.
Il capitalismo ha incorporato la tecnica grazie alla quale produce una quantità di merci che il mercato non riesce a smaltire e pur di tenere alti i prezzi delle merci distrugge ciò che potenzialmente potrebbe soddisfare i bisogni del popolo.
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Chi vuole la guerra
di Carlo Lucchesi
Il completo asservimento alla causa degli USA della quasi totalità dei media del nostro paese e, per quanto si può conoscere, dell’intero Occidente, pone questioni delle quali chi non intende soggiacere insieme a loro dovrebbe discutere a fondo e tentare di risolverle. Parto da quella apparentemente meno importante, vale a dire le forme della manipolazione informativa. Queste si sono fatte sempre più sporche. Nella carta stampata, sapendo che il lettore scorre rapidamente i titoli e seleziona così i pochissimi pezzi da leggere, è proprio al titolo che è affidato il compito di veicolare il messaggio truffaldino tanto che il testo sottostante può anche dire cose diverse o non parlare affatto di quello che il titolo aveva annunciato. I “secondo voci raccolte…” (di chi? e chi le ha raccolte?), oppure “come racconta…” (e si cita un presunto testimone sconosciuto al mondo), o ancora le interviste a persone che hanno palesemente in odio la Russia e non vedono l’ora di attribuirle tutti i mali del mondo, presenti e futuri, le inchieste come collage di pezzi di agenzia ritagliati a misura per rendere credibile il palesemente falso, la classificazione di “buono” per chi sta con l’Occidente, qualunque misfatto compia, e di “cattivo” per chi non sta con l’Occidente, ed è cattivo sempre e comunque e nutre le peggiori intenzioni immaginabili anche se non ha mai profferito parola che possa renderle minimamente verosimili: tutto questo è stato ed è il pane quotidiano del nostro giornalismo accanto alla sistematica denigrazione di chiunque abbia l’ardire di provare a ragionare su ciò che sta accadendo. Ovviamente, una volta che i fatti dimostrino via via la falsità della narrazione (dalla malattia di Putin allo sfascio della Russia fino alla trionfale controffensiva ucraina passando attraverso decine di anticipazioni fasulle), non seguono né smentite, né correzioni di rotta. Anzi, per ogni bolla che scoppia se ne soffia un’altra magari più grande.
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Andare oltre l’inferno planetario
di Gennaro Avallone
In questi giorni esce in libreria per Ombre Corte Oltre la giustizia climatica. Verso un’ecologia della rivoluzione, di Jason Moore e a cura di Gennaro Avallone. Siamo felici di condividere l’Introduzione al testo di Gennaro Avallone, per cui ringraziamo la casa editrice e l’autore
L’inferno planetario
“Non è l’Uomo, ma è il Capitale il responsabile dell’inferno planetario”. È questa una delle affermazioni al centro di questo libro. La frase contiene tre concetti fondamentali per comprendere il mondo in cui viviamo e le sfide che dobbiamo affrontare. Il primo si riferisce a quello di Uomo, un’astrazione che ha accompagnato l’intera modernità in contrapposizione all’altra, quella di Natura, legittimando, in base a tale polarità, la superiorità degli esseri umani definiti civili (l’Uomo) su tutte le altre forme di vita, umane comprese, identificate come selvagge (la Natura). Il secondo concetto è quello di capitale, il rapporto socio-ecologico che ha plasmato il mondo dalla fine del 1400, costruendolo come un enorme magazzino di forme di vita di cui disporre e forme di vita da annullare, fino alla loro estinzione, se inutili o di ostacolo alla sua riproduzione. Il terzo concetto è quello di inferno planetario. Con esso, si individuano due processi. Il primo si riferisce agli effetti del riscaldamento globale e del cambiamento climatico in corso, che stanno trasformando parti del pianeta in luoghi totalmente ostili alla vita umana e ad altre forme di vita a causa delle alte temperature, della riduzione della fertilità dei suoli e della siccità, fino alla mancanza di accesso all’acqua potabile. Il secondo processo riguarda il fatto che per una parte dell’umanità, costituita da alcuni miliardi di persone, e per una molteplicità di vite animali, la vita sul pianeta è strutturalmente una sofferenza, dovuta ai processi di devastazione ambientale e svalorizzazione economica e culturale e alle profonde disuguaglianze socioecologiche che caratterizzano il globo.
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Gaza. Il carattere performativo della violenza israeliana
Patrizia Cecconi intervista il prof. Angelo Stefanini
Il prof. Angelo Stefanini[i] medico, accademico, fondatore del CSI (Centro di Salute Internazionale) e già direttore dell’OMS per i Territori Palestinesi Occupati, lo scorso 20 febbraio ha partecipato a un convegno a Palazzo d’Accursio a Bologna che aveva per tema il cessate il fuoco a Gaza. La Comunità ebraica e altre associazioni di italiani di religione ebraica hanno protestato vivamente perché hanno ritenuto lesiva della libertà di uccidere di Israele la richiesta di cessare il fuoco! Il convegno si è comunque svolto e l’intervento del prof. Stefanini, inerente l’ambito sanitario, è risultato pari a un pugno nello stomaco per chiunque abbia una coscienza e, con essa, una sensibilità umana e il necessario senso critico per interpretare la realtà nonostante la vergognosa manipolazione mediatica.
La relazione del prof. Stefanini aveva per titolo “Gaza: la guerra agli ospedali” e, a distanza di un mese, abbiamo deciso di intervistarlo proprio sul contenuto di quella relazione che, per quanto scioccante, risulta meno grave di quanto successo in seguito come se, avendo testato la possibilità di agire impunito, Israele avesse scientemente deciso di non avere più limiti nel procedere allo sterminio indisturbato di decine di migliaia di civili, utilizzando anche armi fornite dai paesi che, con disgustosa ipocrisia, mentre lo riforniscono di strumenti micidiali, lo invitano ad ammazzare “un po’ di meno”.
Col prof. Stefanini ci siamo conosciuti alcuni anni fa proprio nella Striscia di Gaza dove, con funzioni diverse, seguivamo l’équipe cardio-chirurgica del dr. Luisi del PCRF che operava i bimbi con seri problemi cardiaci che non potevano uscire dalla Striscia di Gaza sotto l’assedio israeliano, ora sotto le bombe o sotto le macerie.
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Salario minimo? Timeo Danaos et dona ferentes
di Carlo Formenti
L’Italia è l’unico Paese europeo che abbia registrato una contrazione dei salari reali nel trentennio 1990-2020; è anche il Paese che vanta il poco invidiabile record di una percentuale a due cifre di working poor (nel 2019 i lavoratori in condizioni di povertà erano l'11,8% del totale); è infine il Paese in cui i lavoratori che percepiscono una retribuzione oraria inferiore agli otto euro e mezzo l'ora sono più di un milione (1,3). Non sono forse tre buone ragioni per fissare un salario minimo legale, provvedimento che ci viene fra l’altro sollecitato dall'Europa? Savino Balzano, sindacalista pugliese (di Cerignola, città natale di Di Vittorio, precisa orgogliosamente) già autore di libri (1) sulle problematiche del lavoro e collaboratore de La Fionda, non è convinto che questa sarebbe la soluzione giusta per migliorare le condizioni di una delle classi lavoratrici più tartassate del mondo occidentale, e spiega le ragioni di tale opinione in un pamphlet dal titolo Il salario minimo non vi salverà, appena uscito da Fazi Editore.
Il salario minimo, sostiene, potrebbe essere l'ultima di una lunga serie di trappole che, a partire dalla seconda metà degli anni Settanta, hanno collaborato a ridurre progressivamente il potere contrattuale dei lavoratori italiani, fino a ridurlo praticamente a zero. Descrivendo le tappe di questa via crucis, l'autore prende le mosse da Luciano Lama, la vestale del moderatismo sindacale che, con parole degne di Menenio Agrippa, spiegò agli operai che l'impasse del lungo ciclo di lotte del decennio 60/70 era l'inevitabile esito di una stagione di rivendicazioni "estremiste", alimentate dall'illusione di fare del salario una variabile indipendente. Purtroppo, ammoniva Lama, appellandosi alle "leggi" dell'economia canonizzate dagli esperti al servizio della Confindustria, il capitalismo conosce una sola variabile indipendente, vale a dire quel profitto che, ove costretto a scendere al di sotto di un "ragionevole" minimo, provoca crisi, disinvestimenti, chiusure di imprese, licenziamenti.
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Bisogna essere contro la guerra o anche contro le sue radici?
di Alessandra Ciattini e Federico Giusti
Nonostante la censura, molti analisti e soggetti politici stanno da tempo prendendo posizione contro gli attuali conflitti, che potrebbero sfociare nell’“ultima guerra mondiale”. Purtroppo, essi non si pongono spesso il problema del perché questo sistema economico e sociale inevitabilmente genera guerre e conflitti, finendo col sostenere un astratto e inefficace pacifismo.
Nel panorama politico e mediatico internazionale appaiono, ormai da tempo insieme ai propagandisti di regime, molti soggetti che prendono posizione contro la guerra in Ucraina, contro il genocidio di Gaza, contro lo smisurato incremento delle spese per le armi, sempre più sofisticate. Pur apprezzando, con qualche distinguo, questa posizione politica, vorremmo qualcosa di più. In particolare urge comprendere perché, sempre più, le questioni internazionali si risolvano con la violenza, demonizzando nella forma più semplicistica e grottesca gli avversari, e adoperandosi per persuadere le masse, ormai inerti e quasi rassegnate, alla necessità della guerra, magari non più diretta dagli Stati Uniti ma portata avanti da un “finalmente autonomo” esercito europeo. A questo scopo l’Ue dovrà dotarsi di forze di intervento rapide, dei migliori armamenti disponibili sui mercati, di strumenti informatici e tecnologici avanzatissimi, ricorrere all’intelligenza artificiale e ai sistemi tecnologici guidati a distanza. E probabilmente la guerra diventerà ancora più spietata.
Questi aspetti sono documentati dagli ultimi dati, forniti dal Sipri (Stockholm International Peace Research Institute), i quali attestano una riduzione della spesa sociale nei paesi Ue e, allo stesso tempo, il potenziamento della ricerca a fini di guerra e della spesa militare nel suo complesso.
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Merito e diseguaglianza nelle riflessioni sulla scuola di Antonio Gramsci
di Salvatore Cingari*
Abstract. Il saggio ricostruisce l’utilizzo da parte di Gramsci del tema del “merito” nel suo discorso sulla scuola e l’educazione. Negli scritti pre-carcerari la critica ai privilegi delle classi più abbienti viene svolta sulla base di una rivendicazione dei meriti dei tanti soggetti di famiglie proletarie impossibilitati a coltivarli e farli valere. Nei Quaderni dal carcere tale posizione viene inserita nel quadro di uno Stato Nuovo, in cui la classe dirigente viene selezionata su un corpo sociale interamente messo in grado di partecipare cognitivamente all’autogoverno del lavoro. Vengono anche segnalati significativi parallelismi con i concetti bourdesiani di habitus e riproduzione.
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1. Premessa: il problema del merito oggi e nella storia del pensiero politico
La scuola come fondamentale leva per sollevare i ceti popolari oltre la subalternità è un tema già più volte trattato in passato dalla letteratura su Gramsci1. Qui però si vuole affrontare la questione da una specifica angolatura: il leader comunista come considerava il problema del «merito» e come lo inseriva nella sua più generale visione dell’eguaglianza (o perlomeno in ciò che di essa traspare dietro il suo marxismo per lo più non normativo)? Per quanto riguarda la meritocrazia, mi limito a ricordare come questa sia diventata negli ultimi anni una parola chiave per comprendere l’egemonia neoliberale2. Thomas Piketty, in Capital et ideologie, ha sottolineato come tale lemma sia sempre più utilizzato perché nei sistemi politico-sociali che dichiarano formalmente l’uguaglianza dei diritti, si va aprendo in modo crescente una grande diseguaglianza sostanziale, con la conseguente necessità di doverla giustificare3. Nancy Fraser, in un saggio dal titolo esplicitamente gramsciano, Il vecchio muore e il nuovo non può nascere, sostiene che il liberalismo ha sostituito il concetto di giustizia sociale con quello di meritocrazia4.
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Metamorfosi di Macron, crisi dell’asse franco-tedesco, e frantumazione dello spazio politico europeo
di Roberto Iannuzzi
Le bellicose dichiarazioni del presidente francese sono il sintomo di una profonda crisi delle leadership europee, non la riposta a una reale minaccia russa
Quella che a fine febbraio era apparsa a molti come una boutade del presidente francese Emmanuel Macron (“l’invio di truppe occidentali in Ucraina non può essere escluso”), si è trasformata con il passare dei giorni nel cavallo di battaglia del capo dell’Eliseo.
In un’agguerrita intervista televisiva in prima serata, lo scorso 14 marzo, Macron ha rincarato la dose. Descrivendo ancora una volta il conflitto ucraino in termini esistenziali (“Se la Russia dovesse vincere, le vite dei francesi cambierebbero”, “Non avremmo più sicurezza in Europa”), il presidente francese ha ribadito che l’Occidente non dovrebbe permettere alla Russia di vincere.
Spiegando che tutte le precedenti linee rosse sono state oltrepassate dall’Occidente in Ucraina (inviando missili e altri sistemi d’arma che inizialmente si riteneva impensabile fornire a Kiev), egli ha lasciato intendere che neanche l’invio di soldati dovrebbe essere considerato un tabù (in effetti, militari occidentali sono già in Ucraina).
Ambiguità strategica
Chiarendo che non sarà mai la Francia a prendere l’iniziativa militare attaccando i russi in territorio ucraino, il presidente francese ha mantenuto una voluta ambiguità sull’effettiva possibilità di inviare truppe e sugli eventuali obiettivi di una simile missione, definendola “ambiguità strategica”.
Egli ha sottolineato di nuovo questi concetti in un’intervista al quotidiano Le Parisien, di ritorno da una riunione del cosiddetto Triangolo di Weimar (che raggruppa Germania, Francia e Polonia) a Berlino.
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Europa nel dramma della realtà
di Pierluigi Fagan
La tesi dell’articolo (che deriva da un post su un social) sarà analizzare la condizione di progressiva alienazione di Europa dalla realtà. Europa (sua cultura, politica, mentalità media distribuita, senso comune) si trova oggi conficcata in una ragnatela di impossibilità pratiche e culturali basate su una sostanziale nevrosi da negazione del tempo e del mondo circostante. Alla fine, ci ricollegheremo a due brevi fotografie su alcuni aspetti di questa fuga dal reale su base info-digitale, sintomo del fatto che la negazione nevrotica sta procedendo in psicosi. Più il mondo è aguzzo e ispido, più tattilmente setose le superfici dei nostri smartphone.
Da tempo segnalammo la necessità di cominciare a separare il vago concetto di occidentalità, tornando alle due componenti storico-culturali forti costitutive del sistema, quella europea e quella anglosassone anche se ormai più propriamente statunitense. Europa e USA si trovano su linee divergenti di condizione, prospettiva e tradizione. Ma se USA fa o tenta di fare la realtà in molti modi, Europa è semplicemente in fuga dal reale. Cosa è successo, cosa sta succedendo, cosa del reale spaventa irrimediabilmente Europa, perché sembra che improvvisamente ci troviamo assediati da “difficoltà insormontabili”, tanto da fuggire da ogni consapevolezza in maniera tanto più patologica quanto più avanzano le contrarietà degli eventi?
1. PROSPETTIVA INTERROTTA
Una prospettiva è una proiezione nel tempo della continuità dell’esistente. L’essenza della prospettiva è la prevedibilità.
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Di ogni cosa si dovrebbe poter dubitare, ovvero Maniac di Benjamín Labatut
di Luca Alvino
La matematica nasce essenzialmente per esigenze pratiche. Le civiltà antiche svilupparono assai presto la capacità di rappresentare dei numeri in modo elementare. Anzi, probabilmente gli uomini impararono a contare ancora prima che a usare le parole, le quali evidentemente richiedevano una maggiore capacità di astrazione. Per migliaia di anni, l’aritmetica come la geometria e le altre scienze continuarono ad avere scopi molto pratici, che avevano a che fare con la vita quotidiana. Fu solo in epoca moderna che la matematica iniziò a divenire più astratta, cioè a speculare su concetti che non avevano (almeno apparentemente) più nulla a che vedere con la vita di tutti i giorni, iniziando a focalizzarsi piuttosto sulla propria forma (ovvero la sintassi) e a mettere in secondo piano la sostanza (cioè i contesti reali cui i simboli si riferiscono). In altre parole, iniziò a rappresentare una realtà simbolica (o un modello di realtà) che non era propriamente la realtà come noi la percepiamo, ma che tuttavia le consentiva di compiere delle scoperte concrete. Il suo elevato livello di astrazione le permetteva infatti di sviluppare un ragionamento che, proprio per la sua levatura, poteva avere una ricaduta molto più ampia verso il basso, ovvero proprio sulla vita concreta.
Questa premessa mi sembra importante per tentare di comprendere gli argomenti chiave trattati nel romanzo MANIAC di Benjamín Labatut, uscito in Italia per Adelphi lo scorso anno con l’illustre traduzione di Norman Gobetti. Mi pare infatti che questo libro voglia rappresentare il processo in cui la matematica, dopo essersi innalzata nelle altezze siderali dell’astrazione, nel secolo scorso inizia la sua ricaduta verso la realtà e vi si ripercuote – in certe sue applicazioni – in modo potente.
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Roma, censura per chi parla di Palestina a scuola
di Redazione Monitor Roma
A pochi giorni di distanza dalle manganellate sugli studenti pisani che manifestavano contro il genocidio in corso in Palestina, vale la pena riflettere sul clima di censura presente nelle scuole nei confronti di chi critica il colonialismo israeliano. Due casi in particolare hanno fatto discutere: il licenziamento di un assistente all’educazione algerino del liceo francese Chateaubriand di Roma, impiegato da più di dieci anni e adesso sotto accusa per aver pubblicato un post Instagram sgradito, e la vicenda di un insegnante di filosofia e storia del liceo scientifico Augusto Righi di Roma, che ha subito una serie di fortissimi attacchi a mezzo stampa, fondati su notizie false, e provvedimenti disciplinari che potrebbero portare a nuove sanzioni.
Il 30 ottobre scorso un articolo del Corriere della sera, ripreso acriticamente da altri giornali, ha sostenuto che il professore del Righi avesse assegnato a una classe un tema che chiedeva di commentare le posizioni su Israele e sul massacro in atto espresse da un alunno, cittadino italo-israeliano, durante la lezione. A detta del giornale il professore avrebbe messo in imbarazzo lo studente, ma la notizia è stata subito smentita pubblicamente da un documento degli alunni e delle alunne della classe.
Sulla scia delle polemiche, il professore è stato sottoposto ad alcuni provvedimenti disciplinari: una contestazione d’addebito da parte della dirigente scolastica (che si conclude con la sanzione “censura”), una visita a scuola di tre ispettori inviati dal ministero dell’istruzione e l’avvio di un altro procedimento disciplinare da parte del ministero, di cui ancora si attende l’esito e che annuncia gravi sanzioni.
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Sulla prostituzione. Una riflessione a partire da un’analisi di Carlo Formenti
di Fabrizio Marchi
Ho letto questa largamente condivisibile analisi dell’amico Carlo Formenti sul tema della prostituzione e della maternità surrogata https://www.sinistrainrete.info/societa/27658-carlo-formenti-libere-di-vendere-il-proprio-corpo-a-pezzi.html
Sulla seconda questione, cioè l’utero in affitto (anche i suoi sostenitori hanno pudore nel definirlo tale e infatti lo chiamano appunto ”maternità surrogata” proprio per renderlo più accettabile) non ho nulla da dire perché condivido in toto la sua analisi.
Sulla prima invece ho un punto di vista diverso dal suo, forse perché – mi permetto di dire – ho indagato (e, probabilmente, anche esperito) un po’ più di lui l’argomento. Mi pare di poter dire, infatti, che anche Formenti – che pure ha da tempo elaborato una critica severa dell’ideologia femminista, in particolare nella sua attuale declinazione, quella neoliberale dominante – resta tuttavia ancora parzialmente prigioniero della visione femminista perché, anche indagando questo aspetto, parte sempre e soltanto dal punto di vista femminile e mai da quello maschile, con l’ovvia conseguenza di avere una visione parziale del problema. In parole ancora più semplici, anche Formenti, analizzando il fenomeno della prostituzione, non riesce a uscire dalla coppia dicotomica carnefice/vittima, dove il carnefice è ovviamente l’uomo e la vittima è la donna. O meglio, a un certo momento ne fuoriesce, meritoriamente, quando scrive: “…mi si potrebbe obiettare che, nel caso della prostituzione, è difficile negare che si tratta di un fenomeno patriarcale più che (o almeno altrettanto che) capitalistico. Anche perché fenomeni come il turismo sessuale e altre forme di violenza e la sopraffazione che i maschi esercitano sui corpi di donne e minori caricano il tema di forti valenze emotive.
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La forma di merce della forza-lavoro
di Gianfranco Pala
Tratto da Gianfranco Pala, Il salario sociale. La definizione di classe del valore della forza-lavoro, Laboratorio Politico, Napoli, 1995
“La ricchezza delle società nelle quali predomina il modo di produzione capitalistico si presenta come una “immane raccolta di merci” e la merce singola si presenta come sua forma elementare. Perciò la nostra indagine comincia con l’analisi della merce”.
Così – è ben noto – Marx comincia e articola lo studio del capitale nel Capitale. Considerata oggi la radicata e datata ignoranza tradizionale del marxismo, le categorie elementari semplici, che Marx espresse intorno alla forma di merce, sono generalmente sconosciute e unilateralmente rimosse. Tuttavia partendo da lì, si spera di chiarire una volta per tutte la questione sociale del salario procedendo attraverso la rilettura dei testi marxiani.
Una simile lettura conduce a spiegare come Marx denoti quale sia il carattere dominante della merce nella “forma di società che noi dobbiamo considerare”: poiché sapere per prima cosa con quale oggetto reale si ha a che fare è il solo modo scientificamente corretto di procedere nell’analisi e nella comprensione di ciò che si vuole spiegare, ed eventualmente trasformare. Altrimenti ci si rifugia nel peggiore sentimentalismo romantico. Che tutte le componenti basilari della ricchezza sociale non nascano come merce – nulla nasce come merce, neppure il pane – è fin troppo ovvio. Ma che esse – e tendenzialmente tutte le cose fruibili, pure coscienza e onore – in epoca moderna, nelle società in cui predomina il modo di produzione capitalistico, non lo siano diventate o non lo diventino crescentemente è molto meno ovvio.
Il massimo di confusione sul carattere di merce della produzione sociale, e sulla sua contraddizione, è raggiunto dall’errata convinzione, che tutte le riassume e le supera, secondo la quale “il lavoro non è una merce”.
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Dall’Ucraina ai paesi baltici (a nord) alla Romania (a sud), il fronte di guerra NATO-Russia si estende
di Il Pungolo Rosso
Ha dell’incredibile la sottovalutazione – da parte delle formazioni che si vogliono anti-capitaliste – delle manovre occidentali in corso per allargare a dismisura il fronte di guerra con la Russia, a nord nei paesi baltici e a sud in Moldova.
Nei primi due anni dall’invasione del territorio ucraino da parte della Russia il protagonista indiscusso, in ambito NATO, del “sostegno” all’Ucraina (ovvero: alla macellazione di ucraini) è stato l’asse Wall Street-Pentagono che ne ha tratto dei grandissimi benefici, sia diretti (per l’industria del gas e l’industria bellica) sia indiretti (per i pesanti danni inferti al socio pericoloso concorrente Germania). Ma con le crescenti difficoltà che sta incontrando Biden a profondere in questa opera altamente umanitaria altre decine di miliardi di dollari, il testimone è passato all’Unione europea, anche in questo caso con un’esaltante performance dell’industria bellica tedesca (+40% di fatturato in due anni) e italiana (una festa dopo l’altra per la Leonardo, l’ultima è la partecipazione alla costruzione di 12 sottomarini nucleari Columbia per la marina statunitense).
Inevitabile il rilancio francese. Ed ecco Macron salire alla ribalta invitando tutti a prepararsi alla guerra contro la Russia – il primo a evocare in pubblico questa “necessità” era stato l’ex-capo di stato maggiore britannico. Salvo, poi, attenuare in parte la sua affermazione, ribadendo che per l’Europa e per la Francia la sconfitta della Russia in guerra è “questione esistenziale” (questa la formula esistenzialista in voga). Alla lettera:
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Venti tesi su Marx
di Moreno Pasquinelli*
«Chi non spera quello che non sembra sperabile non potrà scoprirne la realtà, poiché lo avrà fatto diventare, con il suo non sperarlo, qualcosa che non può essere trovato e a cui non porta nessuna strada». Eraclito
Premessa
La dottrina marxista è figlia del suo tempo, dell’epoca in cui la borghesia, malgrado il poderoso sviluppo delle forze produttive, non mantenne la promessa di un umanistico e vero progresso sociale. È in quella temperie che il nascente proletariato venne considerato il soggetto storico destinato a realizzare l’agognata redenzione dell’umanità dal suo stato di abiezione. La dottrina marxista — sintesi ingegnosa di materialismo meccanicistico di matrice nominalista, di storicismo di matrice hegeliana, e positivismo scientista —, nelle vesti di socialismo scientifico, riuscì a imporsi come alfiere della classe proletaria e come araldo di una nuova civiltà. A questo punto, con alle spalle un secolo tremendo, occorre avere il coraggio di riconoscere che anche la dottrina di Marx, malgrado la sua penetrante fisiologia del capitalismo, non ha superato la spietata prova della validazione fattuale. La storia è inflessibile, punisce chi fallisce il proprio scopo, la cui disgrazia è tanto più grande quanto più maestosa la sua profezia.
In virtù del suo carattere sincretico il pensiero di Marx era destinato a dare vita a multipli e opposti “marxismi”. Ognuno di essi si è cimentato nel tentativo di riformare la dottrina. Se tutti questi tentativi andarono incontro allo scacco è anzitutto perché nessuno di essi rinunciò al fondamento teleologico e finalistico della dottrina. Non si tratta di riformare il marxismo, né di compiere una mera decostruzione.
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Attraversando il PNRR. Parte II: politiche energetiche e filiere produttive (I)
di Emiliano Gentili, Federico Giusti e Stefano Macera
Pubblichiamo la seconda parte dello studio sul PNRR condotto da Emiliano Gentili, Stefano Macera e Federico Giusti. Dopo aver analizzato il contesto economico italiano e la strategia perseguita dall’Unione Europea nella programmazione del Piano, nel nuovo articolo, gli autori analizzano l’idea di politica energetica dell’Ue e dell’Italia ed esaminano alcuni investimenti previsti dal PNRR particolarmente significativi per lo sviluppo dell’economia italiana, con particolare riferimento alla filiera dei semiconduttori e dell’idrogeno.
* * * *
I. Articolazione del Piano e REPowerEU
Missioni, componenti e investimenti
Il Pnrr si articola attorno ad alcuni percorsi di sviluppo settoriali denominati «Missioni». In un certo senso potremmo farli corrispondere ai Programs europei (v. Parte I, Par. II, La strategia della Commissione Europea), solo che le Missioni sono declinate su scala nazionale. Ogni Missione è a sua volta suddivisa in Componenti, per cui ad esempio la Missione 1, Digitalizzazione, innovazione, competitività, cultura e turismo, è composta da: Digitalizzazione, innovazione e sicurezza nella PA; Digitalizzazione, innovazione e competitività nel sistema produttivo; Turismo e cultura 4.0. A voler essere precisi, poi, le Componenti sono a loro volta ripartite in «sotto-componenti». I fondi vengono assegnati «a pacchetti», denominati «Investimenti»[1], che costituiscono una sorta di suddivisione ulteriore di queste sotto-componenti. Ad esempio, la citata Componente 1 della Missione 1 riporta tre sotto-componenti (Digitalizzazione PA; Innovazione PA; Innovazione organizzativa del sistema giudiziario), all’interno delle quali trovano posto ben sette Investimenti differenti (quali «Digitalizzazione delle grandi amministrazioni centrali» o «Processo di acquisto ICT»).
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La CIA e i fascisti russi che combattono la Russia
di Scott Ritter* - ConsortiumNews
Nei giorni precedenti le elezioni presidenziali russe, che si sono concluse domenica scorsa, una rete di tre organizzazioni paramilitari russe che operano sotto l'egida della Direzione principale dell'intelligence del Ministero della Difesa ucraino, o GUR, ha lanciato una serie di attacchi sul territorio della Federazione Russa.
Lo scopo degli attacchi era chiaro: disturbare la tre giorni di elezioni presidenziali russe creando un'atmosfera di debolezza e impotenza intorno al Presidente Vladimir Putin, per minarne l'autorità, la legittimità e l'appeal nella cabina elettorale.
L'operazione è stata pianificata da mesi e ha coinvolto il Corpo dei Volontari Russi (RDK), la Legione della Libertà della Russia (LSR) e il Battaglione Siberia. Tutte e tre queste organizzazioni sono controllate dal GUR, il cui portavoce ha annunciato gli attacchi.
Non è stato detto fino a che punto la C.I.A. sia stata coinvolta in quella che equivale a un'invasione del territorio della Federazione Russa da parte di forze che operano sotto l'ombrello di quella che è apertamente riconosciuta come una guerra per procura tra gli Stati Uniti e i loro alleati della NATO contro la Russia.
Mentre l'Ucraina sostiene che gli attacchi dell'RDK, dell'LSR e del Battaglione Siberia sono azioni di "russi patriottici" che si oppongono a Putin, il coinvolgimento del GUR nell'organizzazione, nell'addestramento, nell'equipaggiamento e nella direzione di queste forze rende il loro attacco al territorio russo un'estensione diretta della guerra per procura tra la Russia e l'Occidente.
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A cura di Aldo Zanchetta: Speranza
Tutti i colori del rosso
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A cura di Daniela Danna: Il nuovo volto del patriarcato
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Alessandro Barile: Una disciplinata guerra di posizione
Salvatore Bravo: La contraddizione come problema e la filosofia in Mao Tse-tung
Daniela Danna: Covidismo
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Davide Miccione: Quando abbiamo smesso di pensare
Franco Romanò, Paolo Di Marco: La dissoluzione dell'economia politica
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