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Brexit, uscita obbligatoria a destra?
di Giovanni Di Benedetto
Nessuna lettura unilaterale delle dinamiche modernizzatrici del capitalismo è oggi possibile. Viviamo un tempo nel quale sembrano riemergere, a condizionare e compromettere un’impossibile linearità dello svolgimento storico, ambiguità drammatiche e contraddizioni laceranti. Le convinzioni interiori dei singoli cittadini e la cultura politica dei singoli militanti non sono entità isolate ma forme ideologiche, espressione del vivere collettivo, che si sedimentano dentro gli abissi del disordine capitalistico. Alienazione e sfruttamento delle soggettività, oppressione e manipolazione delle coscienze sono il frutto avvelenato di tendenze che, su livelli differenti, ci parlano del sovrapporsi di crimini neocoloniali, guerre di religione, divaricazione scandalosa delle ricchezze, imbarbarimento delle periferie, estinzione dello spazio pubblico, violenza razziale, impoverimento culturale e materiale generalizzato, e altro ancora. Senza il riferimento a questo scenario più generale, di carattere economico, politico e sociale, essenzialmente determinato dall’estensione del capitalismo fino a costituire un unico e pervasivo mercato mondiale e compromesso dalle conseguenti linee di faglia fra sfera dell’economico, con le sue assurde pretese di autoregolamentazione, e la sfera del politico, diventa complicato elaborare un pensiero, per così dire, sine ira et studio, capace di fornire una chiave di lettura dotata di senso su quanto è accaduto con il Brexit. Laddove per dotato di senso è da intendersi, va da sé, lo sforzo di collocare l’evento, unico e irripetibile nella sua natura contingente, entro un contesto storico più grande e complesso, la lunga durata dei processi storici citando Braudel, per l’appunto entro una più ampia cornice di senso.
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Dal BDS alla CGT: cronaca della criminalizzazione attraverso la politica della paura
di Saïd Bouamama
La campagna politica di criminalizzazione della CGT [Confédération générale du travail, il principale sindacato francese, n.d.t.] e il tentativo di interdire una manifestazione sindacale sono fatti caratteristici di questo periodo. Il principale sindacato operaio di Francia viene accusato esplicitamente da un prefetto, e implicitamente da un ministro, di complicità quantomeno passiva con i cosiddetti «casseurs». La logica qui all’opera non è nuova. È stata largamente utilizzata in passato e nel presente contro i militanti e le organizzazioni impegnati nel sostegno alla lotta del popolo palestinese, nonché contro quelli provenienti dall’immigrazione. In entrambi i casi si tratta di produrre, dal punto di vista politico e mediatico, un «nemico pubblico» al fine di autorizzare l’assunzione di misure eccezionali a lungo termine, il tutto col pretesto di proteggere la società e i suoi «valori repubblicani»
Dal nemico di civiltà…
I sistemi di dominazione hanno un bisogno consustanziale di suscitare la paura e mettere in scena un qualche pericolo. Il non potersi presentare per ciò che sono li costringe a legittimarsi tramite una simile minaccia artefatta, dalla quale affermano di preservarci.
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Un mondo senza guerre, tra idee e realtà
E. Alessandroni intervista Domenico Losurdo
In un’intervista esclusiva per il nostro sito, Domenico Losurdo, Presidente dell’Associazione Politico-Culturale Marx XXI, presenta il suo nuovo libro, “Un mondo senza guerre”
Iniziamo da un nesso immediato: il tema centrale del tuo nuovo libro (D. Losurdo, Un mondo senza guerre. L’idea di pace dalle promesse del passato alle tragedie del presente, Carocci, Roma) non può che richiamare alla mente, a quel lettore che ha seguito un poco il tuo percorso intellettuale, un altro tema a cui hai dedicato attenzione nel corso dei tuoi studi: quello della non-violenza (cfr. La non-violenza. Una storia fuori dal mito, Laterza, Roma-Bari 2010). Esiste un filo conduttore tra questi argomenti e tra queste due ricerche?
Il libro sulla non-violenza giunge a un risultato assai sorprendente per il comune lettore. Al momento dello scoppio della prima guerra mondiale Gandhi si offriva quale «reclutatore capo» di truppe indiane per l’esercito britannico e lanciava un appello alla mobilitazione totale: l’India doveva essere pronta a «offrire nell’ora critica tutti i suoi figli validi in sacrificio all’Impero», a «offrire tutti i suoi figli idonei come sacrificio per l’Impero in questo suo momento critico»; «dobbiamo dare per la difesa dell’Impero ogni uomo di cui disponiamo». Lenin invece esprimeva tutto il suo orrore per la carneficina che infuriava, invitava a porvi fine e promuoveva la rivoluzione in nome anche della pace.
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Brexit: cosa significa uscire dall’Unione europea
di Valigia Blu
Introduzione
Si sta parlando molto degli effetti politici della Brexit, ma che succede effettivamente se il Regno Unito lascia l’Unione europea? Riprendendo l’ampio lavoro fatto da Full Fact, organizzazione britannica indipendente di fact-checking, abbiamo provato a descrivere le possibili conseguenze che ci saranno riguardo importanti temi, come il commercio, le finanze pubbliche, gli investimenti esteri, l’immigrazione, il lavoro e i diritti umani.
Commercio
L'Unione Europa è il principale partner commerciale del Regno Unito, con il 53,2% delle importazioni di beni e servizi e il 44,6% delle esportazioni nel 2015, come certificato dall’Office for National Statistics (l’istituto statistico del Regno Unito). Come cambierà il rapporto commerciale tra Ue e Regno Unito non si può ancora sapere, dipenderà infatti dall’accordo che sarà raggiunto.
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L’imperialismo nel XXI secolo
di John Smith
Introduzione
La globalizzazione della produzione e il suo spostamento verso i paesi a basso reddito costituiscono una delle più significative e dinamiche trasformazioni dell’era neoliberista. La sua forza trainante fondamentale consiste in quello che numerosi economisti chiamano “arbitraggio globale del lavoro”: lo sforzo compiuto dalle imprese in Europa, Nord America e Giappone al fine di tagliare i costi e aumentare i profitti rimpiazzando il relativamente ben pagato lavoro domestico con manodopera estera a basso costo, ciò sia attraverso l’emigrazione della produzione (la cosiddetta “esternalizzazione”) sia tramite l’emigrazione dei lavoratori. La riduzione dei dazi e la rimozione delle barriere ai flussi di capitali hanno stimolato la migrazione della produzione in direzione dei paesi a basso reddito, ma la militarizzazione delle frontiere e il crescere della xenofobia hanno creato l’effetto opposto sulla migrazione dei lavoratori provenienti da questi stessi paesi – non fermandoli del tutto, bensì inibendo il loro flusso e aggravando il già vulnerabile status di serie B dei migranti. Di conseguenza, le fabbriche attraversano liberamente il confine USA-Messico e passano agevolmente i muri della fortezza Europa, così come le merci in esse prodotte e i capitalisti che le possiedono, mentre gli esseri umani che vi lavorano non godono del diritto di passaggio. Si tratta di una parodia di globalizzazione – un mondo senza frontiere per tutto e tutti a esclusione dei lavoratori.
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Tra Lenin e Fanon. Per una “teoria critica” del presente
di Giulia Bausano
L’occasione della ripubblicazione di una raccolta antologica di alcuni scritti della RAF[1] è stato il quarantennale dall’assassinio di Ulrike Meinhof, uccisa nel carcere di Stammhein il 9 maggio 1976. Ma l’intento di questo lavoro non è né celebrativo, né esclusivamente memorialistico, ritenendo che la memoria non possa che consistere in una ripresa in mano, da parte dell’odierna generazione di militanti rivoluzionari, di quanto dell’esperienza RAF sembra avere ancora qualcosa di importante da dire nello scenario attuale. Pertanto con l’introduzione ai testi abbiamo provato ad individuare e riflettere su alcune ipotesi della RAF che, a nostro avviso, hanno trovato conferma nella realtà in cui viviamo: cioè l’odierna fase imperialista del capitalismo globale.
Sintetizzando, le intuizioni teoriche e pratiche della RAF, che ci sembrano aver trovato un riscontro fecondo nella cornice storica attuale, sono:
- l’eclissi della dimensione dello stato nazione e l’internazionalizzazione di fatto di ogni dimensione politica
- lo sviluppo della tendenza alla guerra come elemento centrale dell’attuale fase imperialista
- Le trasformazioni che hanno interessato la composizione di classe dentro il cuore del sistema imperialista che tendono a confermare come l’attenzione, e conseguente centralità, posta dalla RAF per le “masse senza volto” cogliesse appieno ciò che il destino riservava alle classi sociali subalterne. Oggi, ciò che negli anni 70 del Novecento poteva apparire ancora come un’eccezione (causando spesso alla Raf accuse di deliberato minoritarismo o estremismo) sembra diventare, attraverso un processo a cascata, la regola.
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La non-autonomia dello Stato e i limiti della politica1
Quattro tesi sulla crisi della regolazione politica
di Robert Kurz
Introduzione
Il testo che segue, un intervento del 1994 nel corso di un seminario sul tema dei rapporti tra capitale e Stato, in seguito pubblicato su un periodico economico brasiliano, discute in maniera schematica il ruolo dello Stato e della politica nella società moderna, mettendolo in relazione con la sfera dell’economia, del mercato e quindi del denaro. L’antagonismo ideologico tra Stato e mercato che ha finora caratterizzato la modernità, è ingannevole perché riposa su una base comune ad entrambi i poli della contesa. L’idea socialista che vede nello Stato il lato autentico e positivo dell’universalità sociale, addirittura la leva dell’emancipazione sociale, antitetico all’anarchia del mercato, è altrettanto unilaterale dell’idea liberale che lo giudica come un mostro burocratico, oppressivo e parassitario, contrapposto all’efficienza e all’auto-regolazione del mercato. In realtà Stato e mercato sono i due volti della testa di Giano della società capitalistica e il loro rapporto indissolubile, nella crisi della terza rivoluzione industriale, manifesta tratti paradossali in una fase in cui la crisi strutturale del capitalismo mette spietatamente in luce la dipendenza dello Stato dai processi di valorizzazione. L’espansione della spesa pubblica, tanto biasimata da neo-liberali e conservatori, si origina, in realtà, dalle numerose funzioni che lo Stato deve assolvere per garantire i presupposti generali di una società articolata e basata sulle dinamiche di mercato (produzione di norme, riparazione dei costi sociali ed ecologici, realizzazione di infrastrutture, sovvenzioni e politiche protezionistiche etc.), che i singoli capitali privati non sono in grado di realizzare autonomamente.
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Un appello all'insurrezione
Legge el-Khomri: Per un movimento di lotta al'altezza dello scandalo
di Benoit Bohy-Bunel
Se i diritti dei lavoratori vengono messi in discussione, il movimento di contestazione sociale che denuncia questa sfida deve confrontarsi con un problema di ordine teorico e strategico.
Cosa significa? Le leggi come la legge El Khomri sono soprattutto ricche di insegnamenti. Il sistema che mette al primo posto finalità quali la "crescita", la "produttività", la "competitività", se garantisce che una legalità che permetta il suo funzionamento non esclude la negazione degli interessi vitali della classe lavoratrice (quella che pure rende possibile, in senso stretto, la creazione del valore), in questo stesso momento fa un'esplicita confessione. In un certo qual modo, ed in maniera paradossale, questo sistema si auto-denuncia. Proclama, spudoratamente, che quel che considera "virtuoso" corrisponde, nei fatti, ad un occultamento del vissuto qualitativo concreto di tutti coloro che fanno "funzionare" la macchina, vale a dire che esso corrisponde a ciò che è scandaloso in sé.
Questa confessione è un'occasione: la classe che detiene il capitale, e lo Stato che ne difende gli interessi, ci offrono il bastone con cui batterli. Un cinismo così chiaro ci fa definitivamente vedere come il sistema non abbia assolutamente niente di "sano" (cosa che il mito dei "Trenta gloriosi" tendeva a farci dimenticare). Un dimostrazione così radicale di disprezzo istituzionalizzato è un appello all'insurrezione.
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Quali convergenze per Blockupy?
di ∫connessioni precarie
Con questo testo intendiamo contribuire alla discussione che si terrà al Festival Antirazzista di Atene, un’occasione per fare un bilancio e per discutere la crisi di Blockupy anche oltre Blockupy, a partire dai limiti che ha mostrato nell’intervenire negli attuali movimenti che attraversano lo spazio europeo
Il risultato del referendum britannico è l’ennesimo segnale della crisi di un processo di integrazione europea portato avanti esclusivamente all’insegna dell’austerity e del dominio incontrastato del capitale finanziario. È una considerazione di senso comune. C’è chi ha accolto quel risultato con entusiasmo, leggendovi l’espressione di una presa di posizione operaia che finalmente trova modo di farsi valere, sebbene attraverso le pieghe di un ‘ambiguo’ nazionalismo. Altri invece hanno segnalato la necessità di una visione alternativa dell’Europa, puntando anche ad attraversarne gli assetti istituzionali nella prospettiva di forzare i rapporti sociali che vi trovano espressione. La cosiddetta Brexit pone però ai movimenti una questione fondamentale che riguarda tanto la direzione del legittimo rifiuto di classe dello sfruttamento e dell’oppressione rappresentati dalle politiche dell’Unione, quanto la dimensione plausibile della nostra iniziativa politica. Nel momento in cui abbiamo affermato che l’Europa è lo spazio minimo di quest’iniziativa, fare i conti con le tensioni che l’attraversano senza dare per scontata la sua tenuta istituzionale è quanto mai necessario.
Per noi l’Europa è uno spazio politico transnazionale. Essa non si esaurisce nella forma istituzionale dell’Unione Europea e neppure coincide con la semplice sommatoria di spazi nazionali, come se questi potessero essere chiaramente distinti dalle dinamiche globali e dal potere sociale che li costituiscono.
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Brexitheart: cuore impavido
di Marco Palazzotto
Nel 2015, in questo stesso periodo dell’anno, ci siamo occupati di GREXIT. Anche questa estate, ad un anno dal voto OXI, ci occupiamo di un altro paese che vuole rompere con la politica unitaria europea. Il paragone tra Grecia e Regno Unito è molto improbabile, per via della storia, delle dimensioni e dei diversi gradi di sviluppo dei due paesi. Però alcune analogie si possono rilevare, soprattutto a proposito dei rapporti tra governi nazionali e cittadini, visto che questi ultimi - in entrambi i casi - hanno scelto di contrastare le élites europee. In entrambi gli avvenimenti il ruolo della sinistra è stato molto ambiguo. Nel caso greco il governo Tsipras si è rivelato inadeguato a rappresentare le istanze di cambiamento provenienti dalle classi lavoratrici che in massa – prima attraverso manifestazioni pubbliche, poi attraverso il voto – hanno rifiutato i memoranda della troika.
Ma andiamo al caso inglese, sulla Grecia abbiamo già scritto abbastanza qui, qui, qui e qui. Non mi soffermerò sulla polemica a sinistra scoppiata in rete tra sostenitori del remain e sostenitori del leave sulla composizione dell’elettorato inglese che è andato a votare al referendum BREXIT. Per questo argomento – si ritiene per ora superfluo - rimandiamo a quest’analisi di Andrea Genovese apparsa su Contropiano qualche giorno fa.
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Uscire dall'euro per uscire dalla crisi e dalla "austerità"?
Un'escamotage di bassa Lega...
di Redazione
Le elezioni europee di maggio hanno rinfocolato il dibattito pubblico intorno all'euro. Per lo più da destra, ma anche da sinistra una schiera di organizzazioni e di singoli propone l'uscita dall'euro come la carta primaria da giocare contro la crisi e contro l'oligarchia economico-politica che impera in Europa, la sola alternativa alle politiche di "austerità". Una carta da giocare, si dice da sinistra (ma anche da destra), nell'interesse dei lavoratori. Forse non sufficiente di per sé a risolvere tutti i loro problemi; però, quanto meno, può essere l'inizio della soluzione.
L'uscita volontaria dall'euro può suonare suggestiva in quanto evoca la possibilità (inesistente) di tornare a tempi un po' meno aspri degli attuali, ma è secondo noi, per gli interessi dei lavoratori, una soluzione-truffa del tutto interna alla logica capitalistica. E non comporterebbe affatto la fine dei sacrifici. Di più: la propaganda e l'agitazione in suo favore in atto a sinistra, con argomenti quasi sempre simili a quelli della destra "sociale", è pericolosa, perché mette in circolo altri veleni nazionalistici. Come se non bastassero quelli che intossicano corpo e testa di milioni di proletari/e da generazioni.
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Energia e rivoluzione industriale
di Lorenzo Coniglione
Con questo mio articolo voglio riprendere l’interessante riflessione sull’energia avviata da Marco Tafel con il suo articolo “Quanta? Quale?”: la questione della dipendenza energetica e di come questa sia legata all’organizzazione della società.
Una storia poco scritta della contemporaneità è quella della storia delle infrastrutture energetiche. La prima rivoluzione industriale, quella dei motori a vapore, si fondò sulla disponibilità di carbone ed inizio un ciclo a feedback positivo in cui la maggiore disponibilità di combustibile permetteva di estrarne ancora maggiormente: una delle prime grandi applicazioni del motore a vapore fu proprio l’azionamento delle pompe che permettevano di tenere asciutte le miniere di carbone. Da lì il passo alla primitiva meccanizzazione dell’estrazione, con i montacarichi azionati a vapore e del trasporto con le prime locomotive, fu breve. Insomma: maggiore era la quantità di carbone estratto e maggiore diventava la velocità di estrazione di altro combustibile.
Questo feedback positivo si è interrotto solo nella tarda seconda metà del ventesimo secolo, con l’esaurimento delle maggiori vene carbonifere in Europa occidentale e con la completa sostituzione con un combustibile più economico: il petrolio.
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Per la democrazia e la sovranità popolare, contro l’integrazione neoliberista e un’unione monetaria fallimentare
Questo documento è frutto del contributo collettivo dai partecipanti al Network Lexit. È stato redatto e approvato prima del referendum sulla Brexit e senza alcuna intenzione di influenzare il voto popolare in un senso o nell’altro.
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Con l’attuazione del mercato unico europeo e del Trattato di Maastricht, l’integrazione europea si è affermata come progetto di ristrutturazione a lungo termine dell’economia europea in senso neoliberista. Il Patto di Stabilità e Crescita, l’affermazione delle “libertà fondamentali” del mercato unico e l’Unione monetaria europea, rappresentano l’impalcatura istituzionale che ha alimentato le politiche di austerità, lo smantellamento dei diritti dei lavoratori e dello stato sociale e le politiche di privatizzazione in tutti gli stati membri dell’UE.
Contrariamente alla tesi che vuole l’UE come un campo di gioco neutrale, gli eventi successivi alla Grande Recessione del 2007/9 hanno evidenziato come l’attuale progetto di integrazione europea sia segnato dalla natura regressiva dei trattati che lo definiscono e da una radicalizzazione senza precedenti del suo carattere neoliberista. Rapporti asimmetrici e relazioni gerarchiche di potere (centro-periferia) caratterizzano da lungo tempo l’integrazione europea, ma hanno raggiunto il loro culmine con il dominio tedesco sugli orientamenti di politica economica negli anni successivi alla Grande Recessione.
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E se il lavoro fosse senza futuro? (III Parte)
Perché la crisi del capitalismo e quella dello stato sociale trascinano con sé il lavoro salariato
Giovanni Mazzetti
Quaderno Nr. 5/2016 - Formazione online - Periodico di formazione on line a cura del centro studi e iniziative per la riduzione del tempo individuale di lavoro e per la redistribuzione del lavoro sociale complessivo
Qui, qui le parti precedenti.
Presentazione quinto quaderno di formazione on line
Presentazione Parte III di “E se il lavoro fosse … senza futuro?”
Il limite della nostra forma di sapere è che pur parlando continuamente di cambiamento in realtà non abbiamo alcuna idea di come rappresentarlo. Dopo aver ricostruito la dimensione storica dell’ascesa del rapporto di lavoro salariato, affrontiamo in questi due capitoli il processo attraverso il quale si è, con lo Stato sociale keynesiano, avviato un rozzo superamento di quel rapporto. E’ la complessa storia dell’affermazione del keynesismo e delle sua implicazioni.
Parte quarta
L’inizio dell’incerto cammino al di là del rapporto salariato
Capitolo undicesimo
Alla frontiera del rapporto di merce
Qual è il limite del rapporto di merce, cioè l’aspetto che, dopo averne riconosciuto il ruolo storico positivo, come abbiamo fatto, ci permette di esprimere nei suoi confronti una valutazione (anche) negativa?
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Oltre la nazione. Sviluppo delle forze produttive e polo imperialista europeo
di Luciano Vasapollo
“Tutto è relativo: ho assolutamente ragione” (A. Einstein)
Intervento al seminario “La ragione e la forza”, del 18 giugno 2016
1. Le scienze economiche sono un fenomeno relativamente recente, almeno paragonato alle altre discipline scientifiche, ma hanno fatto in modo di imporsi come il principale strumento di misurazione della realtà sociale e fondamentale mezzo di controllo e gestione della società stessa.
“Le nuove idee nascono come eresie e muoiono come dogmi” affermava Albert Einstein, e l’economia assunta come verità incontrovertibile e come unico motore in grado di produrre benessere sociale sembra incalzare perfettamente questa visione. Questo lavoro ha avuto l’intento di sistematizzare una critica scientifica e metodologica alla politica economica internazionale in chiave, evidentemente, marxista.
L’economia nasce quindi accanto alla fisica, all’astronomia, alla biologia e a tutte le altre scienze galileiane, con l’aspirazione e l’ambizione di portarsi, prima o poi, sullo stesso livello; meta raggiunta, in parte, anche grazie al fatto che nasce nell’ambito della Royal Society in Inghilterra, che dà corpo al progetto di Francis Bacon che vede nella scienza il modo per giungere al governo perfetto, quello che descrive nella Nuova Atlantide, l’utopia di una società guidata dagli scienziati.
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Avanti popoli, alla riscossa
di Lanfranco Binni
In Italia le elezioni amministrative del 5 e 19 giugno, in Francia la mobilitazione operaia e studentesca contro le politiche liberiste del governo socialista, in Gran Bretagna il referendum del 23 giugno, in Spagna le elezioni politiche del 26 giugno: venti giorni che hanno cambiato profondamente lo scenario politico, sociale e culturale dell’Europa. In Italia, la disfatta della lobby del Partito democratico con tutte le sue ruote di scorta (da una pretesa sinistra interna al malaffare verdiniano, ai media arruolati con ruoli di propaganda e disinformazione) e dei modesti conati di Sinistra italiana, la sconfitta e dispersione della destra berlusconiana e leghista, e l’«imprevedibile» forte affermazione del Movimento 5 Stelle, non solo in grandi città simboliche come Roma e Torino. In Gran Bretagna, la decisione di un elettorato maggioritario, espressione in gran parte di ceti popolari, di dissociarsi dall’Unione europea a egemonia tedesca, per recuperare una pretesa sovranità. In Spagna, la paralisi del sistema politico tradizionale che ha coinvolto lo stesso tentativo di «assalto al cielo» dell’alleanza Podemos-Izquierda unida. In tutte queste situazioni, a crollare o a entrare in crisi sono i sistemi politici subalterni ai poteri finanziari, mentre avanzano, con esiti dirompenti, l’astensionismo e movimenti e forze politiche che sono espressione di vasti settori popolari e di ceto medio impoveriti dalla crisi economica, vessati dalle politiche europee di austerità e da oligarchie al potere sempre più isolate.
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Brexit, sette giorni dopo: la miccia brucia
di Federico Dezzani
Non riserva sorprese la Brexit, attenendosi al copione già anticipato: lo choc generato dall’uscita del Regno Unito dall’Unione Europea sta fungendo da innesco alla dinamite accumulata sul continente dopo otto anni di eurocrisi. Se la nascita degli Stati Uniti d’Europa, fuori tempo massimo nell’attuale contesto politico, è ormai tramontata, è invece certo che la ricaduta della Francia in recessione o l’aggravarsi della crisi bancaria italiana implicherà la dissoluzione dell’eurozona e delle istituzioni brussellesi: il precipitare di una situazione economica e sociale già critica, renderà improcrastinabili risposte a livello nazionale
Grande è la confusione sotto il cielo
La situazione è paragonabile al collasso della Germania guglielmina nel 1918, alla caduta della DDR nel 1989 od all’implosione dell’URSS nel 1991: il caos è grande, la situazione è concitata, gli scenari più disparati si aprano e si chiudono nel volgere di poche ore, è un fioccare di illazioni e congetture. Lo choc è tale da lasciare l’opinione pubblica spaesata. Ma come: è stata Brexit? Ne siamo sicuri?
Lo stordimento è chiaramente percettibile anche tra la tecnocrazia brussellese ed i capi di Stato europei, chiamati a gestire l’ennesima crisi europea, benché ormai completamente esautorati: il presidente della Commissione europea, Jean-Claude Juncker, è l’equivalente dell’imperatore Guglielmo II all’indomani dell’armistizio o di Erich Honecker all’indomani delle grandi manifestazioni dell’ottobre ’89 contro il regime socialista. Il residuato di un’epoca che fu. Non è un caso che sia proprio la stampa tedesca, esperta in materia di crolli politici, a lanciare l’appello: sconfitto, vecchio e malato, Juncker deve gettare la spugna.
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Che cosa manca nel programma economico dei Cinque Stelle
di Enrico Grazzini
Il Movimento 5 Stelle ha riscosso un grande e meritato successo elettorale ed è diventato una credibile forza candidata al governo del Paese. Diventa quindi importante valutare quale sia il suo piano di governo per risollevare l'Italia dalla crisi economica che dura ormai da troppi anni. Il programma economico del Movimento fondato da Beppe Grillo – a partire dal reddito minimo per tutti i cittadini per passare poi alla pubblicizzazione della Banca d'Italia, alla riconversione verde della politica energetica, al credito mirato per le piccole e medie imprese, alla rivisitazione del debito pubblico, alla critica all'euro, all'autoritarismo dell'Unione Europea e alle sue politiche di stupida austerità, ecc - è largamente condivisibile. Ma mancano ancora due elementi indispensabili perché questo piano possa diventare realmente efficace e concreto: la democrazia economica e la Moneta Fiscale.
Senza partecipazione diretta e dal basso alla gestione dell'economia il programma economico dei 5 Stelle è destinato ad afflosciarsi di fronte alla prevedibile formidabile resistenza dei centri di potere del finanzcapitalismo; e senza moneta fiscale, ovvero senza espansione monetaria nell'economia reale, l'austerità e la crisi proseguiranno, e gli obiettivi di reddito garantito e di lavoro per tutti non verranno centrati.
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Riappropriarsi del tempo e ridurre l’orario di lavoro
Mario Agostinelli
Lo scopo del lavoro è quello di guadagnarsi il tempo libero (Aristotele).
1. Tempo e velocità hanno un limite
Il mondo non ha più tempo da perdere. Siamo nel mezzo della crisi energetica più rilevante nella storia dell’umanità. Se per gioco volessimo rappresentare con personalità conosciute le generazioni che succedendosi hanno “plasmato la memoria” su cui risiede la nostra civiltà occidentale – a scelta da Pitagora a Pericle a Cesare a Carlo Magno a Marco Polo a Napoleone a Marx, ad Einstein a Feynman, fino ad Obama – sarebbe sufficiente spalmare su un grande palco una novantina di illustri individualità – (90 personalità x 25 anni a generazione =2250 anni di storia). Ma se volessimo prevedere quanti nuovi personaggi potranno salire d’ora in avanti su quel palco, dovremmo riflettere che, almeno a detta del mondo scientifico più responsabile e accreditato, non potremmo andare oltre alle quattro o cinque unità, se i nuovi “leader” si limitassero a replicare il “business as usual”, con i conseguenti effetti irreversibili e devastanti sul clima e la temperatura del pianeta.
In pratica, la velocità di trasformazione e di sfruttamento delle risorse naturali e lavorative è giunta al punto tale da pregiudicare, con gli effetti di manomissione dei cicli naturali, il mantenimento della biosfera e la sopravvivenza della specie.
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La battaglia per una diversa Unione Europea è persa
Occorre farsene una ragione
di Gianni Marchetto
Evocare = dal dizionario: Far comparire le anime dei morti o i demoni mediante pratiche magiche o medianiche.
Dopo la Brexit è tutto un “evocare”, da una parte si evoca una Unione Europea più democratica che si apre all’ascolto dei suoi cittadini, ecc. dall’altra si evocano le piccole patrie, il ritorno del razzismo, le voglie securitarie, ecc.
Enrico Letta (oggi professore) dice che sarebbe una iattura aspettare 16 mesi per rimediare alla Brexit, in attesa della risoluzione della crisi spagnola, del voto francese e poi a settembre del prossimo anno quello tedesco. Occorre fare subito delle cose che colpiscano al “cuore” i cittadini europei: un Erasmus Pro = 1.000.000 di posti di lavoro per i giovani (su ca. 300.000.000 di cittadini Europei, sic!). Però lui è il primo ad avere dei dubbi su questa evenienza.
Massimo D’Alema (apparentemente fuori dal giro) in una intervista a Radio Radicale afferma che il bipolarismo è andato in crisi in tutta Europa mentre si sta assistendo alla crescita di nuove formazioni populiste, antisistema, razziste, ecc. e aggiunge che la “governabilità” se non vuole essere un esercizio controproducente ha sempre bisogno del “consenso” dei soggetti per i quali si esercita. Domanda: e chi lo riceve oggi il consenso? i partiti conservatori e/o popolari, ovvero le varie formazioni socialiste o socialdemocratiche? Ovvero ancora le nuove formazioni populiste?
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La filosofia politica di Giorgio Agamben1
Concetti, metodi e problemi
di Jacopo D’Alonzo
0. Considerazioni preliminari
Agamben è divenuto negli ultimi anni uno dei filosofi italiani più in vista a livello internazionale2. Il progetto Homo sacer (HS), inaugurato nel 1995 con la pubblicazione del volume omonimo, si può senz’altro considerare come la ricerca che ha riscosso maggior successo di pubblico3. Le ra-gioni sono da ricercare anzitutto nello stile: conciso ed essenziale nell’apparato bibliografico ma allo stesso tempo ricco di riferimenti eruditi – che ne costituiscono spesso il marchio di fabbrica – illustrati attraverso un vocabolario minimale e una prosa piana. Molto più vicino alla critica letteraria che alla saggistica accademica, ogni libro di Agamben si rivolge ad un pubblico ben più vasto di quello dei soli specialisti.
A ciò si aggiunga l’attenzione prestata da Agamben ad alcune tematiche di stringente attualità: per esempio il significato delle misure d’emergenza, della decretazione d’urgenza, delle carceri e dei campi d’internamento per immigrati, il confine sempre più labile fra cittadino e potenziale criminale, la costante minaccia del terrorismo, e ancora la crisi della rappresentatività, della sovranità nazionale, oppure la centralità della finanza, dell’economia, il ricatto del debito, il valore politico assegnato a questioni che sembrano esulare dall’orizzonte della cosa pubblica (fine-vita, suicidio assistito, salute pubblica, etc.). L’opera di Agamben, forse più di altre, sembra cogliere il cuore problematico del nostro presente.
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Spagna, vince la conservazione
Nessuna spallata da Podemos
di Steven Forti e Giacomo Russo Spena
Fortemente condizionate dalla Brexit e dalla paura del cambiamento, dalle urne iberiche esce un netto successo della destra di Rajoy. Il Psoe giunge secondo, a conferma della vittoria dell’establishment. Podemos al 21% paga l’accordo elettorale con la sinistra radicale di IU. Ma la partita è ancora aperta e la forza di Iglesias, dall’opposizione, potrà dire la sua
Gli exit poll avevano illuso. I dati reali ci conducono ad un’altra dura verità. La faccia di Pablo Iglesias, alle ore 23, la dice lunga. Funerea. Nessuna spallata. Nessun sorpasso di Podemos ai danni dei socialisti del PSOE. Anzi, il voto spagnolo ci evidenzia come il sistema abbia tenuto. La governabilità è ancora complicata in Spagna, nessun partito ha raggiunto la maggioranza assoluta, ma si preannuncia una grande coalizione PP-PSOE o un governo in minoranza dei popolari con l’astensione dei socialisti. Se ormai si può affermare in maniera conclamata che lo storico bipartitismo iberico, che si è alternato al potere dalla caduta di Franco in poi, è definitivamente tramontato grazie alla presenza di Podemos – stabile sopra al 20 per cento – e in parte di Ciudadanos, anche se in calo, dall’altro la “vecchia politica” non viene scardinata dalle forze del cambiamento. Le elezioni di ieri segnano il successo dell’establishment. Questo il primo dato da analizzare delle elezioni iberiche.
La storia non si è ripetuta. La Spagna del 2016 non è la Grecia del 2015. Unidos Podemos non è riuscito nell’impresa di superare i socialisti e di trasformarsi nel secondo partito nelle Cortes di Madrid. Il PSOE non è il PASOK, ma un partito più strutturato che, per quanto stia vivendo una profonda crisi, regge e perde soltanto 120 mila voti. E il PP non è Nea Democratia. Mariano Rajoy vince con un ampio margine, migliorando i risultati di dicembre. Non è “El triunfo de Rajoy”, come titola il quotidiano di destra La Razón, ma poco ci manca.
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“Se hai i soldi, voti per restare… se non ne hai , voti per uscire”
di John Harris
“Z” è un instancabile commentatore di questo blog, che da anni esprime con pacata ironia il suo totale disaccordo su qualunque cosa io scriva.
E siccome è anche una persona gentile, ha tradotto dall’inglese questo articolo di John Harris, uscito su The Guardian. Un articolo con cui io mi trovo largamente d’accordo, per cui lo sforzo di Z diventa ancora più encomiabile.
“Se hai i soldi, voti per restare” disse con sicurezza “se non ne hai, voti per uscire”. Venerdì scorso eravamo a Collyhurst, quartiere povero al confine nord del centro di Manchester, e ancora non avevo trovato un elettore che avrebbe votato Remain. La donna con cui stavo parlando mi spiegava che nel quartiere non c’erano parchi né aree gioco per bambini: sospettava che tutti i soldini fossero stati destinati al centro di Manchester, Paese delle Meraviglie rimesso a nuovo, a dieci minuti di strada.
Solo un ora prima mi trovavo ad un evento per il reclutamento di personale laureato, a Manchester, dove nove intervistati su dieci erano schierati per Remain. Alcuni parlavano dei votanti per il Leave con freddezza e supponenza: “Alla fine, siamo nel ventunesimo secolo”, diceva un ragazzo tra i venti e i trent’anni “Se ne facciano una ragione”. Non era la prima volta che sentivo l’atmosfera intorno al referendum puzzare di zolfo – non solo di disuguaglianza sociale, ma anche di una malintesa guerra tra classi.
Ed eccoci qui, dopo la decisione terrificante di andarcene. Gran parte degli elementi politici di primo piano sono stati ormai spazzati via. Cameron e Osborne. Il partito laburista così come lo conosciamo, che si rivela ancora una volta un fantasma ambulante, i cui precetti non riescono più a raggiungere le sue supposte roccaforti.
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Il Brasile e le acrobazie della democrazia
A. Di Eugenio intervista Francisco Foot Hardman
Pubblichiamo l’intervista realizzata da Alessia Di Eugenio, dottoranda all’Università di Bologna, a Francisco Foot Hardman, professore presso l’Università Statale di Campinas. Negli anni ’70 e ’80 del Novecento Foot Hardman è stato militante contro la dittatura militare in Brasile e tra il 1983 e il 1985, nella fase finale della dittatura, è stato uno dei principali editorialisti del quotidiano «Folha de S. Paulo», politicamente impegnato nella campagna per le elezioni dirette per la presidenza del Brasile. Si è occupato di storia del movimento operaio in Brasile e, più recentemente, del ruolo della memoria e delle rappresentazioni culturali riguardo il periodo storico della dittatura (1964-1985). Ha inoltre partecipato e sostenuto le iniziative del collettivo «Feijoada Completa», creato a Bologna da studenti e ricercatori brasiliani e italiani in solidarietà alle proteste nelle città brasiliane contro il golpe.
Foot Hardman fornisce una precisa ricostruzione dei recenti avvenimenti della crisi brasiliana, inserendola in un quadro genealogico che mostra le dinamiche complesse in cui si è prodotta.
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"Killary è il candidato della guerra. Per questo sarà il prossimo Presidente Usa"
Alessandro Bianchi intervista Peter Koenig
L'AD intervista l'ex economista della Banca Mondiale: L'informazione in Europa e altrove nel mondo occidentale è controllata per il 90% da sei giganti dei media che sono anglo-sionisti"
Peter Koenig è un noto economista e analista geopolitico. Ha lavorato nella Banca Mondiale e in giro per tutto il mondo come esperto ambientale e di risorse idriche. Scrive regolaramente su Global Research, ICH, RT, TeleSur, the Voice of Russia / Ria Novosti, The Vineyard of The Saker Blog, e altri siti internet. E' l'autore di Implosion – An Economic Thriller about War, Environmental Destruction and Corporate Greed – un docu-film basato sui fatti di attualità e sui 30 anni di esperienza nella Banca Mondiale.
Come Antidiplomatico abbiamo avuto il privilegio di rivolgergli alcune domande sulla politica internazionale attuale.
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Partirei da una domanda brutale sulle campagne presidenziali statunitensi. Ma cosa è diventato questo Paese se come migliore candidato, in quanto meno pericoloso per la sopravvivenza del mondo, offre Donald Trump?
P.K.: "Gli Stati Uniti sono un paese chiuso al resto del mondo quasi ermeticamente grazie al lavaggio del cervello fatto di bugie e propaganda quotidiane che i cittadini subiscono. E' una propaganda vecchia quanto gli Stati Uniti, ma si è rapidamente intensificata durante la Guerra Fredda e poi nuovamente dopo la caduta del muro di Berlino.
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