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Il declino di una sinistra che chiude gli occhi
di Antonio Lettieri
I fallimenti dell’euro hanno imposto un duro prezzo alla maggior parte dei paesi dell’eurozona in termini di crescita, di disoccupazione, di esplosione delle diseguaglianze. E hanno, al tempo stesso, messo in crisi, quando non eliminato dalla scena, la vecchia sinistra di governo. Su questo dovrebbe concentrarsi il dibattito, ma la sinistra italiana non lo fa
1. A metà del secolo scorso, la Francia, che sedeva tra le potenze vincitrici della seconda guerra mondiale, decise di promuovere un accordo con la Germania che avrebbe cambiato il senso tragico della storia dei conflitti franco-tedeschi che avevano dominato la prima parte del secolo. Il protagonista politico della svolta fu Robert Schuman. L’occasione fu data dall’accordo sull’uso congiunto del carbone della Ruhr di cui la Francia, impegnata nella pianificazione economica diretta da Jean Monnet, aveva assoluto bisogno.
Nacque così, per iniziativa francese, la CECA, la Comunità europea del carbone e dell’acciaio, il primo accordo transnazionale nell’Europa contemporanea. La seconda tappa fu qualche anno dopo, nel 1957, l’istituzione del Mercato comune che, al pari della CECA, comprendeva, oltre a Francia e Germania, l’Italia e i paesi del Benelux. Gli effetti furono pari alle aspettative. Il “miracolo economico” tra la fine degli anni cinquanta e l’inizio dei sessanta si estese dalla Germania all’Italia. L’Europa dei sei paesi fondatori della CEE, la Comunità economica europea,cresceva a vista d’occhio in un clima di tendenziale piena occupazione.
Con l’avvento di Charles de Gaulle, la Francia, dopo oltre un decennio, uscì finalmente dal vicolo cieco dei conflitti coloniali in Vietnam e in Algeria, e poté rilanciare l’impegno per la costruzione europea, ribadendo e rafforzando la partnership franco-tedesca.
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L'eterodosso
Andrea Incerpi intervista Sergio Cesaratto
Intervista su una rivista del PD. Dopo l'introduzione di Matteo Renzi (e Marco Fortis) e un articolo di Tommaso Nannicini, a pag. 30 c'è una intervista al sottoscritto da parte di un dottorando di Siena (Andrea Incerpi), che ringrazio per averla pubblicata integralmente. Chapeau, certamente più pluralismo che fra Liberi & Uniformi
Sono passati dieci anni dalla crisi finanziaria che ha messo in ginocchio i mercati del lavoro e dei capitali eppure i suoi effetti, seppur mitigati dalla decorrenza del tempo piuttosto che da efficaci misure di politica economica a livello europeo, sono ancora visibili. Austerity, rigore fiscale e riduzione della spesa pubblica sono stati i mantra dei governi dell’Eurozona, con effetti spesso discutibili sui principali indicatori economici. Il pensiero ortodosso che si riconosce in questo spettro di politiche restrittive non è mai sembrato così in discussione. Ed è proprio uno dei maggiori esponenti del pensiero critico italiano, il prof. Sergio Cesaratto, a fornire un contributo analitico partendo da una diversa prospettiva.
Quella che pone al centro della crescita il ruolo dell’Europa, il mondo dei lavoratori e un nuovo nucleo di forze progressiste.
* * * *
La crisi degli ultimi anni ha fatto crescere il numero di “euroscettici”. È ancora possibile ipotizzare la futura sostenibilità dell’Eurozona?
La ripresa europea è considerate fragile e trainata da fattori esterni. Inoltre non vi sono, né vi possono essere, grandi prospettive per una rivoluzione politica dell’Eurozona.
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“Il passo e il sogno”
di Elisabetta Teghil
La nostra società si sta esprimendo ed ha compiuto atti importanti nella realizzazione dello sfruttamento illimitato. Questa violenza strutturale si è incarnata nell’ideologia neoliberista che è una sorta di macchina infernale e che è stata veicolata attraverso la divinizzazione del potere dei mercati. Sotto gli occhi di tutti ci sono gli effetti di questa nuova organizzazione sociale a partire dalla miseria di una parte sempre più grande delle società economicamente più avanzate e lo straordinario aumento del divario fra i redditi. Quindi, un’affermazione scomposta della vita personale intesa come una sorta di darwinismo che instaura la lotta di tutti contro tutti, il cinismo come norma, la ricchezza come premio di questa selezione, la traduzione nella vita quotidiana con l’assuefazione alla precarietà, all’insicurezza e all’infelicità che permea l’esistenza. Con una precarizzazione così diffusa da ridurre il lavoratore/trice a mano d’opera docile sotto la permanente minaccia della disoccupazione. L’aspetto paradossale è che questo ordine economico e sociale si spaccia e si promuove sotto il segno della libertà e addirittura come società armoniosa.
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La traiettoria teorica e politica di Mario Tronti
di Davide Gallo Lassere
Pubblichiamo in anteprima la traduzione italiana della voce “Mario Tronti” scritta da Davide Gallo Lassere per il dizionario sul marxismo che verrà pubblicato da Routledge in occasione del bicentenario della nascita del Moro di Treviri. Proprio oggi esce per Il Mulino l’antologia di scritti di Tronti con il titolo “Il demone della politica”
Il comunismo del Novecento – la nostra Heimat
Scrutare il mondo con sguardo politico. Confrontarsi con la storia innanzitutto, e solo in seguito con la teoria. Perseguire non tanto l’inserzione in una tradizione di pensiero, ma degli strumenti per organizzare la lotta. Ecco, a grandi linee, l’approccio sviluppato da Mario Tronti lungo l’arco della sua vita. Politico pensante piuttosto che pensatore politico, l’autore dell’opera fondatrice dell’operaismo fa sistematicamente implodere la separazione tra teoria e pratica. Secondo Tronti, la teoria è sempre politica, e la politica è sempre teorica; è a partire dalla pratica che si produce della teoria e la teoria può e deve esprimere una produttività politica. Come egli scrive in un articolo giovanile, “se il Capitale è nello stesso tempo un’opera scientifica e un momento d’azione politica che sposta la realtà oggettiva delle cose, si potrebbe sostenere inversamente che la stessa rivoluzione d’Ottobre o la Comune di Parigi sono nello stesso tempo un grande movimento pratico e una potente scoperta teorica”[1].
Malgrado le svolte significative conosciute nel corso del tempo – dal conflitto ancorato nella materialità della classe a una visione metafisica della conflittualità -, questo stile di militanza che fonde ricerca teorica e azione politica è diventato uno dei marchi di fabbrica di Tronti, determinato dal sentimento di appartenenza destinale a una parte del mondo sociale che – una volta sconfitta dalle forze della storia – assume dei tratti tragici[2].
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L’epocale eccezione del populismo Cinque stelle
di Militant
La straordinaria e ininterrotta sequela di abbagli, errori, madornali gaffe, pastrocchi politici, sbandamenti ora a destra ora a destra, incapacità di governo, incapacità d’opposizione, che vede protagonista il M5S, è qualcosa di raro visto in politica. Per di più, il fuoco di sbarramento a media unificati – da Repubblica al Manifesto, dal Fatto al Corriere – contribuisce a raccontare il M5S come male principale della politica italiana. Giornalisti pagati unicamente per svelarne la natura corrotta e para-nazista trovano alloggio presso ogni testata, ogni televisione, per non dire delle case editrici, blog, settimanali. La maggior parte di queste critiche sono suffragate da fatti incontrovertibili. L’incapacità del M5S di essere forza politica credibile è un dato di fatto. Eppure, da più di cinque anni rimane saldamento il primo partito italiano. Anche fosse il secondo, o il terzo, il discorso non cambierebbe. La Lega o il Pd, Forza Italia o Rifondazione: tutti i soggetti politici hanno pagato elettoralmente il prezzo della propria incoerenza e incapacità, nel presente o in passato. Tutti tranne il M5S. Chi da anni si accanisce contro il partito di Grillo, svelando non si sa più a chi la sua natura reazionaria, ancora oggi non riesce a spiegare i motivi di questa tenuta elettorale, che è anche una tenuta politica, se non dando la colpa all’elettorato.
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La più iniqua delle tasse
di Thomas Müntzer
Condivido con voi l’amabile conversazione che ho avuto stamane. Tutto è partito da questo tweet di una (tra le poche rimaste) sostenitrice del PD.
Enrica sosteneva che, negli anni bui della sovranità monetaria, la lira era solita dimezzare il suo valore da un giorno all altro.
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Franco Fortini e il Sessantotto
di Luca Lenzini
[Intervento al ciclo “Figure e interpreti del Sessantotto”, coordinato da Pier Paolo Poggio, Fondazione Luigi Micheletti, Brescia, 2 ottobre 2017, nell’ambito del centenario della nascita di Fortini, pubblicato originariamente da http://www.fondazionecriticasociale.org/]
Quando mi è stato chiesto di intervenire su Fortini e il ’68 ho pensato che un modo per affrontare un tema così impegnativo, e con una bibliografia tutt’altro che esigua, poteva essere quello di partire da un flash, da un momento specifico, lasciando alla discussione il compito di tentare sintesi e svolgere discorsi più ampi. Un episodio significativo, da leggere nel contesto del lungo lavoro intellettuale di Fortini, del suo “impatto” sulla cultura circostante, mi è parso allora quello che data all’anno precedente, 1967: per la precisione 23 aprile 1967.
Firenze, piazza Strozzi. La piazza è colma di studenti convenuti per una manifestazione contro la guerra del Vietnam. Dal ’65 gli Stati Uniti bombardano il Vietnam del Nord con una intensità che supera di molto quella della campagna contro la Germania nazista: è l’operazione Rolling Thunder, che tuttavia non impedirà, come sappiamo, la vittoria finale dei vietnamiti. Anche a Berlino, a Pechino gli studenti sono in rivolta, e di lì a poco lo saranno a Berkeley (“The Summer of Love”). Proprio quel giorno era arrivata, inoltre, la notizia del colpo di stato in Grecia. Anni dopo, ha scritto Fortini (cito da Notizie sui testi in F. Fortini, Saggi ed epigrammi, Mondadori, Milano, 2003, p. 1794):
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La sovranità nazionale e la centralità della lotta antimperialista
di Alessandro Pascale*
Con il contributo del compagno Alessandro Pascale, continua la nostra rassegna dedicata alla riflessione sul tema “i comunisti e la questione nazionale”
È molto importante che Marx21.it abbia lanciato una discussione su un tema importante e assolutamente non marginale come quello riguardante la sovranità nazionale. Nel tracciare le righe seguenti sintetizzerò alcune conclusioni a cui sono giunto nell'opera “In Difesa del Socialismo Reale e del Marxismo-Leninismo” (scaricabile gratuitamente su intellettualecollettivo.it), che si intrecciano profondamente con questa questione.
La gran parte del movimento comunista italiano ha vissuto gli ultimi decenni in balìa del revisionismo, facendosi dettare le parole d'ordine, e talvolta perfino l'analisi, dalla borghesia e da intellettuali di area progressista ma non marxista. Il fatto che oggi parlare di sovranità nazionale sia un tabù e che si lasci il tema alle destre non deve stupire insomma: è il simbolo di una strutturale incapacità analitica dovuta ad un profondo revisionismo che affonda le sue origini assai lontano nel tempo: in Italia almeno agli anni di Berlinguer, il quale, con l'abbandono formalizzato del marxismo-leninismo da parte del PCI, a favore dell'ottica eurocomunista, legittimò inconsapevolmente un filone culturale cosmopolita che con l'internazionalismo proletario non ha nulla a che fare.
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Il comune ostaggio del capitale
Recensione a “Economia politica del comune” di Andrea Fumagalli
di Federico Chicchi
Potrebbe sembrare forse azzardato, ma credo sia possibile sostenere che non esiste un solo e unico modo per descrivere il capitalismo. Non intendo in generale, altrimenti sarebbe ovvio, ma anche quando condividiamo, per linee generali, una prospettiva che voglia dirsi autenticamente marxiana. In altre parole, anche se partissimo da uno stesso paradigma molti sarebbero gli elementi teorici che possono, a tal fine, essere selezionati a scapito di altri. Il problema deve allora essere collocato a un altro livello: la questione in gioco non è infatti quella di riuscire a costruire uno schema teorico coerente e accurato sul funzionamento del capitalismo, ma accordare quella stessa astrazione teorica in modo che sia in grado di determinare una trasformazione della realtà capitalistica stessa. Economia politica del comune (DeriveApprodi, 2017) l’ultimo libro di Andrea Fumagalli, lavora alla perfezione dentro questa tensione irrinunciabile. Nel testo si dispongono infatti, in modo sinergico, diversi strati di riflessioni che spostano continuamente in avanti l’analisi teorica fino a portarla al cospetto della prassi – e in modo ancor più prezioso, quest’ultima (la riflessione sulla pratica politica) segue contemporaneamente l’andamento inverso. L’organizzazione stessa del volume, il suo indice, ci dice qualcosa di questa sua prima e fondamentale qualità metodologica.
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Non è sfruttamento, è assuefazione
Leggendo il libro di Marta Fana
di Marco Ambra
Una recensione analitica a “Non è lavoro, è sfruttamento”, edito da Laterza (Roma-Bari 2017), che sarà presentato giovedì 11 alle 17.30 alla Biblioteca Comunale di Siena. Qui i dettagli della presentazione
Leggendo la cronaca quotidiana del declino industriale italiano, non ultimo il dibattito fra Calenda ed Emiliano sul futuro/passato dell’Ilva a Taranto, viene in mente una formidabile sentenza di Max Weber sull’etica spuria di chi dibattendo su tali questioni parte da una pregiudiziale pretesa di ragione, un’etica che «invece di preoccuparsi di ciò che riguarda il politico, vale a dire il futuro e la responsabilità davanti a esso, si occupa di questioni politicamente sterili – in quanto inestricabili – come quello della colpa commessa nel passato» (Scritti politici, Donzelli, Roma 1999, p. 219). Non che le colpe e le responsabilità, specie in sede penale, non abbiano la loro importanza, ma farle pesare all’interno di un dibattito politico significa falsificare del tutto il politico, offuscare la presa di responsabilità di fronte al futuro che dovrebbe esserne il compito.
Di fronte al declino industriale italiano il dibattito politico si polarizza così, tristemente, dietro la catena delle colpe e delle responsabilità trasformando concetti e argomentazioni in slogan lanciati fra contrapposte tifoserie: chi ha fatto le riforme contro chi non le ha fatte, chi ha accresciuto il debito pubblico contro chi ha praticato l’ortodossia ipercoerentista dell’austerità, mancando completamente l’obiettivo politico delle questioni.
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Diritti umani: una prospettiva marxiana
di Zoltan Zigedy
Per quasi trecentocinquanta anni, i diritti umani sono stati un importante, se non dominante, strumento dell’impegno mirante alla giustizia sociale. Nel corso di buona parte di questa storia, i diritti umani son stati invocati al fine di demarcare la propria posizione sul campo di battaglia. È altrettanto importante notare che, prima del XVII secolo, la giustizia sociale veniva promossa, il più delle volte, attraverso una lingua diversa da quella dei diritti umani. Se bisogna dare credito alle Chroniques di Froissart, le Jacquerie della campagna francese ed i contadini inglesi coinvolti nella rivolta del 1381 non possedevano una vera e propria nozione di diritti umani universali. Tentavano, invece, di rimpiazzare dei signori ritenuti iniqui, o facevano appello ai loro reggenti in modo da ottenere riparazione all’ingiustizia. Essi non reclamavano i propri diritti – poiché non ne avevano conoscenza – bensì equità e un trattamento umano. John Ball, uno dei leader della rivolta inglese, la quale giunse a un momento di illusoria “liberazione” contadina nel 1381, si riferisce abbia predicato: “Veniamo chiamati servi e picchiati se siamo lenti al loro servizio, eppure non abbiamo un signore cui rivolgere le nostre lamentele, nessuno che ci ascolti e ci renda giustizia. Andiamo dal Re – egli è giovane – e mostriamogli a qual punto siamo oppressi, riferiamogli che vogliamo che le cose cambino, o altrimenti le cambieremo noi stessi” [1]. Non ci si appellava, dunque, ad un insieme di diritti, bensì alla saggezza ed al senso di giustizia incarnati da un potere superiore, potere superiore che, per altro, si sarebbe infine rivelato infido. Come affermato dal traduttore delle Chroniques, Geoffrey Brereton, Froissart “non si serve di una parola esattamente corrispondente di “eguale”. Invece, ricorre a “tutt’uno” o “tutti insieme” per indicare un destino condiviso. L’uguaglianza, sembrerebbe, è una condizione necessaria del ricorso moderno al concetto di “diritti universali”, priva di riscontro in Froissart.
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A Napoli è cambiata la narrazione
di Paolo Mossetti
Quando, due o tre anni fa, la rivista napoletana d’inchiesta Monitor iniziò a segnalare, con il consueto rigore, le falle nel rapporto tra il sindaco di Napoli e i movimenti, il baratro che separa i proclami rivoluzionari dalla realtà quotidiana, i miraggi di palingenesi coltivati da molti militanti e i limiti di quello che sarebbe diventato il populismo in salsa partenopea, la reazione più diffusa a sinistra fu un mix di malcelato fastidio e zeppate rancorose. Uno degli articoli più contestati, ad esempio, fu una garbata riflessione sull’alleanza in chiave ideologica ed elettorale tra primo cittadino e centri sociali (vecchi e nuovi), le che frasi che circolavano nell’aria appartenevano più a riflessi pseudo-polizieschi che alla dialettica hegeliana: “Ma questi chi sono?”, “Sì, ma cosa fanno loro per cambiare le cose?”; addirittura un “Perché non li firmano gli articoli?” – che ovviamente vale solo per i rompicoglioni e mai per gli amici, che possono nascondersi dietro nickname improbabili e nomi collettivi -, e l’immancabile “E allora ditelo, che volete il ritorno di Bassolino e del Pd!” i
Sono passati 18 mesi da allora, ma sembrano cinque anni: la durata di un’intera legislatura. Questo perché, non appena De Magistris fu rieletto nella primavera del 2016, l’atmosfera era ancora molto diversa.
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Intervista sul “Potere al Popolo”
Geraldina Colotti intervista Viola Carofalo e Giuliano Granato
Nel XX secolo gli operai e i comunisti hanno esercitato una eccezionale influenza nelle vicende italiane. La storia del PSI, quella del PCI e quella della sinistra rivoluzionaria degli anni Settanta espongono un patrimonio imponente di esperienze che ha avuto innanzitutto il merito di collegare inestricabilmente la dimensione politica e quella sociale dell’attività delle classi subalterne. La lotta per i miglioramenti reali della vita quotidiana si saldava a un orizzonte di liberazione globale che conferiva forza alle battaglie sindacali e alla richiesta di riforme. Non a caso, quando questo orizzonte è venuto meno, è mancata anche la spinta all’unità, l’intelligenza pratica, l’analisi della realtà e l’innovazione organizzativa. Ne è scaturita una condizione di minorità e di sudditanza che ha abituato alla frammentazione, alla sfiducia, e alla confusione culturale. In una parola, da molti anni a questa parte il proletariato italiano risulta privo di quella indipendenza e autorevolezza politica che ne avevano fatto uno dei protagonisti maggiori della storia europea e uno dei punti di riferimento indiscussi del dibattito rivoluzionario internazionale.
Fino a qualche settimana fa, le elezioni politiche previste per il marzo del 2018 non sembravano proporre alcun elemento di novità sostanziale. Il processo apparentemente tormentato di riaccorpamento alla sinistra del PD di una nuova formazione politica zeppa di ex-ministri e sottosegretari, di magistrati di alto rango e di vecchi e nuovi professionisti delle istituzioni, è apparso sin da subito un mero episodio trasformistico tutto interno alla vicenda di un ceto politico irreparabilmente scollegato dalle classi popolari.
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Il Movimento 5 Stelle e la democrazia
di Mauro Piras
I grillini amano sorprenderci sempre, in materia di democrazia rappresentativa. Li avevamo lasciati, all’inizio di questa legislatura, fermi nella loro idea che il voto di fiducia non fosse indispensabile alla nascita di un governo: basta trovare le maggioranze su ogni singolo provvedimento, dicevano, chi vuole appoggiarci ci voti quando vuole. E per cinque anni hanno denunciato come un crimine più o meno tutti i voti di fiducia. Ora invece, sorpresa, la fiducia diventa una sorta di totem. Che cosa è successo?
Il nuovo Codice etico e il Regolamento per la selezione dei candidati alle elezioni 2018 adottati dal Movimento 5 Stelle in vista delle prossime elezioni, e resi pubblici in questi giorni, contengono alcune novità. Per esempio, l’avviso di garanzia non è più un’infamia che impedisce la candidatura: saranno gli organi di garanzia a decidere caso per caso. Una ragionevole revisione dell’intransigenza originaria. Oppure, un altro punto, ingiustamente criticato: le candidature per i collegi uninominali non vengono decise dalla rete, ma dal Capo Politico del Movimento. Partitocrazia? Forse, ma tutto sommato meglio così: in fondo è sensato che le candidature siano definite politicamente, e non con elezioni online di dubbia legittimità democratica.
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Pastorale emiliana
di Giovanni Iozzoli
Da qualche tempo si è riacceso il conflitto nel comparto carni modenese. O meglio: riemerge la situazione di cronico malessere che cova da almeno due decenni sotto le ceneri, sbottando rabbia e mobilitazione. Quando parliamo di questo territorio – l’angolo di provincia compreso tra Castelnuovo, Castelvetro, Spilamberto, Vignola – stiamo parlando di un pezzo importante del Pil italiano, circa tre miliardi di euro, realizzati da 179 aziende, 5000 addetti, con 8 milioni di quintali all’anno di carni fresche lavorate e salumi: una macchina produttiva potente che importa dagli allevamenti del nord Europa 200 camion di suini macellati ogni giorno – la materia prima che, lavorata in loco, rifornirà tutti i grandi marchi nazionali ed esteri.
Il monoteismo del prosciutto regna sovrano, in questi luoghi; tra i miasmi degli stabilimenti aleggia un vago sentore calvinista – impresa e denaro come manifestazioni della benevolenza divina. Un maialino bronzeo troneggia nella piazza centrale di Castelnuovo Rangone – omaggio a se stessa, di una comunità sobria, laboriosa e danarosa, che vede il suino come metafora della vita.
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Tra Gramsci e Sraffa, il sodalizio fra due comunisti indisciplinati
di Sergio Cesaratto
La figura di Piero Sraffa è perlopiù sconosciuta al grande pubblico italiano, persino a quello più colto; appena più fortunata è la figura di Antonio Gramsci. Eppure si tratta di due degli studiosi sociali più straordinari – i più straordinari – che il nostro Paese può vantare nel ventesimo secolo. Il volume di Giancarlo De Vivo (Nella bufera del Novecento – Antonio Gramsci e Piero Sraffa tra lotta politica e teoria critica, Castelvecchi, 2017) apre una serie di squarci sull’interazione intellettuale, politica e umana che si stabilì fra i due nei frangenti drammatici del novecento, come recita l’azzeccato titolo. Il libro non si rivolge solo ad accademici e “specialisti”, ma è di grande interesse per ogni lettore colto.
Gramsci e Sraffa si conobbero, com’è noto, nella Torino dell’immediato primo dopoguerra, entrambe allievi di Umberto Cosmo (come Terracini e Togliatti). I periodi di più intenso colloquio furono dunque quello torinese (1919-1921) e quello romano (1924-1926). Ma mai si interruppe il filo, neppure nel periodo 1921-24 in cui prima Sraffa (a Londra) e poi Gramsci (a Mosca) furono assenti dall’Italia. Da Londra Sraffa continuò a collaborare all’Ordine Nuovo. Dopo l’arresto di Gramsci nel novembre 1926 Sraffa funse da collegamento con il Partito comunista in esilio. Sino alla concessione della libertà condizionale nel 1934 Sraffa poté purtroppo incontrare Gramsci solo una volta nel 1927, mentre la corrispondenza poté svolgersi solo in maniera indiretta attraverso la cognata del prigioniero, Tatiana Schucht.
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Jus soli e militari in Africa
Le due facce sporche del colonialismo
di Fulvio Grimaldi
Mi associo agli auguri arrivatimi da tanti amici per feste debabbonatalizzate, che permettano a tutti, specie nel Sud del mondo, sottoposto alla predazione e al genocidio del nuovo colonialismo,, di festeggiare a casa propria senza i push and pull factors dei deportatori e, come al solito, per un anno migliore di questo e peggiore del successivo. E, soprattutto, senza lo sciroppo tossico dell’ipocrisia buonista, arma del nemico e metastasi malthusiana del tempo sorosiano.
Le feste dei padroni: gabelle e censure
Il regime criptorenzista e mafiomassonico inaugura l’anno nuovo con l’ulteriore potenziamento dell’imperialismo neoliberista e totalitario: 500 professionisti del militarismo sub imperialista italiota in Niger, per allargare le nostre missioni militari al prezzo di €1.504.000.00 sottratti a pensioni, sanità, scuola, ambiente e per assistere Usa e Francia nell’occupazione, distruzione, rapina di quel paese, deposito di uranio e minerali vari. Nuovo capitolo dell’espansionismo militare USA/Israele/UE nel Sahel e in tutto il continente.
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Chi guida contromano?
Una critica al complottismo dei tedeschi sul tasso di cambio
di Alberto Bagnai
Cominciamo da una nota barzelletta: un vecchietto guida sul Grande Raccordo Anulare di Roma, ascoltando la radio, quando la musica viene interrotta da un’allerta sul traffico: “Un’auto sta guidando contromano sul Raccordo, fate molta attenzione. La polizia sta accorrendo sul posto”. E il nostro anziano amico commenta: “Come, una macchina sola? Ma sono tantissime!”
Adesso, diamo uno sguardo al tweet di questo giornalista tedesco:
“Italia e Francia erano solite risolvere i loro problemi svalutando. Ora dovranno imparare a fare diversamente”.
Prima di qualsiasi commento, guardiamo questo grafico, basato sui dati del PACIFIC Exchange Rate Services:
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Soggettività e individuazione
Per un pensiero eutopico tra filosofia e psicoanalisi
di Paolo Bartolini
Per il 2018 regaliamo ai lettori questo saggio filosofico di Paolo Bartolini. Buona lettura
Le basi filosofiche per pensare il processo di individuazione
In un’epoca “estrema” come la nostra, posta sulla soglia di una transizione storica e antropologica di portata globale, mi pare urgente sondare il legame, sottile e tenace, che tiene insieme pensiero filosofico, psicologie del profondo e critica sociale. L’emergere nelle scienze, nella filosofia e nella teoria politica di un paradigma della complessità sistemico e antiriduzionista,1 denota l’urgenza di una nuova presa in cura della vita che, unendo conoscenza e premura, sapere e sapienza, possa permettere alle diverse culture umane non solo di dialogare fra loro, ma anche di individuare azioni comuni per resistere alla deriva del presente e promuovere nuove forme di giustizia sociale e ambientale.
La sfida che ci aspetta, a ben vedere, è multidimensionale e ha risvolti ecologici, economici, politici e spirituali.
Nulla, d’altronde, può sottrarsi al movimento impetuoso che, già nel presente, prefigura il futuro.
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Francois Mitterrand e le svolte degli anni ottanta
di Alessandro Visalli
Su Jacobin un vecchio articolo del 2015 di Jonah Birch “Le molte vite di Francois Miterrand”, rilanciato dalla traduzione di Voci dall’Estero, e citato anche nelle “Sei lezioni” di Sergio Cesaratto (un libro da non perdere), consente di riprendere la lettura di uno snodo essenziale della storia del novecento: la repentina svolta verso il liberismo dei governi francese, nel 1982-3, e inglesi già nel 1976.
Barba e Pivetti, nel loro “La scomparsa della sinistra in Europa”, sottolineano in proposito che “le idee della classe dominante sono in ogni epoca le idee dominanti” (Marx). E’ sicuramente giusto, ma la massima è bifronte: le idee dominanti sono quelle che si qualificano come moderne, potenti e giuste al contempo, e che si affermano insieme alla classe che le incarna meglio. Un cambiamento di idee è anche un cambiamento del dominio di una classe, o per meglio dire della creazione del dominio. Ciò che avviene in Francia e Inghilterra è quindi una scelta della classe dominante, prima ancora che delle sue idee.
Con questo cambio di orientamento da una, sia pure parziale, egemonia delle forze del lavoro e quindi della visione, oltre che degli interessi, dei ceti produttivi allargati si passa al dominio del capitale e della sua logica e quindi della visione, oltre che degli interessi, dei rentier e dei ceti speculativi. Un passaggio che si verifica in particolare nel decennio che va dal 1975 al 1985, anche se si dispiega più compiutamente in quello successivo.
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Rebus Catalogna dopo la vittoria delle destre
Urge exit strategy per Podemos e Colau
di Steven Forti e Giacomo Russo Spena
Se l'indipendentismo è risultato maggioritario col 47,5% dei voti – vincendo ma non convincendo, fermo ai 2milioni di consensi del 2015 – la vera vincitrice del voto catalano è stata la destra nazionalista spagnola. La sinistra di Catalunya en Comú-Podem ha perso nei quartieri popolari proprio a scapito di Ciudadanos. Ora serve una nuova strategia per uscire dalla polarizzazione dello scontro e da un’impasse che rischia di cronicizzarsi
Una catastrofe annunciata: hanno vinto le destre. Ogni analisi sensata del voto catalano deve assumere questo dato. Una pagina buia per le sinistre, per el cambio nel Paese e per la stessa Catalogna che, divisa, rischia un processo di ulsterizzazione. La sconfitta del premier Mariano Rajoy (con la repressione annessa) è un mero contentino. La polarizzazione dello scontro ha portato, infatti, al trionfo della destra nazionalista (Ciudadanos) e della destra indipendentista (Junts per Catalunya).
Il partito di Albert Rivera, la Podemos di destra come qualcuno la definiva agli albori, ottiene il 25,3% affermandosi come primo partito. L'ex governatore, fuggito in Belgio, Carles Puigdemont conferma, invece, la sua leadership all'interno dell’eterogeneo blocco indipendentista che, nelle elezioni del 21 dicembre, risulta maggioritario in Catalogna.
I partiti indipendentisti (Junts per Catalunya, Esquerra Republicana de Catalunya, Candidatura d’Unitat Popular) mantengono la maggioranza assoluta nel Parlamento di Barcellona (70 deputati su 135, ne avevano 72 nell’ultima legislatura), favoriti dalla legge elettorale che premia le circoscrizioni rurali. Guadagnano circa 100mila voti rispetto al settembre del 2015, ma perdono lo 0,3% per l’altissima partecipazione (79%), dimostrando però che quasi la metà dei catalani (47,5%) difendono ancora l’indipendenza della regione.
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Torniamo a pensare un piano B per l'Europa
Propositi per il nuovo anno
di Pierluigi Fagan
In Europa è in atto una unione tra 27 stati, con una sezione rinforzata che adotta una moneta comune a 19 Paesi. Cosa s’intende per “Unione”? Nei fatti, l’Unione europea è una confederazione. Una confederazione altro non è che una alleanza intorno ad uno o più aspetti della politica interstatale. Tali alleanze sono giuridicamente regolate da un trattato o da una rete di trattati. Una confederazione, nonostante l’assonanza, non ha nulla a che fare con una federazione. Una federazione è un modo di organizzare internamente uno stato sovrano mentre nella confederazione gli stati associati rimangono sovrani individuali tranne che per le questioni che hanno deciso di mettere assieme nell’alleanza. Nessuno al momento ha dichiarato, né sembra avere intenzione ed obiettivo, di voler fare della confederazione europea una futura federazione[1].
Il perno del piano confederale europeo, non è la Germania, è la Francia. L’ Unione europea è in primis, è in essenza e ragion d’essere, il trattato di pace tra Francia e Germania, convivenza storicamente difficile che ha segnato la storia europea negli ultimi due secoli. Lo stato della relazione tra Francia e Germania è oggi in un impasse. La Francia ha superato la crisi politica di una paventata affermazione delle forze politiche più nazionaliste e critiche su i prezzi di sovranità pagati da Parigi per serrare Berlino in una rete di condivisioni che senza portare ad alcuna effettiva fusione che ripetiamo, in realtà nessuno vuole, garantisse l’impossibilità di ritrovarsi in una situazione di reciproco conflitto.
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Il capitale all’assalto del tempo
di Salvatore Bravo
L’ultima frontiera del totalitarismo del capitalismo assoluto è il monopolio del tempo. I totalitarismi del novecento hanno organizzato il tempo dei loro sudditi, lo hanno reso funzionale ai desideri di onnipotenza, di trasformazione eternizzante del presente. Tale operazione operava nel tempo, nella carne dei sudditi. Il presente era giustificato nella sua eternità, in quanto sintesi finale del passato volto verso il futuro: il fascismo rendeva ipostasi il presente, in quanto destino segnato dall’impero romano, pertanto l’epoca di mezzo doveva essere cancellata; si pensi alle operazione urbane a Roma, durante il fascismo, per ricongiungere “il nuovo che avanzava” con i monumenti che rammentavano la grandezza del passato come il Colosseo. Il piccone demolitore di Piacentini, l’architetto del regime, nel 1931 doveva ridisegnare il tempo della storia, ma c’era una storia ancora… bugiarda, una storia che esigeva un’ improbabile dialettica. L’homo novus che il fascismo auspicava era l’uomo che avrebbe abbandonato la tradizione italica per rinnovarla in senso biologico. La guerra di Etiopia fu tra i tanti fini progettati dal Fascismo l’aperta sperimentazione per verificare se, dopo un ventennio circa, l’homo novus si fosse concretizzato. Renzo De Felice nei suoi studi dimostra che la differenza tra nazismo e fascismo consiste, anche, nel diverso disporsi verso il parametro del tempo: il fascismo si orienta verso il futuro, mentre il nazismo verso il passato.
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La responsabilità politica del collasso del nostro pianeta
di Roberto Savio*
Ormai è chiaro che abbiamo perso la battaglia per mantenere il pianeta così come lo abbiamo conosciuto. Una personale opinione? No, fornirò tutti i dati perché sia concreta
Il 20 dicembre, I 28 ministri europei dell’Ambiente si sono incontrati a Bruxelles per discutere il piano per la riduzione delle emissioni di CO2 preparato dalla Commissione, in accordo con le decisioni della Conferenza di Parigi sui cambiamenti climatici. Bene, è ormai chiaro che abbiamo perso la battaglia per mantenere il pianeta così come lo abbiamo conosciuto.
Ora, sicuramente questa di seguito può essere considerata la mia personale opinione, priva di obiettività. Per questo fornirò molti dati, elementi storici e fatti, perchè sia concreta. I dati e i fatti hanno una buona qualità: concentrano l’attenzione su ogni dibattito, mentre le idee no. Quindi tutti voi che non amate i fatti, per favore smettete di leggere qui. Vi risparmierete un articolo noioso, come probabilmente sono tutti i miei articoli, perchè non sto cercando di intrattenere ma di sensibilizzare. Se smettete di leggere, perderete inoltre l’opportunità di conoscere il nostro triste destino.
Come è cosa comune in politica oggigiorno, gli interessi hanno preso il sopravvento sui valori e sulla visione.
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Facebook rivela che sta rimuovendo accounts di molti utenti su indicazione di USA e Israele
di Glenn Greenwald*
Da un po’ di tempo Facebook funziona in modo strano. Account congelati o cancellati senza apparente motivo, altri inibiti a condividere link o contenuti propri per settimane o mesi. Senza una spiegazione, se non un vago riferimento alle “regole della community”. Senza che venisse nemmeno indicata quale regola fosse stata violata. Insomma: una selezione arbitraria di cosa poteva essere fatto circolare oppure no che ha costretto a individuare nei contenuti stessi la ragione della “censura” feisbukkiana.
Molti hanno a quel punto segnalato che il “blocco” era arrivato subito dopo aver postato o rilanciato notizie provenienti dalla Palestina. Specie dopo le proteste innescate dalla decisione di Trump di spostare l’ambasciata Usa a Gerusalemme, riconoscendo di fatto questa come capitale dello Stato ebraico (uno Stato confessionale, dunque, come l’Arabia Saudita o l’Iran), su cui i palestinesi non dovrebbero più avere pretese.
Poi questa inchiesta di Glenn Greenwald è arrivata a confermare quanto avevamo cominciato a sospettare.
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Già a settembre 2016 avevamo evidenziato che alcuni rappresentanti della piattaforma Facebook stavano incontrando alcuni delegati del governo Israeliano, per stabilire la cancellazione di un numero di accounts palestinesi accusati di “sobillazione”.
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