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Il catastrofico day after per gli italiani
di Vladimiro Giacché
Caso Ilva e caso Alcoa. Due storie molto diverse tra loro, che hanno però anche qualcosa in comune. In entrambi i casi, si tratta di ex imprese pubbliche che sono state privatizzate.
È un buon esempio di quanto pesino tuttora sulla nostra economia gli esiti delle privatizzazioni degli anni Novanta. Già questo sarebbe un ottimo motivo per occuparsene. Ma non è il solo. Oggi si torna a parlare della vendita di proprietà pubbliche per ridurre il debito. Sarebbe una buona idea? Capire cosa è successo venti anni fa può aiutarci a rispondere a questa domanda.
1) Dal 1992 al 2000 la gran parte dell’industria di Stato e delle banche pubbliche è stata posta sul mercato. Si tratta del più ampio processo di privatizzazione mai realizzato in Occidente. La tecnostruttura guidata da Mario Draghi, all’epoca direttore generale del Tesoro (che mantenne la carica sotto 6 diversi ministri), privatizzò imprese statali per un valore di 220.000 miliardi di lire, oltre 110 miliardi di euro.
Questo rispondeva al primo obiettivo delle privatizzazioni: fare cassa per ridurre il debito pubblico ed entrare nel club della moneta unica. Anche se in molti casi sarebbe stato più conveniente per lo Stato mantenere il controllo delle imprese e incassare ogni anno un dividendo.
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Rendita e biopotere
Summer School
di Stefano Lucarelli
Il tema della rendita e del biopotere è stato immediatamente declinato da Christian Marazzi come un problema che risponde a una domanda che credo si possa formulare nel modo seguente: di che moneta ha bisogno la soggettività costituente per non essere assoggettata?
I passaggi logici che vanno dai concetti di rendita e di biopotere fino ad una domanda del genere li do per scontati. Ricordo solo che quando ci riferiamo alla rendita lo facciamo a un certo livello dello sviluppo capitalistico – che abbiamo definito capitalismo cognitivo e finanziarizzato. Essa va dunque compresa tenendo conto del fenomeno del divenire rendita del profitto. Il biopotere è un’espressione presente in Foucault che chiama tutti in causa, poiché rinvia alla dicotomia soggettività/assoggettamento, quella dicotomia che caratterizza una forma della sovranità a questo stadio di sviluppo del capitalismo, che sempre Foucault ha chiamato governamentalità. Intendo qui la governamentalità come una peculiare evoluzione della sovranità che cerca di imbrigliare le soggettività, lasciando le briglie in talune circostanze, per valutare e conoscere la produttività, la creatività, che si può dare al di fuori delle forme tradizionali del comando, per poi ritirare le briglie. In tal senso la governamentalità partecipa di una certa forma di libertà, che presuppone che noi (in quanto soggettività costituenti) ci liberiamo da questa modalità di partecipazione ad una forma non autentica (cioè capitalistica poiché funzionale al regime di accumulazione contemporaneo) di libertà.
Di che moneta ha bisogno la soggettività costituente per non essere assoggettata, per non limitarsi ad una libertà non autentica?
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Il triste dominio dell'«uomo accademico»
Pierre Macherey
Un progetto di ricerca centrato sulla critica al riflesso elitario e autocelebrativo della filosofia
Nel 1997, in un momento in cui molto probabilmente ha avuto delle ragioni particolari per sentirsi mortale, Bourdieu pubblica Meditazioni pascaliane, libro-bilancio di tutta una vita da «antropologo sociologo», per riprendere la definizione che egli stesso si dà nella quarta di copertina dell'edizione francese del testo. Questa copertina nera che contrasta con i colori piuttosto pimpanti con cui sono state pubblicate altre opere nella stessa collana «Liber» dell'editore Seuil, fa pensare all'oscuro lavoro di un lutto, o di un addio modulato attraverso pagine scandite da toni aggressivi o pacati, che seguono i risultati di una ricerca contrastata, allo stesso tempo sovrana e tormentata: è un modo di procedere alla Bourdieu, il cui riferirsi a Pascal sembra perfettamente appropriato visto che si serve di un fondo di pessimismo e di angoscia.
Un progetto antiaristocratico
In questo libro strano, sotto molti punti di vista fuori dalle regole, monumentale e accidentato, ripetitivo e creativo che, a seconda dei momenti, suscita l'esasperazione e costringe al convincimento, Bourdieu, come sua abitudine, sembrerebbe prendersela con il mondo intero, in realtà porta avanti innanzitutto un dialogo con se stesso: si rivolge a quella che lui chiama la buona coscienza del «filosofo-normalista», l'homonculus academicus che è stato all'origine e si assicura, ancora una volta, di averlo effettivamente svalutato e di essersene sbarazzato diventando il fondatore di una scienza sociale che, pur conservando tutte le risorse del pensiero concettuale, avrebbe respinto i pensatori e i vincoli della «ragione scolastica», presa come capro espiatorio di tutto il libro.
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Risposta a Guido Viale
Karlo Raveli
Caro Viale, che cosa pensano di proporre i tuoi polemisti - che critichi nel seguente trafiletto su Il Manifesto del 18.9 - alle decine di migliaia di lavoratori cancellati dall'azzeramento (del piano Fabbrica Italia)?
Il 18 giugno 2010, in risposta a un articolo de "il manifesto" a mia firma che giudicava inattendibile il piano Fabbrica Italia e sosteneva di conseguenza l'urgenza di mettere in cantiere la riconversione ad altre produzioni di una parte almeno degli stabilimenti del gruppo Fiat per scongiurarne l'altrimenti inevitabile chiusura, il quotidiano "il foglio" mi dedicò un'intera pagina (Processo alla Fiat), corredata dal pugno di Lotta Continua per rimarcare la mia matrice culturale che non ho mai rinnegato.
In quella pagina ben sette collaboratori di questo giornale si alternavano a tacciare di ideologismo le mie valutazioni e, con l'eccezione di due (Riccardo Ruggeri e Stefano Cingolani) ad accreditare la validità del piano Fabbrica Italia, pur esprimendo (con l'eccezione di Francesco Forte, che lo avallava senza tentennamenti) qualche perplessità sulle possibilità di una sua realizzazione integrale.
Ora quel piano è stato ufficialmente dichiarato defunto, anzi, mai nato. Era solo fuffa, pagata a caro prezzo dagli operai della Fiat, costretti a un referendum che subordinava la sua realizzazione alla rinuncia a una parte sostanziale dei propri diritti; ma anche dal paese tutto, sprofondato dalla «cura Marchionne» in un nuovo medioevo; e pagata con il ridicolo da chi come Renzi, Chiamparino o Fassino si erano schierati con Marchionne («senza se e senza ma»). Nessuno, comunque, aveva dubitato delle intenzione di Marchionne. Non mi aspetto dagli estensori di quella pagina le scuse per gli sfottò di cui era impegnata; ma un po' di deontologia professionale dovrebbe indurli a chiedersi perché le mie (e non solo mie) valutazioni si siano dimostrate corrette e le loro completamente sbagliate. E, soprattutto, se il progetto di una riconversione degli stabilimenti è un'utopia, che cosa pensano di proporre alle decine di migliaia di lavoratori cancellati dall'azzeramento di quel piano? (Guido Viale, Il Manifesto, 18.9.2012)
Costoro, sicuramente nulla di quello di cui tutti - meno i padroni - necessitiamo con assoluta urgenza.
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La Germania contro tutti
di Giorgio Gattei
1. Se la Grande Germania ritorna.
Quando i giornali raccontano la speculazione finanziaria in atto come un attacco dei “mercati” contro l’Europa, non la dicono giusta. Innanzi tutto, cosa sono mai questi “mercati”? «Hanno fisionomia giuridica, un portavoce, un responsabile, un legale rappresentante, qualche nome e cognome al quale, all’occorrenza, presentare reclamo? Qualcuno ha mai votato per loro? Se sbagliano, si dimettono? Quando e dove è stato deciso che il loro giudizio (il famoso “giudizio dei mercati”) conta di più dell’intera classe politica mondiale?» (M. Serra, “La Repubblica”, 19.6.2012). E poi, siamo proprio sicuri che essi si muovano contro l’Europa od il suo omologo monetario, l’euro, e non piuttosto contro qualcosa di ben più specifico e nazionale come la Germania? Per capirlo, bisogna partire da lontano.
Si è ormai costituito da tempo a livello planetario un vero e proprio partito della finanza che comprende tutti coloro che guadagnano dai movimenti dl capitale speculativo. Stimabile attorno ai 90 milioni di persone, questo vero e proprio “blocco sociale” opera sui mercati di Borsa «come un partito informale ma solidissimo, in grado di determinare l’andamento dell’economia e di condizionare in modo determinante la politica» (A. Giannuli, Uscire dalla crisi è possibile, Milano 2012, p. 43).
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Da dove ripartire
Rossana Rossanda
La discussione sul manifesto è partita male. La prima domanda non è di «di chi è» ma «che cosa è» il manifesto. Anche per ragioni economiche. Un giornale è nel medesimo tempo una merce, se lettori non lo comprano fallisce. Occorre chiedersi perché da diversi anni abbiamo superato il limite delle perdite consentito ad una impresa editoriale, mentre i costi di produzione salivano. Direzione, Cda e redazione + tecnici hanno sottovalutato questo dato, pur reso regolarmente noto, illudendosi che avremmo recuperato lettori aumentando le pagine e i servizi con un restyling dopo l'altro. E' stato un errore imperdonabile. Se il giornale è di chi lo fa, il suo fallimento è di chi lo ha fatto. Cioè noi. Teniamolo presente. Altri giornali «politici» - cioè interessanti per un governo o una forza di opposizione o un gruppo sociale - hanno avuto problemi simili ai nostri: una tradizione da non perdere, una redazione rodata da decenni, vendite insufficienti e ricorso a finanziatori (nel nostro caso circoli o gruppi di lettori). Nessuno di questi tre attori è in grado di far uscire da solo un quotidiano. Perciò, per esempio in «Le Monde» la proprietà è ripartita un terzo i fondatori, un terzo la redazione e un terzo i finanziatori. Se il manifesto vivrà ancora, la sua proprietà potrebbe poggiare su un sistema analogo. Ma preliminare è che redazione, lettori e finanziatori siano d'accordo sul suo ruolo: «che cosa è», se ha un legame con la sua origine, se c'è un collettivo di lavoro che ci crede e un numero di lettori e sostenitori in grado di farlo uscire.
Le ragioni per rispondere sì o no a queste tre domande possono essere molte, ma tutte politiche. Su di esse è manifestamente diviso il «collettivo», mentre del gruppo dei fondatori siamo rimasti soltanto Parlato, Castellina ed io, e non è chiaro che cosa auspicano lettori e circoli di sostegno.
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Lavoro e Stato
di Sandro Moiso
Le apparenti bonacce estive non hanno potuto nascondere la frattura che si va sempre più allargando tra la società che lavora (o che non lavora a causa dei tagli occupazionali e pensionistici) e il governo che la dovrebbe rappresentare.
Proprio con i fatti di Taranto e le perentorie affermazioni dei rappresentanti del Governo Terminator che li hanno accompagnati e il conflitto aperto dal Grande Vecchio con i magistrati inquirenti di Palermo sulle trattative Stato-mafia si è reso evidente che, mentre l’illegalità è sempre più di casa nei palazzi del potere, l’unica legalità oggi esistente è quella delle piazze che contestano, dalle valli del Piemonte al Mar Jonio, le scelte operate dai rappresentanti delle istituzioni.
Nonostante le illusioni di tranquillità economica e di ripresa possibile fatte brillare nel mese deputato alle vacanze, i motivi che stanno alla base delle proteste dei minatori del Sulcis, degli operai dell’Alcoa e le evidenti decisioni di chiusura degli stabilimenti italiani della FIAT hanno fatto, poi, altresì intendere che l’unico destino dei lavoratori italiani non può essere altro che quello delineato dal tragico bilancio delle vittime degli incendi degli stabilimenti tessili pakistani e russi o quello dello stress e dei suicidi degli operai cinesi che hanno la fortuna di lavorare negli stabilimenti dell’azienda creata dall’ormai canonizzato Steve Jobs.
In entrambi i casi, legalità delle piazze – illegalità dei palazzi e massacro delle condizioni di lavoro “per favorire gli investimenti”, la responsabilità dei governi in carica e dello Stato nelle sue funzioni è evidente.
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Per una politica della composizione*
Collettivo UniNomade
A lungo impresa e lavoro sono apparsi concetti inoperosi dal punto di vista del conflitto di classe. Oltrepassata da una nuova economia del tempo (che abolisce le frontiere tra vita e lavoro) e dello spazio (con la messa in produzione della metropoli e dei territori), l’impresa non è da tempo «luogo» cruciale del conflitto, a sua volta allontanatosi dalle grandezze (orario, salario, organizzazione del lavoro) che davano le coordinate della lotta di classe nel fordismo. Ciò non significa che i conflitti sul lavoro siano scomparsi. Nei paesi emergenti sono spesso conflitti «orario e salario» che retroagiscono a livello globale; non pochi osservatori scommettono oggi su una parziale reindustrializzazione dei paesi occidentali. In Europa prendono forma intorno alla privatizzazione del settore pubblico e all’intensificarsi dello sfruttamento nelle produzioni a forte intensità di scala. Le lotte del lavoro, però, non hanno più assunto carattere generale né imposto l’agenda politica. Nonostante ciò, nella formazione soggettiva (politica) dei protagonisti delle nuove lotte nella crisi, le forme del potere e del comando nei rapporti di produzione non hanno parte marginale. La questione del precariato andrebbe osservata anche sotto questa luce.
A monte dei processi di politicizzazione di parte dei nuovi precari non è solo l’impossibilità di convertire gli investimenti educativi in (buona) occupazione, base discorsiva dei progetti di ristrutturazione del mercato del lavoro, ma anche la banalizzazione delle capacità individuali e sociali, come esito dell’«impresizzazione» del tempo e spazio sociale.
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Napolitano e l’ipotesi di golpe bianco
Cronache delle mutazioni istituzionali
nique la police
Quando Giorgio Napolitano fu eletto presidente della repubblica nella primavera 2006 nell’elettorato di centrosinistra, e là dove si fabbrica opinione pubblica, prevalsero due convizioni. La prima, all’epoca prevalente, che era stato eletto un vero guardiano della costituzione. La seconda è che l’indirizzo della presidenza, dopo Ciampi e Cossiga, sarebbe stato meno monetario e più politico (dopo il periodo Ciampi, ex presidente della Banca d’Italia) più legato alla continuità delle forme istituzionali e meno ai momenti di rottura (visto il periodo Cossiga, quello del “picconatore”). Nonostante sia stato votato quasi esclusivamente dal centrosinistra Napolitano era un candidato presidente apprezzato anche dal centrodestra. Riporta il Corriere della Sera dell’epoca: “Dal centrodestra sono venute molte esplicite dichiarazioni di apprezzamento per Giorgio Napolitano, tali da far pensare che la divisione degli schieramenti sul suo nome sia molto più formale che sostanziale”. Va considerato che a suo tempo, fine anni ’80 la corrente milanese di Napolitano nel Pci riceveva pubblicamente, per la propria rivista, finanziamenti da Publitalia ricambiando con articoli sulla “modernizzazione” (testuale) del modello di impresa berlusconiano. Ma è storia vecchia, solo per far capire che l’apprezzamento del centrodestra per Napolitano (l’unico che difese nel Pci, anche qui pubblicamente, Craxi contro la linea berlingueriana delle mani pulite) aveva comunque radici lontane. E anche per far comprendere che Napolitano è un soggetto politico apparentemente statico. Nella continuità, della indigeribile retorica istituzionale che lo contraddistingue, metabolizza continuamente le trasformazioni.
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Tecnica e politica
di Alberto Bagnai
Caro professor Bagnai,
anch'io ho l' impressione che lei tenda, forse inconsapevolmente, ad eludere alcuni nodi politici la cui soluzione sarebbe secondo me prioritaria rispetto ad ogni soluzione tecnica. Alla questione se la creazione di moneta produca inflazione non c'è una risposta univoca ( e negativa ) come lei sembra suggerire. Credo sia ovvio, anche per un non economista, che se si impiegasse la moneta creata per foraggiare ulteriormente il sistema clientelare siciliano, abolire l'imu sulle seconde case e abbassare le tasse ai milionari, oppure ancora per fornire alla mia modesta persona un vitalizio di 100.000 euro mensili, questa nuova moneta circolante creerebbe inflazione e basta.
Viceversa se si impiegasse la nuova moneta per finanziare un serio programma di lavori pubblici o di formazione l'effetto sarebbe probabilmente un aumento del pil e non dell' inflazione. Dunque, a mio modesto avviso, la questione dell’indipendenza della banca Centrale non è tecnica ( come lei sembra suggerire) ma eminentemente politica e precisamente è un una questione di fiducia : "si può avere fiducia che la classe politica cui verrà affidato l'enorme potere di creare moneta userà questo potere per il bene del paese e delle classi meno abbienti ?"
Per quanto riguarda me ( e,credo, milioni di altri cittadini )la risposta è "no !", assolutamente "no!". Se permette aggiungerei che personalmente preferirei eleggere George Soros dittatore italiano a vita piuttosto che affidare a tipi come Berlusconi o a quello della carriola la fase di transizione e il successivo potere di creare moneta. Insomma, professor Bagnai, dando per scontata la correttezza e brillantezza tecnica della sua analisi vorrei che lei si fermasse a riflettere sul fatto che ci sta sostanzialmente chiedendo di fidarci di Bersani, di Berlusconi e di Monti (ovvero, ma è lo stesso, dei loro epigoni).
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Su Le otto tesi sugli intellettuali di Luperini
Ennio Abate

Mi pare questo il passo centrale delle tesi di Luperini. Nelle quali sento tanta lucida amarezza e una irriducibile speranza: che sia ancora possibile una consegna del testimone dagli intellettuali tradizionali (critici, come lui e non so quanti altri, ma non troppi oggi…) agli intellettuali “nuovi”, che neppure più sembrano tali.
Di esse vorrei toccare due punti:
1. La quasi investitura che egli fa dei lavoratori della conoscenza a «specialisti della liminarità, e cioè del passaggio dei confini, della tradizione, del dialogo, della pluridisciplinarità, della conoscenza critica della differenza».
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La moneta del comune
Summer school
di Christian Marazzi
A me sta il compito di tentare di inquadrare la situazione così come si è venuta a determinare recentemente fino alle ultime decisioni prese dalla BCE. Quando si seguono le vicende monetarie e finanziarie si viene travolti dal divenire della situazione e molto spesso non si riesce a riflettere oltre queste stesse questioni finanziarie. La colonizzazione finanziaria della mente è qualcosa di reale, ma credo che almeno su tre cose sia importante soffermarsi:
- la prima questione è come si è arrivati a queste ultime misure prese dalla BCE in questi giorni e con gli effetti euforici che hanno provocato sui mercati;
- la seconda ha a che fare con il rompicapo della moneta unica. Come ci posizioniamo noi di fronte al dilemma relativo alla sopravvivenza dell’Unione Monetaria Europea?;
- il terzo punto credo che sia un inizio di riflessione su questa categoria che abbiamo buttato lì, ma che mi sembra potenzialmente interessante per lo meno sotto un profilo politico, la moneta del Comune.
Come si è arrivati a queste misure in sede BCE, prese quasi all’unanimità ma con l’opposizione della Bundesbank, di intervenire in modo illimitato sul mercato secondario dei titoli pubblici al massimo a tre anni, con una serie di misure collaterali. Questa decisione era già circolata tra la fine del mese di Luglio e il 2 di Agosto, al vertice di Bruxelles. Per arrivare a questo compromesso all’interno del Board della BCE, era stato necessario, per lo meno per Draghi, cedere sulla questione delle condizionalità aggiuntive da accompagnare a qualsiasi forma di aiuto ai Paesi che ne hanno bisogno, l’Italia e la Spagna.
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Hyman Minsky e la Crisi
di Alessandro Roncaglia
L’argomento del convegno, il pensiero di Hyman Minsky e gli insegnamenti che ne possiamo trarre per la crisi attuale, è in forte corrispondenza con gli obiettivi dell'associazione Economia civile, che ha organizzato questo incontro. I nostri riferimenti culturali indicano infatti chiaramente che per economia civile non intendiamo il settore non profit considerato come un terzo settore dell’economia in opposizione a Stato e mercato, come fa una vasta letteratura cattolica, ma una concezione dell’economia e della società tutta, che pur all’interno di un’economia sostanzialmente di mercato (per quanto coesistente con un ruolo rilevante del settore pubblico) pone a obiettivo centrale lo sviluppo civile della società nel suo complesso, tramite un insieme di regole e interventi pubblici ma anche tramite lo sviluppo e la difesa di una cultura civica, che nel nostro paese è ancora troppo poco diffusa. Credo di poter dire che Hyman sarebbe stato d’accordo con questa impostazione. Ad essa infatti ha fornito un importante contributo scientifico analizzando il modo di funzionare dell’economia capitalistica e mettendone in luce l’intrinseca instabilità e la propensione a cadere ripetutamente in situazioni di crisi. In questo modo Hyman poteva indicare a quali politiche ricorrere per rendere meno fragile l’economia e per sostenere l’occupazione, che costituiva per lui un obiettivo centrale. Anzi, proprio alla piena occupazione erano dirette le sue proposte di considerare il governo come datore di lavoro di ultima istanza, che affiancasse il ruolo comunemente attribuito alla banca centrale di prestatore di ultima istanza.
Provo a sintetizzare in tre punti il contributo di Hyman: incertezza, fragilità finanziaria, money manager capitalism.
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Il fiscal compact cancella la sinistra
di Alfonso Gianni
Desta enorme stupore la clamorosa rimozione del tema del fiscal compact, e delle conseguenze che ne derivano in termini di politica economica, dal dibattito sulle future scelte elettorali della sinistra italiana. Naturalmente se ne parla in convegni economici, da ultimo quello di Sbilanciamoci. Ma quando entrano in scena gli attori politici scende il silenzio.
Non credo si tratti solo del tradizionale provincialismo che affligge la politica nel nostro paese, per cui tutti si dichiarano europeisti e poi se ne scordano quando le elezioni si avvicinano. Né che siamo soltanto di fronte alla deleteria separazione della cultura economica dalla politica che è all’origine della tecnicizzazione della prima e dello svuotamento della seconda. Qui c’è qualcosa in più e di più grave.
Vi è l’introiezione più o meno confusamente consapevole, ma fortemente condizionante, che in fondo non c’è null’altro da fare; che i vincoli posti dalle elites economico finanziarie europee sono ineludibili, almeno nei tempi programmabili; che la reazione dei mercati al solo annuncio di deviare da questi sarebbe mortale; che dunque, nel migliore dei casi, si tratterebbe di ritagliarsi un piccolo spazio di manovra al loro interno. Il tutto connesso con la speranza o di aggiustare qualcosa, all’italiana, mettendosi d’accordo con la Commissione europea, fingendo di dimenticare la sua composizione, i suoi precedenti e soprattutto il fatto che il mancato rispetto delle norme di rientro dal deficit e dal debito prevedono nel nuovo trattato immediate sanzioni automatiche.
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Tra postoperaismo e neoanarchia
di Carlo Formenti
La storica frattura fra marxisti e anarchici, durata per un secolo e mezzo, sta per ricomporsi? Ancorché accomunate dall’obiettivo – la distruzione dello Stato borghese – le due correnti rivoluzionarie sembravano essersi irreversibilmente divise su come realizzarlo. Da qualche tempo, sostiene tuttavia David Graeber, uno dei più noti intellettuali libertari a livello mondiale, la distanza fra anarchici da un lato, autonomi, consigliaristi e situazionisti dall’altro, si è molto ridotta e, pur se i punti di vista restano diversi, è possibile che intrattengano un rapporto di complementarietà, più che di opposizione. Posto che le tre correnti chiamate in causa possano essere effettivamente riconosciute come rappresentanti ed eredi del marxismo rivoluzionario (molti non sarebbero d’accordo, ma qui, per semplicità, daremo per buono il punto di vista di Graeber), mi propongo di affrontare alcuni problemi sollevati dalla sua tesi. Prima, proverò a evidenziare gli elementi di convergenza fra gli anarchici e le altre componenti antagoniste, concentrando l’attenzione su quattro aree tematiche: critica delle tradizionali forme organizzative dei movimenti anticapitalistici; ruolo dell’immaginazione nel processo rivoluzionario; transizione alla società postcapitalista; uso della violenza per la realizzazione degli obiettivi rivoluzionari. Poi tenterò, al contrario, di evidenziare le differenze fra anarchici e postoperaisti che, a mio parere, consistono soprattutto nel ruolo strategico che il concetto di composizione di classe svolge nell’analisi teorica dei secondi. Infine, cercherò di mettere in luce le aporie in cui quest’analisi si è invischiata, e come tali aporie rischino di appiattire il discorso posto-peraista su quello anarchico.
La critica della forma partito, delle sue logiche verticiste, della delega nei confronti di élite politiche professionalizzate, accomuna autonomi e anarchici a partire dalla seconda metà degli anni Settanta.
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Contro questa scuola
Per gli Stati generali dell’istruzione e della conoscenza
di Girolamo De Michele
0. Non avevamo bisogno del metereologo per sapere che il vento avrebbe continuato a soffiare nella stessa direzione. Da Gelmini, ex astro nascente del PdL, a Profumo tecnico in “quota PD”, come peraltro i sottosegretari Ugolini, quinta colonna storica di CL dentro il sistema istruzione e Rossi Doria, di cui a tutt’oggi si ricorda solo una dichiarazione di principio in favore del sistema di valutazione, nulla è cambiato, se non l’imbarazzo di qualche sindacato che non può pubblicamente parlare di “governo amico”, e preferisce mascherare le proprie vergogne dietro dichiarazioni di facciata e proclami all’acqua di colonia. Il processo di decostituzionalizzazione della scuola procede spedito, nel campo dell’istruzione come ovunque, lungo le linee portanti dello sfruttamento e del controllo biopolitico:
- Imposizione (“dolce” o “dura”, a seconda dei casi) di forme di gerarchizzazione e autoritarismo giustificate da esigenze di “buon funzionamento”. Basti pensare alla riforma-Brunetta della dirigenza del 2009, perfezionata dal contratto dei dirigenti scolastici del 2010, a cui Profumo, col decreto 5/2012 (Disposizioni urgenti in materia di semplificazione e sviluppo), ha oliato gli ingranaggi e stretto qualche allentato bullone. E alla legge 953 di riforma dell’autogoverno della scuola Aprea in via di approvazione bipartisan, a cui è stato pudicamente tolto il nome di Valentina, che cancella la collegialità, declassa il Collegio docenti, rafforza ancor di più le prerogative del dirigente, toglie voce al personale ausiliario (per i bidelli ramazza e bavaglio), e spiana la strada all’ingresso dei privati nel governo della scuola attraverso un Consiglio dell’Autonomia: «La legge 953 è una buona legge. I mattoni delle sue fondamenta sono targati Pd e l’aver portato sulle nostre posizioni la maggioranza della commissione Cultura e Istruzione della Camera, è un risultato di cui va dato merito al nostro gruppo parlamentare», scrive su “l’Unità” del 27 marzo scorso Francesca Puglisi, responsabile scuola della segreteria nazionale PD. Se lo dice lei, c’è da crederci…
- Divisione e segmentazione del terreno della produzione cognitiva, attraverso da sempre più marcata divisione tra formazione “liceale” e “professionalizzante” attuata dal riordino dei cicli e rafforzata dalla creazione, d’intesa tra ministero e Finmeccanica, degli Istituti Tecnici Superiori, e forme sempre più invasive di privatizzazione dell’istruzione, dalle scuole materne sino all’istruzione secondaria, con la pervasiva presenza della Compagnia delle Opere (=Comunione e Liberazione) nelle istituzioni dell’istruzione.
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Il mimetismo delle élite
di Luigi Cavallaro
Tra il 1941 e il 1942, il poeta W. H. Auden ritrasse un pensoso Erode esitante dinanzi all'imminente strage degli innocenti. Di animo fondamentalmente tollerante, egli ne farebbe volentieri a meno. Eppure, riflette, se si consente a quel bambino di scamparla, le conseguenze saranno terribili:
«La Ragione sarà sostituita dalla Rivelazione, la conoscenza degenererà in un tumulto di visioni soggettive... La Giustizia, come virtù, sarà scalzata dalla Pietà e svanirà ogni timore di castigo. Ogni furfante dirà: 'A me piace commettere crimini, a Dio piace perdonarli. Il mondo è davvero organizzato a meraviglia'. Il becero dal cuore d'oro, la prostituta consunta dalla tisi, il bandito affettuoso con sua madre, la ragazza epilettica che comunica con gli animali saranno gli eroi e le eroine della Nuova Tragedia, mentre il generale, lo statista, il filosofo diverranno lo zimbello di satire e farse».
La composizione di Auden s'intitolava For the Time Being, e non a caso i suoi contemporanei non ne afferrarono il significato: si trattava in effetti di una lungimirante anticipazione dell'Italia dell'ultimo ventennio. Un Paese ossessionato dalle terapie e privo di fiducia nella politica istituzionale; insofferente verso ogni forma d'autorità e preda della superstizione; soprattutto corroso, nel linguaggio politico come in quello comune, dalla falsa pietà e dall'eufemismo. Simile alla Roma tardo-imperiale per l'endemica diffusione della corruzione, per l'inane verbosità dei suoi intellettuali e per l'accentuata propensione a sottomettersi a senili imperatori divinizzati, a loro volta ostaggio di mafiosi e prostitute d'alto bordo. Ma pure diverso da quella per la tendenza a sostituire gli spettacoli gladiatori con guerre ultratecnologiche teletrasmesse, che causano massacri enormi e lasciano immancabilmente intatto il potere delle satrapie mesopotamiche o nordafricane sui loro sudditi.
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Otto tesi sulla condizione degli intellettuali*
di Romano Luperini
1.
Per almeno un ventennio, fra la fine degli anni Settanta e quella degli anni Novanta, ma anche oltre, la linea dominante della cultura “alta” europea e nordamericana ha proposto un’idea del rapporto col mondo e una figura d’intellettuale che hanno rappresentato il lusso e il privilegio dell’Occidente. La messa sotto accusa del logocentrismo e del realismo, il rifiuto della datità materiale del mondo, la sostituzione di quest’ultima col primato del linguaggio, della intertestualità e della interpretazione avevano avuto buon gioco in una società sempre più segnata dalla produzione di beni immateriali, dalla rivoluzione informatica, dalla centralità anche economica della comunicazione e dell’informazione che sembrava bandire l’esperienza concreta e sostituirla con il trionfo dell’immagine e della virtualità. A metà del ventennio considerato la caduta del muro di Berlino e del sistema sovietico diffuse l’illusione di una fine della storia e delle contraddizioni facendo sognare la possibilità di un nuovo Rinascimento e addirittura della nascita di un “uomo nuovo”, allora profetizzato da alcuni teorici del cosiddetto “pensiero debole”. La linea dominante della cultura ha espresso in questo periodo il punto di vista di una civiltà padrona che intendeva la globalizzazione esclusivamente come esportazione di se stessa e che poteva perciò ignorare o rimuovere le guerre locali, la crescita della fame e del sottosviluppo, la ripresa dei fondamentalismi. È stata l’epoca del narcinismo (narcisismo + cinismo) e dell’individualismo rampante (d’altronde rappresentato e direttamente espresso nel nostro paese da ben due capi di governo, prima Craxi, poi Berlusconi).
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La legge del valore nel passaggio dal capitalismo industriale al nuovo capitalismo
di Carlo Vercellone
Lo scopo di quest’articolo è di caratterizzare, nel quadro teorico post-operaista, il senso logico e storico della marxiana legge del valore, nel passaggio dal capitalismo industriale al capitalismo cognitivo. In questa prospettiva, l’analisi si svilupperà in tre stadi. Nel primo si proporrà di precisare cosa bisogna intendere per legge del valore/tempo di lavoro e in cosa consiste la sua articolazione alla legge del plusvalore di cui è una variabile dipendente e storicamente determinata. In riferimento a questa articolazione utilizzeremo la nozione di legge del valore/plusvalore. Nel secondo e nel terzo stadio, l’attenzione sarà focalizzata sulle principali dinamiche che spiegano la forza progressiva della legge del valore/plusvalore nel capitalismo industriale, quindi la sua crisi nel capitalismo cognitivo.
1. Due principali concezioni della legge del valore-lavoro
Nella tradizione marxista coabitano, come rileva Negri (1992), due concezioni della teoria del valore. La prima insiste sul problema quantitativo della determinazione della grandezza del valore. Essa considera il tempo di lavoro come il criterio di misura del valore delle merci. E’ quella che chiamiamo la teoria del valore tempo di lavoro. Questa concezione è ben definita, per esempio, da Paul Sweezy, quando afferma che in una società mercantile-capitalistica “il lavoro astratto è astratto soltanto nel senso, dichiarato nettamente, che sono ignorate tutte le caratteristiche speciali che differenziano un genere di lavoro dall’altro. In definitiva, l’espressione lavoro astratto, come risulta chiaramente dallo stesso uso che ne fa Marx, equivale a lavoro in generale; è ciò che è comune a ogni attività produttiva umana” (Sweezy, 1970, p. 35).
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Populismo
di Rodolfo Ricci
Uno spettro si aggira per l’Europa: il Populismo.
Cosa sia di preciso nessuno lo ha capito, ma il termine prolifera: in bocca a sprovveduti di varia provenienza, riempie ormai i comizi d’amore e d’odio, le pagine di tanta stampa, in Europa e in Italia soprattutto, dopo il varo della campagna d’autunno del partito di Repubblica, rinvigorito da quella altrettanto possente de L’Unità.
Fino a qualche decennio fa, lo spettro si aggirava per altri lidi. In particolare in America Latina dove alcuni sostengono che sia nato all’epoca di Jan Domingo Peron. Oppure per il vasto panorama del terzo mondo asiatico e africano, i cui leader nazionalisti (in particolare i nazionalizzatori delle risorse locali) erano spesso aggettivati come tali: populisti.
Poi, sterminato l’impero del male (il socialismo reale) – i cui leader per la verità non furono mai aggettivati come populisti – e chiuse per sempre le residue ambizioni delle sinistre occidentali, lo spettro cominciò a farsi strada in Europa, fino a diventare un fenomeno di un certo fragore con l’inizio della grande crisi: leader populisti salgono alla ribalta in Austria, in Olanda, In Italia, in Francia, in Ungheria .
Già questo dovrebbe farci riflettere: che se il populismo si fa strada in Europa, non sarà forse che l’Europa stia assomigliando al terzo mondo ?
E un’altra riflessione riguarderebbe la constatazione che alla fine della storia (secondo gli intendimenti del primo Fukuyama), finita cioè ogni presunta possibilità di alternativa reale alla globalizzazione neoliberista, lo sbocco necessario e inevitabile sarebbe per forza il populismo.
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Il populismo si oppone al realismo, secondo Scalfari e compagnia, cioè assume i contorni della demagogia.
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Trent'anni di sviluppo, e molti di crisi
Mario Cedrini
Non si trattava di una lettura da ombrellone, d'accordo. Ma l'estate critica che abbiamo appena vissuto, segnata appunto dalla crisi economica e da tristi presagi per l'autunno – nonostante le rassicurazioni montiane – forniva più di una ragione per rinunciare alla spensieratezza dei romanzi. Di qui la scelta d'inserire in lista – la lista dei partenti, e cioè dei libri che avrebbero accompagnato il viaggio verso l'ombrellone – un piccolo saggio, di economia, e in particolare di economia dello sviluppo, a cura poi di un'organizzazione di cooperazione internazionale, e per giunta in lingua inglese. Al peggio non v'è mai fine?
Non esageriamo. Si tratta di un volumetto della serie Trade and Development Reports dell'Unctad, una delle poche agenzie specializzate delle Nazioni Unite degne di resistere al logorio del tempo storico: la United Nations Conference on Trade and Development nasceva nel lontano 1964 (con il meeting di Ginevra, e il grande economista argentino Raul Prebisch come primo segretario generale) con l'intento di affrontare quei problemi che l'ordine politico-economico internazionale scaturito dalla seconda guerra mondiale lasciava di fatto irrisolti, incapaci com'erano d'imporsi nel gioco degli interessi contrapposti della guerra fredda.
I problemi dello sviluppo, appunto, quelli di paesi che presentavano ritardi storici strutturali, in un contesto che obiettivamente li sfavoriva (premiando i manufatti del centro industriale del sistema-mondo e aggravando la situazione dei paesi esportatori di commodities). I problemi, in particolare, di quelle nazioni che pochi anni prima, nel 1955 (alla conferenza di Bandung), avevano dato vita alla più grande organizzazione internazionale dopo l'Assemblea generale dell'Onu, quella dei paesi non allineati.
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Ideologia e memoria collettiva
di Elisabetta Teghil
Tutto ciò che è ideologico possiede significato. In altre parole, è un segno. Senza segni non c’è ideologia.
Esiste un mondo particolare, il mondo dei segni.
Il campo dell’ideologia coincide con il campo dei segni. Essi si equivalgono. Ovunque sia presente un segno è presente anche l’ideologia.
Tutto ciò che è ideologico possiede un valore semantico.
Ogni segno ideologico non è, solamente un riflesso, un’ombra della realtà, ma è, anche, un segmento materiale di questa realtà.
Un segno è un fenomeno del mondo esterno.
La coscienza individuale è alimentata dai segni, trae il suo sviluppo da essi, riflette le loro leggi e la loro logica.
La coscienza è logica della comunicazione ideologica, dell’interazione segnica di un gruppo sociale.
La coscienza individuale è un fatto socio-ideologico.
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Il governo liberale del mondo: “progredite” o vi uccidiamo
di John Pilger
Qual è il più potente e violento “-ismo” del mondo? La domanda evocherà i soliti demoni, quali l’islamismo, ora che il comunismo ha lasciato le scene.
La risposta, scrisse Harold Pinter, è solo “superficialmente annotata, per non parlare della sua documentazione, per non parlare del suo riconoscimento,” perché una sola ideologia pretende di essere non-ideologica, né di destra né di sinistra, la via suprema. E’ il liberalismo.
Nel suo saggio del 1859, Sulla libertà, cui rendono omaggio i liberali moderni, John Stuart Mills descrisse il potere dell’impero. “Il dispotismo è una forma di governo legittima nel trattare con i barbari”, scrisse, “a condizione che il fine sia il loro progresso e i mezzi siano giustificati dall’effettivo conseguimento di tale fine.” I “barbari” erano vasti segmenti dell’umanità dai quali era richiesta “implicita obbedienza”.
Anche il liberale francese Alexis de Tocqueville riteneva la conquista sanguinaria di altri “un trionfo della cristianità e della civilizzazione” che era “chiaramente preordinato agli occhi della Provvidenza.”
“E’ un mito piacevole e comodo che i liberali siano pacificatori e i conservatori siano guerrafondai”, ha scritto nel 2001 lo storico Hywell Williams, “ma l’imperialismo di tipo liberale può essere più pericoloso a causa della sua natura indeterminata, della sua convinzione di rappresentare una forma superiore di vita [negando contemporaneamente il proprio] fanatismo ipocrita.”
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Recensione a "Il lavoro autonomo nella crisi italiana"
di Sergio Bologna
Partite Iva. Il lavoro autonomo nella crisi italiana, a cura di Costanzo Ranci, Studi e Ricerche, Il Mulino, Bologna, 2012
Finalmente la sociologia accademica ha compiuto uno sforzo serio per mettere a fuoco, dare una dimensione e capire il valore del lavoro autonomo in Italia. Questo volume è il quarto di una serie destinata a rendere pubblici i risultati di un ambizioso progetto di ricerca sui ceti medi del Consiglio italiano per le Scienze Sociali, coordinato da Arnaldo Bagnasco e finanziato in parte dalla Compagnia di San Paolo. Il progetto è partito nel 2004 e finora i volumi pubblicati sono Ceto medio. Perché e come occuparsene, uscito nel 2008 e curato dallo stesso Bagnasco, Restare di ceto medio, a cura di N. Negri e M. Filandri, uscito nel 2010, La costruzione del ceto medio. Immagini sulla stampa e in politica, a cura di R. Sciarrone, N. Bosco, A. Meo, L. Storti, pubblicato nel 2011, tutti presso Il Mulino, e finalmente questo sulle partite Iva1.
Diciamo subito che uno dei meriti ma al tempo stesso dei limiti di questo lavoro sta proprio nel fatto che gli autori intendono arrivare a definire una componente del ceto medio - questo è lo scopo finale della ricerca – e pertanto analizzano il lavoro autonomo in quanto appartenente a questo ceto. Se lo scopo finale fosse stato quello di mettere a fuoco il lavoro autonomo in quanto tale probabilmente avrebbero dovuto approfondire molto di più l’aspetto soggettivo, la specificità “antropologica” del lavoro indipendente. Ma di questo si dirà in seguito. Qui importa rilevare che questo impianto di fondo ha consentito di scoperchiare un lato oscuro di cui il lavoro autonomo ha sempre sofferto e che ne ha fortemente limitato il riconoscimento sia sul piano sociale che sul piano istituzionale.
Il pregiudizio nei confronti del lavoro autonomo
“Il ceto medio non si dà in natura” è uno degli slogan di questa ricerca. Il ceto medio è il risultato di una costruzione mentale, di un’immagine che viene confezionata da diversi soggetti, è una rappresentazione che il ceto medio ama dare di se medesimo, di un’ideologia di status. Lo stesso vale per il lavoro indipendente, è una realtà ma al tempo stesso una rappresentazione della realtà, che vive di vita propria.
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Pauperismo e crisi
Alberto De Nicola
Ogni crisi economica, qualora assuma dimensioni e profondità sistemiche, si presenta sempre come una crisi che interessa la razionalità di governo. Si è detto e ripetuto più volte che i governi stanno, quasi per paradosso, applicando ricette neoliberiste per far fronte alla stessa crisi del neoliberismo. Dietro questa apparente tautologia, questa accanita e forsennata insistenza, tuttavia, si nasconde un’incrinatura, una rottura, che riguarda direttamente il progetto neoliberale, i suoi modi di presentarsi come discorso egemonico e la sua forza di penetrare nel tessuto sociale, per ordinarlo. Per afferrare questo punto conviene fare un passo indietro e chiedersi quale fosse, se è mai esistita, un’utopia propria del neoliberalismo.
Utopia neoliberale
Karl Polanyi, a cui il titolo di questo testo si richiama scherzosamente, ha sostenuto che l’utopia del primo liberalismo economico si era presentata nell’idea dell’autoregolazione del mercato. La generalizzazione di questo principio organizzativo all’intera vita sociale, ha comportato effetti distruttivi tali da innescare una crisi di governo senza precedenti.
C’è da chiedersi quale sia stata, invece, l’utopia incarnata dentro il discorso neoliberale a partire dalla metà degli anni Settanta. Come ci ha mostrato Foucault, lo spostamento di asse dal principio regolatore dello scambio a quello della concorrenza, ha mutato radicalmente la grammatica della governamentalità liberale.
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